17 gennaio 2010

"Il vasaio e la luna" di Paolo Folcarelli


di Luciano Luciani


Faccenda davvero strana, davvero complicata, la poesia e cosa assai ardua definirla, fissarla con chiarezza in concetti espressi con termini precisi.
Per Alfred de Vigny, grande aristocratico e isolato poeta francese della prima metà dell’Ottocento, “la poesia è una malattia del cervello”: un’interpretazione morbosa della poesia, la sua, che trova corrispondenze in Franz Kafka per cui “poesia è malattia”. Una concezione della poesia come infermità morale, affezione dello spirito: un malanno da cui riguardarsi. Infatti, “un uomo sano arrossisce sempre quando ha composto una poesia” per dirla con lo scrittore tedesco Franz Wedekind. Un’idea patologica del fatto poetico, diffusa tra illustri uomini di lettere ma che non trova concordi tutti gli addetti ai lavori.
Per Alphonse de Lamartine, infatti, “la poesia sarà la ragione cantata” e per Francesco De Sanctis “ la poesia è la ragione messa in musica”: una linea di pensiero in cui prevale l’elemento raziocinante, intellettivo, il dato della normalità, della sanità mentale.
Jorge Luis Borges si sofferma, invece, sulle oscure, inesplicabili alchimie del processo poetico. “Ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente che cosa gli è stato concesso di scrivere”. La poesia, dunque, come dono segreto, elusivo, enigmatico… Che il nostro Pascoli spiega in termini sicuramente memoriali: “Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo”.

Quale di queste definizioni si attaglia meglio alla raccolta poetica di Paolo Folcarelli? Quale affermazione spiega, precisa, identifica con più chiarezza la poetica – ovvero cosa dire e come – dell’autore del Vasaio e la luna? Ce la potremmo cavare asserendo che in ognuna di queste frasi, di questi frammenti di sapienza letteraria c’è qualcosa di utile per comprendere l’esperienza poetica di Paolo.

Limitarci, però, a questa constatazione, a questa considerazione un po’ ovvia, sarebbe un modo davvero ingeneroso per avvicinarsi ai versi di Paolo e al suo rivelarsi a poco a poco, con la discrezione, direi quasi con la timidezza, che gli sono proprie e che costituiscono la parte più bella della sua personalità di uomo che ama cimentarsi con le discipline più diverse: ora con la ricerca storica – mi sia qui consentito ricordare una pregevole monografia di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca Una fabbrica…Una storia, il lavoro più compiuto, più complessivo su questa secolare istituzione lucchese - ; ora con la pittura (una sua mostra ha ottenuto un buon successo e non solo tra i numerosi estimatori di Paolo); ora con la poesia. Ma ora è avverbio improprio, perché Folcarelli pratica la poesia fin dalla giovinezza: si guardi la data del primo testo poetico di questa silloge, risale al giugno del 1964! Dunque, Folcarelli ha frequentazione con i versi, letti e scritti, da quasi mezzo secolo, e solo ora, vincendo pudori e ritrosie, ha deciso di parteciparceli.

Il vasaio e la luna, come ha scritto nella bella introduzione la professoressa Iris Fusaro, che lo ebbe suo studente (ed è toccante questa consonanza docente/discente che si mantiene calda, affettuosa, rispettosa ancora dopo cinquant’anni!) nasce davvero “attraverso un travaglio di sofferta riflessione”: scrivere, poi buttare via tutto, tornare a scrivere con maggiore consapevolezza, correggere, rivedere, ritoccare…
Ed è da qui, da questo titolo un po’ criptico, Il vasaio e la luna, che dobbiamo partire, se intendiamo penetrare, almeno in parte, il mistero, il dono misterioso, per dirla, appunto, con Borges, delle poesie del nostro Autore.

Un titolo, in cui, senza nessun criterio gerarchico, c’è il basso e l’alto, la concretezza del quotidiano e l’aspirazione a salire.
Il vasaio lavora con le mani, le sporca di argilla, di creta, impasta, piega, modella, dà forma all’indistinto, alla materia bruta. Persegue un suo ideale, magari semplice, di bellezza, di armonia e per realizzare i suoi manufatti si serve di elementi primordiali: la terra, l’acqua, il fuoco che nobilita in forme ancestrali vagamente femminili.
I vasi, il vaso: luogo magico in cui si operano magie, meraviglie. E’ il seno materno, l’utero in cui si forma una nuova vita. Il vaso, vedi il Graal delle letterature medievali, contiene il tesoro per eccellenza, il tesoro dell’esistenza. E il vasaio è il padre dell’Autore.

Poi, la luna che torna frequentemente nei testi della raccolta sia da protagonista, sia da elemento contestuale. Da sempre fonte di innumerevoli miti, leggende e culti quanti nomi ha la luna: Iside, Ishtar, Artemide o Diana, Ecàte… Simbolo cosmico esteso a tutte le epoche, dai tempi più remoti fino ai nostri giorni generalizzato a tutti gli orizzonti, la luna esprime il potere fecondante della vita animale e vegetale.

Sempre nettamente femminilizzata la luna di Folcarelli: ora amante delusa, frustrata nella vana ricerca del suo amato, incapace di penetrare con la sua luce fredda gli ambienti caldi e affocati in cui lavora il vasaio; ora pronuba degli amori altrui; spesso elemento paesistico, mai però mai puramente esornativo, ma sempre attrice delle azioni e dei sentimenti degli uomini.

Dunque, le poesie di Folcarelli vivono tra la terra e il cielo. Uno spazio tutto riempito dai dati di un’esistenza tanto appartata quanto piena, ricca di affetti, familiari e amicali, di un’intensa, partecipe attenzione ai destini delle persone e all’anima dei luoghi.

Ma attenzione è forse un termine inadeguato: meglio dire simpatia piena d’amore. Per esempio, nei confronti del lavoro umano. Quello del padre vasaio, dai gesti armoniosi; il lavoro faticoso delle sigaraie di Lucca, assunte ancora bambine e costrette a cottimi feroci, avvinte da regolamenti assurdi e vessatori, prede di una ferrea disciplina, derubate con salari mai sufficienti per una vita dignitosa; oppure la fatica degli operai ciociari, intravisti nell’attesa della corriera che portava a scuola il poeta, e la pena per “ le loro voci dolenti e irate/ le confidenze sull’incerto futuro/ i presagi di amare emigrazioni…”

Fortissimo nelle poesie di Paolo il legame con le proprie radici; continuamente ribadito - e non c’è vincolo di tempo o di spazio che tenga – il suo senso di appartenenza a una terra lontana geograficamente, ma mai lontana dal cuore, aspra e gentile insieme: la Ciociaria. Recuperata nei suoi scenari, panorami, città, fiumi, strade, monti, uomini e donne - si notino le date dei testi poetici - , con l’affetto, la tenerezza, lo stupore della fanciullezza, con la vivezza, la freschezza e la felicità che solo gli occhi di un bambino possono donare. E’ ancora così vivo, così intenso questo rapporto con la propria terra, che, vincendo il filtro di un controllo formale sempre attento, e talora piuttosto severo, prorompono sulla pagina le parole, i termini, le espressioni della lingua nutrice: toponimi, versi di antiche canzoni popolari, rassegne di luoghi geografici un tempo consueti oggi idealizzati nella “carità feroce del ricordo”.
Vocabolario, pronuncia e cadenza ci dicono che la Ciociaria è già Sud e lo confermano i fiori, i frutti, gli animali, i colori e gli odori, i tratti fisici e i lineamenti degli uomini e delle donne che popolano i testi di Paolo. E’ già Sud coi suoi riti religiosi al limite della superstizione, la sua antichissima cultura, le sue sempre deluse aspettative di riscatto sociale…

Questa la materia, mai fredda, mai inerte su cui lavora il poeta, che, come il vasaio Francesco suo padre, modella e rimodella l’argilla dell’ ispirazione in forme sempre uguali e sempre nuove, ogni volta diverse.
Densa, concentrata la sua parola poetica che, a volte, ma solo a volte, sale troppo, attribuendo un’eccessiva importanza all’espressione elevata, al vocabolario nobile, rischiando così la sonorità un po’ stentorea o la vibrazione modulata su una nota troppo alta.

Ma si tratta di notazioni di dettaglio.
Qualcuno ha scritto che se la poesia è dentro di te, prima o poi dovrai concederle uno spazio. Ciò che conta è che possa riuscire a percorrere la sua giusta strada. Umilmente.
A Paolo Folcarelli è successo.