Nel
periodo che tenne immediatamente dietro al primo conflitto mondiale anche la
storiografia italiana, come d’altra parte quelle francese, tedesca, inglese e
statunitense, risentì delle passioni nazionalistiche che avevano agitato il
confronto degli storici intorno alle responsabilità, origini e cause della
Grande Guerra. Si trattava di una letteratura vasta ma monotona, da cui si
distaccò il solo Benedetto Croce (1866 – 1952) con Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932. Nelle sue pagine,
Croce, poco interessato sia agli aspetti politico-diplomatici di quegli
avvenimenti, sia a quelli economici e sociali, si rivolse invece a indagare
sullo “spirito” responsabile della conflagrazione mondiale, da individuare
nelle diffusione disordinata e incontrollata di inedite e audaci concezioni
dell’esistenza, da lui compendiate nel termine “attivismo”, presenti e operanti
non solo nella Germania prebellica, ma in tutto il mondo.
Negli
stessi anni in cui il filosofo napoletano pubblicava il suo autorevole e
originale punto di vista, il fascismo aveva già iniziato a piegare gli studi
storici a ricostruzioni di impianto retorico-celebrativo o a meccaniche
trasposizioni di quegli avvenimenti, secondo le quali il sentimento di nazione
che aveva animato gli italiani, permettendo loro di resistere al tragico esame
di oltre tre anni di guerra, avrebbe trovato poi nel fascismo la sua più
adeguata realizzazione. Rarissime le eccezioni. Tra queste va segnalato il
libro dello storico liberale, studioso del Risorgimento, Adolfo Omodeo (1889 –
1946), Momenti della vita di guerra. (Dai diari e dalle lettere dei
caduti), 1934, un lavoro importante per cogliere dalle parole stesse dei protagonisti
lo stato d’animo con cui un’intera generazione di italiani, e segnatamente i
giovani ufficiali di complemento, figli della piccola e media borghesia, aveva
affrontato i pericoli e le fatiche di quella durissima prova.
La
fine del fascismo liberò anche gli studi storici, che, affrancati dai
condizionamenti del regime, poterono così dedicarsi a indagare, in autonomia e
spirito critico, ambiti di ricerca sino a quel momento inesplorati come, per
esempio, l’interventismo democratico. A questo proposito meritano di
essere ricordati la intensa
testimonianza di Emilio Lussu, Un anno
sull’Altopiano, 1945, e i lavori di Piero Pieri (1893 – 1979), combattente
nella Grande Guerra, pluridecorato, professore universitario, considerato il
più importane storico militare italiano del Novecento. Di questo studioso, per
le sue doti di sintesi e di leggibilità, si raccomanda il libro L’Italia nella prima guerra mondiale (1915 –
1918), intriso di idealità mazziniane che, valorizzando lo stretto legame
tra Risorgimento e prima guerra mondiale ne propone l’interpretazione come
compimento del processo di unificazione nazionale, “quarta guerra
d’indipendenza” e momento importante per la liberazione politica dei popoli
europei..
Negli
ultimi cinquant’anni, moltiplicatisi i campi d’indagine (movimento socialista,
mondo cattolico, movimento nazionalista), gli storici appartenenti alle diverse
aree politico-culturali hanno dato vita a un serrato confronto storiografico:
la sinistra ha interpretato la partecipazione alla Grande Guerra come
un’involuzione autoritaria per distogliere e allontanare la minaccia del
conflitto di classe a tutto vantaggio delle forze della conservazione,
“L’intervento fu[…] un atto di politica interna, una sorta di piccolo colpo di
Stato appena rivestito di forme di legalità” scrive lo storico marxista
Giuliano Procacci nella sua Storia degli
italiani, 1978; la storiografia moderata si è invece concentrata sulle
ragioni per cui l’Italia liberale, dopo aver vittoriosamente superato l’arduo
verifica imposta dal conflitto, non abbia invece retto all’assalto fascista
alla società e alle istituzioni.
Nel
1969 la pubblicazione del libro di Piero Melograni, Storia politica della grande guerra 1915 – 1918, fu unanimemente salutata come un punto di svolta nella storiografia
sull’età contemporanea italiana. L’autore, professore universitario a Perugia,
già noto per i suoi lavori sul periodo fascista, forniva infatti agli storici e
ai lettori un’opera indiscutibilmente nuova perché, affrontando i problemi
degli uomini in uniforme, più di cinque milioni di italiani, un’intera
generazione di giovani, allargava la sua visuale ai “molteplici fattori
politici, economici e sociali che condizionavano al tempo della guerra la vita
dell’intero popolo italiano”. Certo, una storia della prima guerra mondiale, la
sua, ma non tradizionalmente intesa: non più il racconto della lungimiranza
maggiore o minore degli Alti Comandi, di operazioni strategiche o manovre
tattiche, di battaglie vinte o perdute, ma i rapporti complessi tra le forze
armate, la politica e la società civile. Insomma, come le masse popolari del
nostro Paese vissero quel conflitto: nelle trincee, ma anche nelle campagne,
nelle fabbriche e nelle città; negli Alti Comandi e tra gli ufficiali
subalterni… Senza trascurare le condizioni materiali di vita dei soldati, il
loro morale, i modi della loro fidelizzazione alla causa nazionale, le pagine
oscure di Caporetto e delle decimazioni, i cappellani militari, i giornali di
trincea e le distrazioni della truppa… Con il meritevole lavoro di Melograni la
storia politica piegava verso la storia sociale, si arricchivano gli ambiti
della ricerca storica e la rappresentazione della Grande Guerra ne veniva
completamente trasformata grazie anche all’uso sistematico di materiali storici
sino a questo momento trascurati come epistolari, diari, testimonianze orali,
fonti letterarie. Un modo nuovo di avvicinarsi a quegli avvenimenti, come ha
scritto Andrea Cortellessa (1968), storico della letteratura: “ mentre i testi
‘bassi sono usciti dall’ombra, quelli ‘alti’ sono tornati ai laboratori
asettici degli specialisti (ma spesso, piuttosto, direttamente nel
dimenticatoio)”.
A
tutt’oggi, nell’approssimarsi del centenario dell’inizio di quegli avvenimenti
gli studi propendono verso sempre più raffinate ricostruzioni dei mutamenti
indotti dalla guerra, quella guerra,
nelle condizioni di vita delle popolazioni civili, nella loro mentalità e nei
loro comportamenti di massa. Perché quel conflitto rappresentò davvero “un
evento ‘senza ritorno’, un trauma che modificò per sempre la psicologia
collettiva. Se immensi furono infatti i mutamenti degli equilibri sociali e
politici (si pensi alla rivoluzione in Russia, al crollo degli imperi centrali,
alla fine dell’egemonia europea sul mondo), la guerra incrinò anche tutte le
certezze culturali che avevano costituito il cardine della civiltà occidentale…
Dopo il conflitto, niente fu più uguale a prima.” (Giovanna Procacci).
Degno
di nota anche il punto di vista, assai più recente, di Enzo Traverso (1957),
storico italiano dell’età contemporanea che insegna attualmente in Francia e
applica agli anni compresi tra il 1914 e il 1945, il concetto, già dello
storico tedesco Ernst Nolte (1923), di “guerra civile europea”.
A
suo parere, espresso nel saggio A ferro e
fuoco, 2008, il primo conflitto mondiale costituirebbe l’elemento divisorio
tra un lungo Ottocento dominato dalle idee di pace e progresso economico e la
successiva guerra civile europea, magmatico intreccio di tradizionali conflitti
tra Stati, rivoluzioni, guerre civili e di liberazione, genocidi e brutalità
derivate da contrasti politici, nazionali e di classe. Due gli antecedenti alla
novecentesca guerra civile europea: la guerra dei Trent’anni (1618 – 1648) e la Rivoluzione francese,
terminata con la caduta dell’impero napoleonico (1789 – 1815). Nato come
scontro tra Stati, il primo conflitto mondiale si conclude con il crollo degli
imperi continentali su uno scenario già percorso da caratteri e pratiche
proprie delle guerre civili: uso di armi di sterminio di massa (chimiche, gas),
cattura di ostaggi, esodi forzati e deportazioni di popolazioni civili,
decimazioni.… Le dichiarazioni di guerra dell’estate 1914 - ricorda Traverso - furono accompagnate da entusiastiche ondate di
passione patriottica che travolse anche le più insigni personalità della vita
intellettuale e artistica del vecchio continente. Rarissime le eccezioni di
quanti nel mondo della cultura riuscirono a sfuggire alla frenesia
nazionalista: Karl Kraus a Vienna, Bertrand Russel a Londra, Henri Barbusse e
Romain Rolland a Parigi. Un’ubriacatura patriottica destinata a consumarsi nel
corso di una guerra che, come poche altre vicende nella storia del mondo
moderno, era destinata ad avere un impatto profondissimo nella cultura europea.
“La Grande
guerra” - scrive Traverso - “si configura come una cesura storica che spezza la
continuità delle esperienze di vita e trasforma il paesaggio mentale delle
società europee”. Tramontata ben presto l’ipotesi di un conflitto breve, nelle
trincee e dietro al filo spinato che segnarono per anni i confini europei, si
inaugurò quella terribile miscela di conflitto totale, guerre locali, genocidi
e lotte brutali tra opposte visioni del mondo che doveva segnare
sanguinosamente la storia di quasi tutta
la prima metà del secolo scorso.
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