22 gennaio 2014
"Chi sei?" di Eva Scatena
Quando un sentimento diventa pensiero astratto e vago, come un metafora nascosta da qualche parte negli occhi, sempre meno visibile e distinguibile agli altri, finisce che diventa parte della tua natura, della tua identità. Finisce che smette di essere un sentimento autonomo e si fonde con l’essenza più personale di chi lo prova.
Se mi chiedessero: “Cosa ti distingue dal resto del mondo? Chi sei?” potrei rispondere che mi chiamo Eva ed il mio nome mi piace tanto, perché non me l'ha dato mio padre e non si può storpiare con stupidi diminutivi, che ho cinquant'anni, che ho la pelle morbidissima e chiara e piena di graffi o che adoro "C'era una volta in America",che macino libri al ritmo di dieci al mese -se conto le riletture. Mi dà un piacere immenso rileggere: riscopro, assaporo, ho nuove intuizioni. Ma penso che siano tutte cose comuni a qualcun altro.
Solo i sentimenti sono qualcosa di davvero nostro, di unico e irripetibile. Quindi siamo ciò che proviamo. Quindi sono questo intreccio contrastante di pulsioni e tensioni, e sono anche quell’amore psichico, ma incredibilmente anche di desidero fisico e idealizzato, che lentamente scomparirebbe in mezzo a un mare di realtà concreta se non lo tenessi caparbiamente e teneramente nascosto dentro me. Il resto è noia.
19 gennaio 2014
"I popoli europei senza Stato" di Giovanni Armillotta
di Luciano Luciani
Denso di dottrina storica e geopolitica, il libro Giovanni Armillotta
I popoli europei senza Stato,
sottotitolo Viaggio attraverso le etnie
dimenticate, è illuminato da una condivisibile intenzione: quella di
fornire una mappa continentale delle nazionalità obliate. Una topografia degli
sconfitti: ovvero genti, le cui ragioni identitarie sono state piegate da
poteri politici e militari, economici e amministrativi, più forti e, di
conseguenza, costretti all’interno di schemi statuali in cui si riconoscono con
una sofferenza più o meno accentuata. E a essi reagiscono, in forme che vanno
dalla resistenza culturale (difesa della lingua, della letteratura, degli usi e
delle tradizioni) sino a manifestazioni violente sfocianti talora nel ricorso
episodico o sistematico al terrorismo. È il caso del relativamente recente
inasprirsi del movimento autonomista bretone, oppure del fenomeno più largo e
storicamente più duraturo nel tempo dei Paesi baschi spagnoli e francesi, le
cui organizzazioni indipendentiste si muovono da decenni sul pericoloso
discrimine tra trattativa politica e pratica dell’attentato. Certo è che il
rispetto del principio dell’autonomia, innanzitutto culturale e poi anche
amministrativa, in forme il più possibile larghe e partecipate è destinato a
diventare la prova provata, la cartina di tornasole dell’effettivo grado di
democrazia dell’Unione Europea.
Il documentato libro di Giovanni Armillotta, giornalista e attento
studioso di questi nodi problematici, fa il punto su tali delicate questioni di
natura geografica, storica, economica, religiosa e si propone come un lavoro
importante, utile e, direi quasi, imprescindibile per quanti intendano muoversi
nel presente non solo come cittadini europei consapevoli, ma anche come
cittadini italiani coscienti delle complicatezze della loro comunità nazionale.
Le sue pagine, infatti, fanno riferimento anche ad alcune realtà che ci
riguardano da vicino: l’oltre mezzo milione di cittadini italiani di espressione
friulana distribuiti tra le province di Udine, Pordenone e Gorizia; gli
Occitani d’Italia, quasi 200 mila persone che abitano prevalentemente nelle
aree piemontesi di Cuneo e Torino; i Ladini d’Italia, presenti a Belluno,
Bolzano e Trento, che subirono un pesante processo di denazionalizzazione sotto
il fascismo; la complessa specificità culturale della Sardegna che tocca oltre
un milione di abitanti.
Questioni, come
scrive nella Presentazione Maurizio
Vernassa, docente presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di
Pisa, che confermano l’importanza della categoria dell’autonomia “nella sua
essenziale azione di protezione, difesa e valorizzazione dei propri valori
identitari, concorrenti e non antagonisti nella costruzione della nuova
identità comune, la cui forza può risiedere senza alcun dubbio anche nel
pluralismo delle voci che contribuiscano positivamente a realizzarla, riuscendo
in tal modo a vincere le occorrenti conflittualità politiche”.
Giovanni Armillotta, I popoli europei senza Stato Viaggio
attraverso le etnie dimenticate, Jouvence, Roma, 2009, pp. 184, Euro 16,00
"Mario Martone. La scena e lo schermo” a cura R. De Gaetano e B. Roberti
di Mimmo Mastrangelo
Del resto non è una novità che ci sia curiosità ed attesa intorno all’uscita del nuovo film di Mario Martone, Il giovane favoloso”, dedicato alla figura di Giacomo Leopardi di cui il regista napoletano già per la scena aveva curato l’illuminante raccolta
de “Le operette morali”. Finito di girare lo scorso mese e prodotto
anche attraverso una grossa operazione di tax-credit in cui sono coinvolti soggetti privati, il film dovrebbe restituire un profilo quasi inedito del poeta recanatese (interpretato da Elio Germano): non l’icona di un uomo afflitto dalle nebbie dell’inquietudine, ma l’immagine di un pensatore moderno, oppositore alla linea razionalista e dal temperamento ironico e socialmente spregiudicato.
Ma nell’attesa che Martone completi il lavoro di montaggio, sono stati appena pubblicati da Donzelli Editore, per la curatela di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti, gli atti di un convegno dedicato al regista, promosso dall’Università
della Calabria e tenutosi nell’ottobre del 2012 a Cosenza. Con il
titolo “Mario Martone: la scena e lo schermo”, l’opera raccoglie
quattordici saggi (tra gli altri, quelli di Rino Mele, Gianfranco Capitta, Emiliano Morreale, Daniele Dottorini, Giona A.Nazzaro) i quali esaminano in
lungo e in largo una carriera artistica ormai ultratrentennale.
Ovviamente mettersi ad analizzare il lavoro multidisciplinare di
Martone significa imbattersi in una delle più alte espressioni della
cultura italiana contemporanea il cui atto creativo è semplice e al
contempo spiazzante.
Un artista-intellettuale è Martone sempre molto attento nel curare la forma, il linguaggio, un’ idea di teatro, cinema, lirica, ma principalmente dedito a marcare una visione etico-civile, a mettere in risalto le contraddizioni della realtà, i controsensi del presente andando a rivisitare capitoli (non ufficiali e dimenticati) della storia del passato.
E poi non si può non sottolineare del regista il continuo saltare da un contesto all’altro, da un registro all’altro, che trova spiegazione in quel suo credo tutto shakespeariano che al cospetto di un mondo (di una disciplina) c’è sempre un universo-altrove, un differente immaginario dove poter sperimentare modelli di lavoro e inediti orizzonti di arte (e di ideali). “Il modello di lavoro – scrive Rino Mele, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Salerno -
è uno schema semplice che produce, a ogni passaggio, nuova
fascinazione; un figura geometrica raddoppiata in un’altra, un quadrato
ripetuto nel successivo, legati strettamente e mai coincidenti, una
tensione a una metamorfosi negata e riproposta…”.
Naturalmente mettersi ad esaminare e studiare la creatività di Mario Martone vuol dire obbligatoriamente non trascurare un fuoco di fila di messinscene e film che
ormai sono dentro la storia del teatro, della lirica e del cinema
italiano, si pensi alle rappresentazioni di “Tango glaciale”, “Il
desiderio preso per coda”, “Ritorno ad Alphaville”, “Rasoi”, “Edipo Re” e per la lirica “Così
fan tutte” e “Lulù”, si pensi ai film “Morte di matematico napoletano
(1992), “L’amore molesto” (1995), “Teatro di guerra” (1998), “L’odore
del sangue “(2004) e il capolavoro “Noi credevamo” (2010) .
Ma citare Mario Martone obbliga altresì ad enunciare “compagnie-comunità” di eccellenti attori (Toni Servillo, Antonio Neiwiller, Licia Maglietta, Anna Bonaiuto, Vittorio Mezzogiorno, Carlo Cecchi, Renato Carpentieri) che nel corso degli anni si sono formate e consolidate,
sciolte e rincontrare ottenendo un consenso internazionale e portando
il loro contributo a quella irripetibile stagione (in era bassoliniana)
del Nuovo Rinascimento Napoletano.
Ma
per capire fino in fondo Martone e la sua arte, il suo metodo di
lavoro, il suo legame con gli attori bisogna soffermarsi sullo “autoritratto” proposto nel volumetto di De Gaetano e Roberti e che il regista presentò come lectio in occasione del convegno di Cosenza dove gli fu conferita anche la Laurea Honoris Causa in Linguaggio dello Spettacolo. In particolare colpisce
quando il regista precisa che il suo teatro sin dall’inizio si è
sviluppato per non essere né tradizione né avanguardia, ma spazio, scena
analitica strutturata secondo le sequenze impalpabili del cinema e
della musica. E in merito al cinema (al suo cinema) scrive Martone “La
nascita di un film è in me
segnata da un punto di attrazione inspiegabile. E’ un punto che si può
trovare in un libro, in una storia raccontata per strada o parlando con
un amico, non fa nessuna differenza. E’ una sensazione. Questo punto si
accende, si illumina e ti attrae perché tu lo raggiunga”.
17 gennaio 2014
"Espiazione" di Ian McEwan
di Caterina Donatelli
Generalmente cerco scrittori in cui sento più la
vita e attraverso l’osmosi silenziosa con le parole, tento di sentire me; allo
stesso tempo la lettura mi serve come
forma di conoscenza del mondo.
Di Ian McEwan avevo già letto “Cani neri”, l’impressione fu di una scrittura molto nitida che scava e interseca i sentimenti umani, descrivendone le ombre e le tensioni, immergendoli nei temi complessi della storia contemporanea.
Impressione che ritrovo nel libro “Espiazione”; romanzo dalla lettura più faticosa, tessuto attorno a Briony Tallis, metodica ragazzina inglese con velleità da scrittrice che in una notte dell’estate del ’35, assiste ad una scena di violenza mutandola in una visione, personale e manovrata, della realtà. Questa iperbole interpretativa determina il capovolgimento del destino di tutti i personaggi della storia, in particolare della sorella Cecilia e del suo giovane amante Robbie Turner, alimentando il senso di colpa che morde dentro alla ricerca disperata di un perdono salvifico.
A complicare ulteriormente il loro percorso esistenziale, si innesta la guerra che amplifica il cambiamento, fornendo nuove traiettorie ai tre personaggi, oramai cresciuti, ognuno indiscutibilmente segnato dagli eventi di quella notte e impegnati nella conquista di un lieto fine, impigliato tra i fili dell’immaginazione letteraria che, non sempre, ne concede uno.
Lettura faticosa, dicevo; McEwan è uno scrittore attento ai dettagli, alle costruzioni meticolose degli eventi, ma ad una velocità che non coincide con la mia. Spesso leggendo avvertivo la voglia di superare, di andare oltre proiettandomi in avanti, mentre la scrittura mi obbligava a restare sui particolari, sulle singole percezioni che si aprivano su piani tangenti, per poi tornare nel fulcro dell’evoluzione degli eventi. E’ come se per tutto il romanzo, il ritmo di lettura non coincidesse con l’andatura della scrittura costringendomi a una lentezza che frenava l’arrivo alle ultime pagine e allo svelamento dell’intera storia. Inoltre, la precisione descrittiva mi dava la sensazione di sentirmi non accolta dentro la narrazione e messa al margine dei fogli secondo un ragionamento calcolato, dove il lettore non può partecipare con il proprio vissuto alle vicende, ma deve assumere il ruolo di spettatore, senza mescolanze o fughe interiori. Eppure, trovavo estremamente intrigante questo ‘scontro’ con l’autore capace di spingermi, parola dopo parola, sincronizzando i miei pensieri alla sua volontà rendendoli disciplinati e attenti. Ci vedevo dentro il lavoro costruttivo dello scrittore che non concede spazi di rielaborazione, intento a formulare un gioco a specchio con il personaggio di Briony, continuamente in preda all’immaginazione creativa e alla volontà di riscrivere la realtà.
A un certo punto, McEwan affida a questo personaggio un pensiero che in qualche modo
mi pare il manifesto del libro: “Briony aveva letto Le onde di Virginia Woolf tre volte pensando che perfino la natura
umana stesse subendo una grande trasformazione e che soltanto l’arte, un nuovo
modo di concepire la letteratura, sarebbe stata in grado di cogliere il senso
del cambiamento. Penetrare all’interno di una mente e mostrarne il lavoro e il
lavorio interiore e inserire tutto questo in una struttura geometrica: ecco un
autentico trionfo artistico.”
Io non so definire se questo romanzo sia un autentico trionfo artistico,
di certo posso dire che più di ogni altro libro, mi ha sfidato in
quanto lettrice, ma anche appassionata della scrittura e se la sfida è
durata fino al congedo da Briony, al suo settantasettesimo compleanno,
forse è perché qualcosa di quel lavorio interiore, mi appartiene.
Ian McEwan- Espiazione. Einaudi, 2002.
Ian McEwan. Espiazione.
Einaudi, 2002
15 gennaio 2014
"Anchiano. Viaggio in Media Valle" di Gianni Quilici
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foto gianni quilici |
Ore 12.10. Vedo lo
spazio sterrato, al lato della strada, e parcheggio. Ai margini buttati là, due
cavalli di frisa, e dietro di essi rifiuti vari e sacchetti di plastica. Mi
sporgo e giù davanti ai miei occhi la bellezza del fiume, il Serchio. Ogni volta mi colpisce, prima
di tutto, il biancore fitto dei sassi del greto, poi l’acqua che scorre
tranquilla nel letto, ed ora uno dei rivoli secondari del fiume, che scende tra
sassi ricongiungendosi al letto, quasi crepitando.
Ore 12.30. Anchiano. “Viale Norvegia” leggo. “Che
strano la Norvegia che c’entra con
Anchiano?” penso. Dopo capisco. Ogni anno viene celebrata, il 1° maggio,
la sagra del baccalà norvegese, che nasce dal gemellaggio con la città
norvegese di Aaleseend, famosa appunto per il suo baccalà.
Parcheggio. Di
fronte alla porta di ingresso c’è un cartello storico-informativo. Esso ci dice
che Anchiano era già presente in epoca tardo-romana e che è stato il primo
castello della lucchesia. Si trovava, infatti, in una posizione favorevole al
controllo delle strade che andavano, l’una a Lucca; l’altra nelle Pizzorne.
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foto gianni quilici |
Arrivano dei
bambini. Il più grande fa la quarta
elementare. “Siete tutti nati in Italia?”
chiedo poi. “Sì” rispondono in coro. “E siete fratelli e sorelle?” “No, siamo
singoli” risponde uno di loro, sorridendo, e nell’arruffio delle voci che
s’intrecciano “Io ho due fratelli…” “Io un fratello e due sorelle”, schiamazzando, se ne vanno. Li fotografo
da lontano, nella via che si allarga in due strade, ognuno separato dall’altro,
che continuano a parlare balzellando con l’irrequietezza irrefrenabile dell’infanzia.
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foto gianni quilici |
Il paese ha la
chiesa di San Pietro in alto, in bella posizione, raccolta tra rocce e
vegetazione, ma la facciata neoclassica, nonostante la forma equilibrata, è
deludente nel grigiore del suo intonaco.
Bello, invece, il
campanile merlato, con bifore, di pietre bianche e grigie con base massiccia, che
termina con una cornice aggettante di solide pietre.
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foto gianni quilici |
Sulla facciata
della chiesa leggo, invece, una epigrafe del 1920 in memoria di cinque
soldati morti nella prima guerra mondiale.
“Aleggi la prece
Nella dolce aura
natia
E dica loro in
cielo
La tenerezza
memore dei cuori”
Che fa pensare
quanto allora si cercasse di legittimare, sublimandolo con un linguaggio
aulico, dietro cui serpeggiava la retorica cattolica e nazionalista del
sacrificio, la morte di giovani uccisi in una guerra sciagurata e criminale. Come
contraltare, su un masso di marmo, è
stata, invece scritta, nel 1998,
a tutti i caduti, un’epigrafe molto bella nella sua
verità e asciuttezza “ Nulla è perduto con la pace, tutto è perduto con la
guerra”
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foto gianni quilici |
Dall’alto il paese
ha il fascino malinconico della mattinata grigia nelle case silenziose, che
appaiono quasi indifese, con alcuni comignoli da cui spuntano sbuffi di fumo,
contro lo sfondo scuro del monte.
Scendo lungo la
via della Chiesa con i sassi inseriti a costellazione, imbocco la via delle
mura e arrivo ad una porta-galleria, che
dà sulla campagna. Il paese ha una sua unitarietà medievale, pur tra strade e vicoli,
case gialle e case bianche, case in vendita e case ristrutturate, case abbandonate e case con belle
cornici. E’ l’ora di pranzo. Il paese sembra deserto. Vengo via pensando a quanta vita c’è dentro,
che non si conosce!
Viaggio in Media Valle: Anchiano. Lunedì 13
gennaio 2014.
"Pene d'amor perdute" di William Shakespeare
di Eligio Motolese
"Ogni lacrima è
un carro di vittoria, per te, in trionfo sopra il mio dolore, ma se il tuo
sguardo scopre una mia lacrima, vedrai nella mia angoscia la tua gloria."
[Atto quarto, terza scena, il re legge ai suoi compagni la dichiarazione d'
amore scritta per la regina; pag.48]
Riconosciuta come la più elegante commedia di Shakespeare,
l' Einaudi propone l' intera opera teatrale del poeta-drammaturgo inglese.
Scritta tra il 1594 e il 1599, frutto di una raffinata scelta linguistica, non
a caso destinata alla rappresentazione teatrale presso le corti.
Si narra di un arduo patto nel regno di Navarra, che tra
varie situazioni e vicende verrà compromesso dalla più pericolosa e attraente
trappola di felicità o dannazione, l' amore, tema principale dell' opera in cui
si evidenzia il confronto tra i due sessi.
Tra incomprensioni, discussioni e dichiarazioni, la parola
assume quindi un ruolo preponderante nell'opera e tutto è legato al diverso uso
di essa. Non vi è un protagonista principale, ma si incontreranno personaggi di
strano e vasto carattere: dal sarcastico Biron all'astruso pedante Oloferne,
dai clowneschi rozzi villici agli eleganti personaggi della corte. Trama
lineare, con un intreccio di fantasia che rende l' opera molto appetibile. Il
tipico, ma anche insolito lieto fine, lascerà nel lettore un pizzico di sorriso
soddisfatto, sia pure inaspettato.
William Shakespeare, "Pene d' amor
perdute", Einaudi, 1997
"Il mio nome è rosso" di Orhan Pamuk
di Cosima Di
Tommaso
Letto nel 2012
questo romanzo è certamente un’opera di grande qualità culturale e storica, soprattutto della storia dell’arte
della miniatura, nel mondo islamico antico.
Tutto il libro è
un affresco di miniature antiche, che restituiscono le modalità umane e di
pensiero, che si snodano, capitolo per capitolo, attraverso ogni personaggio.
Pamuk offre ogni
volta, quasi inconsapevolmente, la descrizione minuziosa di una lama del suo
vissuto, proprio come fosse una miniatura dell’Impero Ottomano, offrendo così
al lettore un intreccio originale ma, a mio avviso, molto lento, essendo
appunto, in alcuni tratti, smisuratamente descrittivo. Muliebre la terminologia
tecnica, propria di quest’arte, riportata con precisione.
Piacevole e
raffinata la lingua.
Ecco, questi sono
alcuni dei passi salienti dell’unico capitolo, che mi ha veramente
appassionato.
‘’…Sono così
contento di essere rosso!
Mi brucia dentro,
sono forte, so di attirare l’attenzione, so anche che non riuscite a
resistermi.
Non mi nascondo.
Per me la finezza non si ottiene con la debolezza o la fragilità, ma con la
decisione e la forza di volontà. Mi faccio notare. Non ho paura degli altri
colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com’è bello riempire con il mio fuoco vittorioso una superficie che m’attende!
Dove mi espando io
gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i
cuori battono forte. Guardatemi, com’è bello vivere! Contemplatemi, com’è bello
vedere. Io vedo ovunque. La vita comincia con me, tutto torna a me,
credetemi.’’
[…]
Un maestro
miniaturista esperto di colori pestò e polverizzò con le proprie mani nel
mortaio le migliori cocciniglie provenienti dai luoghi più aldi dell’India e ne
preparò cinque dramme, poi preparò una dramma di saponaria e mezza dramma di
lotor. Mise tre okka di acqua nel recipiente, ci buttò la saponaria e la fece
bollire.
Lo fece bollire il
tempo necessario a prendersi un caffè. Mentre lui beveva il caffè io mi
spazientivo come un bambino in procinto di nascere. Una volta che il caffè gli
ebbe aperto la mente e gli occhi, gettò nel recipiente la polvere rossa e la
mescolò ben bene… Adesso sarei diventato un vero rosso, la mia densità è
talmente importante, l’acqua non deve bollire a lungo inutilmente, ma deve
comunque bollire.
[...]
‘’…Prese un po’
d’acqua con l’estremità del bastoncino e la mise sull’unghia del pollice (le
altre dita on andavano assolutamente bene) Oh che bello essere rosso! Gli
tinsi l’unghia di rosso senza colare, la mia densità andava bene ma c’era del
sedimento.
Tolse il
recipiente dal fuoco, mi filtrò attraverso un tessuto pulitissimo e mi colò,
divenni ancor più puro. Poi mi mise sul fuoco, mi fece bollire ancora due volte
sino a schiumare, aggiunse un po’ di allume battuto e mi lasciò raffreddare.
Passarono un paio
di giorni, rimasi lì in fondo al recipiente senza mescolarmi a nulla.
Desideravo essere steso sulle pagine, ovunque e su ogni cosa, mi offendeva
stare così.
In questo periodo
di silenzio meditai su cosa significasse essere rosso.
Orhan Pamuk,
‘’Il mio nome è rosso’’, Einaudi
13 gennaio 2014
“La muta" di Chahdortt Djavann
di Gianni Quilici
Compro istintivamente
su una bancarella a Genova per solo 3 euro questo romanzo. Primo, perché mi
interessa leggere l’altra letteratura, quella non occidentale e in particolare
quella iraniana-persiana, che ci ha dato grandi e buoni registi e continua a darceli, come forse, oggi, nessuna nazione; secondo, perché
è un romanzo di un’ottantina di pagine, che si possono leggere agevolmente,
come non farò, tornando in treno a Lucca.
Lo leggo poi e
consiglio vivamente di leggerlo. Per i contenuti, per lo stile.
La storia è
atroce. Una donna è stata impiccata, “la muta”. In un primo momento doveva
essere lapidata. L’altra, la nipote quindicenne, è in attesa di subire la
stessa pena, riesce ad ottenere un quaderno ed una penna e racconta la storia
della zia tanto bella quanto muta, uccisa sulla pubblica piazza per aver
commesso adulterio...
Detto questo non
voglio raccontare la storia, né si possono rendere, del resto, la forza e la
bellezza espressiva del breve romanzo.
Primo, perché la
“muta” e la ragazzina esprimono due personaggi emblematici della condizione
femminile in uno stato di fondamentalismo islamico: un’oppressione estrema ,
che attraverso la negazione delle più elementari libertà giunge alla pena di
morte, in alcuni casi, atroce, come la lapidazione.
Secondo, perché
ambedue incarnano una rivolta altrettanto estrema, che dal mutismo arriva,
attraverso alcuni passaggi, al delitto. Una rivolta, che rimane individuale e
impotente, che non ha modo di contaminare altre donne e che viene punita sempre
barbaramente.
Molto bella la
pagina, in cui la ragazzina racconta la sua reazione quando apprende la notizia
che la zia avrebbe dovuto essere punita con la lapidazione:
“…. Supplicavo Dio che ci fosse un
terremoto, una guerra, che cadessero delle bombe, che annientassero tutta la
città, tutto il paese, affinché la lapidazione della muta non fosse eseguita.
Non sono capace di esprimere l’odio che sentivo verso mia madre, per la sua
stupidità e la sua cattiveria; mio padre come faceva a tenerlo sotto controllo?
Al posto suo, io l’avrei ammazzata di botte.”
E poi c’è lo
stile, come scrivevo. Chahdortt Djavanni, nata in Iran nel 1967 e costretta a
lasciare Tehran in fuga dal regime islamico e rifugiatasi in Francia, dove
tuttora vive, finge ( e lo fa con maestria) che il romanzo le sia pervenuto
dall’Iran da una giornalista in un pacco contenente il quaderno scritto in
persiano con una calligrafia piccola e fitta, senza margini, senza
cancellature, né rinvii, con insieme il dattiloscritto tradotto in francese. Ed
in effetti questa ambiguità (chi lo ha scritto?) si moltiplica, perché in
appendice La muta contiene pure una
nota della giornalista e una del traduttore.
Ed è un’ambiguità che
cresce, perché la scrittrice riesce a diventare verosimilmente l’io narrante
della ragazzina, condensando in una sola unità psicologia e stile.
Perché lei, la
ragazza 15enne, vede e sente, capisce e giudica: adora la zia con la quale, in
qualche misura, si identifica; ha pietà per il padre buono, ma impotente; odia
la madre conformista e cattiva; e prova repulsione nei confronti del mullah,
che tuttavia è costretta a sposare, con una “confessione”, che ne accentua la
complessità. Scrive, infatti, alla fine:
“ Poiché sto per
essere impiccata, dirò la verità. Senza confessarmelo, mi era piaciuta la
sensazione del sesso del mullah nella mia vagina. Una sera su due, quando nella
penombra mi penetrava, tremavo di un piacere vergognoso e colpevole. Nascondevo
sempre la testa sotto la coperta per non sentire il suo alito, mordevo il
cuscino perché lui non sentisse me. Appena lasciava la stanza per andare a
dormire nel suo studio, io mi rimproveravo. Mi disprezzavo. Lui aveva impiccato
la muta. Mi sentivo sporca e colpevole, puttana. Il mio odio si ritorceva
contro di me”.
Già in questa
micro sequenza si coglie lo stile della scrittrice. E’ uno stile diretto,
serrato, tagliente, che si incarna in una vicenda di amore e di odio, di vita e
di morte, cioè dentro sentimenti forti e estremi. Chahdortt Djavann trasformandosi nella ragazzina ne mutua psicologia e linguaggio e,
riuscendo in questo, la sua scrittura diventa stile.
Chahdortt Djavann. La muta. (La
muette). Traduzione di Anna Maria Lorusso. Postfazione di Tahar Ben Jelloun.
Bompiani.
12 gennaio 2014
“Viaggio in Garfagnana: verso la fortezza di Verrucole”
di Gianni Quilici
Ore 12.15 “La luce
ammorbidisce alberi sottili e fitti/ da dare un senso colmo di raccoglimento/ e
di malinconica bellezza/ su cui ti puoi
posare…/” così scrivo in versi, vedendo le collina nella strada che verso
Castelnuovo Garfagnana va.
Ore 13.05. Sambuca. La
chiesa appare arroccata, quasi spettacolare, su una roccia più in basso della
strada, in una fenditura tra due pareti di roccia vulcanica. Si parcheggia a
fianco di un lavatoio rifatto e si sale la viuzza di pietre e sassi fino
all’antica chiesa con torre campanaria con davanti il piccolo piazzale illuminato.
Dall’alto della roccia il silenzio del paese, lo scroscio di una cascatella nel
fiume, una verde distesa e le rocce intorno come guglie che si protendono
verso.
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Foto Gianni Quilici |
Ore 14. Mangiare
dove? Non si trova altro che un hotel-ristorante a Piazza al Serchio: ravioli
in salsa rosa, patate arrosto, caffè e via!
Piazza al Serchio
appare deludente, almeno a vista d’occhio. Un paese sulla strada, che sembra
essersi sparso in modo ibrido. Si salvano il campanile con la fuga della strada
di pietra che ad esso sale, l’ombra netta di un platano su un bel palazzo e, ai
margine del paese, alcuni bei torrioni di roccia vulcanica ( “doglioni” così si
chiamano), che danno per un attimo il senso di un canyon, che svanisce
allargando lo sguardo.
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foto Gianni Quilici |
Ore 15.40. La fortezza di Verrucole dei secoli XV/XVI appare come visione imponente e incredibile, venendo da una stradina, che sembra non porti a nulla. Una fortezza sul colle sopra il paese con mura ben conservate e torrioni. Si sale. E’ chiusa. Lo sarà fino alla primavera. Che fare? Salire fino a dove sarà possibile andare lungo un sentiero, in mezzo a un praticello verdeggiante, e la luce che balugina, ancora in alto sulle montagne. Laddove la fortezza raggiunge l’altezza più alta, 665 metri, mi siedo. Vista da vicino nella sua solidità e lunghezza , con l’autenticità che la pietra e il sasso donano, con la bellezza dei merli, in quello spazio abbastanza isolato, pare quasi un miracolo. Se poi faccio un giro su me stesso essa appare circondata come da un anfiteatro di montagne….gli Appennini e le Alpi Apuane… che senza interruzioni le girano intorno. In basso la vallata da cui giungono rumori di auto, voci e grida soffocate e un latrato continuo d’un cane.
Gianni Quilici. Viaggio in Garfagnana: verso la fortezza di Verrucole.
Dicembre 2013.
09 gennaio 2014
"Paris en liberté" di Robert Doisneau
Un
viaggio affascinante
nella Parigi
di Robert Doisneau
di Gianni Quilici
Genova. Palazzo Ducale. Lo scorso anno
Steve McCurry; quest’anno Robert Doisneau. Due grandi fotografi: uno del
colore, l’altro del bianco-nero; uno del vasto pianeta; l’altro di Parigi.
La mostra di Robert Doisneau, più di 200
scatti, chiuderà il 26 gennaio e, a chi può, consiglio caldamente di non
perderla.
Perché è un
viaggio affascinante nella Parigi muta e viva negli anni che vanno dal 1934 al
1991.
E perché Robert Doisneau è un poeta. Tutti gli
artisti, in quanto tali, si potrebbe obiettare, sono poeti. Ci sono, però, modi
diversi di esserlo. Doisneau lo è in modo diretto, perché coglie immediatamente
il nucleo dell’emozione. Il suo rapporto è doppiamente poetico: perché ama i
soggetti che ritrae e riesce a trasmetterli nella loro verità, profondità,
silenzio. E questo perché stabilisce una relazione con i soggetti empatica e
fraterna, anche quando lo scatto è divertito, divertente. E’, si potrebbe dire
con Brecht, “la semplicità che è difficile a farsi”.
Vediamolo da
vicino.
In primo luogo
Robert Doisneau ha scelto come campo di esplorazione fotografica la sua città,
Parigi. E lo ha fatto attraverso un orizzonte ampio, che la mostra stessa e un
video, visitabile alla fine del percorso Robert
Doisneau, tout simplecement di Patrick
Jordu, abbondantemente documentano: dalla guerra alle barricate, dal lavoro
di fabbrica alle centinaia di lavoretti di strada, dai mercati ai bistrot, dai
balli agli spogliarelli, dagli atelier di moda alle gallerie d’arte, dai lungo
Senna ai giardini, dalle strade del centro agli spazi aperti e desolati delle
periferie, dai cani ai gatti, dai baci ai giochi; tra gente di tutti i tipi e
di tutte le età: dal clochard all’alta borghesia, dai bambini alle puttane.
Con una
predilezione a fotografare ciò che lui più amava:
“Quello che io cercavo di mostrare era un
mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove
avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una
prova che questo mondo può esistere”.
Questo mondo è la
Parigi popolare, umiliata, ingenua, che si arrangia, che lavora, che passeggia,
che si diverte... E’ anche la Parigi degli artisti. Pittori, scrittori,
registi, attrici, colti nel loro quotidiano vivere in alcuni straordinari
ritratti. Prevert e Picasso, Bunuel e Orson Welles, Queneau e Simone De
Beauvoir, Giacometti e Sabine Azéma, Simenon e Juliette Greco, per citarne
alcuni.
Ma Doisneau non ha
vissuto con gli occhi chiusi. La sua foto è anche critica, accusatoria. Lo è in
modo netto, esplicito. Lo è contro la distruzione del mercato di Les Halles, di
cui amava l’incredibile varietà umana. C’è una foto emblematica: l’enorme buco,
su cui sorgerà il Centre Pompidou e su cui volteggiano sullo sfondo, in
contrasto con il biancore di palazzi
settecenteschi, uccelli, forse piccioni,
in controluce, neri. Lo è soprattutto nelle ultime foto: la distruzione di
palazzi e di vegetazione per far posto a
grattacieli anonimi in uno scenario di terra bruciata.
Prendiamo uno
degli scatti più formidabili, anche perché più difficili a farsi. Non
so se questo sia l'unico o uno di una serie di scatti che Robert Doisneau ha
realizzato in questa situazione.
Ciò che mi pare certo è che ha toccato l'attimo, quel velocissimo momento in
cui tutto miracolosamente è al suo posto.
Come si potrebbe intitolare una foto del genere?
Gli sguardi, ho pensato.
Lo sguardo dell'uomo sul quadro, del cane sul
fotografo, del pittore sulla modella-quadro, del fotografo sull'insieme.
Sguardi che formano una geometria, linee che non
s'incontrano, ma interessati tutti a ciò che osservano. Sguardi insomma, più
esattamente qualità degli sguardi.
Il cane stupito-meditativo, il pittore imperscrutabile
e, elemento centrale, l'uomo, con il suo
cappotto e cappello da borghese anni '50, le mani dietro le spalle
(interessante sociologicamente), che si sporge curioso e furtivo per cogliere
la pittura osé.
C'è poi un quarto personaggio, di cui si intravedono
appena le scarpe femminili e la caviglia. Forse la modella del pittore. Forse
no.
C'è in questo grande fotografo-poeta francese della quotidianità un'ironia
affettuosa, che ci fa sorridere, ma sopratutto ci tocca, perché ci rende in quello scatto un mondo, lo
immortala con una perfezione formale, in cui nulla è inutile e tutto
significativo, anche quegli alberi nudi, quei lampioni, quel cielo grigio.
Mostra di Robert Doisneau. Paris en
liberté. 29 settembre 2013
- 26 gennaio 2014. Genova, Palazzo
Ducale nel sottoporticato
da Loschermo.it del 3 gennaio 2014
"La vita agra" di Luciano Bianciardi
di Cosima di Tommaso
Che strano effetto fa finire di leggere questo romanzo in buona parte autobiografico, tutto intessuto – secondo me – di iperrealismo letterario. Romanzo degli anni ’60, che appare all’indomani del ‘’boom economico’’, irto di conseguenze umane e sociologiche.
Tutto, qui è reale, assolutamente reale, come il suo scopo iniziale di intellettuale emigrato a Milano, che è quello, di far saltare un grattacielo, per vendicare i minatori morti in un incidente causato dalla scarsa sicurezza sul lavoro.
Troppo, troppo reale e, rimanda istintivamente al nostro presente. Questa è l’ analisi minuziosa di Bianciardi, di tessitura quasi allucinatoria, iperreale appunto. Degna delle arti visive Pop Art: Warhol, Lichtenstein, Oldenburg.
[…]
‘’…i nostri dirigenti sono i colpevoli. Finché essi rimangono impuniti, tutti ne siamo complici. Parole sante.’’ Pag. 136,
Luciano Binciardi, ‘’La vita agra’’, Feltrinelli, 2013
"Verso nord" di Willy Vlautin
Dolente,
ma non disperato, questo Verso nord, secondo romanzo di Willy
Vlautin, leader e cantante dei “Richmond Fontaine”, uno dei più famosi e
riconosciuti gruppi musicali di alternative
country.
Il libro, apparso negli Usa nel 2008 e tradotto da Quarup, piccola
ma perspicace casa editrice italiana, è, infatti, simile a una ballata triste,
carica dei malumori circolanti negli States
affacciati sul precario balcone di questo nostro difficile inizio di
millennio.
Ne è protagonista Allison, poco più di vent’anni, “un aspetto
ordinario, magra con i capelli neri e gli occhi blu”. Una ragazza come tante
che, però, vive e soffre una quasi patologica anomia e un’altrettanto grave
caduta di autostima: alle sue spalle e nel suo avvenire una famiglia, a dir
poco, “volatile”, studi interrotti troppo presto, un presente fatto di
lavoretti insulsi, presi e lasciati. Inetta a tutto, Allison si ubriaca spesso,
ma non volentieri anzi quasi coattivamente, di vodka e 7up e subisce la
relazione con Jimmy, un giovanotto dalle idee poche e confuse, strafatto di
amfetamine e imbrancato con gentaglia xenofoba e razzista. Un rapporto ambiguo,
intriso di violenza implicita ed esplicita e Allison ne reca i segni sul corpo:
non solo lividi, ma anche un paio di tatuaggi “appena sopra il culo, dove
portava tatuata una svastica nera delle dimensioni della moneta di un dollaro”.
Subito sopra, sulla parte sinistra, portava un tatuaggio con il simbolo della
Chiesa Mondiale del Creatore. Un cerchio con iscritta una grande M”, un segno
di riconoscimento dei suprematisti bianchi. Una vita a cielo chiuso, a cui
Allison non trova di meglio che reagire con pratiche autolesionistiche, oppure
affidando i suoi pensieri, veri e profondi, a brevi scritti di sincerità totale
con se stessa, subito precipitosamente eliminati. O anche colloquiando con…
Paul Newman, non solo il suo attore preferito di cui conosce a memoria tutti i
film, ma surrogato fantastico della figura paterna che la consiglia senza
giudicarla. Disarmata, fragile, perdente, abituata a subire senza protestare,
ad accettare supinamente le scelte degli altri, perennemente impaurita, la
ragazza non sembra avere grandi possibilità di risalire la china in cui la sua
storia e le sue debolezze la stanno spingendo. Ma Allison è un personaggio
resiliente: non si spezza e resiste, si adatta e reagisce, cerca, con
sofferenza, nuove strategie di sopravvivenza e nuovi equilibri. Cambia città e fa nuove amicizie;
intraprende un nuovo lavoro e chiude con l’alcool e con l’autolesionismo;
decide di farsi cancellare quei tatuaggi aberranti e inizia una storia d’amore
finalmente nutrita di amicizia e rispetto. Sono in pochi ad assecondare questo
percorso di trasformazione: un maturo camionista che ha conosciuto il dolore,
una coppia di anziani che intravvede nella ragazza i lineamenti della propria
figlia, una donna obesa che l’ aiuta, ed è aiutata, a vincere la solitudine e
un giovane invalido reso tale dalla violenza insensata che attraversa i nostri
giorni.
Un finale interlocutorio, ma aperto a una speranza non facile né
consolatoria, rende il romanzo di Vlautin unico nel panorama letterario Usa
d’inizio secolo: un libro, per dirla con le parole dell’autorevole “San
Francisco Chronicle”, che “ci viene incontro con la forza della realtà e
questo, ai nostri tempi, è una sorta di trionfo”.
Willy Vlautin, Verso nord, quarup. collana Badlands, traduzione di Alessandro
Agus, pp. 190, Euro, 14,90.
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