Non posso trattenermi quindi dal rimettere in circolo con gli amici le illuminazioni di cui sono stata ”vittima”. Uso il termine a proposito non solo per ribadire la grande difficoltà ad venire fuori dalle dinamiche relazionali soggetto-oggetto, ma anche e soprattutto per rendere la sensazione di apertura che ho vissuto, di compenetrazione, come se avessi subito una ferita che anche quando si rimarginerà non lascerà niente come prima, e nessun legame resta nel tempo tanto stretto ed è tanto trasformante quanto quello tra una vittima e il suo carnefice. Appena uscita ho avuto bisogno di fermarmi al sole, poi con calma mangiare qualcosa, poi rintanarmi a casa per dormirci su, solo in seguito ho saputo ri-emergere dal vortice che mi ha creato, metabolizzare l’incontro. Una sorta di sindrome di Stendhal, un orgasmo intellettuale, che forse nasconde anche caratteristiche di violenza ma non coercitiva. Mi appare necessario ripercorrere e condividere quest’esperienza perché sia un gradino del cammino su cui cerco di procedere, insieme a molti altri e credo che mai come adesso sia necessario fare un passo insieme, proprio in questo momento storico in cui sembra che uno solo dei passi possibili sia quello che ci porterà “avanti” .
Bauman si è interrogato su una fotografia molto attuale della nostra realtà sociale.
Sono stati molti recentemente su scala mondiale i “movimenti di piazza” come quello spagnolo di Los Indignatos, le occupazioni di luoghi pubblici più o meno significativi quali Wall Street, Piazza Tahrir, o i terremoti politici più o meno annunciati come in Francia, nel Nord Reno Westfalia, nelle ultime amministrative in Italia. È difficile dire che cosa cerchino questi “movimenti”, più facile è ipotizzare che cosa tentino di fuggire: solitudine, abbandono, vedere intorno persone tese alla competizione, individualismo… Cosa riescono ad ottenere? Senz’altro la liberazione assicurata da un’esperienza di piazza: l’incontro con l’altro al di fuori delle ormai normali regole, delle contrapposizioni pseudo-tribali, il ritrovarsi vicini, condividere sensazioni, emozioni. Quelli che scendono in piazza cercano di stare uniti e ci riescono. Vediamo persone unite, o almeno sembrano.
Gli occupanti di Wall Street si dichiaravano il 99% della nazione, una nazione quella americana, tra l’altro estremamente divisa, dal punto di vista etnico, religioso, politico… “Noi siamo tutti contro l’1%” questo era il messaggio americano, lo stesso certamente quello di Parigi, di Madrid, della Grecia, ma anche delle italianissime 5 stelle, troppo poco luminose per essere citate da Bauman - le cito io. La totalità dichiarata da questo messaggio è una totalità immaginata, che permette di ideare una nazione, la nazione desiderata, più piacevole di quella reale.
Ma quali saranno le conseguenze di lungo periodo di questi movimenti
a cui istintivamente ognuno di noi vorrebbe partecipare?
Se non resisteranno nel lungo periodo, la migliore conseguenza sarà soltanto la forza liberante di un carnevale, durante il quale si sovvertono le regole abbastanza a lungo per recuperare le forze necessarie a ritornare nel quadro di una faticosa realtà. Certo ci sono stati evidenti successi, purché “tragici”, conquistati da questi movimenti, come ad esempio riuscire a togliere di mezzo chi non si voleva più, un Mubarack, un Gheddafi, ma col tempo si presenta il problema dell’individuare con chi soppiantare queste figure un tempo carismatiche. Un altro immediato successo, anche più positivo, è dato dall’opportunità di aver unito categorie sociali tanto diverse tra loro: i poveri, gli affamati hanno manifestato al fianco del ceto medio che pur non gridando la propria fame intendeva conquistare un potere politico almeno pari al proprio potere economico. Tutti hanno sospeso per un periodo le proprie diversità focalizzando e sostenendo insieme un unico punto di accordo. Era accaduto anche con Solidarnosc e allora rappresentava qualcosa di nuovo rispetto ai precedenti grandi scioperi di categoria: tutti uniti si sovverte un regime, si elimina il problema individuato, però quando successivamente si è trattato di discutere con che cosa andasse sostituito, allora non è stato più possibile raggiungere l’accordo.
Oltre il ricordo, di una lotta unita e condivisa contro lo stesso obiettivo per una identica causa, cosa resta? Nella nostra società una battaglia combattuta insieme può ancora assumere i contorni di un’esperienza fondativa? Riesce a creare una società più condivisa? Potrebbe farlo se riuscisse ad andare definitivamente oltre la divisione, superando concretamente, nella costituzione della nuova società, quell’esperienza di solitudine e abbandono che ha attivato le occupazioni, i movimenti. Sarebbe possibile concretizzando la solidarietà, come è accaduto in alcune epoche, ad esempio in Italia con l’esperienza della Costituente.
Occorre delineare bene allora cosa significhi SOLIDARIETA’,
che è un concetto diverso da TOLLERANZA.
Tollerare significa viversi accanto senza farsi la guerra, manifestarsi rispetto lasciandosi in pace senza interferire. Tollerarsi può tuttavia celare un pericolo: “Ti sopporto, ma io sono superiore, il tuo stile di vita va bene per te, ma io non lo posso nemmeno sfiorare”. Chi tollera si sente superiore, ma ha deciso di non farlo pesare. La tolleranza è quindi strumento di riaffermazione di posizioni ed è destinata a condurre ad una società diseguale. Certo la tolleranza rappresenta un passo avanti formidabile rispetto a certe attitudini più arretrate. Nel nostro secolo, forse come mai prima d’ora, siamo stati e siamo di fronte quotidianamente al diverso, all’estraneo, allo straniero, allo strano. Claude Lévi-Strauss, antropologo francese, ha teorizzato che l’umanità abbia da sempre attuato due fondamentali strategie per tollerare il diverso: ANTROPOFAGIA e ANTROPOEMESI. La prima conduce a ingurgitare il diverso, distruggerlo annientando la sua identità, lo si elimina inglobandolo; la seconda strategia prevede invece di vomitarlo, escluderlo, rifiutarlo, respingerlo. Di fronte a queste due strade la tolleranza si pone allora come un passo avanti.
La solidarietà è qualcosa di diverso e di più evoluto.
Hannah Arendt, una famosa pensatrice tedesca naturalizzata americana, ha amato molto Lessing, illuminista tedesco che ha avuto il coraggio di affermare allora, che la diversità è qualcosa che rimarrà nel tempo, che non è superabile. Coraggioso affermarlo in pieno illuminismo quando le teorie prevalenti fissavano che esiste un solo modo di essere umani che alla fine prevarrà. Arendt lo trova straordinario anche perché Lessing era felice di questo stato di “eternità della diversità”, compiaciuto della differenza ritenendola il fondamento della creatività umana: solo la molteplicità della verità può produrre creatività. Un concetto a cui molti ancora oggi non sono giunti e che a me incuriosisce molto: diverso come originale e per questo creativo, capace di arricchire, creare progresso, evoluzione. L’ottimismo di Lessing scaturiva però dall’immaginazione della solidarietà piuttosto che della tolleranza. Tolleranza è un comportamento che riconferma le differenze, ribadisce la diseguaglianza tra soggetto ed oggetto: il tollerante preserva la propria soggettività e considera l’altro, oggetto della propria tolleranza. Nella solidarietà tutti sono soggetti, tutti i solidali hanno diritto all’azione ad intermittenza, si è alternativamente soggetto ed oggetto, docente e discente.
Questa “scoperta” mi ha messo in discussione. Ho sempre sbandierato la mia tolleranza e, perfettamente inserita nella categoria, mi sono sentita spesso forte nella mia “superiorità” rispetto a chi tollerante non appare. Ho suggerito, talvolta forzato, atteggiamenti di tolleranza, provando a convincere chi istintivamente non era sulla stessa posizione, chi non era tollerante. Mi capita frequentemente di sopportare con una certa compassione posizioni a me estranee e distanti, ma certamente non sono disposta a farle entrare in me, nella mia vita. Sarà per questo che mi è apparsa davvero rivoluzionaria la strategia dell’antropologo tedesco Kurt Wolff che Bauman ha citato come esemplificativa del concetto di solidarietà: ARRENDERSI E CATTURARE. Chiaramente è un atteggiamento misurato sull’antropologo: se vuole portare via le spoglie di un popolo, conoscerlo, comunicarlo occorre prima di tutto che si arrenda all’esperienza dell’altro, entrandoci dentro fino a dimenticare per un determinato tempo la propria identità, il proprio stile di vita. Questa è Solidarietà: io che divento te per diventare un nuovo me e per realizzare un nuovo noi. Potrebbe forse essere la solidarietà così definita, la chiave con la quale i movimenti di questi mesi possano dar luogo ad una nuova società, il gradino da salire per trasformare il carnevale in realtà quotidiana.
Che probabilità ha oggi la solidarietà di procedere?
Cosa si può fare per evolvere?
Bauman ritiene che da 30-40 anni viviamo in un contesto sociale che definisce “liquido”. La nostra è una modernità diversa da quella precedente. Fino a 40 anni fa il concetto di modernità era fondato su cittadini PRODUTTORI; consumare era un bisogno naturale non indotto, il produttore aveva un ruolo nella società, oggi un ruolo è assunto dal consumatore. La società dei produttori era una varietà sociale SOLIDA e, benché si sia macchiata di molti crimini, grazie alla rete di produttori era una FABBRICA DI SOLIDARIETA’. Le fabbriche del ‘900 non avevano bisogno di piazza Tahrir: gli operai stavano insieme, sperimentavano solidarietà grazie al ruolo occupato nella società; le loro condizioni quotidiane rendevano la sensazione di “vivere nella stessa barca”, collaboravano, condividevano interessi e lagnanze. Si dava luogo ai grandi scioperi per rivendicare diritti condivisi, rendere pubblici bisogni di categoria. I movimenti di massa di oggi non hanno niente a che vedere con quei grandi scioperi: gli occupanti di Wall Street hanno chiesto il contributo di Lech Walesa, ma Solidarnosc, non può essere di sostegno a queste nuove tendenze frutto della modernità liquida. Il movimento di Solidarnosc si colloca in mezzo, forse come il primo dei nuovi movimenti di massa, condivisi da molteplici classi sociali, ma anche l’ultimo dei grandi scioperi dei decenni precedenti perché inserito in un contesto sociale di tradizionale modernità.
Quella società non esiste più.
Pertanto è inattuabile un passo evolutivo fondato sulla solidarietà.
La nostra società è deregolamentata, atomizzata, individualizzata, sono state smantellate le condizioni di dipendenza che tenevano insieme gli individui produttori. Destrutturate, le fabbriche si sono trasformate in laboratori naturali di sospetto e concorrenza, quello che ci si aspetta dall’altro, ormai non più collega, è sempre qualcosa di spiacevole, di dannoso. Siamo di fronte a FABBRICHE DI SOSPETTO.
C’è stato un periodo, neanche troppo distante, in cui gli intellettuali investivano sul proletariato credendo che fosse la categoria in grado di cambiare il mondo migliorandolo. Quegli stessi intellettuali si ponevano su un piano di inferiorità rispetto ai proletari, si pensavano deboli, capaci solo di scrivere e pensare, mentre i proletari erano forti, in grado di combattere uniti e solidali. Ma oggi quella tanto potente categoria è stata indebolita ed ha ceduto il posto al PRECARIATO, una nuova realtà sociale che vive sulle sabbie mobili, nell’incertezza costante, che ha una sola certezza: l’incertezza. Allora, così come attraverso i processi storici del XIX secolo, l’AGRICOLTURA ha ceduto il posto alla FABBRICA, allo stesso modo oggi il PROLETARIATO tradizionale si sta restringendo a favore dei PRECARI. Il precariato poi si diffonde a tutte le tipologie di lavoro, per cui chiunque vive nell’incertezza o dei prossimi ”tagli” di governo che fanno tremare i dipendenti pubblici, o della prossima razionalizzazione aziendale che fa tremare i dipendenti del settore privato, o della possibile esternalizzazione che blocca l’indotto… Tutti possiamo essere vittime, non c’è niente da fare per rendere la propria posizione più stabile; ad esempio alla Silicon Valley, massima ambizione sul piano professionale per molti grandi cervelli, un buon contratto che si possa strappare ha durata media di 8 mesi. A causa di questa precarietà non è più possibile promuovere solidarietà, se non durante una passeggiata di piazza, durante un carnevale, che prima o dopo finisce.
Un tempo il proletario deteneva un potere: il valore del suo lavoro, da cui l’efficacia dell’impresa dipendeva. Il rapporto di dipendenza che legava il datore di lavoro al lavoratore era allora vicendevole. Oggi è sbilanciato a causa della mobilità di entrambi in precedenza mai sperimentata, dell’outsourcing, della sostituibilità. Qualche decennio fa l’imprenditore era saldamente radicato al proprio territorio, la sua fabbrica era possibile solo in quel luogo e lui stesso era lì che intendeva rimanere, stava fisicamente al fianco dei suoi operai. La realtà della mobilità odierna favorisce le distinzioni, le diseguaglianze: prima, essere in qualche modo costretti a ritrovarsi quotidianamente, dover addivenire ad un modus vivendi, sopportare una quotidianità insieme, sul un piano umano, univa. Oggi la contrapposizione tra soggetto ed oggetto è sempre più marcata e pericolosamente non si autolimita: qualcuno può essere sempre più libero, anche di dare comandi telematici comodamente seduto su una spiaggia, qualcun altro perde perfino la libertà di combattere per i propri diritti, di combattere per la propria libertà.
In questo contesto liquido e disparitario solo l’individualismo sembra garantire una personale certezza, una forma di solidità: solo utilizzando l’altro a riempire le sabbie mobili sembra possibile venire a galla, quindi è attraverso la competizione che si emerge, ma in modo individuale, senza resa, senza i presupposti della Solidarietà.
Ad amplificare tutto questo e ad impedire quindi ulteriormente la possibilità di servirsi della Solidarietà come passo avanti per l’evoluzione della società, ci si mettono gli incessanti flussi migratori. La migrazione, da sempre costitutiva della nostra realtà è destinata nel tempo solo ad aumentare. I lavoratori si spostano, con tutte le migliori intenzioni, ma certamente non rinunciano volentieri alla propria identità, così come chi li ospita. Quindi, condannati a convivere col diverso, occorre trovare una strategia collaborativa alternativa alla Solidarietà.
E qui Bauman si ferma.
Smette di dipingere con estrema semplicità e lucida chiarezza un quadro dalle tinte per niente rassicuranti, un triste paesaggio ormai allagato su cui continua a cadere pioggia e che tutti noi negli anni abbiamo solo innaffiato. Da attenta e silenziosa la sala si è fatta cupa e mugugnante, reazioni istintive e distribuite sono state quelle di sillabare qualcosa al vicino di sedia, di cercarne gli occhi, di leggere un’espressione simile alla propria a rappresentare un conforto. Velocemente e pacatamente era in atto un tentativo estremamente umano di allontanare, per quanto possibile nell’Hic et Nunc, quell’individualismo che abbiamo riconosciuto come concreta e inesorabile parte delle nostre vite e che a tutti fa davvero paura. A questo punto un uomo del suo calibro, con la sua storia, la sua formazione, la sua esperienza, la sua intuizione, avrebbe facilmente estratto il coniglio dal cilindro, ci avrebbe certamente sollevato, meravigliato, in fondo quello che ci sia aspettava a quel punto era una chiave concreta per aprire la via d’uscita. Bauman ha offerto un materiale, tra l’altro neanche suo, e l’ha lanciato in sala come se potesse essere la chiave di tutti quelli che riescano a raccoglierlo, a forgiarlo, a limarlo perché lo strumento prodotto possa entrare nella propria serratura.
Il sociologo Richard Sennett si è chiesto cosa significhi oggi, nel nostro tempo, essere umanisti ed ha risposto introducendo la strategia approssimativa della “INFORMAL OPEN-ENDED COOPERATION”. È un’ipotesi di certo estremamente libera ed approssimativa, non è una mappa che ci indichi una strada, ha un limite enorme, non insegna, suggerisce e in questo stesso limite sta la sua grandezza: potrebbe essere il vento su cui possa galleggiare la società liquida.
- INFORMALE: senza regole, senza norme, senza attese, neanche di risultato; le uniche regole possono emergere dal dialogo.
- APERTA: cioè attuata a porte aperte dove chiunque possa entrare, ma anche a mente aperta dove ognuno possa essere alternativamente docente e discepolo, possa arricchire l’altro per quanto sia estraneo, alieno, strano.
- COOPERAZIONE: non si tratta semplicemente di dialogo, di discussione, di dibattito, non è un seminario universitario, nemmeno un’arena dove alla fine predomina una posizione, dove uno avrà ragione ancora prima di discutere. È qualcosa di più: è un impegno vicendevole senza vincitori né vinti che si concretizza in operatività. Nessuno potrà uscire vincitore, tutti saranno sempre più ricchi.
È per questo che ho dedicato un po’ del mio tempo per scrivere: per non essere solo vinta dalla potenza del pensiero di Bauman, per farmi attivo vincitore e trasformare la sua idea con un pezzo di me, metterla in circolo perché chiunque possa aggiungere nuovi mattoni ed edificare insieme una nuova società. Perché in molti si possa cooperare, anche solo soffiando un buon vento su questa troppa acqua. Allora ho provato a ripercorrere il filo del suo ragionamento così come l’ho masticato, filtrato e sviluppato, senza distinguere troppo il suo pensiero dal mio. L’eccellenza della riflessione di Bauman mi porta a credere che non rivendicherebbe alcuna paternità, che forse sarebbe lieto di una cooperazione informale e aperta, che ritiene essere l’unico possibile nostro futuro. Di certo troverebbe da correggere alcune mie semplicistiche e forse errate interpretazioni, ma non sono altro che una mente alla ricerca, curiosa ed “errante”.
da il giardino degli elefanti
1 commento:
Ciao Irene, grazie per questo post. Stavo rimettendo a posto i miei appunti di quella conferenza di Bauman. I recenti risultati elettorali italiani mi hanno prepotentemente fatto tornare in mente le parole dette da Bauman quella domenica ed il tuo scritto mi ha aiutato a rielaborare gli appunti presi! Quindi relativamente a quanto scrivi nelle ultime righe - e che apprezzo e condivido - per me è stato prezioso! ciao Paola
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