30 giugno 2009

"Jerome Klapka Jerome" di Luciano Luciani


A 150 ANNI DALLA MORTE

Una breve premessa
Quasi quasi me lo perdevo e mi sarebbe dispiaciuto non poco… Sto parlando del centocinquantesimo anniversario della nascita di Jerome Klapka Jerome (Wallsal, 2 maggio 1859) e dell’occasione, magari un po’ rituale, di scrivere qualcosa su di lui e i suoi libri: perché di qualcosa, e magari anche di più, mi sento debitore all’uno e agli altri. Un piccolo omaggio a un grande scrittore, checché ne abbia scritto e ne dica la critica come sempre arcigna e superciliosa. Un modesto gesto di gratitudine a un sensibile e acuto narratore per avermi fatto compagnia durante gli anni di un’adolescenza scontrosa, avvicinandomi alla lettura con le sue storie godibili, e fatto apprezzare l’umorismo nella scrittura.
A lui, a Jerome K. Jerome (ma anche a Jack London, a Salgari e a tanta fantascienza americana anni Cinquanta) più che ai classici latini e greci di un liceo frequentato di malavoglia, devo la formazione del mio immaginario e tanti di quei ‘pensieri di fuga’ che oggi, a più di sessant’anni, mi avvicinano alla quotidiana razione di sonno. Le sue pagine e il garbato umorismo che le intride hanno fatto da salutare antidoto a una naturale propensione allo sghignazzo sgangherato e all’Italum acetum che mi deriva da origini terragne e ciociare.
Per non parlare delle remote frequentazioni con le platee e i camerini dell’avanspettacolo, per le cui raccogliticce compagnie di attori mio padre, in cambio di pochi e rari quattrini, elaborava testi pieni di lazzi scurrili e sguaiati cachinni. Erano gli anni Cinquanta, Bellezza, duri e difficili e bisognava pur campare. Insomma i suoi Tre uomini in barca e I pensieri oziosi di un ozioso mi hanno insegnato ad apprezzare la complicata arte del sorriso della pagina…

Povero non è divertente
E pensare che Jerome K. Jerome motivi per coltivare l’ilarità e la grazia ne aveva avuti davvero pochi… Furono segnati, infatti, dalla povertà e dai lutti familiari gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Il padre, Jerome Clapp Jerome, in origine predicatore non conformista, dapprima investì malamente il modesto patrimonio familiare in una serie di speculazioni sbagliate nelle miniere di carbone del Wallsall, poi, dopo essersi improvvisato commerciante di ferramenta all’ingrosso, pensò bene di morire quando il futuro umorista aveva solo 12 anni. La scomparsa della madre avvenuta tre anni più tardi costrinse allora il giovanissimo Jerome ad abbandonare gli studi e a trovarsi un lavoro come impiegato delle ferrovie presso la compagnia London and Northern-Western Railway. Retribuzione: pochi spiccioli.

“Ho vissuto con quindici scellini la settimana. Una settimana ho vissuto con dieci scellini effettivi e cinque di debito… Se volete scoprire il valore del denaro vivete con quindici scellini la settimana e vedrete quanto potete metter da parte per l’abbigliamento e le spese voluttuarie. Scoprirete che vale la pena di aspettare per un soldino di resto, che val la pena di camminare un paio di chilometri per risparmiare un penny, che un bicchiere di birra è un lusso che ci si può concedere solo a rari intervalli, e che un colletto lo si può portare quattro giorni”,
Duri anche gli anni successivi con il Nostro sempre impegnato nella difficile lotta per la sopravvivenza. Esperienze spigolose che, se lasciarono tracce profonde nella coscienza del giovane Jerome, erano però destinate a essere rielaborate con la garbata ironia che sarebbe diventata la personalissima cifra di questo scrittore. “Sono state dette e scritte molte cose spassose, sulla bolletta, ma in realtà non è poi così divertente. Non è divertente dover tirare sul centesimo. Non è divertente venir giudicati gretti e taccagni. Non è divertente essere mal vestiti, e aver vergogna del proprio indirizzo.
Non c’è nulla di divertente nella povertà… per il povero.”

Gli anni del successo
Proprio perché era tale e non intendeva assolutamente diventare miserabile Jerome fu, allora, attore di fila in una sgangherata compagnia teatrale itinerante, poi insegnante d’educazione fisica, quindi impiegato in uno studio d’avvocato. Attività svolte per pura necessità, mentre si avvicinava la rivelazione della propria vocazione letteraria. Furono infatti gli articoli umoristici scritti per alcune popolarissime testate a garantirgli l’attenzione e l’affetto dei lettori che non gli sarebbero mai più mancati. Al punto che nel 1885 la rivista “The Play” pensò bene di pubblicargli in volume una serie di pezzi con cui Jerome aveva raccontato in maniera tanto circostanziata quanto spassosa le sue modeste imprese di guitto sulle scene dei teatrini di provincia: nasce così In scena e fuori: breve carriera di un aspirante attore, che si raccomanda tra l’altro come utile e puntuale descrizione dei palcoscenici inglesi negli anni tardo vittoriani.
Arrivano i primi riconoscimenti: nel 1886 JKJ riesce a mettere in scena Barbara, il primo di una serie di lavori teatrali che avrebbero scandito l’intera esistenza dello scrittore: niente di memorabile, diciamo la verità, nulla che meriti particolarmente di arrivare sino ai nostri giorni. La fama di umorista arguto e brillante Jerome se la conquista, invece, lo stesso anno con l’ancor letto e giustamente celebre I pensieri oziosi di un ozioso, un libro che, come afferma con simpatica autoironia il suo Autore, “non eleverebbe una mucca”: quattordici pezzi di svariata umanità, esemplari per misurata ironia e sorridente equilibrio.

Ma è il 1889 l’anno della definitiva affermazione del talento jeromiano, quello del suo capolavoro, il celeberrimo Tre uomini in barca Per non parlar del cane, le comiche peripezie di un terzetto di amici scapoli che decide di trascorrere in barca una breve vacanza a contatto con la natura lungo le sponde del Tamigi, da Londra a Oxford. Apprezzato dai lettori di tutto il mondo, tradotto in varie lingue, venduto a milioni di copie il libro ricevette, però, un’accoglienza fredda e scostante dalla critica. Ma, proprio con queste pagine, si confermava, e in maniera definitiva, un fortunato rapporto con la scrittura che sarebbe durato per quarant’anni e che avrebbe visto Jerome passare dal giornalismo brillante al teatro, dalla riflessione filosofica al romanzo autobiografico.

La guerra spegne il sorriso
Si fanno sempre più amare e sconsolate le pagine del grande umorista britannico a mano a mano che sull’orizzonte europeo si addensano, via via sempre più fitte, le nubi minacciose della guerra. Di convinzioni pacifiste e sentimenti progressisti, Jerome visse il primo conflitto mondiale con particolare sofferenza: uno stato d’animo testimoniato sia dalla sua decisione di arruolarsi, ormai cinquantasettenne, come autista della Croce rossa sul fronte occidentale, sia nel suo impegno, l’anno successivo, di farsi promotore insieme a Philip Snowden, Dean Inge e John Drinkwater per un negoziato tra i Paesi in conflitto...
L’angoscia dello scrittore inglese di fronte agli orrori della guerra è visibile in Le vie del Calvario, il romanzo pubblicato nel 1919, appena terminata la Grande Guerra. Durissimo il giudizio di Jerome sugli egoismi sociali che avevano alimentato i nazionalismi europei:
“ – Un nobile ideale “la Patrie” la gran Madre! Sì, se fosse lei che si levasse nella sua maestà e ci chiamasse a raccolta.- …Ma in realtà, di che si tratta? Germania, Francia, Britannia?...una decina di vecchi imbecilli che si danno grande importanza, con le loro grasse consorti a spingerli; figli di altri sciocchi venuti prima di loro; e ciarloni che hanno strisciato per giungere al potere con discorsi tutto fumo e belle promesse. “La mia patria!”…Guardateli! Non vedete le loro pance tronfie e le facce flosce? Una decina di politicanti ambiziosi, di vecchi finanzieri gottosi, di vecchi ricconi calvi coi baffi incerati e i denti finti… Ecco quel che fanno passare col nome di patria! Una banda di vecchi imbecilli senz’anima. E abbiano ragione o abbiano torto, il nostro dovere è di combattere ai loro ordini, di spargere il sangue per loro, di morire per loro, perché loro possano vivere più lustri e più prosperosi”.

Altrettanto nette le sue considerazioni sul militarismo - “Quando insegnate a un uomo a cacciar la baionetta nelle carni palpitanti d’una creatura umana e a rigirarvela dentro spingendola sempre più in là, mentre il sangue zampilla dallo squarcio come una fontana, che cosa ne fate, se non una bestia? Un uomo dev’esser diventato una bestia prima di far questo.” – e sulla regressione a cui erano stati condannati milioni di uomini su tutti i fronti europei: “…le trincee, quasi tombe scavate pei vivi, dove gli uomini stanchi e svogliati, col fango sino ai ginocchi, sospiravano una ferita che li liberasse dalla tetra monotonia di quell’esistenza; le buche d’acqua fangosa su cui galleggiavano cose morte e verso le quali essi la notte strisciavano per detergersi un po’ dal sudiciume incrostato sul loro corpo e sulle loro vesti; le buche sbarazzate dal fango dov’essi si mettevano a mangiare a dormire e vivevano un anno dopo l’altro, finché cervello e cuore e anima parevano spenti ed essi dovevano fare uno sforzo per rammentarsi d’essere stati uomini”. Insomma, la guerra è fango, solo fango, materiale e metaforico: “Fango! Pareva questa l’unica parola atta a descrivere la guerra moderna. Fango da per tutto. Fango sino alla caviglia lungo le strade; fango sino al ginocchio per chi movesse un passo fuor dalle vie segnate; fango che si doveva passare a guado per giungere alle tende e alle baracche evitando i viottoli limacciosi per non scivolare e cadere; uomini sporchi di fango, cavalli sporchi di fango; asinelli che parevano scolpiti nel fango affaticantisi su e giù per la tortuosa strada ferrata che sempre tornava a sparire e a perdersi sotto il fango; cannoni e vagoni trascinati con sordo rumore nel fango; ambulanze e carri che nelle tenebre perdevano la strada, si capovolgevano e restavano abbandonati nel fango; motociclisti che rapidi solcavano il fango rigettandolo impetuosamente in liquidi torrenti ai due lati; automobili dello Stato maggiore in corsa precipitosa, strombettanti tra il fango seguite da zampilli di fango; file serrate d’uomini fangosi marcianti a passo cadenzato nel fango attraverso uno sgocciolio di fango saliente su dal terreno; lunghe file d’autobus piene di fangosa umanità stivata spalla a spalla, sempre rombanti tra il fango interminato… E uomini seduti nel fango sul margine della via, masticando insipide vivande; uomini accasciati lungo i fossi, a esaminarsi le piaghe, a lavarsi i piedi sanguinanti nelle acque fangose, a rimettersi le bende fangose intorno alle ferite.
Un mondo senza colore: non altro colore sotto il cielo che il colore del fango. Persino i bottoni delle divise tinti per farli apparire color di fango.”

Un testo, questo Le vie del Calvario, dai marcati contenuti politico – religiosi e tutto percorso da un lancinante senso di sconfitta storica e di scacco esistenziale.
La Gran Bretagna, l’Europa, il mondo non sono più quelli di appena pochi anni prima, gli anni della Belle Epoque, quando tre giovani spensierati, George, Harris e l’Autore potevano spensieratamente percorrere in barca il Tamigi o solo alcuni anni più tardi attraversare ‘a zonzo’, in sella a una bicicletta, tutta la Germania. La risistemazione dell’Europa operata dai trattati di pace ha lasciato un’aperta ostilità tra gli Stati del continente e pesanti contenziosi ne avvelenano i rapporti politici ed economici. Tensioni sociali e dittature, inflazione alle stelle e diffuse voglie di rivincita agitano i popoli dal mar del Nord agli Urali, dal Mediterraneo al Danubio. Lo scrittore brillante di un tempo non esiste più: si è trasformato in un uomo amareggiato e ancora sconvolto da quanto è stato costretto a conoscere sui campi di battaglia. Capace solo di rifugiarsi in una sorta di pessimismo cristiano a mala pena riscattato dalla problematica fiducia in un possibile perdono divino.
Jerome K. Jerome muore alla fine della primavera del 1927

25 giugno 2009

"Una forma di magia" di Pablo Picasso


di Gianni Quilici


Premessa. I quaderni di via del vento sono libriccini di 30-40 pagine impressi su carta vergatina avorio, stampati in esemplari numerati; sono testi inediti e vari del novecento; tra gli ultimi pubblicati troviamo Kafka, Giacometti, Babel, Klimt, La Rochelle ecc, ecc. Libri-interstizi per un viaggio, per una serata da assapporare e da mescolare con testi più compiuti.

Questo libriccino di Pablo Picasso è una scelta di riflessioni sull'arte, tratte da opere sparse di altri autori, inedite in Italia, accompagnate da disegni e curate da Antonio Castronuovo con note, biografia e con un intervento “L'arte non è mai casta”.

Mi colpisce in Picasso il movimento. “Le mie tele... sono le pagine del mio diario. E' il moto della pittura che m'interessa, lo sforzo drammmatico da una visione all'altra, anche se lo sforzo non è spinto fino in fondo. Ho sempre meno tempo, e sempre più da dire. Sono giunto al punto in cui il movimento del pensiero m'interessa più del pensiero medesimo”...

Non cerca, infatti, la fine di un'opera, perchè la trova, senza trovarla, nel processo stesso in cui la cerca. “Finire un'opera? Completare un dipinto? Che bestialità! Terminare vuol dire farla finita, ucciderla, rubarle l'anima, darle il colpo di grazia (...). ...la verità non può esistere. Se io cerco la verità nel dipinto, posso fare cento tele con quella verità. E allora qual è la vera?” E quindi “appena ti fermi, ecco che ricominci”

In questo senso si capisce perché Picasso abbia sperimentato ogni stile, attraversato tutte le avanguardie, rielaborandole in sintesi, a volte, geniali. “Il mio atelier” scrive “è una sorta di laboratorio. Come in tutte le esperienze, ce ne sono che riescono e altre che falliscono (...) Ci sono giorni in cui mi dico che, in tutte queste ricerche, ho trascinato il mio talento nel fango”

Tutto ciò lo porta a dire: “Forse, a ben guardare, sono un pittore senza stile. Lo stile è spesso qualcosa che costringe il pittore in una stessa visione, una stessa tecnica, una stessa formula per anni e anni, anche per tutta la vita... Ma io agito troppo, spiazzo troppo. Tu mi vedi qua, e nodimeno mi sono già spostato, sono già altrove. Non sono mai a posto, ed è perché non ho uno stile”.

L'interesse di queste riflessioni nasce dall'acutezza con cui il pittore si avvicina alla sua arte, cogliendone gli aspetti di fondo sia nel suo modo di “essere” nel processo creativo che nella valutazione che dà del suo prodotto.

Il fascino nasce da questa mescolanza (dentro e fuori il libro) tra corpo-riflessioni-opera, perchè non ci si può dimenticare neppure un attimo che ciò di cui sta ragionando Picasso è il rapporto tra idee e loro realizzazione, che dietro le parole c'è un'opera in divenire continuo.

Pablo Picasso. Una forma di magia -Pensieri sull'arte- a cura di Antonio Castronuovo. Via del vento. Pag. 32. 4 euro.

"Lo spirito dei disperati" di Alfredo Di Martino


di Luciano Luciani

Figli delle lacerazioni planetarie esplose con particolare acutezza da vent’anni a questa parte, i ‘disperati’ di Alfredo Di Martino arrivano dal sud del mondo e dall’est dell’Europa e alle loro spalle hanno guerre e dittature, pulizie etniche e torture, violenze e abusi d’ogni genere. Ferite ancora sanguinanti che non sono destinate a rimarginarsi una volta raggiunto, con fatica e dolore, il nostro Paese, l’agognata porta sull’Occidente benestante e satollo: qui, anzi, le sofferenze che li aspettano si faranno più complesse e sottili e si chiameranno precarietà, mancanza di documenti, abitazioni di fortuna, lavori ‘in nero’, malpagati, usuranti, pericolosi…

Come centinaia di migliaia, milioni di altri paria, anche loro senza diritti e ‘senza voce’, Daud, Ronny e Walid, i protagonisti delle pagine che seguono creati dalla fervida fantasia dell’Autore, proprio là dove speravano in un’esistenza degna di essere vissuta, saranno costretti a compiere una vera e propria discesa agli Inferi: conosceranno così la faccia nascosta della nostra società, il suo lato oscuro. Quello che ha ormai assimilato la cultura dell’individualismo sfrenato, dell’egoismo che non guarda in faccia a niente e nessuno, della competitività senza scrupoli e che non prova imbarazzo nella contiguità con i peggiori poteri criminali; il cuore nero di un Paese avvelenato dai malumori di un incipiente razzismo; un’Italia opaca, per la quale termini come condivisione, accoglienza, solidarietà sono solo belle parole buone solo per riempirsi la bocca in occasione di qualche talk show televisivo di successo.
L’Italia peggiore, insomma!

Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere, fisicamente e moralmente, senza guastarsi dentro, senza perdere l’anima, alle durissime prove cui li sottoporrà la nostra organizzazione sociale con le sue regole spesso inutilmente severe, se non addirittura ingiuste e crudeli? Sapranno Daud, Ronny e Walid fare tesoro di queste difficili esperienze e imparare cose utili per sé e per quanti vivono la loro stessa condizione di sfruttamento e marginalità? Al termine di tante dolorose e complicate peripezie, si faranno consapevoli di una qualche morale di liberazione e salvezza collettive?

L’Autore non si spinge così lontano: sceglie, invece, di raccontarci, talora con vivace crudezza, con una lingua forte, densa e in presa diretta, cosa accade tutti i giorni ai più deboli, ai meno fortunati, ai più indifesi quando il mercato sostituisce la convivenza civile e la politica. Certo, i nostri tre modesti eroi crescono, si fanno progressivamente consapevoli delle proprie forze e sviluppano un formidabile spirito di gruppo, nutrito di un’amicizia a tutta prova quale da tempo non leggevamo sulle pagine dei libri degli scrittori contemporanei. E forniti di un fortissimo senso della legalità e della giustizia, maturato sulle strade e nei cantieri di mezza Italia, restituiscono colpo su colpo a offese e ingiustizie piccole e grandi, cavalieri di ideali desueti che i loro coetanei più fortunati sembrano trascurare o addirittura disprezzare. In questa loro generosa impresa di difendere i deboli, raddrizzare i torti o, almeno, provare a lenire i dolori di un mondo e di assetti sociali ingiusti, li aiutano alcune belle e ben raccontate figure femminili, tutte Sud, cibo e calore materno; un paio di ‘preti – coraggio’ e qualche giovane che partecipe dei valori e delle pratiche del mondo del volontariato…
Un pezzo, un bel pezzo dell’Italia migliore.

Alfredo Di Martino lo conosce bene, non lo dimentica e a esso rende omaggio con la prodigalità d’invenzione narrativa e di scrittura che sono la sua cifra letteraria e umana più evidente e che meglio lo contraddistinguono.

Alfredo Di Martino, Lo spirito dei disperati, Daris libri e stampe, Lucca 2009, pp. 200, Euro 12,00. Tavola di copertina di Antonio Possenti.


Dal romanzo, pubblicato con una piccola casa editrice lucchese, a RAI DUE.
E’ quanto sta accadendo ad Alfredo Di Martino e al suo libro, Lo spirito dei disperati , Daris – Libri e stampe, maggio 2009, che, in una forma cruda e quasi in presa diretta, racconta la storia dolente di tre giovani extracomunitari che arrivati fortunosamente nel nostro Paese ne conosceranno presto le durezze e le opacità, umane, morali, sociali.
Un testo che, già presentato il 22 maggio scorso a Lucca in Palazzo Tucci alla presenza del vicesindaco Pierami, del presidente dell’Amministrazione provinciale Baccelli e del Maestro Antonio Possenti, è piaciuto alla redazione della rubrica televisiva di RAI DUE “Protestantesimo”. Così Di Martino è stato invitato a Roma per registrare un’intervista sui contenuti del suo romanzo, sui suoi protagonisti, la sua forte carica di denuncia e il suo sconsolato finale.
L’intervento televisivo di Alfredo Di Martino, che da anni vive e lavora a Lucca, andrà in onda il 16 giugno prossimo alle 1 e 20 di notte; poi, il 17 giugno alla stessa ora e lunedì 23 giugno alle ore 9,00 del mattino sempre su RAI DUE.
Dopo la prima messa in onda il pezzo sarà visibile sul sito www. rai.tv scrivendo PROTESTANTESIMO nel box “ricerca”.

22 giugno 2009

"C'era una volta un leone, una tigre, un pollaio, e c'ero io dipinto da me medesimo” di Elisabetta Salvatori


di Gianni Quilici
Immaginate un palcoscenico che per più di un'ora ha soltanto un corpo ed una voce, Elisabetta Salvatori, con appena qualche intervento musicale: un violinista, Matteo Ceramelli, e un contrabbassista, Mirco Capecchi, che appaiono e scompaiono a sottolineare una condizione, una situazione

Noia? No, invece molta attenzione, emozione. Per una serie di ragioni che si mescolano e si saldano naturalmente.Vediamone alcune come appunti veloci, da approfondire con ulteriori letture.

La scrittura della stessa Elisabetta Salvatori e di Marzo Dall'Acqua. E' una scrittura storico-antropologico-visiva che tratteggia un personaggio unico, il pittore (naif) Antonio Ligabue, attraverso le sequenze decisive della sua tormentatissima vita: l'infanzia di “abbandonato” in Svizzera con una madre adottiva possessiva, la scuola che lo considera una sorta di ritardato e la difficoltà ad instaurare rapporti con gli altri, fino alla sua espulsione; l' Italia dove viene dirottato e il disadattamento, l'isolamento totale e selvaggio e il manicomio, la scoperta della pittura e il successo ecc, ecc.
Tutto quanto è raccontato attraverso fatti che interpretano senza chiudere, lasciando aperto il mistero Ligabue. La narrazione è affidata a parole-immagini di forte impatto visivo con un montaggio fatto di salti, di rotture, di cambiamenti di scena.

Elisabetta Salvatori recita con quella passione-distacco che trasmette pathos senza voler ricattare emotivamente lo spettatore, muovendosi nello spazio sobriamente illuminato, disponendosi comodamente a raccontare ora sugli scalini, ora sul limitare del palcoscenico, quasi per essere più vicina, più intima a chi la sta ascoltando; oppure “facendosi” Ligabue ed interpretandone la condizione: come (indimenticabile!) negli spasmi sessuali del desiderio di donna.

Ne vengono fuori due aspetti intimamente collegati, come in altri spettacoli della stessa (“Vi abbraccio tutti” “Scalpiccii sotto i platani” tra gli altri):
primo, la storia complessa ed aperta di Ligabue (e il suo tempo), un personaggio che avrebbe fatto la gioia di Jean Paul Sartre, per l'originalità del suo comportamento e della sua arte; secondo: la poesia che da questo personaggio fluisce, dalla impossibilità alla rivolta, dalla paura alla gioia pura del processo creativo.

C'era una volta un leone, una tigre, un pollaio, e c'ero io dipinto da me medesimo” - La vita di Antonio Ligabue-
di Elisabetta Salvatori e Marzio Dall'Acqua
con Elisabetta Salvatori
regia Flavio Bucci
musiche Matteo Ceramelli (violino), Mirco Capecchi (contrabbasso)
proiezioni grafiche Gabriele Dini
luci Riccardo Gargiuolo
Anteprima nazionale: Teatro di Buti (Pisa). 18 giugno 2009

17 giugno 2009

"Il bello della bicicletta" di Marc Augé


di Gianni Quilici

E' un testo magnifico, scritto da un uomo rimasto giovane.

E' scritto con il corpo, la memoria, il pensiero, l'immaginazione.
Diventa poesia, progetto esistenziale, perfino politico e, in un capitolo delizioso, utopia, che tende ironicamente e affettuosamente al planetario.

Per chi come il sottoscritto ama smisuratamente la bici questo minuto libro di Marc Augé diventa, quindi, una festa, non solo perché (della bici) comprende gli aspetti più intimi, ma anche perché rimane a volte sorpreso dall'esuberanza immaginativa da Augé dispensata.
Marc Augé non si ferma, infatti, di fronte a niente; fa della bici mito, epica, storia, esistenza, paesaggio, tempo e la proietta nelle città come ipotesi politica, possibile utopia di un mondo con fini radicalmente diversi da quelli che oggi esse incarnano.

Il migliore consiglio, in questi casi, è banale: leggerlo... Con una condizione: amare o almeno avere amato la bicicletta.

La recensione a questo punto diventa trascrizione di alcuni passaggi per dare il senso del libro, estrapolandoli dal contesto.

“...quando veniva luglio, verso le quattro o le cinque del pomeriggio mi trovavo sempre davanti al bistrot della piazza della chiesa; l'oste attaccava sulla porta una lavagna dove segnava i primi tre classificati della tappa del giorno e i primi tre della classifica generale. E' così che la mia ammirazione per Coppi e il mio entusiasmo all'annuncio della vittoria, nel 1949 e nel 1952, mi liberarono per sempre da ogni sciovinismo. Per nessun campione francese, nemmeno per Bobet, avrei mai provato l'infinita ammirazione che mi spirava Coppi”

“La prima pedalata equivale a una nuova autonomia conquistata, a una fuga romantica (...) In pochi secondi l'orizzonte chiuso si libera, il paesaggio si muove. Sono altrove. Sono un altro. Sono un altro, eppure sono me stesso come mai prima; sono ciò che scopro”.

“Anche per chi, con qualche timidezza iniziale, sale di nuovo in bici dopo qualche anno di astinenza (...) riscopre velocemente un insieme di impressioni (l'esaltazione della discesa a ruota libera, le carezze del vento sul viso, il lento muoversi del paesaggio), che per rinascere sembravano aspettare solo quell'occasione.

“E l'utopia? La trasformazione della città è un sogno possibile? E la bicicletta può avere un ruolo in questa rivoluzione? Perché la città avrebbe bisogno di una rivoluzione, nel senso letterale del termine, per trasformarsi”.

“L'idea di una città in cui prevale la bicicletta non è pura fantasia”

“La bicicletta è una partitura, una partitura libera, anche selvaggia”

“Ciclisti di tutto il mondo unitevi!”

“Il bello della bicicletta” termina con queste due frasi: “In bicicletta per cambiare la vita! Il ciclismo come forma di umanesimo”

Marc Augé. Il bello della bicicletta. Eloge de la bycyclette. Traduzione di Valentina Parlato. Bollati Boringhieri editore. Pag. 65. 8,00 euro.

15 giugno 2009

"Il pescatore di sassi" di Beppe Calabretta

foto di GIANNI QUILICI
di Gianni Quilici

"Il pescatore di sassi" è il quarto libro di narrativa di Beppe Calabretta dopo "Il cielo senza sole" "Epolenep" e "Il mondo limitato".
E' un "giallo": un delitto insolito, un investigatore, un caso senza apparenti motivazioni, difficile, per questo, da sbrogliare.

Bruno Carcade è un investigatore, che vive a Lucca, e che decide di prendersi le ferie, perché la sua donna, archeologa, ha avuto, finalmente, un incarico per una campagna di scavi in Medio Oriente. Troviamo Bruno all'inizio del romanzo, su una spiaggia, nel sud Italia, al suo paese di origine, solo tra il ricordo della donna appena lasciata e la bellezza del mare. Leggiamo: "Era quasi la fine di giugno. A quell'ora del mattino in cui il sole comparendo all'orizzonte sembra un lecca lecca che si alza lento per essere risucchiato...."
Calabretta ti prende subito con la sua prosa visiva, capace di farti vedere la concretezza della materia: cielo, luce, acqua, cibo..., di chi non solo la conosce, ma te ne fa assaporare la sensualità.

Qui Bruno riceve una telefonata, ci sarà un incontro e un incarico: la richiesta di occuparsi di un delitto. Un uomo è stato, infatti, ammazzato, un professore in pensione, tranquillo, vedovo e senza figli, che aveva una strana mania: era un pescatore di sassi. Bene, questo professore è stato trovato con la testa spaccata da un sasso proprio di fronte a casa sua, in riva al mare. Da qui parte l'inchiesta: appaiono uomini e donne del paese e perfino di Lucca; appaiono, come spesso succede, le ombre lunghe del passato.

Beppe Calabretta non è soltanto un narratore efficace nel costruire personaggi e luoghi e nel far vivere tensione e mistero come è nella tradizione del "noir", ma sa inserire, dentro lo scheletro della storia, dei contenuti tematici, che vanno oltre la narrazione pura e semplice, disegnano anche un orizzonte sociale e politico, costringono ad interrogarci sul mondo in cui si vive. Ecco che dietro l'apparente serenità dei personaggi, di maggior rilievo, spuntano segreti e sofferenze. Di più: dietro il silenzio di molti si (intra)vede una “organizzazione” ferocemente ricattatrice, senza alcuno scrupolo, che suggerisce nomi come mafia, 'ndrangheta, camorra, ma che rimane nell'ombra, senza volto.

Viene da pensare, leggendo Calabretta, un po' a Leonardo Sciascia.
Nei contenuti: il Sud, un groviglio da sbrogliare, le organizzazioni criminali con la loro oscura e agghiacciante potenza e violenza, la paura e il silenzio della società circostante. Nello stile: l'asciuttezza della scrittura, la qualità dei dialoghi, i colpi di scena, la capacità di rilanciare una tensione narrativa.

C'è semmai un limite nella chiusura forse troppo frettolosa rispetto al carico di tensione venutasi a creare, che genera, da una parte, un po' di delusione nel lettore comune che ama perdersi più volte nel mistero; dall'altra e soprattutto lascia forse troppo nell'ombra la criminalità organizzata senza alcun vero, significativo addentellato con la società civile.

Beppe Calabretta. "Il pescatore di sassi" .Bonaccorso editore. Pag. 156. € 13,00.

11 giugno 2009

"La boa rossa" di Carmela Maggiorini


di Luciano Luciani

Appena ieri il Cardillo canterino, volumetto prezioso nella sua fattura tutta manuale, ma in grado di accogliere solo una piccola parte della larga produzione in versi di Carmela Maggiorini. Tirato in poche decine di copie era programmaticamente destinato a una diffusione amicale o poco più.

Oggi, invece, questa nuova, più ampia silloge, La boa rossa con cui l’Autrice affronta un duplice compito: da una parte rinsaldare i propri legami con il pubblico dei Lettori che ha dimostrato di apprezzare – e non poco – i suoi versi: dall’altra offrire ai suoi affezionati estimatori un saggio ancora più significativo della propria sensibilità e della propria ricerca tra emozioni e parole.

Più larga, quindi, in questa occasione, la scelta delle composizioni che il severo filtro artistico dell’Autrice ha ritenuto degne di pubblicazione. E tutte confermano, ancora una volta, l’impressione di trovarsi di fronte a un’esperienza poetica personalissima, tanto schietta nell’ispirazione quanto capace di rielaborazioni condotte all’insegna di un’estrema finezza stilistica. Un giudizio che vale per tutti i motivi ispiratori della poesia di Carmela: dai temi dell’interiorità autobiografica, modulati sempre con acuta immediatezza psicologica, a quelli descrittivi trattati con grazia lieve non esente da punte di ironia e di scherzo. La rappresentazione di fuggevoli, delicati stati d’animo colti in tutta la loro transitoria provvisorietà non rinuncia poi mai al dato realistico concreto, quasi materico che, qua e là, fa la sua apparizione spesso nelle forme della lingua nutrice, un corposo dialetto del Sud delle origini familiari, che impedisce alla nostra Autrice eventuali pericolosi sbandamenti nella direzione di una sempre in agguato e fin troppo diffusa ’Arcadia versicolare’.

Saldamente abbracciata alla boa rossa della sua poesia, Carmela evita tali rischi e, per ripetere quanto già scritto in occasione della sua prima raccolta, questa poetessa “sa abbinare parole semplici e antiche per costruire immagini nuove, fresche, originali; un sostantivo e un aggettivo di uso consueto fusi nel crogiuolo della sua acuta sensibilità si trasformano in una nuova lega poetica, luminosa e resistente; mai banali e risapute, poi, le sue immersioni nella profondità del sentimento; sempre intense e personali le sue vibrazioni.”

L’immagine emblematica scelta dall’Autrice per significare fin dal titolo il senso della sua avventura in versi è quella di una colorata boa marina: un oggetto capace di galleggiare, leggera, sui marosi più inquieti; in caso di necessità ti ci puoi appoggiare per riprendere fiato… Poi, ti offre anche il segnale del limite da rispettare o magari, perché no? da trasgredire. Una bella invenzione con cui Carmela esprime con la solita nettezza, con la consueta semplicità la parte fondante della propria originale poetica.

Carmela Maggiorini, La boa rossa, collana “cartacarbone, Daris Libri e stampe, Lucca giugno 2009, pp. 128, Euro 15,00.
Immagine di copertina di G. Salotti.