foto di Gianni Quilici |
Punto di partenza – imprescindibile – per ogni percorso che voglia intrecciare insieme la bellezza dei luoghi urbani con l’armonia delle parole, le Mura di Lucca.
Fin dal Medioevo, poeti e prosatori ne hanno celebrato sia la conclamata inespugnabilità, sia l’incredibile, incantevole mix tra natura ed architettura militare/civile, ben reso da un sistema di numerosi, verdi e frondosi torrioni costretti in un perimetro di pietra bianca e rossi mattoni.
Uno scenario siffatto non può che essere rimpianto, soprattutto quando a privarcene sono le taglienti ragioni della Storia e della politica. Così, con accenti accorati, densi di nostalgia il guelfo notaio lucchese (Lucca, 1280 ca. – 1349) Pietro de’ Faitinelli, esule nel Veneto, ricorda la sua “Città Murata”:
“S’eo veggio en Lucca bella mia ritorno,
che fi’ quando la pera fie ben mezza,
en nullo còre uman tant’allegrezza
già mai non fu, quant’eo avrò quel giorno.
Le mura andrò leccando d’ogn’intorno
e gli uomini, piangendo d’allegrezza;
odio, rancore, guerra ed ogni empiezza
porrò giù contra quei che mi cacciorno.
E qui me’ voglio ‘l bretto castagniccio,
‘nanzi ch’altrove pan di gran calvello;
‘nanzi ch’altrove piume, qui il graticcio.
Ch’i’ ho provato sì amaro morsello,
e provo e proverò, stando esiticcio,
che ‘l bianco e e ‘l ghibellin vo’ per fratello”.
E ancorché pisano e ghibellino, Fazio degli Uberti (Pisa, tra il 1305 e il 1309 – Verona dopo il 1367) non può sottrarsi al fascino esercitato dal particolarissimo baluardo lucchese:
“Andando, noi vedemmo in piccol cerchio
torreggiar Lucca a giusa di boschetto
e donnear con Prato e con Serchio.
Gentile è tutta e ben tratta a diletto…”.
Le Mura: raramente un’ opera di architettura ha concentrato in sé e in maniera così intensa il senso di un’orgogliosa appartenenza comunale. Sentite come si esprime il cronista e novelliere lucchese Giovanni Sercambi (Lucca, 1348 – 1424):
“Ricordavi, ch’elli ha le belle mura
ed è piena di torri la cittade;
d’oro e di seta v’è oltre misura
e sempre ha avuto questa dignitade.
Santa Crocie la fa forte e sicura…”.
E la magia di quella originale struttura doveva continuare ad esercitarsi anche nei secoli successivi. Per esempio, su un moralista e filosofo come Michel de Montaigne (Bordeaux, 1533 – 1592) nel suo celeberrimo Diario di viaggio in Italia: “Lucca… è ben difesa e bastionata. Le fosse poco profonde in cui scorre un rivoletto pieno d’erbe verdi e larghe. Attorno alle mura, sul terrapieno interno ci sono due o tre filari d’alberi che danno ombra e, a quanto dicono, in caso di necessità fascine di legna. Dal di fuori non si vedono che chiome d’alberi che nascondono le case…” - ; o su un filologo ed archeologo come Charles de Brosses (Digione, 1709 – 1777) che nelle sue Lettere familiari dall’Italia nel 1739 e nel 1740 inserisce qualche intelligente motivo di confronto e di critica: “Lucca… nell’insieme mi ha un po’ l’aria di Ginevra… La città è della stessa grandezza, le fortificazioni si assomigliano molto; sono belle, meno belle tuttavia di quelle di Ginevre. Il loro difetto principale è d’essere troppo basse; sono poco curate ed il fossato è quasi ricolmo. Il bastione, fornito di numerosa artiglieria, è tagliato a terrazze a quattro ripiani dalla parte della città e in ciascun ripiano c’è un filare d’alberi; di modo che lassù il giro della città è una piacevole passeggiata, anzi la cosa più bella che vi sia a Lucca…”
Nel XVIII° secolo non ci sarà viaggiatore europeo impegnato nel Gran Tour lungo i luoghi del “dolce paese della Bellezza” che non getti almeno uno sguardo sulla città e sulla sua cortina di baluardi, terrapieni, parapetti, contrafforti alleggerita da “porte alte, maestose e di buona architettura” e ingentilita da “alberi belli e di grandi proporzioni”.
E i caratteri della forza e della urbanità si evidenziano anche nei versi nutriti d’Arcadia di Fra’ Puccini di Casoli:
Nella Toscana in mezzo a una pianura
Cinta di spalti, e fosse di bell’arte
Con intorno colline di verdura
Ed amene montagne da ogni parte
Giace vaga città con forti mura.
Ch’Ercole, o Polifemo, o il fiero Marte
Minacciar non potrebbono e si appella
Lucca gentile, popolata e bella.
Non mancano, però, silenzi e voci dissonanti: Heinrich Heine (Dusseldorf 1797 – Parigi 1856), benchè nei suoi Quadri di viaggio dedichi un capitolo alla capitale del Ducato, non spende una parola per le Mura; per il giovane Edward Gibbon (1737 – 1794), futuro storico del declino e della caduta dell’impero romano, “Lucca non è citta d’arte”, mentre per uno stizzoso Vittorio Alfieri (Asti 1749 – Firenze 1803) “Un giorno a Lucca mi parve un secolo”, l’uno e l’altro accomunando nel giudizio negativo sulla città anche il suo monumento più significativo.
Ma è nel XX° secolo, quello appena trascorso, che poeti e letterati sembrano riscoprire tutte le seduzioni sottili e le malie riposte della città del santo vescovo Frediano. E come poteva ignorare Lucca e le sue Mura un immagnifico inventore di slogan come Gabriele D’Annunzio? A lui si deve l’espressione “arborato cerchio”, che divenuta in breve celeberrima, è oggi di uso comune per indicare questo capoluogo toscano:
“Tu vedi lunge gli oliveti grigi
che vaporano il viso ai poggi, o Serchio,
e la città dell’arborato cerchio,
ove dorme la donna del Guinigi”.
Più pensoso, Giuseppe Ungaretti – lucchese d’origine, ma di “Lucca fora” – nella sua stratificatissima e tormentata raccolta L’Allegria:
“In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire”.
Versi che nulla concedono ad un descrittivismo di maniera e scavano, invece, nella percezione che delle Mura ebbero generazioni di contadini della Piana lucchese, condannati dalla miseria e dalla fame ad un destino di emigrazione ai quattro angoli del mondo.
Scrittori, prosatori, poligrafi, giornalisti novecenteschi hanno riguardato spesso a Lucca e ne hanno celebrato la bellezza, l’armonia delle forme, le ricche memorie architettoniche come i necessari antidoti all’estetica del brutto e alla disattenzione per il passato proprie dell’ultimo secolo di storia. Così, il lucchese Arrigo Benedetti (Lucca 1910 – Roma 1976), all’interno di un’acuta sensibilità per il mondo fantastico delle tradizioni popolari della propria terra, esalta le Mura non come simbolo di guerra, ma di operosità, di laboriosità, di laiche virtù di imprenditività. Sedotto dalle Mura lucchesi ci appare anche il versiliese – ma lucchese d’adozione e negli ultimi anni della sua vita cittadino onorario della città – Mario Tobino (Viareggio 1910 – Agrigento 1991): con affetto casalingo le definisce “familiare tinello, orto di casa, giardino” ed anche “guanciale”. Ne coglie il “color damasco che hanno preso i mattoni per i tantissimi tramonti e le tenere albe che su di loro si sono posate”, ne difende con passione e competenza la straordinaria integrità architettonica.
Un unicum, certo, ma anche, nel bene e nel male, barriera e confine per la comunità umana che, nel tempo, le ha realizzate. Così, almeno, le “legge” un altro letterato versiliese, Enrico Pea (Seravezza 1881 – Forte dei Marmi 1958): “Lucca è troppo piccola città, le stesse muraglie di tre km. di giro, di cui è centro, sono impedimento a spaziare. Quasichè quelle mura fossero simbolo a ricordare il lecito e l’illecito ai cittadini: il limite, ché ogni scappatagine qui si risà in un baleno, ché la notizia come la voce fa eco: rimbalza: traversa le città dai poggi di Porta Elisa a quelli di Porta S.Anna e da Porta Vapore al Giannotti. Perché, le sponde interne delle mura di Lucca sono verdi e fiorite come le pareti di quei catini paesani che usano le massaie lucchesi per lavare i piatti”. Insomma, le Mura fanno di Lucca un luogo chiuso
Non le percepisce così, però, Gino Custer De Nobili, grande poeta vernacolo che in sonetto della sua abbondantissima produzione nella nella parlata di “Lucca drento” ne coglie soprattutto l’aspetto accogliente, cordiale, domestico:
Me lo dice un po’ lei dove la vede
in un’altra città una passeggiata
uguale a questa, comoda, ombreggiata,
col su’ tericcio ch’ ‘un dà noia al piede,
tenuta sempre ‘n ghìngheri, innacquata?…
Lo sa ch’anco d’agosto uno ‘un s’avvede
di trovarsi nel sòffoco e si crede
d’esse tornato già alla rinfrescata?
Il gran comodo, poi, della cortina
è che stai nsul muricciolo a sedere
espòsto come ‘n mezzo a una vetrina.
E mentre siei guardato di sfuggita
prendi in giro la gente ch’è il piacere,
sì, credi a me, più bello della vita.
(La cortina bona delle Mura, in Lucca mia bella)
Per Guglielmo Petroni ( Lucca 1911 – Roma 1993) la visione delle Mura al tramonto coincide con la gioia del ritorno al termine di un lungo e tormentato viaggio da Roma a Lucca attraverso un’Italia devastata dal fascismo e dalla guerra: un sentimento destinato ad essere ben presto contraddetto ma, comunque, pieno, rotondo, confortante nutrito dei colori – e degli odori, dei sapori – di casa. Una pagina tra le più belle di questo scrittore lucchese così austero e riservato: “Rividi tutte le torri della mia città, esse tutte in piedi, la prima città tutta in piedi dopo tante rovine; le mie torri, immerse in uno strato di luce rosa, erano là come sempre, ancora solide nella loro eleganza: i vetri della città luccicavano al ripiegarsi del sole. Attorno alle Mura, tra le cento chiese, tra i marmi levigati e le pietre grigie dei palazzi patrizi, si era svolta un parte della grande tragedia; anche lì morti, odii, orrori, stranieri oppressori e stranieri liberatori, ma nulla pareva mutato…”.
Le Mura hanno un dono: riescono a vincere il tempo e le contingenze della storia per offrire, a chi sa interrogarle, un secolare messaggio di civiltà. Questa virtù è bene espressa nei versi recenti di un poeta lucchese contemporaneo,
Virginio G.Bertini:
“Ti fermi per assaporare
la storica immobile bellezza delle
torri,
dei campanili, delle chiese, delle
ville.
Ti siedi per sorseggiare il sole
Che ti insegue nel percorso alberato
E assaporare la distanza dal
metallico transito.
Immersione nel mondo che vedi,
suggestione di poterlo guidare da lì,
oltre la striscia di confine che
separa la città dalla campgna.
Non sono una geometrica
presenza del passato
o una quieta fortezza rossa e verde,
le Mura, queste Mura, sono
una tenera carezza di amanti,
un azimut di tensioni ed emozioni
uno specchio potente della città
e delle persone,
un balcone sul panorama
dell’umanità”.
(Virginio G. Bertini, Fraternità)
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