di Gianni Quilici
Ma è giunta, ormai,
l’ora di andare,
io a morire, voi a vivere.
Chi di noi vada a migliore sorte,
nessuno lo sa, tranne dio.
Ri-leggo l’Apologia di
Socrate di Platone e mi chiedo
via via se sia attuale. E’ attualissima, mi rispondo per alcune ragioni tra
loro intrecciate.
La prima: l’argomentare di Socrate (Platone) è sempre sereno e nello stesso tempo spietato nelle sue profondità, mentre oggi il dire spesso è spietato, ma non argomentato, sovente superficiale e peggio propagandistico.
La serenità di Socrate nasce dal fatto (intellettuale) che non ha bisogno di sconfiggere o di negare nessuno, anche se questi (nessuno) lo vogliono “condannato a morte”, essendo colpevole, secondo le loro accuse, perché “perde il suo tempo scrutando i misteri della terra e del cielo, fa passare per buona anche la causa peggiore e insegna agli altri queste cose”. Anzi, Socrate si pone anche le domande che altri potrebbero porsi, per confutarle.
Nello stesso tempo, però, egli è serenamente spietato, perché demolisce, a volte, con sottile ironia, le accuse a lui rivolte nella loro irrilevanza penale e concettuale. E le demolisce una per una con motivazioni argomentate e convincenti.
La seconda ragione: Socrate non può rinunciare alla sua
missione filosofica, la ricerca della verità delle cose, a nessun prezzo,
neppure –come succederà – a quello della morte. Per questo imperativo morale,
infatti, ha rinunciato a tutti gli interessi materiali privati, trascurando
anche la famiglia. Per questo non può scendere ad alcun compromesso. Saputo,
infatti, della condanna a morte e avendo la possibilità di chiedere, prima
della sentenza definitiva, la pena ritenuta da lui commisurata alla propria
colpa, propone ciò che lui ritiene oggettivamente giusto, ma che è una
provocazione per gli occhi dei giudici, che uno come lui sia mantenuto nel
Pritaneo, sede dove alloggiano a spese dello Stato, cittadini di riguardo,
perché chi vince ad Olimpia la corsa dei cavalli”può farvi apparire felici, io,
invece, mi adopero, perché lo siate”
Essere o apparire è una questione da tempo all’ordine del
giorno nella società dell’immagine. Così come morire per la verità o, in
generale, per una causa quanti oggi sarebbero disposti? O più semplicemente
quanti sono oggi disponibili a non vendersi, a non vendere per tornaconto
personale idee, valori, dignità personale? E’ bene aggiungere che ci sono stati
e ci sono ancora. Politici, intellettuali, artisti che pagano isolamento e
povertà, pur di non rinunciare a se
stessi.
C’è tuttavia qualcosa di più invisibile che l’ Apologia di Socrate ci insegna. La
verità va cercata nelle sue cause profonde rispondendo a tutti gli infiniti
perché. Che cosa succede oggi nell’età della globalizzazione? Che queste cause
spariscono sia nelle analisi che nelle proposte, perché richiamerebbero in
causa il Potere o i Poteri. Di fronte ad un fatto domina il fatto nella sua
immediatezza, nel suo presente. Esempio: di fronte ad una violenza non si
ricercano le cause (sociali-antropologiche-politiche), ma si circoscrive la
violenza come problema di violenza, ossia unicamente o soprattutto di ordine
pubblico. Domina un continuo presente, mentre avanza un presente, che ha cause
profonde nella storia e nell’antropologia della storia e i cui segni
apocalittici sono ben presenti nell’ambiente, nelle manifestazioni climatiche e
nelle risorse nucleari.
Infine: l’Apologia di
Socrate è anche una lettura piacevolissima per la luminosità dei
ragionamenti e dell’intransigenza morale. Una luminosità, che non pone limiti
al mistero della realtà stessa, all’inconoscibile. La morte, dice infatti il
filosofo, “ o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o, come si
dice, è un passaggio, un mutar di dimora dell’anima da un luogo a un altro”
Ancora una volta Socrate dubita, pone due possibili destini ultimi. Che sono
quelli, che ancora oggi, si possono prospettare.
Platone. Apologia di Socrate. Traduzione di Nino Marziano. I grandi libri Garzanti.
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