e un po’ di musica
Ebbene sì, sono solo canzonette e niente più… “però entrano, sono entrate, entreranno nelle nostre giornate insieme con le esperienze, gli odori, i sapori, le cose dette e ripetute, le cose prese e buttate.”
Insomma, le canzoni sono importanti, anzi importantissime, nella storia del costume e dei sentimenti di una società: sono i messaggi minimi che accompagnano le nostra vita quotidiana, ci scandiscono le giornate, ce le scaldano, sottolineano i momenti felici e meno felici dell’esistenza. Sono la colonna sonora del film della nostra vicenda umana e senza di esse, le canzonette, il nostro tempo sarebbe più povero e più grigio…
1911. Ritornello appassionato, acuto finale
Secondo il censimento di quell’anno, gli italiani sono quasi trentasei milioni, oltre dieci milioni i contadini e quattro gli operai.
Non c’è né terra né occupazione per tutti.
Ed ecco il mito della “quarta sponda”: una terra al di là del mare, da colonizzare per dare pane e lavoro a chi non ce l’ha.
Nasce così l’avventura coloniale, voluta dalla piccola borghesia e dagli strati popolari del Mezzogiorno.
La grande stampa è tutta a sostegno dell’impresa e anche tutti gli intellettuali.
Lo stesso mite Giovanni Pascoli a Barga si traveste da guerrafondaio: “la grande proletaria si è mossa”.
Ma cosa cantano gli italiani? Core ‘ngrato, autori, appunto, due emigranti, Riccardo Cordiferro e Salvatore Cardillo che dedicarono parole e musica a Enrico Caruso e inaugurarono il genere della canzone-romanza, molto amata negli anni a ridosso della Grande guerra.
La canta Caruso, la canta Gigli: ritornello appassionato, acuto finale.
1915. Siamo già in guerra
A rotta di collo verso la guerra.
Lo dimostra questa O surdato ‘nnamurato, una marcetta dal piglio e dal ritmo militareschi, che, in un breve volgere di mesi, doveva diventare l’inno non ufficiale dei bersaglieri.
Solo parecchi anni più tardi, reinterpretata in maniera superba da Anna Magnani, sarà ricondotta alla sua vera ragion d’essere di canzone d’amore, di lontananza e di nostalgia.
1925. Italia, Paese dei campanelli
Mentre gli italiani assistono impotenti agli ultimi sussulti dello stato liberale e si consumano, una a una, le residue garanzie della democrazia parlamentare, niente di più comodo che raccontare del favoloso Il paese dei campanelli , situato più o meno dalle parti dell’Olanda, dove campane e campanelli, appunto, hanno il vezzo di cominciare a suonare quando mogli e fidanzate sono sul punto di tradire i loro uomini…
Una fiaba d’evasione al solito, svolta con garbato gusto liberty dal maestro Ranzato, violinista alla Scala con Toscanini, e concertista di fama.
La prima de Il paese dei campanelli” è del 23 novembre 1923.
Il 13 dello stesso mese, il Senato aveva approvato, a ristrettissima maggioranza, la nuova legge elettorale che aboliva la rappresentanza proporzionale e reintroduceva il sistema maggioritario.
Tutto ciò accadeva quasi novant’anni fa, naturalmente.
Milano, dicembre 1925: i due massimi esponenti dell’operetta nostrana, Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato tentano di bissare il successo ottenuto insieme con Il paese dei campanelli. Ed ecco, per un pubblico in vena di facili esotismi, la storia di Cin-Ci-Là, bella e navigata attrice francese, che, in quel di Makao, tra mille equivoci, riesce a portare a termine l’educazione sentimentale del principe Ciclamino e di Myosotis, sua promessa sposa e fidanzata inesperta. Nozze finali e allegre feste in tutta Makao.
A Roma, invece, solo una settimana dopo la prima di Cin-Ci-Là, è varata una legge sulle prerogative del capo del governo, responsabile della propria azione politica solo di fonte al re. Nello stesso giorno un decreto stabilisce che i funzionari pubblici che non diano piena garanzia di fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le direttive generali del governo, possono essere licenziati.
1935. Il fascismo è un regime consolidato
Il fascismo è ormai un regime ampiamente consolidato.
Nelle elezioni di un anno prima, in maniera plebiscitaria, la quasi totalità degli italiani gli ha dato il proprio assenso.
Nel paese procede a grandi passi la militarizzazione dell’economia e della società.
Viene dichiarata guerra all’Etiopia.
La Società delle Nazioni – l’Onu di allora – decide di applicare all’Italia sanzioni economiche che sono sfruttate per mobilitare l’opinione pubblica e lanciare la “campagna per l’oro alla patria”, a conclusione della quale vengono raccolte milioni di fedi nuziali.
Ad andare controcorrente, nella palude del conformismo dominante, sono veramente in pochi: qualche gruppo operaio, alcuni intellettuali.
A maggio, a Torino, nel corso di una retata vengono tratti in arresto Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Carlo Levi, Norberto Bobbio.
Disimpegnate ed evasive le passioni degli italiani negli anni trenta: il cinema, finalmente arricchito del sonoro e, manco a dirlo, la canzonetta.
Quando poi il primo si intreccia con la seconda, il successo è assicurato.
È il caso di Non ti scordar di me, un film, di cui, nella memoria cinematografica, non sarebbe rimasta traccia, se non fosse stato per l’omonima canzone, interpretata nientemeno che da Beniamino Gigli, attore goffo, ma tenore grandissimo per dolcezza di timbro e cordialità di espressione.
La radio, altra grande passione italica di quegli anni, moltiplica questo successo, lo amplifica, lo porta in un milione e mezzo di famiglie: tanti gli apparecchi radio in Italia alla fine di quel decennio.
Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi rappresentano una coppia destinata a durare alcuni decenni nella storia della canzone italiana.
Tutti e due appartengono al mondo del palcoscenico e dell’intrattenimento leggero e a loro si deve se la canzone milanese recupera posizioni e importanza rispetto a quella napoletana e romana.
Di Giovanni D’Anzi è la celeberrima Madonina, di entrambi l’accorata Nostalgia de Milan, scritte nel 1938.
Ma la canzone in vernacolo stava loro stretta e produssero quindi in lingua motivi e testi indimenticabili: Bambina innamorata (1934), Ma le gambe (1938), Signorina grandi firme (1938), interpretate dal Trio Lescano; Non sei più la mia bambina (1938), Silenzioso slow (1940); Tu, musica divina (1940).
Non dimenticar le mie parole è del 1937 ed è un esempio significativo di quello “stile Novecento”, che pervade tante canzonette della seconda metà degli anni trenta, flessuose, languide e ben ritmate.
1939. La campagnola bella contro la musica da negri
“All’alba, quando spunta il sole,
là nell’Abruzzo tutto d’or…
le prosperose campagnole
discendono le valli in fior…
o campagnola bella,
tu sei la reginella;
negli occhi tuoi c’è il sole,
c’è il colore delle viole,
delle valli tutte in fior!...
Se canti la tua voce
è un’armonia di pace,
che si diffonde e dice:
se vuoi essere felice,
devi vivere quassù!...
Ritorno di una modesta e attardata sensibilità arcadica o anticipazione di tematiche verdi/ambientaliste?
Né l’uno né l’altro caso: piuttosto l’allineamento disciplinato degli autori di canzonette alle direttive del regime, impegnato non solo nella battaglia del grano, nella bonifica delle paludi pontine, nell’autarchia alimentare… ma anche nella moralizzazione di un costume che tendeva ad americanizzarsi e, quindi, agli occhi del regime e del Capo, a corrompersi.
In polemica con lo swing e con il jazz, criminalizzate come “musiche da negri”, e con tutte le mode d’oltreoceano, giudicate corrosive del sano costume nazionale, i testi delle canzoni si riempiono di prosperose paesanelle, di Rosabelle molisane, di strade del bosco, di pastorelli innamorati, sicuri baluardi italici di laboriosità e moralità.
Dio, patria e famiglia, insidiati nelle città, sempre perdute e tentacolari per gli autori delle canzonette d’epoca, si prendono in campagna una sonora rivincita.
Esemplato su un canto popolare napoletano del XVI secolo (abruzzese secondo altri e siciliano secondo altri ancora), nasce nel 1939 la prima canzonetta di “fronda”
Di Maramao… perché sei morto è autore il prolificissimo Mario Panzeri, che sarà accusato di avere alluso alla recente dipartita di uno dei big del regime, quel Costanzo Ciano il cui monumento funebre, in stile assiro-babilonese, incombe, ancora adesso, sul mare di Livorno.
A portare al successo la triste storia in versione swing di Maramao, aristogatto del 1939, saranno le sorelle olandesi, ex acrobate, Sandra, Giuditta e Caterinetta Leschan, che italianizzeranno il cognome in Lescano.
Un trio destinato a fare epoca: bruttine anzichenò, le sorelline debbono il loro successo non certo all’aspetto fisico, ma a un formidabile senso del ritmo, all’accento esotico – a metà tra il mitteleuropeo e l’inglese – e alla radio.
Accanto alla novità, come sempre la tradizione.
Ed ecco “Firenze sogna”, grande successo dello stornello toscano, cantato da Carlo Buti, esempio famoso di canzone regionale, un genere che durerà almeno fino ai primi anni sessanta.
1938. La vendetta di Kramer
Gorni di cognome, Kramer di nome –affibbiatogli da un padre appassionato di ciclismo e ammiratore del campione tedesco Frank Kramer– fu un grandissimo fisarmonicista, jazzista tra i migliori del nostro paese e il primo al mondo a fare jazz con la popolarissima fisarmonica.
Gli costò caro perché dal 20 giugno del 1938 la musica del suo strumento non venne più irradiata dai microfoni autarchici dell’EIAR.
Forse, Pippo non lo sa costituisce la sottile vendetta di Kramer Gorni per quella esclusione: infatti, la voce popolare assegnò anche a quel motivetto sincopato e a quel testo surreale un significato di fronda nei confronti dei gerarchi del regime in generale e di Starace in particolare che, come capo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, risultava ossessivamente visibile negli anni a ridosso alla guerra.
1945. Napoli, metafora dell’Italia
Mattinata fiorentina e Ma l’amore no, sono rispettivamente del 1941 e 1942 e si collocano su uno scenario già devastato dalla guerra.
Ai lutti propri di ogni conflitto si aggiungono due inedite, negative novità: l’incubo dei bombardamenti e la fame.
Il 30 settembre del 1941 la razione giornaliera di pane viene portata a 200 grammi a testa che scenderà a 150 nelle settimane successive.
Nella primavera del 1942, dieci milioni di persone sono al di sotto del livello alimentare minimo.
E allora, per dimenticare, niente di meglio che evocare una Firenze mai esistita, un messer Aprile rubacuori, madonne fiorentine tanto generose delle loro grazie, quanto distratte al punto da disseminare i prati in fior delle Cascine di forcine per capelli…
Un testo così poteva portarlo al successo, in quei tempi, solo un cantante che fosse anche un personaggio!
È il caso del milanese Alberto Rabagliati, sfortunato epigone di Rodolfo Valentino, scelto dalla casa cinematografica Fox tra più di 800mila candidati a raccoglierne l’eredità.
Cantante nell’orchestra Blu Star di Pippo Barsizza a partire dal 1930, si era esibito anche a Parigi in un complesso sudamericano. Tornato in Italia aveva conseguito un meritato successo radiofonico con la celebre trasmissione Canta Rabagliati l’unica capace di allontanare almeno per un po’ le preoccupazioni della guerra.
Ma l’amore no sempre di Giovanni D’Anzi sarà invece la colonna sonora non solo del film di Mario Mattioli Stasera niente di nuovo del 1942, ma anche di eventi epocali per il nostro paese.
Lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la caduta del fascismo, il governo Badoglio, l’armistizio, l’8 settembre, la lotta per la riconquista della dignità nazionale sono vicende destinate a rimanere nella memoria dei meno giovani legate alla voce triste e sensuale di una giovanissima e bellissima Alida Valli.
Non farà certo meraviglia se nei giorni confusi e tormentati dell’immediato dopoguerra, testi e sonorità, parolieri e musicisti sentiranno l’esigenza di ricollegarsi con la tradizione, con la migliore tradizione nazionale, quella napoletana.
È del 1945 la dolente Munasterio ‘e Santa Chiara, che rievoca sia il terribile bombardamento della basilica partenopea dell’agosto 1943, sia i veloci e non sempre comprensibili mutamenti in corso d’opera nel costume, nei comportamenti, negli stili di vita dei napoletani, degli italiani, della gente.
Cantano Napoli e le sue rovine materiali e morali Giacomo Rondinella e Roberto Murolo: e mai, come in questo caso, la città del golfo è veramente metafora di tutta l’Italia.
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