20 gennaio 2010

"Silvio Micheli che mise la sua pagina al servizio degli umili"


di Luciano Luciani


Vent’anni fa
Nel marzo del 1990, presso l’ospedale “Tabarracci” di Viareggio, dopo una lunga malattia, moriva, all’età di 79 anni, Silvio Micheli, lasciandosi alle spalle una fama di scrittore civilmente impegnato e intelligente organizzatore di cultura. Con la sua scomparsa giungeva alla sua conclusione un itinerario culturale, politico e umano che era iniziato nella Viareggio degli anni ’30, quando la città era ricca di presenze culturalmente significative come quelle di Mario Tobino, Lorenzo Viani, Enrico Pea, Elpidio Jenco…

Era nato, Silvio Micheli, il 6 gennaio del 1911 da “una famiglia di lavoratori. Brava gente versiliese che ha seguito per generazioni il lento ritirarsi del mare sino a Viareggio”. Diplomatosi perito tecnico industriale a Pisa, nel corso della sua vita aveva lavorato in un primo tempo alla Piaggio e in seguito alla Fiat come disegnatore meccanico. La sua attività lo aveva portato negli anni ’40 anche a Napoli, presso le Industrie Meccaniche e Aereonautiche Meridionali, la sua “più duratura e soddisfacente esperienza lavorativa”. Qui era entrato in contatto con il mondo del lavoro, la sua cultura e le sue lotte per migliori condizioni di vita. Probabilmente a Napoli maturò la sua poetica di narratore realista, all’interno della quale assumeva una particolare importanza la classe operaia: Micheli sentiva di condividerne le ansie quotidiane, le speranze, le aspettative per una società più giusta e umana. Napoli e i suoi lavoratori furono per Micheli decisivi per il suo “primo vero contatto con la realtà nell’agganciare le sorti della letteratura a quelle della vita”.

Un intenso dopoguerra
“Anch’io ho subito tutta la guerra. Mi detti al ‘bosco’ nel 1942, quando mi chiamarono alle armi. Ho molto lottato e molto sofferto. Ancora ho mia moglie e il figlio e ho scritto”. Così, in una lettera a Fidia Gambetti del dicembre 1945, Micheli sintetizza gli anni della guerra trascorsi in condizioni molto simili alla clandestinità nella casa della madre e insieme alla famiglia. Nella battuta finale “ho scritto” l’individuazione di una vocazione e di un destino.

Infatti, ritornato a nella cittadina versiliese dopo l’esperienza napoletana, Silvio Micheli decise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e per vivere collaborò a quotidiani e riviste politicamente schierate come “L’Unità” e “Vie Nuove”. Certo, le sue idee politiche non lo aiutarono a fare carriera o a raggiungere una tranquilla situazione economica.

Il suo esordio letterario è comunemente indicato nel romanzo Pane duro, scritto tra il 1940 e il 1942, che gli valse il Premio Viareggio edizione 1946, la prima dopo il conflitto mondiale e la liberazione: un lavoro di evidente ispirazione neorealista, che denunciava la guerra e chi l’aveva voluta, le sue devastazioni e le sue miserie materiali e morali.

Secondo Italo Calvino, Pane duro rappresentò uno dei primi tentativi della nostra letteratura di mettere il lavoro al centro di un’opera narrativa, di costruire un “romanzo di fabbrica” sul modello della letteratura sovietica, allora imitata e ammirata: a suo giudizio, si trattava di un’operazione non del tutto riuscita, ma in ogni caso interessante, nuova, apprezzabile per vigore di stile e sincerità d’ispirazione. Da una ricerca condotta alla Fiat nei primi anni ’50 fra settemila operai risultò che Micheli era uno degli autori più letti: non fa meraviglia, quindi, se il romanzo Pane duro e il successivo Tutta la verità, Einaudi 1950, furono tradotti con grande successo in Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Unione Sovietica.
Per Cesare Pavese, Pane duro fu una delle prime esperienze narrative che contribuì a svecchiare i condizionamenti letterari parlando un linguaggio “nuovo e intatto”. Protagonista del romanzo, una famiglia: un uomo, una donna, un figlio e una vecchia madre. La storia comincia con lo scoppio del secondo conflitto mondiale il 1 settembre 1939 e arriva fino all’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Il protagonista, che narra in prima persona e resta anonimo sino all’ultima pagina, mobilitato per gli eventi bellici, si ritrova per un lungo periodo su un’isola dove scrive e racconta la disaffezione del cittadino comune nei confronti di una guerra che non condivide. Non è una cronaca, ma la testimonianza di uno stato d’animo diffuso, ribadito dall’affermazione “Diario mio e di tutti“. Nella seconda parte compaiono i bombardamenti delle città italiane e l’invasione tedesca. Alla fine di questa esperienza il protagonista ha vissuto quattro anni senza mai vedere né la moglie, né il figliolo: la clausola finale del romanzo è “ma la guerra mi ha lavato gli occhi e io dico: noi siamo la verità.“

I libri sulla marineria versiliese

Pane duro sarebbe dovuto essere tradotto anche negli USA, ma le idee di Micheli, ribadite con coerenza e con forza nel clima pesante della “guerra fredda”, bloccarono questo progetto e lo stesso accadde per l’idea di un film sui palombari dell’Artiglio. Micheli non faceva distinzione tra storia e cronaca. Per lui nulla era più reale della cronaca e proprio per questo si imbarcò nell’impresa di raccontare la vicenda e i protagonisti dell’Artiglio: una storia nascosta che ancora aspettava di essere narrata, quella della vita e delle gesta dei palombari e marinai viareggini che erano stati capaci di recuperare un tesoro sommerso in pieno Atlantico. Scrupolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione, Micheli decise di intervistare i superstiti di questa straordinaria avventura, vecchissimi, in alcuni casi addirittura novantenni, e per documentarsi non esitò a trasferirsi a Trapani.

Da questo scrupolo documentario nascono anche Gran Lasco e Una famiglia viareggina sui mari del mondo, 1972, dedicati al mare e ai suoi eroi, quelli veri, quelli della navigazione a vela: lavori che hanno contribuito a diffondere la fama marinara della Versilia e in cui non interviene mai la rielaborazione letteraria ma prevale la presentazione fedele di dati, testimonianze, informazioni, interviste ai lavoratori del mare. Il linguaggio utilizzato è quello specifico dei marinai, gergale, secco, prosciugato. La sintassi, assolutamente sobria, ricorda l’essenzialità dei libri di bordo.

Un uomo di cultura schierato con gli umili

Uomo colto, Micheli, amava l’arte e, nel tempo libero dal lavoro, dipingeva e scolpiva: non a caso, tra i suoi amici più intimi sono da annoverare i pittori Mario Marcucci, Eugenio Pardini e Renato Santini.
Da buon viareggino era legatissimo al mare, ma, almeno fino a quando la malattia non lo costrinse ad abbandonare, praticò con passione anche l’alpinismo. Tra le numerose attività culturali che lo hanno visto protagonista – a testimonianza di un’acuta sensibilità per la modernità e il mutamento – non va dimenticato uno dei suoi ultimi impegni, quello di direttore di “Televersilia”, una delle prime emittenti televisive locali. Attivissimo nella vita culturale della sua città fu spesso giudice nelle giurie del Carnevale di Viareggio di cui, con grande sapienza letteraria, amava rievocare le origini che lo apparentavano al mare: “A quel tempo il carro del Carnevale nasceva odoroso di ragia e pece come un bastimento, nello stesso cantiere, a colpi d’ascia e a colpi di mazzetta… Un colpo d’ascia e una carezza a palmo aperto perché la mano potesse sfiorare il disegno, perché l’occhio potesse seguirne le linee: come a bordo. Marinai e calafati, sbozzatori e carpentieri, qualche imbianchino segretamente iniziato all’arte del pittore o per dir meglio alla decorazione, e sozzellai e intagliatori; erano questi, ciascuno a modo suo, a dare l’opera dopo il travaglio giornaliero a bordo o nei cantieri.”

Tutta la verità

Ma la personalità di Micheli la ritroviamo soprattutto nelle sue pagine, nei romanzi e nei racconti. In ognuno c’è qualcosa di lui, del suo modo di pensare, della sua poetica: “ Comincio con lo scrivere quello che sento di avere da raccontare; un giorno troverò anche il modo migliore di dirlo”. Nel romanzo Tutta la verità, 1950, s’impegnò a fondo per rappresentare il mondo del lavoro, una realtà ritenuta “bassa” e poco degna di attenzione e di letteratura. La sua sensibilità muove verso l’ “uomo” con la u minuscola, la gente comune e tende anche alla rivalutazione della cultura tecnico-scientifica da sempre trascurata nella nostra narrativa. Ed ecco che si comprende meglio la sua espressione “noi siamo la verità”, che appare nel suo Pane duro, proprio per ribadire che la verità si ricava non dalla storia dei grandi uomini, ma da quella dei piccoli, modesti eroi quotidiani che sperano, soffrono, lottano… Altro grande successo di Micheli, Tutta la verità rappresenta un tipico esempio di romanzo che punta ad affrontare un nocciolo fondamentale della società italiana: la differenza tra le classi sociali.

Il facilone

Micheli tornerà a parlare della condizione operaia anche nel romanzo Il facilone, 1959, costruito sulla figura di un operaio che si trova a gestire una piccola azienda familiare. Fabbrica e famiglia sono tutto il suo mondo e le sue ragioni di vita, ma le responsabilità che ne derivano non sono vissute chiaramente e fermamente. L’uomo tende sempre a sfuggirle, ripiegando dalla fabbrica alla famiglia e dalla famiglia alla fabbrica. Alla prospettiva di un sacrificio o di un impegno, perdute le speranze fiorite nel dopoguerra, anche gli uomini sembrano mutati: l’individuo si ritrova solo e non c’è ambiente o idea che possa risollevarlo e farlo sentire uomo tra gli uomini. Cogliendo la minuta verità quotidiana di una fabbrica e di una famiglia, Micheli svolge un tema morale altamente drammatico, quello della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. I destini personali cedono alla storia, anzi alla Storia che incombe su tutti.