Il museo
non può essere unico
e uguale ovunque,
e uguale ovunque,
secondo generali principi standardizzati,
ma, nel rispetto di regole tecniche
riconosciute le migliori
dallo studio scientifico
dei problemi di conservazione degli oggetti,
deve assumere di volta in volta,
ma, nel rispetto di regole tecniche
riconosciute le migliori
dallo studio scientifico
dei problemi di conservazione degli oggetti,
deve assumere di volta in volta,
il carattere che il suo patrimonio
e la sua storia esigono.
e la sua storia esigono.
(Franco Russoli, Il museo nella società)
Clair il catastrofista. Clair
l’apocalittico. Clair il reazionario. Clair l’anticristo di tutto quanto sia in
odore di neo-avanguardia e di aniconismo. Clair il savonaroliano fustigatore di
quell’arte contemporanea che va scrivendosi sotto i nostri occhi, mostra dopo
mostra, biennale dopo biennale, attraverso poetiche individuali non ancora
munite della patente di Storia dell’arte, non ancora mappate; ma, forti di
questa sbrigliata imprevedibilità, tanto più seducenti. Clair il conservatore e
il nostalgico. L’anacronistico Jean Clair. Questi epiteti condensano alcuni tra
i molti luoghi comuni che si sono depositati sulla figura e sul pensiero di
questo saggista francese. E non perché Clair sia un ribelle tout court,
un pessimista integrale ed arrabbiato per la piega che l’arte sta prendendo nel
nostro millennio. L’antipatia che solleva il suo operato e permea i temi della
sua scrittura, costantemente avversati dagli intellettuali allineati al potere,
assume connotazioni talmente amplificate e morbose da far trasparire una radice
molto più profonda: qualcosa che viene percepito dall’egemonia culturale come
minaccia pronta a rovesciare, o scoprire, l’inganno delle carte in tavola.
Tutta questa mobilitazione non esisterebbe se Clair non si inserisse nel solco
di una tradizione di intellettuali scomodi al potere, obliqui e indomabili ad
ogni ideologia dominante; tradizione che conta molti nomi di spicco nel
panorama novecentesco. Clair reca nel suo atteggiamento verso le grandi
questioni della storia della cultura e dell’attualità artistica la cifra
identitaria di questa linea che è culminata nel grido ‘corsaro’ di Pasolini del
“Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro […] Io so
tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so perché
sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembra regnare l’arbitrarietà, la follia, il
mistero.” Queste parole che Pasolini scriveva, nel 1974, per il “romanzo delle
stragi”, riecheggiano nell’indignazione saggistica e morale di Clair sulla “strage dei musei”. Ogni
paragrafo de La crisi dei musei è l’assembramento di tessere scheggiate
e vaganti, apparentemente senza legami; ma che un’indagine accurata sui fatti e
sulla cronaca, sulla tradizione e la storia, sulle concezioni intellettuali e
sulle istituzioni museali, ricompone in
un mosaico “coerente”, nel quale vige una logica politico-economica interna
alla conservazione e tutela dei beni artistici. Di tale fattura è lo sguardo intellettuale
che Jean Clair sui fenomeni in atto e crude sono le verità che ogni suo saggio
porta in superficie. Verità scrutate e cucite sui fatti, talora su eventi di
cronaca che passano per lo più inavvertiti. Leggendo le pagine de La crisi
dei musei scopriamo dinamiche, disegni di potere, degradi, rovesciamenti di
senso che mettono a nudo le leve storte dell’ufficialità culturale. Come
Pasolini, Clair è scomodo perché eccentriche - ossia non allineate con il
baricentro della leadership militante - sono le sue posizioni. Lo
spirito che serpeggia in ogni sua pagina, e che contagia anche il lettore ‘non
addetto ai lavori’, ha un nome proprio, che pare essere svanito dal vocabolario
dell’etica e dell’agire umanistico del nostro tempo: indignazione. Oggi assai
raramente le nostre orecchie e la nostre menti sono pungolate dalla voce di un
indignato. Quando ci passa accanto sentiamo che la sua onda d’urto genera una
certa tensione liberatrice. Clair l’indignato: è questo l’epiteto che suona più
aderente al robusto temperamento culturale e all’implacabile vena di dissenso
che anima la ormai trentennale attività di questo saggista, affacciato sulla
scena dell’arte dalla fine degli anni Settanta. Francamente, anche nel milieu
degli intellettuali italiani si sente la mancanza di questa virtù eclissata
che è l’indignazione. Voci che si levano, tuttavia, non mancano, soprattutto
nell’ambito della storia e della tutela dei beni culturali, basti riandare con
la memoria ad alcune memorabili querelles di Vittorio Sgarbi, di Argan,
di Achille Bonito Oliva, di Salvatore Settis sul paesaggio e sulla tutela,
legislazione e conservazione del patrimonio dei beni culturali in Italia. Ma è
altrettanto vero che, se si parla di indignazione, non si può non rammentare l’inconfondibile
stile di Federico Zeri. Come quella di Pasolini e di Sciascia, la voce di Zeri
era talmente sottile e incisiva che oggi più che mai ne sentiamo la mancanza.
Certamente, Zeri avrebbe sottoscritto le indignate riflessioni di Clair sul
destino del museo nell’epoca della globalizzazione e sulla crisi che ha
investito un’istituzione che sembrava intoccabile.
Che cos’è diventato il museo?
In che cosa lo ha trasformato il nostro tempo? È ancora quell’istituzione
capace di farsi strumento di educazione e di interagire con la varietà del
pubblico? Quanto ha inciso il primato dell’economia nella gestione delle collezioni?
È giusto de-localizzare i musei a scopo di lucro? L’opera d’arte, appartenente
ad una collezione, può essere noleggiata, venduta, mercificata? Perché “Louvre”
e “Picasso” sono passati dalla sacralità del nome proprio a ‘marchi’ di un
museo progettato ai limiti del deserto e di una linea automobilistica? Sono
questi gli scomodi interrogativi che attraversano le centosette pagine de La
crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Skira, Milano, 2008,
pp.109, euro 16.
Molti di noi coltivano ancora
un’idea poeticamente romantica e sacrale del museo. Quando pensiamo alle stanze
del Louvre, alla National Gallery, al Sofia Reina di Madrid, all’Ermitage, al
Poldi Pezzoli di Milano, ci vengono in mente i dipinti neoclassici di Giovanni
Paolo Pannini, dove in bella e composta conversazione uomini e donne, dame e
antiquari, avvicinano i nasi alle tele, si chinano per ammirare, o siedono e
discutono sulla bellezza che anime stanze di gallerie silenziose,
vertiginosamente gremite di dipinti e sculture. Oppure ci proiettiamo al fianco
di Mengs e di Winckelmann mentre, sul limitare della sera, passeggiano e
conversano nei corridoi della collezione di antichità, assieme al loro magno
protettore, il cardinale Albani; o entriamo nel campo visivo di Diderot e di Baudelaire,
mentre osservano e annotano la pittura dei Salons al tempo di De Lacroix
e di Ingres, vincendo, nel rigore del metodo, la fatica di “divinare i quadri”.
Per molti di noi il museo è un cerchio magico e inviolabile, la soglia di una
dimensione spirituale nella quale entrare muti, senza scarpe e in punta di
piedi, come in un tempio; e dove dimenticare la prosa della vita quotidiana. È
su questo fiabesco stupore misto a venerazione che si apre il saggio di Clair.
L’autore ricorda che tra i sette e gli otto anni, in una scuola di periferia,
un maestro mostrava, per la prima volta, ad un gruppo di bambini la
riproduzione di un dipinto di Matisse. In quel giorno del 1947, la dolcezza
ineffabile delle “linee curve” e dei “viola e i verdi del paesaggio di Matisse”
si scolpirono per sempre nella pupilla di Jean Clair. Sessant’anni dopo, la
stessa penna che copiava il dipinto si tuffa in quei ricordi colorati e
riemerge con una feroce e dolorosa consapevolezza: tutto è cambiato e ciò che
un tempo era considerato un valore sacro oggi è rovesciato nel suo opposto. L’estasi
dell’abbandono ingenuo alla bellezza che rapiva un bambino, e che molti adulti
avrebbero scoperto attraverso il museo, è diventato qualcosa da proteggere. In
questa sovrapposizione di memoria e presente, di autobiografia e attualità, l’acuta
analisi saggistica della crisi del museo è anche la cronaca di un “disincanto”:
quel divario che sancisce l’impossibilità del Jean Clair adulto di chinarsi a
raccontare al Jean Clair bambino quel “turbamento artistico” che lo aveva
segnato davanti ad un dipinto di Matisse. “Cerchiamo il ricordo di quell’incontro
unico come di un amore di cui cerchiamo di ritrovare l’emozione.” Al maturo
saggista non rimane che assottigliare quella distanza e quel desiderio con la
lucida diagnosi della “crisi” che ha travolto il suo mito. Jean Clair ne
disegna le infinite propaggini nell’architettura del saggio, scandita in tre
capitoli che recano il nome di tre vizi capitali: la Simonia, la Vanagloria e l’Accidia.
Museo, museologia e
museografia: breve cronaca di un divorzio?
Nella concezione di Jean Clair
- conservatore generale del patrimonio francese dal 1989 - la gestione di una
collezione, l’organizzazione di un museo e la tutela di un patrimonio sono
priorità da salvaguardare e proteggere. Le sue armi sono gli strumenti
elaborati dalla museologia e dalla museografia, termini complementari di ogni
ricerca sul campo che intenda costruirsi uno statuto di sistematico rigore. Se
la museologia riflette sulla storia della collezione e, attraverso teorie,
norme ed esperienza ne definisce lo specifico profilo e il sistema degli
oggetti; la museografia dà corpo a questa progettualità, elaborando indicazioni
di funzionamento, gestione degli spazi, proposte e soluzioni operative. Il
dialogo sincronico di questi due approcci ha plasmato le fisionomie dei più
grandi musei del mondo. Ma in tempi di simonia, ossia di compra-vendita e di
mercificazione di opere d’arte, anche i ruoli della museografia e della
museologia sono minati e quasi vanificati. La loro funzione scientifica è
saltata nel momento in cui il museo è stato assimilato ad un’impresa. E non
perché il museo sia un’isola astratta ed anacronistica, separata dai mutamenti
della storia e della società che lo circondano. Numerosi musei si sono aperti
ad istanze di rinnovamento, alle aspettative e alle richieste del pubblico.
Hanno accolto, con una disponibilità prima sconosciuta, iniziative di tipo
teatrale, musicale e cinematografico, introducendo concetti come “museo per la
società” e “museo creativo”. Ma la denuncia di Jean Clair tocca corde più
drammatiche. Ad esempio, la gestione dello spazio museale: “Il piacere di
visitare un museo ha finito per soccombere alla fatica che si fa per provarlo:
la coda, interminabile, poi la ressa, la confusione, il chiasso. Invece del
paradiso, un rumore d’inferno, lo stordimento che si può provare in una sala d’attesa
o in una piscina coperta […] l’impossibilità di rimanersene immobili davanti a
un’opera senza vedere la nuca o il braccio di un curioso insinuarsi incongrui
nel proprio campo visivo, senza essere distratti dalle stupide battute
scambiate a proposito di un opulento sedere di marmo, senza essere accecati dai
flash, e alla fin fine senza essere urtati, spinti, trascinati contro la propria
volontà in un flusso ora agitato ora languente.” Stessa sorte tocca al criterio
museografico delle fonti di luce sulle opere, profondamente cambiato: “La
maggior parte dei musei aveva delle magnifiche vetrate zenitali, come è giusto,
che dispensavano una luce uniforme e fredda, capace di ricreare le condizioni
di luminosità delle botteghe nelle quali le opere erano state dipinte, la sola
che si adatti al cromatismo di un quadro. […] La luce artificiale quindi ha
preso il potere ovunque, giallastra, pisciona, irrispettosa dell’equilibrio dei
colori.” A questo si aggiunga la disponibilità del Louvre a girare nelle sue
sale alcune scene del Codice Da Vinci, affinché poi “un percorso
segnalato attraverso il museo permetteva di seguire le tracce del protagonista,
con l’eventuale partecipazione, a pagamento, di una guida.” In questo quadro,
Clair giunge a parlare del sovvertimento di valori che, fino vent’anni fa, le
istituzioni per la tutela dei beni culturali avrebbero additato come
fantascientifici. Il caso-limite che percorre come un leitmotiv tutto il
saggio è il progetto di dar vita “a un piccolo Louvre nella capitale dello
Stato federale degli Emirati Arabi Uniti
- non un museo di copie alla maniera Lascaux-bis, non un museo della
pittura occidentale, ma un luogo che si chiami “Louvre”, con delle opere prese
a nolo dalle collezioni francesi.”
Il “Louvre” di Abu Dhabi: la
crisi come de-localizzazione e mercificazione della collezione
La simonia nel mondo
globalizzato ha assunto forme bizzarre. La lettura del saggio di Jean Clair ci
squaderna un catalogo degli orrori contemporanei. La concezione museale in mano
alle logiche economiche del mercato e la stessa mercificazione delle collezioni
ci sta portando verso un quadro distopico (ossia di negazione dell’utopia
museale) dei beni culturali. L’esempio del “Louvre” di Abi Dhabi trascina con sé
interrogativi inquietanti. Il primo dato della crisi è il progetto di
clonazione di uno dei musei più importanti del mondo, sradicato dal suo
contesto storico-sociale e calato in una cornice in stile Disneyland. Al suo
interno dovrebbero figurare opere “mai esposte” presenti nei depositi del
Louvre. E le opere sarebbero cedute a nolo o vendute: un’operazione che va
contro tutti i principi della deontologia professionale sui quali si forma il
più grande come il più oscuro conservatore di un patrimonio artistico. Lo
stesso ICOM (International Council of Museum, organismo dell’Unesco con sede
mondiale a Parigi) con parole illuminate ha sancito che: “i musei sono delle
istituzioni permanenti senza scopo di lucro a servizio della società e del suo
sviluppo, aperte al pubblico. Acquisiscono, conservano, diffondono ed espongono
a fini di studio, di educazione e di diletto, le testimonianze materiali e
immateriali dei popoli e del loro ambienti.” Ma il risvolto più doloroso di
questo progetto di Abu Dhabi è “l’appello” sottoscritto da ben trentanove
conservatori del Louvre (poi ritrattato sotto minaccia di licenziamento), in
cui si approvavano: prestiti decennali “(trecento opere delle collezioni
pubbliche per tre anni; poi duecento per i tre anni successivi; infine cento
opere per altri tre anni)”; una programmazione annuale di dieci mostre, rese
possibili grazie al prestito di altre opere appartenenti a collezioni
pubbliche; la “consulenza dei musei francesi per l’acquisto di opere destinate
a costituire la collezione permanente del museo, tutte opere della più alta
qualità”. I prestiti a pagamento di opere del Louvre destinate ad una filiale
denominata “Louvre”, istituzione de-localizzata ed eretta in un luogo esotico,
suona come un tradimento dell’etica e della deontologia museale “che ha per
fondamento la gratuità dei prestiti, sola garante della tutela delle opere e di
una equa diffusione della cultura.” Scrive Jean Clair: Questo fatto è senza
precedenti. Nessuno Stato ha mai alienato le sue collezioni, e neppure le sue
competenze, agli interessi di un privato. Il fatto che un passo simile sia
stato compiuto obbliga a porsi la domanda sulla quale è incentrato questo
libro: il museo, figlio dei Lumi e della Nazione, può sopravvivere alla loro
scomparsa?” Il fine di questi progetti è quello di puntare sull’organizzazione
e la gestione di musei pubblici, come il “Louvre” nel deserto o altre filiali,
secondo i principi di un’impresa privata, preoccupata solo della “gestione dei
flussi” e della “gestione dinamica del suo capitale immateriale.”
“Louvre” e “Picasso”: la
desacralizzazione del nome proprio
Nel mezzo della crisi dei
musei e della cultura globalizzata, Jean Clair ci dice che non si cedono solo
opere di una collezione alla stregua di prodotti da mercato; né si cedono solo
a nolo dipinti e sculture collocate in un piccolo territorio lontano, detto Abu
Dhabi, speculando su beni artistici come su standardizzati oggetti industriali.
E se, messi di fronte a questo atto di inciviltà, pensiamo all’aura infranta
delle opere con la quale Benjamin delineava il destino dell’arte nell’epoca
della “riproducibilità tecnica”, il concetto ci appare improvvisamente datato e
paradisiaco. Perfino il nome proprio dell’istituzione museale viene inglobato
nel circuito commerciale. Da cifra identitaria di un museo nazionale, Louvre
denoterà il nome di un “marchio”, il cui diritto per l’uso sarà ceduto e
depositato per trent’anni al costo di 400 milioni di euro. Qualche anno prima,
era toccato ad un nome d’artista: Picasso. “Cederemo quindi il marchio ‘Louvre’ , come, qualche anno fa,
si era ceduto a un fabbricante di auto il marchio ‘Picasso’. Significa supporre
che la parola ‘Louvre’ brillerà a sua volta nel buio dell’ignoranza come l’insegna
luminosa di una banca o di una compagnia di assicurazioni. In un’economia
globalizzata, lo scopo del museo consisterà nel mettere le sue opere al
servizio non del pubblico e della memoria visibile del Paese, ma del suo ‘marchio’,
così da far guadagnare un punto di crescita all’industria Francia.[…] Non molto
tempo fa, Vermeer e la sua Lattaia per commercializzare i vasetti di
yogurt, o un autoritratto di Van Gogh per celebrare i coloranti industriali.”
Clair non si ferma a
denunciare cambiamenti epocali e disastrosi rovesciamenti nell’ambito della
tutela e conservazione del patrimonio museale. La crisi dei musei ha radici
nell’ambito dell’economia globalizzata e nel lessico manageriale del mercato.
Questa concezione ha travalicato i suoi confini ed è arrivata, a partire dagli
anni Novanta e con maggior incidenza dal 2002, all’organizzazione museale.
Clair ne parla diffusamente nel paragrafo L’economia dell’immateriale.
Il progetto del “Louvre” di Abu Dhabi sottintende non solo la creazione di una
faraonica struttura estesa su “un’isola artificiale di 27 kilometri quadrati,
con 19 kilometri di spiaggia […] un trentina di alberghi di gran lusso, 8000
ville altrettanto sontuose, campi da golf, tre porti turistici capaci di
accogliere un migliaio di barche, una pista da sci con neve artificiale”;
quanto la messa in opera di un concetto da diffondere: “l’economia dell’immateriale”.
La parola “immateriale” applicata ai beni artistici è un’ennesima
contraddizione all’orecchio del conservatore, mentre cade perfettamente in
taglio nel lessico finanziario, venendo a rappresentare la “moneta fiduciaria
costituita da un’opera d’arte - a partire quantomeno dal momento in cui lascia
il luogo in cui è conservata per circolare come un biglietto di banca, per
essere reintrodotta in un circuito economico - garantita da pegno in un
contratto dall’importo esattamente calcolato.” Il museo come impresa, si è
detto; ma si può aggiungere il museo come lussuosa “industria”: sorta di clonazione
di un grande Museo Nazionale, dotato di ’marchio’, di “flussi” gestiti al
millimetro, di mostre scandite annualmente secondo un numero fisso e con un
portafoglio di attivi “immateriali”, ossia di opere prelevate dai depositi e
noleggiate per decenni. È la desacralizzazione dei musei e dei principi della
conservazione; o meglio è il crepuscolo del Museo in quanto unicum e
dell’immobilità della collezione, della sua importanza storica, come da sempre
ci insegna la museologia. Il modello di riferimento, ci informa Clair, a
livello di “economia immateriale” è la fondazione Salomon Guggenheim di New
York, “casa madre di un sistema di filiali, di diramazioni di ‘franchising’,
autorizzate a fregiarsi del marchio Guggenheim, a beneficiare della competenza
dei professionisti Guggenheim, e che ospitano mostre riunite a partire dalle
collezioni del museo d’origine.” In virtù di questo sistema, possiamo trovare
succursali a Soho, in Brasile, a Singapore e Hong Kong, fino a Venezia e
Berlino. Il peccato capitale della simonia è alla base della mercificazione
delle collezioni e della moltiplicazione delle succursali denunciata da Clair;
e, nel passaggio al nuovo millennio, ha trovato un’ulteriore accelerazione a
contatto con la baumaniana “società liquida” globalizzata. Esportare,
monetizzare, gestire, noleggiare, politicizzare e privatizzare sono tessere
interconnesse di un lessico finanziario e di un abito mentale che, rotti i
confini della loro competenza e giunti a contaminare i musei, si appoggiano sui
privati e sulle banche, al punto che le banche e le Fondazioni si fanno
promotrici di un mecenatismo umanistico, superficiale ma di notevole lustro
mondano.
Il lessico della critica d’arte
al tempo della crisi: “culturale” e “universale”
La crisi di un’istituzione,
radicata e difesa, qual è di fatto il museo rivela la crisi, ben più profonda,
di paradigmi umanistici da tempo minati. Jean Clair spinge la sua analisi fino
a percorrere la rifondazione semantica di parole proprie del lessico umanistico.
Termini come “culto”, “cultura” e “universale” sono passati a significare
qualcosa di opposto alla loro etimologia. “Culto” è parola che proviene dall’ambito
contadino, riguarda una “componente terrosa, fangosa, agricola” ed è stata poi
riconvertita dagli umanisti nel sostantivo “cultura” che segna le conquiste
dell’intelletto umano in fatto di civiltà (“il Rinascimento, le scoperte, l’avventura
verso mondi lontani, le geografia, l’astronomia”). La regressione introdotta da
un sapere globalizzato è l’aggettivo “culturale”, che ha spodestato la parola “cultura”.
Scrive lucidamente Clair: “La cultura è una, il culturale è plurale. La cultura
è una qualità, un’identità, che unisce e che innalza. Il culturale disperde,
sparpaglia, degrada, ci fa ripiombare
nei numeri, con la pesantezza del quantitativo: i beni culturali, le
attività culturali, gli attori culturali, gli ingegneri culturali,
i giacimenti culturali, le industrie culturali. La cultura, fedele
alla sua origine, era il culto, la fondazione del tempio, e, letteralmente la nascita della ‘con-templazione’,
la delimitazione di un luogo sacro nello spazio e la fedeltà a questo luogo. Il
culturale è l’esportazione, il commercio, la politica delle banche. Oggi non si
incontra più nient’altro che funzionari culturali.” In questo insieme di
fenomeni descritti da Clair, “culturale” è tutto quanto si è descritto fino ad
ora: la de-localizzazione dei musei, trasformati in imprese; la cessione del
nome come ’marchio’; le filiali e le succursali dei musei pubblici; il
tradimento di quei “funzionari culturali” che un altro grande saggista
francese, Yves Michaud, chiama “i commissari”: i conservatori, i compilatori di
cataloghi, i direttori, i curatori, i critici militanti, i mercanti, i
collezionisti, i galleristi - gli attori che, attivi sulla scena artistica del
nostro tempo, hanno dettato tempi e forme dell’estetica; di che cosa sia ‘arte
contemporanea’ e di che cosa non lo sia; di che cosa produrre per essere
artisti e di cosa evitare per non apparire attardati classicisti. Nell’orbita
del “culturale”, l’opera d’arte entra a far parte del circuito della logica
monetaria: tutto si può vendere e noleggiare; tutto può essere contaminato;
ogni “contenitore” è una scatola flessibile e polimorfa. Un sinonimo di “culturale”
è “universale”, un concetto di cui Clair discute nella sezione centrale del
saggio, dal significativo titolo di Vanagloria. Mentre “culturale”
serpeggia nella bocca dei ‘commissari’, nelle mostre e nei musei, “universale”
ricorre come una nenia ossessiva nella retorica dei discorsi ufficiali, per i
quali il museo deve aspirare al raggiungimento di un respiro “universale”, come
se l’insieme delle singole opere delle collezioni e delle acquisizioni che le
caratterizzano, per profondità storica e sublime qualità, non recasse già in sé
il segno di un’intima vocazione all’universalità.
La perdita delle radici
illuministiche: nuova fenomenologia del museo contemporaneo, dal ‘museo - buco
nero’ al ‘museo-cenotafio’.
Ma il lemma “universale” non è
sempre stato questo guscio vuoto in mano alle logiche economiche, e non sempre
ha cozzato sonoramente con “culturale” e “immateriale”. In origine, il termine “universale”
faceva parte dell’apparato concettuale e utopistico della cultura illuminista;
e nel suo ampio grembo enciclopedico rifulgeva di nobiltà. “Universale” era l’idea
di un progresso favorito dalla conoscenza illuminata, dalla sinergia tra sapere
umanistico e sapere scientifico esemplata nelle linee pulite e armoniche delle
tavole esplicative di Diderot e D’Alembert. “Universale” era un principio
insieme ordinatore e morale. “Universale” -scrive Clair - è un termine troppo
nobile perché lo si usi per far andar giù la pillola amara della ‘globalizzazione’.
Alla fine dell’Ottocento si usava la parola ‘universali’ per connotare le
grandi esposizioni, non tanto per sottolineare il numero di nazioni che vi
erano rappresentate, quanto piuttosto per nascondere le mire coloniali su quei
popoli e quei paesi che ancora non ci trovavano posto. […] La decisione di
affittare agli Emirati, per decenni, opere appartenenti alle collezioni
nazionali, in nome di un irraggiamento della nostra cultura e dell’universalità
dei suoi principi, potrebbe essere inscritta in questa generosa politica di
ridistribuzione, di apertura, di diffusione? […] Si può chiamare ‘universale’,
ai nostri tempi, un’eteroclita presentazione di opere prelevate, a seconda del
bisogno e della disponibilità, nelle collezioni dei musei statali francesi?” Le
ultime due domande, purtroppo tutt’altro che retoriche, trovano risposta in
alcune configurazioni distopiche del museo contemporaneo, immaginate dal
saggista come elementi di una fenomenologia in corso: il museo-foro; il
museo-buco nero; il museo-cenotafio. Il “museo-buco nero” fu prefigurato da
Goethe, sulle soglie della modernità e davanti al neonato Museo pubblico, ne Il
collezionista e la sua cerchia. Goethe intuì che, passando alla collettività,
le collezioni avrebbero subito una profonda trasformazione: avrebbero cioè
allargato a dismisura i loro confini, calamitando “oggetti diversi”, con un
effetto di aumento della quantità a scapito dell’affettività e della cura.
Secondo Jean Clair, la “massa magnetizzata”, dall’Ottocento ad oggi, non ha mai
smesso di “accrescersi, di appesantirsi”, facendo dello spazio museale un
enorme “buco nero” fagocitante, dove “tutto ci entra e niente ci esce”. All’opposto
troviamo il “museo-cenotafio”: un monstrum ideato dalle logiche
megalomane della globalizzazione. A differenza dello stomaco pieno del “museo-buco
nero”, quello del “museo-cenotafio” si lascia ammirare per i suoi spazi vuoti e
inanimati, per la sua “architettura sconosciuta e fantastica”, nel cui nudo
silenzio il turista d’arte cammina fino a smarrirsi. Lì nessuna grande
collezione lo accoglie e lo attornia, come nei quadri di Pannini. “Conta
soltanto l’involucro che dovrà essere prezioso, impressionante, fatto di marmo,
di granito, di vetro e metallo. Il contenuto? Il contenuto verrà dopo o non
verrà affatto. […] ci si muove tra muri enormi, sotto soffitti da vertigine,
cercando invano un’opera che, da qualche parte, potrebbe permetterci di fermare
lo sguardo.[…] La Rivoluzione aveva inventato la tomba senza corpo, e noi
avremo inventato il museo senza opera.
Fra questi due momenti, per poco più di due secoli, si sarebbe compiuta la vita del museo, dalla
sua nascita alla sua scomparsa.”
Globalizzazione del sistema
delle arti, della tutela dei beni artistici e descolarizzazione del pubblico: l’inverno
è sceso sui musei.
Il Riccardo III di
Shakespeare si apre con il memorabile monologo del protagonista che culmina
nella bellissima metafora dell’ “inverno del nostro scontento”: un malessere
che, nell’oggi, sembra profilarsi senza consolazione. Il malinconico lamento di
Riccardo, “frodato in corpo dalla falsa natura/ deforme, mal finito”, si è
propagato nelle epoche successive, nei crepuscoli e nella decadenza delle
civiltà. Nel nostre tempo globalizzato, l’inverno dello scontento è sceso anche
sui musei, preparato da un autunno di inarrestabile spoliazione delle linfe
vitali. Il suo paesaggio, fragile e desolato, è quello ricomposto e descritto
nella lente di Clair con infinito dolore e implacabile denuncia. La “crisi dei
musei” non si arresta all’incapacità dei conservatori; alla mercificazione e
alla de-localizzazione; alla riduzione del museo ad impresa; alla simonia delle
collezioni, divisa tra noleggi e vendite di opere; alla confusione dei
linguaggi; alla cattiva amministrazione, senza nessi e sintonie con altre
istituzioni. C’è, infatti, un altro aspetto che Clair prende in considerazione:
la perdita della funzione “educatrice” del museo. Nessuno, vent’anni fa, poteva
immaginare che un intellettuale sarebbe tornato a chiedersi “A cosa serve un
museo?” Sono domande che decenni di museologia e di museografia hanno
contribuito a chiarire e a fissare, elaborando principi sacri e intoccabili
come articoli della Costituzione. Ma così non è, se non nella bella illusione
che ci soffia dentro l’immagine di un museo come intoccabile isola felice. L’indignazione
critica di Jean Clair ci svela un’opposta fotografia del presente. Ci troviamo
a dover rimeditare, oggi più che ieri, su interrogativi che sembravano assodati
per sempre e su questioni nodali come la mediazione tra l’opera e il pubblico.
Il tema museografico della “fruizione” all’interno del percorso museale
attraversa il saggio di Clair. Il quale restringe il campo al problema della
scarsa conoscenza iconografica: “Se la mancata conoscenza dell’iconografia - l’ignoranza
del senso delle opere - impedisce al semplice visitatore di comprendere cosa ha
davanti, egli mantiene comunque, nella visita rituale di un museo, l’ingenua
convinzione che i quadri o le sculture che vi sono conservati gli parlino
direttamente, che comunichino con lui senza che egli debba sforzarsi di
comprendere cosa rappresentano. Come per gli oggetti sacri agli occhi dei
fedeli, persiste, con effetto immediato si potrebbe dire, una magia dell’arte i
cui effetti si manifesteranno a chiunque non appena avrà superato la soglia di
un museo. Benefica, con un semplice sfioramento visivo la visione di un dipinto
saprebbe essere automaticamente consolante, rassicurante, terapeutica, come lo è
sfiorare le dita del piede della statua di San Pietro a Roma.” Il tema
sottinteso ma toccato da Clair riguarda uno dei compiti più difficili della
museografia: fornire al visitatore gli occhiali di lettura per fruire al meglio
l’opera d’arte, a partire dalla sua storia. L’obbiettivo è orientare il
pubblico nel passaggio dal giudizio estetico ‘di gusto’ a quello ‘di conoscenza’:
ossia, dal “semplice sfioramento visivo” all’educazione estetica. La “crisi dei
musei” ha messo in discussione anche questo livello. Tradizionalmente, alla
base di ogni visita c’era la mediazione di una figura la cui formazione era
forgiata sulla triade che Clair sintetizza in “faticare, studiare, imparare”.
Il duro tirocinio professionalizzante garantiva la migliore ‘scolarizzazione’
del pubblico non specialista, distruggendo il pregiudizio della “cieca fiducia
nelle virtù istantanee dell’immagine”. Va ricordato, inoltre, che nella storia
del museo il potere educatore dell’istituzione si esprimeva anche nel lavoro di
copia degli artisti che piazzavano i loro cavalletti nelle sale, per ’imitare’
la lezione dei maestri del passato; pratica questa invalsa ancora in pieno
Novecento avanguardistico e oltre. Quando, nel XVIII secolo, le collezioni
vennero trasformate in “musei” aperti al pubblico, accanto all’addestramento
degli artisti prendeva corpo l’insegnamento dell’arte al pubblico di ‘amatori’
secondo il diletto. Il museo scopre un aspetto che non lo abbandonerà mai più,
ma, anzi, ne identificherà uno dei compiti portanti: la vocazione per il
pubblico. L’analisi di Jean Clair si riallaccia a questo tema sempre aperto, ma
lo pone in relazione alla presenza dell’arte contemporanea nel museo, che
spesse volte viene esibita senza adeguate mediazioni di lettura: “Non abbiamo
forse investito di un simile privilegio gli artisti contemporanei? In una
società anomica ed egualitaria, dove si tratta di negare tutte le differenze
mettendo in pericolo l’unità umana, di consacrare tutte le culture, di
celebrare il primato dell’identico, l’artista appare più che mai e
incoerentemente come un essere a sé stante, un ispirato, un creatore, che gode
di un’impunità pressoché totale: rispettato, invidiato, adorato, come il
prodotto, non c’è dubbio, di un mutazione genetica della specie, uno che genera
i ’capolavori’.”
La collezione di fronte a “quel
trasferimento funesto all’Europa”: il sogno e l’incubo di Quatremère de Quincy
Non fu Goethe il solo
scrittore europeo ad essere dotato di portentosa chiaroveggenza. Nella Francia
post-rivoluzionaria ad un certo punto uscirono le Lettres à Miranda sur le déplacement
des Monuments de l’Italie. Autore: l’archeologo e storico dell’arte Quatremère
de Quincy, futuro amico di Antonio Canova, al quale dedicherà un voluminoso
saggio. Ancora fresco dello strappo epocale del 1789, Quatremère porta le sue
riflessioni sul destino delle opere d’arte. Teniamo presente che alle porte si
prepara l’ascesa napoleonica, e la storia del museo è appena ai suoi inizi
sulla scia dell’età illuminista, ignara di trovarsi, di lì a poco, di fronte al
vero e proprio “secolo dei musei”, l’Ottocento, punteggiato di musei colmi di oggetti
sradicati, scaturito dalle campagne napoleoniche. Quando Quatremère scrive le Lettres
à Miranda siamo nel 1796: sul crinale, cioè, di due secoli che testimoniano
due concezioni politiche e due visioni del mondo, due culture - Illuminismo e
Romanticismo - tese tra continuità e rottura. E Quatremère teme soprattutto le
rotture. Sente prepotente il senso della conservazione, tanto da sentire il
bisogno di elaborare una teoria per la quale un’opera - quella che noi, oggi,
chiamiamo bene artistico - “appartiene al luogo che la vista nascere e non può
dunque essere sradicata, strappata al suo paese d’origine, alla sua nicchia
ecologica” per volontà del potere politico e dell’economia. Se l’opera venisse
tolta dal suo contesto storico, essa perderebbe di significato: diventerebbe
altro. Diventerebbe, scrive Quatremère, una mostruosa opera “campione”. Questi “modelli
del bello” non possono essere ridotti alla stregua di “pacchi di mercanzie”: già
nel 1796 egli aveva intuito il pericolo della de-localizzazione della
collezione e l’importanza del nodo opera d’arte/territorio. Scrive Clair: “il
fine perseguito da Quatremère […] è il principio che fa del paese il museum vero
e proprio, ò’unità intatta di una collezione nazionale (come un grande libro,
scrive ancora di cui è importante tenere unite tutte le pagine). Non soltanto
una collezione è il riflesso della storia di una nazione, ma non si può, in
nome di interessi mercantili, strappare impunemente al suo luogo geografico,
storico, estetico e sociologico.” Quatremère ha straordinariamente intuito,
come poco dopo farà Goethe, il pericolo della dispersione e frammentazione del
patrimonio di beni artistici propri di una nazione a fini commerciali: “Quel
trasferimento funesto all’Europa, diviene inutile anche per il paese che ne sarà
stato il favoreggiatore”. Le parole di Quatremère racchiudono un sogno e un
incubo: il sogno di tutela proprio di tutti i conservatori e il timore che il
potere lo sovverta. Da qui, le armi intellettuali di chi prende la penna per
denunciare, con indignazione, la simonia, mista a superbia e accidia, che è
arrivata alle collezioni d’arte, ai depositi dei musei nazionali, come avviene
nella modernità globalizzata descritta da Jean Clair: una “crisi” del sistema
culturale dove, ancora nell’evoluto nuovo millennio, fare a pezzi una
collezione “non è propagare, ma disperdere i Lumi.”
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