Ciò che affascina in Cime Tempestose
è l'estremizzazione dei sentimenti:
un sentimento di vendetta spietato
in una personalità velenosa,
segnata da una ferita d'amore,
che ha la radice in una discriminazione sociale;
e questo sentimento d'amore,
che va oltre la morte,
diventa quasi mostruosamente metasifisico.
Tutto narrato a distanza,
attraverso due personaggi del romanzo,
in un paesaggio di venti, di nuvole basse...
Caro Gianni,
da questa tua
acuta e profonda riflessione vengo a sapere che condividiamo anche questa
passione per la narrativa della Bronte. "Cime tempestose" è un
romanzo che ho amato molto e molto odiato, come tutti gli oggetti d'amore
investiti di una passione estreme e totalizzante, e, proprio in forza di questa
assolutezza e totalità, trasformati in idoli inaccessibili. L'odio nasceva, nel
caso di una creatura di carta, dall'abbagliante perfezione della sua forma e
dalla sostanza sfuggente dei suoi personaggi. Il mondo ctonio in cui Emily
immerge Heathcliff e Catherine, legandoli ad un filo destinale terribile e
autodistruttivo, è qualcosa di talmente tentacolare e complesso che a mala pena
cede parte del suo segreto.
Odiosa e parziale
controfigura è il tentativo di visualizzare questo magma in una pellicola
cinematografica. "Cime tempestose" fa parte di quel manipolo di
romanzi irriproducibili in forme visive; il loro dominio non è lo sguardo, ma
l'introspezione. Penso a opere come la "Recherche" di Proust o
"Viaggio al termine della notte" di Céline. E non li cito a caso,
perché l'unico frutto creativo di Emily è una purissima secrezione
dell'inconscio, un cordone ombelicale i cui meandri e meccanismi sono divenuti,
dentro quegli attimi creativi miracolosi e mai più raggiunti, entità testuale.
Per questo suo fondo
moltiplicato e franto in vincoli oscuri e vertigini, "Cime
tempestose" è un romanzo le cui laceranti polarità diventano campo di
tensione nel lettore: non esiste disinfettante critico contro l'impasto di
amore e odio, luce e tenebra, creazione e distruzione, perfezione e notturno
smarrimento che trasudano da ogni pagina. Ancora oggi, stupisce e atterrisce
quel mistico tocco che in un giorno del 1847 è sceso a baciare la mente di Emily
Bronte, questa semplice e oscura fanciulla di provincia ferita e stuprata per
mesi dal genio che è stato dei tragici greci e di Shakespeare e che sarà di
Dostoevskij e di Freud: ossia quella facoltà di leggere al fondo
dell'insondabile natura umana, traendone una visione universale, impermeabile
allo sciamare del tempo storico e delle generazioni; racchiusa e incisa come un
rebus di pietra in un geroglifico.
Questo è "Cime tempestose": un morbo chiuso in un
marmo bellissimo, con i suoi due personaggi più vivi delle persone reali,
pronti ad urtarci, a sfidarci e a fissarsi sulla nostra pelle come cicatrici di
una dissociazione folle, simile a quella che dilania il Jekyll di Stevenson.
Heathcliff e Catherine non esistono l'uno senza l'altro, sperimentano una condizione
fusiva della cui terribilità siamo subito avvertiti. Sono un'entità unica. La
loro reciprocità ci appare insieme familiare e straniera, perché sembra
abitarci dentro da sempre. Essi si muovono e ragionano con la stessa logica
dell'inconscio che proprio quando ci sembra di aver capito e abbracciato
dobbiamo ricominciare daccapo a inseguire.
A metà Ottocento e con un'opera sola, Emily Bronte è
riuscita a dare corpo a questo scenario fantasmatico plurale e vacillante che
ci abita come un nemico. Malgrado siano passati anni dalla prima lettura e gli
strumenti si siano affinati, l'amore e l'odio che mi assalgono davanti a questa
meravigliosa macchina è rimasto intatto, sebbene si sia temperato nella
disciplina e nell'educazione di altre letture.
Il meglio che sia
stato scritto sopra questo misterioso romanzo è scaturito dalle penne di Mario
Praz e di Georges Bataille. Entrambi contribuiscono a rischiarare, con nostro
sollievo, alcuni lembi di questo continente frustato da passioni e mali
terribili. Nella sua "Letteratura inglese dai romantici al Novecento"
(Sansoni, 1967) Praz ci avverte che
"ai personaggi della Bronte non è applicabile l'ordinaria antitesi tra
bene e male." Le loro passioni devastatrici hanno il libero passo
selvaggio (cioè eccentrico rispetto alle convenzioni e alle leggi stipulate dal
vivere civile) dei cieli che li sovrastano e dalle lande che li circondano.
Essi "non si pentono mai dei loro atti di distruzione", e, malgrado
ciò, non ci sentiamo di definirli "cattivi", né possiamo dire che
siano al di qua, o al di là, del bene e del male. "Il punto di vista di
Emily Bronte non è immorale, è premorale", scrive sempre Praz. Così come
"premorale" (ce lo insegna la psicoanalisi) è il primo tempo
dell'amore: l'odio, questa molla originaria che scavalca qualsiasi maschera di
civiltà e qualsiasi forma di educazione delle pulsioni. Emily arriva al midollo
del sottosuolo. Non solo: a questo magnetismo del binomio Heathcliff/Catherine
soggiaciono tutti gli altri personaggi del romanzo e la loro maledizione si
riverbera sulle spalle della successiva generazione, in una catena oscura e
pausata di ire e odi che sembra non doversi spezzare mai. Il genio di Emily è
stato quello di saper trattare una materia tanto incandescente e pericolosa con
mano da chirurgo e mente ordinatrice; questa maestria la si coglie soprattutto
dall'intelaiatura del romanzo "logico come il profilo d'una fuga
musicale", figlio nel suo dna della tragedia e del poema epico più che del
romanzo ottocentesco.
Un ulteriore chiarimento viene da Bataille, che apre "La letteratura e il male" (SE, 2006)
proprio analizzando il romanzo della Bronte come vertice di una piramide che
comprende Baudelaire, Michelet, Blake, Sade, Proust,, Kafka e Genet. Ne viene
fuori un capitolo in cui non una parola si deposita superflua e dove ogni
passaggio concettuale è serrato e pulito. Georges Bataille, il sublime e
maledetto Georges, si ficca sottopelle: vuole capire perché Emily abbia avuto
in sorte il dono di capire così in profondità il Male, come toccherà ad
un'altra Emily della letteratura, la Dickinson.
L'anagrafe e la sparuta cronaca biografica è disarmante:
Emily Bronte ha vissuto trent'anni appena e non è mai andata oltre la canonica
dello Yorkshire; il suo campo visivo ha spaziato nel limitato recinto del
luogo, tra la campagna e le lande, privato della dolcezza materna e focalizzato
sull'unico polo paterno, incarnato da un rude pastore irlandese. "Visse in
una specie di silenzio, rotto soltanto esteriormente dalla letteratura."
Emily ignorava "in modo assoluto l'amore". Bisogna allora seguire
Bataille e scavare nell'infanzia, nella ragione, nella trasgressione, nel
misticismo senza consolazione; occorre appuntire passaggi analitici come
pugnali spinti al cuore dell'infanzia e nella maturità di Heathcliff e di
Catherine, e poi seguire gli effetti della loro separazione nella morte per
portarne alla luce tutte le oscurità inconsce, tutta la contaminazione, tutto
il destino feroce. E questo lo ha saputo fare solo Bataille. Ferisce ancora
oggi guardare dentro questo nodo. Ferisce perché la sua visceralità è
attualissima. Emily, l'inesperta dell'amore, seduta nella penombra di una
canonica rotta dai bagliori del suo genio, ci ha lasciato il groviglio più
inconfessabile di questa condizione: "quella conoscenza che connette
l'amore non soltanto con la chiarezza, ma anche alla violenza e alla morte -
perché palesemente la morte è la verità dell'amore. Come l'amore è la verità
della morte." Il risvolto oscuro e violento dell'amore unito e nutrito dal
Male tornerà a scandire una celebre strofa della "Ballata del carcere di
Reading" di Oscar Wilde: "eppure ogni uomo uccide ciò che ama. C'è la
carne, la morte e i diavolo in ogni riga del romanzo: c'è dolore, erotismo e
oscurità lacerante, premuti dentro e inespressi, quasi impossibili a tradursi
in azione, nei cuori sconvolti dei due personaggi. C'è una lotta di inconsci
che ingloba, o investe, anche il paesaggio del romanzo, e ogni lettore avverte
quest'assenza di baricentro psichico nei personaggi; ma non si riesce a dargli
un senso fino in fondo e tutto lo sviluppo rimane per lo più innominabile.
Innominabile eppure in bilico sul filo delle labbra, pronto a slanciarsi
all'esterno. Almeno fino a quando non leggi Bataille; allora molti versanti -
non tutti, perché il romanzo non cede i suoi segreti che in minima parte - si
ricompongono sotto una luce cartesiana, mirabilmente gettata su di una materia
tanto difficile (perché spesso preda della retorica) come il Male. Come il
Male, aggiungerei, quando non si vuol vedere intrecciato all'Amore.
Davide Pugnana
Davide Pugnana
Emily Brontë. Cime tempestose. Garzanti
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