di
Gianni Quilici
La
poeticità della foto, di uno dei più grandi fotografi del 900, Robert Doisneau, il più grande forse
nel rappresentare Parigi, è nella sottile bellezza di Juliette Gréco.
Questa
bellezza risalta nell’insieme e nei dettagli ed è fin troppo banale
sottolinearlo: nei capelli lunghi e lisci che le incorniciano il volto e le
ricoprono la fronte, nella bocca carnosa e ben disegnata, nel naso piccolo e
proporzionato, paradossalmente negli occhi (soc)chiusi, che (forse) guardano il
cane, accovacciato sulle zampe, bocca aperta e occhi chiusi, come se stesse
sbadigliando.
La
poeticità della foto non è, tuttavia, tanto nella bellezza armonica di Juliette
Gréco, ma in ciò che questa emana: delicatezza, finezza, purezza; in contrasto
con l’immagine del cane quotidiana, naturalistica. Per riprendere il famoso
“punctum” di Roland Barthes, mentre
il cane è niente altro in ciò che si vede, la zona psichica di Juliette Gréco
più intima è trattenuta, ci arriva come emanazione, non esibita, lieve,
invisibile appunto.
A
completare: sullo sfondo evanescente nel biancore quasi onirico svetta il
campanile di Saint-Germain-des Prés a segnalare il luogo, il contesto.
Juliette
Gréco
«Mi
chiamo Juliette Gréco, e non ho mai avuto uno pseudonimo. Sono nata il 7
febbraio 1927. Mia madre mi ha detto che quel giorno pioveva, e la pioggia
favorisce la crescita di tutte le piante, anche quelle più velenose». Juliette
Gréco, attrice e cantante francese, nasce a Montpellier, si veste sempre (e da
sempre) di nero («perché è l’unico colore che mi difende e protegge, con un
altro qualcuno potrebbe vedermi»), la sua pelle è ancora chiarissima (Pablo
Picasso diceva di lei che «si abbronzava alla luna»), ed è stata amica e
ispiratrice di Jacques Prévert, Jean-Paul Sartre, Raymond Queneau, François
Mauriac, Boris Vian, Charles Aznavour.
Il
padre di Juliette Gréco era corso e la madre, bordolese, fu un membro attivo
della Resistenza in Francia. Venne arrestata nel 1943 e con la primogenita
Charlotte venne deportata in un campo di prigionia. Juliette, che aveva solo 16
anni, fu invece liberata e venne accolta dalla sua insegnante di francese a
Parigi, Hélène Duc, che la incoraggiò a partecipare al concorso della scuola
d’arte drammatica francese più importante del tempo: il Conservatorio. Gréco
non venne ammessa, ma Madame Dussane, nei suoi commenti, annotò «Da sorvegliare
per l’avvenire».
Juliette
Gréco iniziò a frequentare i caffè della Rive Gauche, ad esplorare la vita
intellettuale del Quartiere Latino e di Saint Germain des Prés. Nel 1947, in Rue Dauphine,
aprì il “Tabou”, poi leggendario luogo di incontro degli Esistenzialisti. Juliette ricorda:
«Si
scendeva una scaletta di pietra, bisognava fare attenzione a non urtare la
testa e si arrivava in un luogo rettangolare che sembrava ideale per far
risplendere lo spirito della libertà riconquistata dopo i funesti anni nazisti
dell’occupazione. L’oscurità del Tabou era squarciata dai lampi del nostro
entusiasmo e i Maestri offrivano il sapere senza costringerci all’inchino».
Nel
locale si ritrovavano anche i più grandi artisti e musicisti del tempo, come
Jean Cocteau e Miles Davis con il quale Juliette ebbe una storia d’amore (si è
sposata tre volte: con gli attori Philippe Lemaire e Michel Piccoli e con il
pianista Gérard Jouannest che, ancora oggi, la accompagna sul palcoscenico). Il
successo arrivò nel 1949, quando Prévert, Queneau e Aznavour scrissero delle
canzoni per lei e Jean-Paul Sartre le donò, invece, il testo “La Rue des Blancs-Manteaux”. [da
“Il Post”]
Carmela Linda Longo Vedo..... poetico e delicato riserbo, i suoi occhi chinati esprimono forza di parole non dette...tutto intorno sembra annebbiarsi sotto la luce di un giorno uguale agli altri.....lei, che vestita di nero vorrebbe essere un puntino nero in una linea senza fine, è il fulcro dell'insieme.....ed è radiosa!
Isabella Eugenia Monti ...quando lo sguardo si abbassa non possiamo che notare un elemento di perso ricordo..di malinconica e pudica preghiera che la avvicina alla vita e all'amore nel gesto di delicato contatto con il suo piccolo animale..tutto il contorno del corpo e del suo cappotto mantengono lo stesso profilo della cattedrale alle sue spalle che ne sembra delineare la forma quasi fosse la sua ombra perfetta in una delicata e persa nebbiosa nostalgia...è lei la cattedrale stessa di luce potente e dolorosa, pura e complessa come una costruzione gotica, misteriosa come i segreti che la custodisce...perfetta nella sua bellezza di inavvicinabile compostezza...e noi non possiamo che ammirare l'intero paesaggio e sognare di esserci...
Irene Balducci mi appare un sistema di dominazioni: il campanile su di lei, lei sul cane. Tenui, impercettibili, sfumate. L'uscita sembra un urlo o forse è uno sbadiglio...sarà per questo che sento tutto così dolce, tenero, impalpabile...
1 commento:
Sono stata a un suo concerto nel 2006, forte come una tigre, fragile come una vecchia di carta velina, la sua voce scorreva lungo la schiena e mi rendeva felice e triste insieme.
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