20 febbraio 2013

"Gli storici italiani e la Grande Guerra: dalla retorica nazionalistica alla guerra civile europea" di Luciano Luciani




Nel periodo che tenne immediatamente dietro al primo conflitto mondiale anche la storiografia italiana, come d’altra parte quelle francese, tedesca, inglese e statunitense, risentì delle passioni nazionalistiche che avevano agitato il confronto degli storici intorno alle responsabilità, origini e cause della Grande Guerra. Si trattava di una letteratura vasta ma monotona, da cui si distaccò il solo Benedetto Croce (1866 – 1952) con Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932. Nelle sue pagine, Croce, poco interessato sia agli aspetti politico-diplomatici di quegli avvenimenti, sia a quelli economici e sociali, si rivolse invece a indagare sullo “spirito” responsabile della conflagrazione mondiale, da individuare nelle diffusione disordinata e incontrollata di inedite e audaci concezioni dell’esistenza, da lui compendiate nel termine “attivismo”, presenti e operanti non solo nella Germania prebellica, ma in tutto il mondo.

Negli stessi anni in cui il filosofo napoletano pubblicava il suo autorevole e originale punto di vista, il fascismo aveva già iniziato a piegare gli studi storici a ricostruzioni di impianto retorico-celebrativo o a meccaniche trasposizioni di quegli avvenimenti, secondo le quali il sentimento di nazione che aveva animato gli italiani, permettendo loro di resistere al tragico esame di oltre tre anni di guerra, avrebbe trovato poi nel fascismo la sua più adeguata realizzazione. Rarissime le eccezioni. Tra queste va segnalato il libro dello storico liberale, studioso del Risorgimento, Adolfo Omodeo (1889 – 1946), Momenti della vita di guerra. (Dai diari e dalle lettere dei caduti), 1934, un lavoro importante per cogliere dalle parole stesse dei protagonisti lo stato d’animo con cui un’intera generazione di italiani, e segnatamente i giovani ufficiali di complemento, figli della piccola e media borghesia, aveva affrontato i pericoli e le fatiche di quella durissima prova.

La fine del fascismo liberò anche gli studi storici, che, affrancati dai condizionamenti del regime, poterono così dedicarsi a indagare, in autonomia e spirito critico, ambiti di ricerca sino a quel momento inesplorati come, per esempio, l’interventismo democratico. A questo proposito meritano di essere  ricordati la intensa testimonianza di Emilio Lussu, Un anno sull’Altopiano, 1945, e i lavori di Piero Pieri (1893 – 1979), combattente nella Grande Guerra, pluridecorato, professore universitario, considerato il più importane storico militare italiano del Novecento. Di questo studioso, per le sue doti di sintesi e di leggibilità, si raccomanda il libro L’Italia nella prima guerra mondiale (1915 – 1918), intriso di idealità mazziniane che, valorizzando lo stretto legame tra Risorgimento e prima guerra mondiale ne propone l’interpretazione come compimento del processo di unificazione nazionale, “quarta guerra d’indipendenza” e momento importante per la liberazione politica dei popoli europei..

Negli ultimi cinquant’anni, moltiplicatisi i campi d’indagine (movimento socialista, mondo cattolico, movimento nazionalista), gli storici appartenenti alle diverse aree politico-culturali hanno dato vita a un serrato confronto storiografico: la sinistra ha interpretato la partecipazione alla Grande Guerra come un’involuzione autoritaria per distogliere e allontanare la minaccia del conflitto di classe a tutto vantaggio delle forze della conservazione, “L’intervento fu[…] un atto di politica interna, una sorta di piccolo colpo di Stato appena rivestito di forme di legalità” scrive lo storico marxista Giuliano Procacci nella sua Storia degli italiani, 1978; la storiografia moderata si è invece concentrata sulle ragioni per cui l’Italia liberale, dopo aver vittoriosamente superato l’arduo verifica imposta dal conflitto, non abbia invece retto all’assalto fascista alla società e alle istituzioni.

Nel 1969 la pubblicazione del libro di Piero Melograni, Storia politica della grande guerra 1915 – 1918, fu unanimemente salutata come un punto di svolta nella storiografia sull’età contemporanea italiana. L’autore, professore universitario a Perugia, già noto per i suoi lavori sul periodo fascista, forniva infatti agli storici e ai lettori un’opera indiscutibilmente nuova perché, affrontando i problemi degli uomini in uniforme, più di cinque milioni di italiani, un’intera generazione di giovani, allargava la sua visuale ai “molteplici fattori politici, economici e sociali che condizionavano al tempo della guerra la vita dell’intero popolo italiano”. Certo, una storia della prima guerra mondiale, la sua, ma non tradizionalmente intesa: non più il racconto della lungimiranza maggiore o minore degli Alti Comandi, di operazioni strategiche o manovre tattiche, di battaglie vinte o perdute, ma i rapporti complessi tra le forze armate, la politica e la società civile. Insomma, come le masse popolari del nostro Paese vissero quel conflitto: nelle trincee, ma anche nelle campagne, nelle fabbriche e nelle città; negli Alti Comandi e tra gli ufficiali subalterni… Senza trascurare le condizioni materiali di vita dei soldati, il loro morale, i modi della loro fidelizzazione alla causa nazionale, le pagine oscure di Caporetto e delle decimazioni, i cappellani militari, i giornali di trincea e le distrazioni della truppa… Con il meritevole lavoro di Melograni la storia politica piegava verso la storia sociale, si arricchivano gli ambiti della ricerca storica e la rappresentazione della Grande Guerra ne veniva completamente trasformata grazie anche all’uso sistematico di materiali storici sino a questo momento trascurati come epistolari, diari, testimonianze orali, fonti letterarie. Un modo nuovo di avvicinarsi a quegli avvenimenti, come ha scritto Andrea Cortellessa (1968), storico della letteratura: “ mentre i testi ‘bassi sono usciti dall’ombra, quelli ‘alti’ sono tornati ai laboratori asettici degli specialisti (ma spesso, piuttosto, direttamente nel dimenticatoio)”.

A tutt’oggi, nell’approssimarsi del centenario dell’inizio di quegli avvenimenti gli studi propendono verso sempre più raffinate ricostruzioni dei mutamenti indotti dalla guerra, quella guerra, nelle condizioni di vita delle popolazioni civili, nella loro mentalità e nei loro comportamenti di massa. Perché quel conflitto rappresentò davvero “un evento ‘senza ritorno’, un trauma che modificò per sempre la psicologia collettiva. Se immensi furono infatti i mutamenti degli equilibri sociali e politici (si pensi alla rivoluzione in Russia, al crollo degli imperi centrali, alla fine dell’egemonia europea sul mondo), la guerra incrinò anche tutte le certezze culturali che avevano costituito il cardine della civiltà occidentale… Dopo il conflitto, niente fu più uguale a prima.” (Giovanna Procacci).

Degno di nota anche il punto di vista, assai più recente, di Enzo Traverso (1957), storico italiano dell’età contemporanea che insegna attualmente in Francia e applica agli anni compresi tra il 1914 e il 1945, il concetto, già dello storico tedesco Ernst Nolte (1923), di “guerra civile europea”.
A suo parere, espresso nel saggio A ferro e fuoco, 2008, il primo conflitto mondiale costituirebbe l’elemento divisorio tra un lungo Ottocento dominato dalle idee di pace e progresso economico e la successiva guerra civile europea, magmatico intreccio di tradizionali conflitti tra Stati, rivoluzioni, guerre civili e di liberazione, genocidi e brutalità derivate da contrasti politici, nazionali e di classe. Due gli antecedenti alla novecentesca guerra civile europea: la guerra dei Trent’anni (1618 – 1648) e la Rivoluzione francese, terminata con la caduta dell’impero napoleonico (1789 – 1815). Nato come scontro tra Stati, il primo conflitto mondiale si conclude con il crollo degli imperi continentali su uno scenario già percorso da caratteri e pratiche proprie delle guerre civili: uso di armi di sterminio di massa (chimiche, gas), cattura di ostaggi, esodi forzati e deportazioni di popolazioni civili, decimazioni.… Le dichiarazioni di guerra dell’estate 1914 - ricorda Traverso -  furono accompagnate da entusiastiche ondate di passione patriottica che travolse anche le più insigni personalità della vita intellettuale e artistica del vecchio continente. Rarissime le eccezioni di quanti nel mondo della cultura riuscirono a sfuggire alla frenesia nazionalista: Karl Kraus a Vienna, Bertrand Russel a Londra, Henri Barbusse e Romain Rolland a Parigi. Un’ubriacatura patriottica destinata a consumarsi nel corso di una guerra che, come poche altre vicende nella storia del mondo moderno, era destinata ad avere un impatto profondissimo nella cultura europea. “La Grande guerra” - scrive Traverso - “si configura come una cesura storica che spezza la continuità delle esperienze di vita e trasforma il paesaggio mentale delle società europee”. Tramontata ben presto l’ipotesi di un conflitto breve, nelle trincee e dietro al filo spinato che segnarono per anni i confini europei, si inaugurò quella terribile miscela di conflitto totale, guerre locali, genocidi e lotte brutali tra opposte visioni del mondo che doveva segnare sanguinosamente la storia di quasi tutta  la prima metà del secolo scorso.




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