In una bella intervista, pubblicata col titolo "La passione sospesa" (edizioni Archinto), Marguerite Duras racconta le radici della sua scrittura. Racconta che cominciò a cercare le parole in Cocincina, con trenta gradi all'ombra, all'età di undici anni. Scriveva poesie: "si comincia sempre da lì - sul mondo, la vita di cui non sapevo niente". Passò alla prosa narrativa con "Gli impudenti", nel 1943, e i trenta gradi all'ombra divennero il correlativo oggettivo di una materia incandescente d'origine, che lei ebbe il coraggio di bucare e conoscere: scrisse un libro suo conflitto con il fratello, un romanzo di erosione e di scavo su quello che Freud chiama "il primo tempo dell'amore", che non è l'unione, ma il conflitto, l'abrasione, lo sbrego, l'odio. Lo spedì a Queneau che la scoprì e la pubblicò. Su questo scenario si stagliano tutte le figure di donne dei suoi romanzi, soprattutto due, che, almeno per me, rimangono indimenticabili: la protagonista di "Moderato cantabile" e l'attrice di "Hiroshima mon amour".
È proprio la lacerazione delle maschere che mi intriga nella narrativa di Marguerite Duras: quel suo andare sottopelle all'educazione, alla morale, all'indifferenza, all'estraneità che alza diaframmi tra le persone; quel suo descrivere il fuggire di fronte alla nudità in cui ci mette l'altro; e mi affascina quel suo scrivere malgrado l'isteria del vuoto innominabile che ci rende irrimediabilmente difficili e insoddisfatti. La domanda latente dei suoi romanzi è questa: sotto la pelle tesa e lucida dell'amore, cosa c'è? C'è il desiderio di trovare un centro, di dare forma ad un "progetto" che dia un senso al nostro esistere; ma questa certezza dei confini si sposta continuamente; fugge, si nasconde, si rarefà, erode se stessa, per questo nessun amore può darsi senza venature. Le coppie di Duras mettono in scena questo assioma: nessun amore è possibile fino in fondo perché non è possibile "dire" col puro sguardo. Il silenzio è un'eloquenza imperfetta. Occorrono parole. Qui si genera la sfasatura. Sarebbe bello poter girare lo specchio delle iridi innamorate e mostrare all'altro come noi lo vediamo: "Guarda, ti vedo così. Proprio così." d'improvviso, capirebbe ogni cosa e ogni parola sarebbe noiosa e superflua. Ma, quaggiù, siamo condannati a fabbricare parole per il nostro desiderio e questa condizione conosce, purtroppo, una fatale imperfezione. In Duras, tra le parole, tra le frasi, si allunga sempre una vasta zona di bruciante e appallotolato silenzio: un non detto che non è solo scrittura scarnificata, sottrazione, tensione; è l'arte che smantella i rapporti umani al di là delle illusioni e li rivela nella loro disarmante fragilità.
"Volevo dirti che non bastava scrivere bene o male, fare degli scritti belli o anche molto belli, non bastava più perché fosse un libro da leggere con un’avidità personale e non comune. Che non bastava neppure scrivere così, lasciando credere che non ci fosse nessun pensiero dietro, che fosse guidato solo dalla mano, così com’era troppo scrivere avendo in testa solo il pensiero che controlla l’attività della follia. [....] Ti ho detto anche che bisognava scrivere senza correggere, non necessariamente alla svelta, in fretta e furia, no, ma secondo se stessi e secondo il momento che si attraversa - se stessi, in quel momento - buttar fuori la scrittura, maltrattarla quasi, sì, maltrattarla, non togliere niente della sua massa inutile, niente, lasciarla intera insieme al resto, non moderare niente, né precipitazione né lentezza, lasciare tutto allo stato dell’apparizione."
"All’inizio quel che arriva è l’immagine di un luogo o di un movimento, talvolta di un
movimento in un luogo. Una specie di battito visivo interrotto da un’immagine muta. E poi ne vengono fuori delle parole, lanciate come proiettili nudi, senza la sintassi che le collega abitualmente in una catena. Sotto i colpi di questo rigetto violento della sintassi appaiono degli intervalli, degli spazi bianchi (des blancs, in francese). È un universo solo abbozzato. Nella nuova catena, gli spazi bianchi hanno il loro posto. Se c’è un senso, emergerà più tardi. Sul momento, c’è anestesia, soppressione. […] È un lavoro che porta su una regione non ancora scavata, forse. È il bianco della catena, questo femminile. […] Probabilmente è ciò che accade
quando non ci si difende e che, donna, ci si lascia immergere in questo abisso impersonale che si è, questo blocco di sordità."
"Quando scrivo, quel che cerco di raggiungere è uno stato di ascolto estremamente intenso, ma come dall'esterno. Di solito le persone che scrivono dicono: quando uno scrive, si concentra, io direi: no, io quando scrivo ho la sensazione di essere nella totale deconcentrazione, non mi possiedo più, sono diventata une passoire [un colino, un colabrodo]. In questo modo, non posso spiegare le cose che scrivo, perché ci sono cose che non riconosco, in ciò che scrivo. Dunque mi arrivano proprio da altrove, quando scrivo non sono sola a scrivere."
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