15 gennaio 2013

"L’apologia di Socrate" di Platone




di Gianni Quilici

Ma è giunta, ormai, 
l’ora di andare,
io a morire, voi a vivere.
Chi di noi vada a migliore sorte,
nessuno lo sa, tranne dio.

Ri-leggo l’Apologia di Socrate di Platone e mi chiedo via via se sia attuale. E’ attualissima, mi rispondo per alcune ragioni tra loro intrecciate.

La prima: l’argomentare di Socrate (Platone) è sempre sereno e nello stesso tempo spietato nelle sue profondità, mentre oggi il dire spesso è spietato, ma non argomentato, sovente superficiale e peggio propagandistico. 

 La serenità di Socrate nasce dal fatto (intellettuale) che non ha bisogno di sconfiggere o di negare nessuno, anche se questi (nessuno) lo vogliono “condannato a morte”, essendo colpevole, secondo le loro accuse, perché “perde il suo tempo scrutando i misteri della terra e del cielo, fa passare per buona anche la causa peggiore e insegna agli altri queste cose”.  Anzi, Socrate si pone anche le domande che altri potrebbero porsi, per confutarle.

Nello stesso tempo, però, egli è serenamente spietato, perché demolisce, a volte, con sottile ironia, le accuse a lui rivolte nella loro irrilevanza penale e concettuale. E le demolisce una per una con motivazioni argomentate e convincenti.

La seconda ragione: Socrate non può rinunciare alla sua missione filosofica, la ricerca della verità delle cose, a nessun prezzo, neppure –come succederà – a quello della morte. Per questo imperativo morale, infatti, ha rinunciato a tutti gli interessi materiali privati, trascurando anche la famiglia. Per questo non può scendere ad alcun compromesso. Saputo, infatti, della condanna a morte e avendo la possibilità di chiedere, prima della sentenza definitiva, la pena ritenuta da lui commisurata alla propria colpa, propone ciò che lui ritiene oggettivamente giusto, ma che è una provocazione per gli occhi dei giudici, che uno come lui sia mantenuto nel Pritaneo, sede dove alloggiano a spese dello Stato, cittadini di riguardo, perché chi vince ad Olimpia la corsa dei cavalli”può farvi apparire felici, io, invece, mi adopero, perché lo siate”  
Essere o apparire è una questione da tempo all’ordine del giorno nella società dell’immagine. Così come morire per la verità o, in generale, per una causa quanti oggi sarebbero disposti? O più semplicemente quanti sono oggi disponibili a non vendersi, a non vendere per tornaconto personale idee, valori, dignità personale? E’ bene aggiungere che ci sono stati e ci sono ancora. Politici, intellettuali, artisti che pagano isolamento e povertà,  pur di non rinunciare a se stessi.

C’è tuttavia qualcosa di più invisibile che l’ Apologia di Socrate ci insegna. La verità va cercata nelle sue cause profonde rispondendo a tutti gli infiniti perché. Che cosa succede oggi nell’età della globalizzazione? Che queste cause spariscono sia nelle analisi che nelle proposte, perché richiamerebbero in causa il Potere o i Poteri. Di fronte ad un fatto domina il fatto nella sua immediatezza, nel suo presente. Esempio: di fronte ad una violenza non si ricercano le cause (sociali-antropologiche-politiche), ma si circoscrive la violenza come problema di violenza, ossia unicamente o soprattutto di ordine pubblico. Domina un continuo presente, mentre avanza un presente, che ha cause profonde nella storia e nell’antropologia della storia e i cui segni apocalittici sono ben presenti nell’ambiente, nelle manifestazioni climatiche e nelle risorse nucleari.

Infine: l’Apologia di Socrate è anche una lettura piacevolissima per la luminosità dei ragionamenti e dell’intransigenza morale. Una luminosità, che non pone limiti al mistero della realtà stessa, all’inconoscibile. La morte, dice infatti il filosofo, “ o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o, come si dice, è un passaggio, un mutar di dimora dell’anima da un luogo a un altro” Ancora una volta Socrate dubita, pone due possibili destini ultimi. Che sono quelli, che ancora oggi, si possono prospettare. 

Platone. Apologia di Socrate. Traduzione di Nino Marziano. I grandi libri Garzanti.    

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