e scoppiò la rivolta
di Piero SammartinoIl 1966 è stato un anno cruciale per la nascita di quelli che saranno poi i movimenti studenteschi. Credo, però, che difficilmente un giovane lettore che non abbia vissuto quegli anni potrebbe capire cosa accadde all'Università di Roma in quella primavera e ancor meno il significato del manifesto a lutto con il volto di Paolo Rossi, lo studente di Architettura morto in uno scontro coi neofascisti.
Bisognerebbe ripercorrere fatti e ragioni dei primi anni sessanta per spiegare come sia potuta nascere e che cosa sia stata l'ondata del movimento giovanile nel 1968, e quali ne siano stati i diversi sbocchi. A Roma una tappa obbligata di questo percorso è l'occupazione dell'Università nel '66 subito dopo la morte di Paolo Rossi. Le vicende romane si intrecciano con i primi segni di crisi dei cosiddetti parlamentini, gli organismi rappresentativi degli studenti (a Roma Orur e su scala nazionale Unuri) ed è indubbio che abbiano predisposto gli studenti a una nuova fase politica.
Non sono mai state del tutto chiarite le circostanze della morte di Paolo Rossi caduto o piuttosto sospinto da un pianerottolo privo di parapetto in cima alla scalinata della facoltà di Lettere. La morte di Paolo fu il culmine delle consuete aggressioni che gruppi di universitari neofascisti muovevano ai primi esponenti dei movimenti giovanili democratici che si affacciavano all'Università di Roma, considerata la roccaforte della destra. Le indagini non accertarono i diretti responsabili ma subito emerse agli occhi di tutti la responsabilità oggettiva di chi tollerava o incoraggiava il clima di violenza e di sopraffazione che regnava all'Università di Roma. E' vero che i tafferugli di Lettere avvennero subito dopo le elezioni che vedevano la sconfitta delle liste neofasciste. E' vero anche, purtroppo, che non mancarono brogli in quelle elezioni e giovani appartenenti a formazioni democratiche e di sinistra furono coinvolti in processi che stabilirono le loro responsabilità. Ma forse non emerse tutta la verità. A sinistra restò sempre il dubbio che negli ambienti neofascisti qualcuno sapesse di più sulla morte di Paolo.
Il primo ricordo che mi è affiorato alla mente è stato il vigore rassicurante di due edili romani che mi sollevarono sulle spalle come un fuscello per attaccare il manifesto listato a lutto sul marmo liscio e nero del basamento della Minerva. Era il 28 aprile del 1966. fino a quel momento avevo avuto un po' di paura ad aggirarmi per l'Università con due rotoli sotto il braccio, secchio e pennello dall'altra parte, affiggendo a decine quei manifesti accanto agli ingressi delle facoltà o sulle lastre di travertino bianco per coprire qualche scritta ignobile, o sul muro di cinta in laterizi gialli dell'Università, che allora era solo l'Università e che solo anni più tardi seppi che si chiamava “La Sapienza”. Avevo paura ma sapevo che volevo farlo perché ero un giovane socialista ed un mio compagno era stato ucciso dalla “teppaglia fascista”.
Quando però quei due omaccioni della Fillea romana (edili Cgil) mi presero per le gambe e mi issarono d'un soffio sulle loro spalle capii che stavo al sicuro e insieme alla insolita sensazione di leggerezza del mio corpo che volava, in quel giorno segnato da tristezza e rabbia, provai per un attimo la gioia di militare in un partito operaio come ancora poteva definirsi il Psi.
Fu così che potei attaccare abbastanza in alto quattro di quei manifesti sui quattro lati del basamento della Minerva mentre i primi gruppi di studenti e cittadini si assiepavano sulla piazza. Erano le prime ore del pomeriggio e già la piazza si andava riempiendo con largo anticipo sull'orario fissato per la commemorazione funebre.
Walter Binni, professore di Letteratura italiana nella stessa facoltà di Lettere, tenne un discorso memorabile a una folla immensa che gremiva la piazza come non ho mai più visto. L'orazione funebre di Binni meriterebbe di entrare in un'antologia come esempio di prosa civile. Chissà se ne esiste ancora un testo da qualche parte? Pezzo asciutto e appassionato con pochi cedimenti alla retorica, duro atto d'accusa contro la gestione del Rettore Giuseppe Ugo Papi, connivente coi neofascisti, terminava con la richiesta perentoria, direi quasi con l'intimazione, delle sue dimissioni. Io almeno ricordo così. Mi colpì, fra l'altro, l'invito agli studenti a non rivolgersi mai più con l'appellativo di “Magnifico” al Rettore, infrangendo una tradizione considerata un obbligo, neanche nelle rituali domande in carta da bollo, sfidandone l'invalidazione. Quando inizia la manifestazione si sa già dell'occupazione di Architettura e, prima che finisca, giunge voce che è stato occupato l'Istituto di Matematica e che ad uno ad uno sarebbero stati occupati tutti gli altri edifici dell'Università con il proposito di costringere il Rettore alle dimissioni. La sera prima, l'occupazione tentata dagli studenti di Lettere subito dopo la notizia della morte di Paolo era finita con un brutale sgombero della polizia sollecitato o comunque consentito dal Rettore. Era chiaro che si andava a una prova di forza dall'esito ancora molto incerto.
Le occupazioni a catena erano state decise e condotte da gruppi spontanei che, a quanto mi risulta, non obbedivano a una strategia dei partiti o dei movimenti giovanili.Quella stessa sera o forse la successiva, partecipai a una riunione del Centro Universitario Socialista, al quale era stato iscritto anche Paolo Rossi. L'incontro si teneva proprio con lo scopo di cercare di ricondurre alla guida delle forze politiche organizzate un movimento spontaneo. Analoghi incontri e riunioni si ebbero certo anche in altre organizzazioni politiche la cui presenza col passare dei giorni si faceva sempre più forte e influente mentre cresceva l'adesione del popolo dell'università e della città. Si racconta di un cattedratico che non si rassegnava a consegnare il suo Istituto a quei giovani fannulloni che gli avevano comunicato l'inizio dell'occupazione e che domandava con stizza se avessero fatto l'esame di Analisi Matematica. Con trenta e lode, rispondevano quei fannulloni. E qualche giornalista cominciò a chiamarla l'occupazione dei trenta e lode.
Dopo sei giorni di mobilitazione fu organizzata l'Assemblea generale nell'Aula prima di Legge presieduta da Nuccio Fava, dell'Intesa (l'organizzazione degli universitari cattolici) Presidente della giunta Unuri, con la partecipazione di esponenti della politica, personaggi accademici e rappresentanti degli studenti. Per l'Unuri, oltre a Fava c'era Marcello Inghilesi, socialista dell'UGI (L'Unione Goliardica Italiana, che comprendeva comunisti e socialisti), ma erano presenti anche altri volti noti della politica nazionale. Ricordo l'affanno di Pietro Ingrao che cercava di farsi largo nello sbarramento del servizio d'ordine finché qualcuno non lo riconobbe.
Al momento dell'assemblea però il Rettore si era già dimesso e bisognava decidere se interrompere o no l'occupazione. Dopo i primi giorni di lotta che avevano visto crescere il consenso di tutti i settori dell'Università, della popolazione cittadina e di gran parte della stampa, al sesto giorno di paralisi, cominciava ad affiorare qualche insofferenza interna allo stesso fronte degli occupanti, ma anche nella città, chi preoccupato per gli esami chi per il lavoro chi per la pace sociale. Difficilmente si sarebbe mantenuto lo stesso consenso dell'opinione pubblica se l'Università fosse rimasta occupata anche dopo le dimissioni del Rettore. Dopo il primo sgombero di Lettere la polizia si tenne però opportunamente fuori dall'Università in quell'epica settimana.
L'assemblea si svolse ordinatamente ma fu carica di tensioni e di emozione. Da una parte le forze politiche organizzate che avevano ripreso le redini del movimento e la maggior parte degli studenti e dei docenti che avevano partecipato all'occupazione o si erano aggiunti nel corso dei giorni. Dall'altro lato i primi gruppi estremisti fra i quali i cosiddetti marxisti-leninisti a cui si saldava però qualche settore più radicale dell'Università che raccoglieva anche molti studenti e docenti indipendenti. Furono presentate due mozioni.
La prima, a favore della smobilitazione e della ripresa delle normali attività, fu sostenuta dal giovane prof. Tullio D Mauro che, visibilmente emozionato, tentò di trasmettere il suo sentimento all'assemblea intercalando al suo discorso un po' enfatico una frase a effetto: “si è dimesso!”.
La seconda mozione, caldeggiata dai marxisti-leninisti ma sostenuta in assemblea dal ricercatore Giorgio Morpurgo, propugnava di mantenere l'occupazione fino a costringere il governo ad approvare la riforma dell'Università giudicata ormai a portata di mano. Ci furono diversi interventi. Ricordo la particolare efficacia delle parole di Inghilesi che richiamò i più ad un pacato ragionamento politco sulle motivazioni e sull'esito dell'occupazione parlando a favore della mozione De Mauro.
La votazione risultò a favore di questa, ma molti uscirono scontenti e convinti di aver perduto un'occasione irripetibile.
Il giorno dopo, lunghissime code all'economato, testimoniavano l'ansia di molti studenti per una sessione d'esame che pensavano di poter perdere. Ma nelle domande d'esame, il cui termine del 30 Aprile fu spostato di qualche giorno, molti da allora in poi si rivolsero al Rettore senza altri appellativi.
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