30 gennaio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" (4) di Luciano Luciani

Quarta puntata
di memorie autobiografiche 
di malsicura pubblicazione
                                                  Il Borghini, finalmente.
Una vicenda minore, anzi minima, quella che si consumò quasi mezzo secolo fa anni fa sotto i cieli della Toscana. La carità feroce del ricordo mi consegna ancora una memoria, un'altra di quel tempo lontano: le dispense di un corso di disegno tecnico assolutamente necessario per la didattica quotidiana, da realizzare presto e bene e su cui far studiare quegli studenti tanto faticosamente riuniti assieme. Pagine di dati, forme e formule, elementi geometrici, schemi, diagrammi, tavole... Le aveva elaborate il giovane Sassi e si presentavano come un lavoro tipograficamente complesso, delicato. Ce ne occorrevano alcune decine di copie: a chi affidarne la stampa? Al Borghini di Pisa, suggerì Carlo Ciucci, il superiore gerarchico di tutti quanti noi, in virtù dell'età e di un intenso vissuto aclista-democristiano.
Fu così che incrociai Gianfranco Borghini e la sua Editrice Tecnico-Scientifica. Trovare l'uno e l'altra non fu facile: l'indicazione in mio possesso diceva Via delle Scuole, inesistente sulla pianta di Pisa di cui, da migrante organizzato, continuavo a servirmi per gli spostamenti in città. Ma bastò chiedere a un passante gentile che mi indirizzò in via Benedetto Croce, davanti alle scuole appunto, i due licei e l'istituto "Pacinotti". 

Qui, come gli artigiani del Rinascimento, Borghini,  teneva casa e bottega e qui mi accolse. Nonostante la modestia dell'utile che gliene sarebbe derivato, fu prodigo di tempo, consigli e suggerimenti: la copertina, il tipo di carta, il modo migliore - e il più economico - per riprodurre le geometrie e le loro rappresentazioni. Volle conoscere la destinazione di quel lavoro e anche a questo proposito non mancarono idee e indicazioni. Ne ricavai l'impressione, confortante, di aver affidato quel lavoro a una persona competente e scrupolosa. Dirò di più: sinceramente appassionata del proprio mestiere. 
E il risultato finale fu all'altezza di quel giudizio: una copertina accattivante; pagine che era un piacere guardare, toccare e sfogliare; disegni chiari; scritture precise e pulite. Un bel lavoro che meritò, in varie sedi, più di un complimento e contribuì a migliorare l'ancora incerta percezione pubblica della scuola da Pontedera a Firenze e Dio solo sa se ce n'era bisogno.
Un episodio che ebbi occasione di raccontare molti e molti anni più tardi all'interessato. Lui non lo ricordava più, io sì.

                                   San Ranieri, San Ranieri, te futtimmo li bicchieri
Galeotta la festa di san Ranieri (17 giugno), patrono della città una volta marinara, e la luminara che ne accompagna la vigilia, i miei primi amici pisani furono calabresi. Li incrociai mentre furtivo mi aggiravo tra i resti di quella solenne ricorrenza, la "biancheria" - i telai di legno verniciati di bianco a cui sono agganciati per mezzo di un anello di ferro bicchieri di vetro contenenti i moccolotti che accesi servono a profilare suggestivamente l'architettura luminosa dei palazzi del Lungarno pisano - dismessa in terra solo poche ore dopo la processione e i fuochi d'artificio. Scopo inconfessabile di quella sortita notturna? Dotarmi del primo servizio di bicchieri della mia vita: dodici lampanini in più o in meno sui centomila utilizzati dagli organizzatori, non avrebbero certo appesantito in maniera significativa il bilancio comunale. E poi si trattava di vetri Saint Gobin, mica robaccia: di una certa essenziale eleganza il design e, soprattutto, infrangibili.
Pensavo di essere solo ad attendere a quel modesto piano criminale, ma mi sbagliavo. Un terzetto di coetanei si muoveva tra le ombre fitte di quella tepida notte di giugno, palesando le mie stesse intenzioni delittuose. Come andavo facendo anch'io, sfilavano i vetri dai supporti, ne valutavano le maggiori o minori stratificazioni di cera, ne scartavano i pochissimi incrinati. Gentilmente mi proposero di dividere il bottino: non a metà, ovviamente. Visto che loro erano tre (uno alto, uno piccolo e uno grande e grosso) mi sarei dovuto accontentare solo di un quarto del maltolto. Se, però, me ne occorrevano di più, mi servissi pure e loro - "Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!" - mi avrebbero aiutato a selezionare i pezzi migliori. Intanto, sottovoce, ma non abbastanza perché  ne percepissi le parole, nell'aria si alzava un motivetto esemplato su un antica melodia popolare. I tre cantavano: san Ranieri, san Ranieri/ te futtimmo/ tutti quanti/ li bicchieri!
"Tra compagni" aggiunse poi quello grosso con l'aria da Mangiafoco "questo e altro"! Da cosa l'Omone potesse aver ricavato la percezione delle mie simpatie politiche potrebbe apparire un mistero, ma forse nemmeno tanto: i miei capelli lunghi e poco curati, l'abbigliamento a dir poco casual e il fatto che mi aggirassi al buio, con aria circospetta, tra gli avanzi della festa patronale con la palese intenzione di rubare qualche lampanino, facevano di me almeno un proletario fuorisede, non certo il figlio con simpatie fasciste di qualche borghese pisano. Disvelate e riconosciute le comuni appartenenze ideali, ne seguì il primo di una serie di innumerevoli inviti a cena: memorabile ognuno per la quantità e la qualità dei cibi e dei vini calabresi offerti con larga, stralarga generosità sudista. 

Per anni, per la gioia del miei sensi e di quelli di tanti, tanti altri ci fu sempre una valigia in arrivo dalla provincia di Reggio Calabria carica di ogni genere di leccornia, ghiottoneria, manicaretto...  Per non rimanere nel generico stiamo parlando di capocolli, pomodori secchi, "frittole" di cotenne di maiale, "zippole" o "crispelle", ovvero focacce fritte con l'acciuga dentro, "cuddùra cu l'ova" - dolci pasquali a base di miele con un uovo sodo al centro -, dolci a base di frutta chiamati "petrali".

25 gennaio 2020

"Armonie" di Sanzio Bonci,



di Marisa Cecchetti

Le ha raccolte in un libriccino la moglie Giovanna, queste poesie di Sanzio Bonci, dopo la sua scomparsa nel 2018. In modo artigianale, come talora si fa per condividere il ricordo di una persona cara con parenti ed amici. Lo riconosco nella foto di copertina, è una persona che ho incontrato più volte, per strada, in chiesa, in occasione di eventi culturali. Non lo avevo mai conosciuto abbastanza. Ma la poesia è rivelatrice.

Il Bonci preferisce il senario veloce e ritmato, non cerca la rima, il pensiero fluisce e disegna la vita che è stata e l’adesso che incalza e procede, senza possibilità di ritorno.
C’è un contrasto  doloroso tra la consapevolezza della fine sempre più vicina (“adesso mi opprime/la stanchezza del vivere;/troppe esistenze/mi hanno spossato”), tangibile quasi (“non vista, alle spalle/maligna, improvvisa/precipita l’ora”), e la nostalgia della bellezza, con una struggente malinconia di primavere che torneranno  in mezzo ad una esplosione di colori e profumi e canti di uccelli, di vita che si rinnova, di schiamazzi e di giochi di bimbi, con la natura indifferente all’assenza di chi quella vita l’ha amata: “serenamente io canto,/tragicamente io canto”.

Tuttavia il ricordo di tanta bellezza rasserena il pensiero ed entra nei sogni; consolante è l’amore che ha intorno, la mano che stringe la sua. Di conforto è l’immaginazione che costruisce scenari rasserenanti: ”l’antico bambino/non concepiva/ l’inganno e nemmeno/la pura ragione/perché ammalato/d’immaginazione”. Di sostegno è la fede grazie alla quale lui si proietta nell’altrove cercando risposte, in un misto di  curiosità e di fiducia  non scevra da timore, comunque mantenendo la ferma certezza che un angelo buono lo verrà a raccogliere e lo accompagnerà.

Torna frequente l’immagine della notte simbolicamente associabile alla morte, insieme alla figura dell’allocco che ghermisce le prede  col “suo perfido artiglio”. Per fortuna arriva ancora “l’alba rosata/che fa dolci le ombre”

Stupisce e turba la forza di mettere in versi il momento che si avvicina al trapasso, con tanta chiarezza, con lucidità di pensiero. Non  con la razionalità materialistica di chi vede la fine di tutto e stoicamente la subisce, ma soffermandosi a rivelare le proprie fragilità, in un consuntivo che raccoglie debolezze e limiti, finendo per assolversi ed accettarsi in questa “umana finitudine”.

E’ una  poesia che non cerca ermetismi, ricca di riferimenti letterari, dove lo sguardo del Bonci si allarga  alla società, alle sofferenze degli emarginati, ai pregiudizi, alle ingiustizie, alle bassezze dis-umane  così distanti dal suo sentire, e dove la luna rimane impotente a guardare la malvagità: “la storia dell’uomo,/tutta intera, è passata/qui, sotto la luna,/come un fiume di sangue/di odio e d’amore/e con troppo dolore”. 

Il titolo Armonie  è una sintesi appropriata, perché racchiude  una accettazione dei contrasti -vita e morte-  in composto equilibrio tra loro.

Sanzio Bonci, Armonie, 2019



24 gennaio 2020

" Ricordando Leonardo Ghivizzani" di Mario Rocchi


                       foto di Alice Ghivizzani
A  LEONARDO

I tuoi occhi vispi
che nascondono
brillanti illusioni,
schiudono la porta
a una vita
frastagliata ma pura,
dolce nel contempo
ma anche aspra
come una fragola acerba.
La tua vita
è stata uguale alla nostra,
con gli sbalzi di umore
e l'allegria inattesa,
e l'amore contrastato,
e il pensiero invadente
di qualcosa di puro
che nessuno raggiunge.
Ci salviamo con l'illusione
che ci scopre arcani mondi,
come diceva il poeta,
e quella dolce felicità
che ognuno serba in sé
e che fai parte solo
con la donna del cuore
che tu, Leonardo,
hai voluto racchiudere
entro confini infiniti
dove solo il pensiero perenne
ti ha fatto essere
colmo di vita e di gioia.
Ora,
il tuo sorriso
lo teniamo noi,
amici di sangue
e di vita,
e con il vivo ricordo
sei sempre con noi.
solo tu,
solo tu,
sempre col tuo sorriso
perenne.
              Mario Rocchi

Questa poesia di Mario Rocchi, scrittore, critico d’arte e giornalista, è dedicata a Leonardo Ghivizzani, che ci ha lasciati travolto da un camioncino, mentre tornava a casa a piedi dopo il lavoro, in una serata piovosa di fine dicembre, in una strada di San Concordio, nei pressi delle mura lucchesi. 
Leonardo, esperto di informatica, faceva parte attivamente da diversi anni del Circolo del Cinema di Lucca.     


23 gennaio 2020

“Si nota all’imbrunire” di Silvio Orlando




di Silvia Chessa

Un uomo, Silvio, ha deciso di rimanere isolato e di affrontare stoicamente il buio e l'assordante silenzio della solitudine coadiuvato solo dai suoi libri (Caproni, Hemingway, i diari di Sylvia Plath) e dalla musica di Rachmaninov, in compagnia dei ricordi, scivolando così sul tramonto della propria vita come un'isola che si richiude ancor più in se stessa facendosi iceberg.

La sua famiglia non gli è familiare, i suoi figli sono al pari di estranei, l’unico contatto è quello con una commessa del supermercato dello spopolato villaggio di quindici anime dove si è rifugiato. In questo stadio, inizia a sviluppare manie e tic : voler rimanere seduto, il “capochinismo”, la convinzione di parlare mentre i pensieri gli rimangono dentro, intrappolati, inespressi. Le persone intorno piano piano spariscono come ombre: chi non cerca alla fine non verrà cercato. Eppure questa solitudine programmatica e metodica non porta soddisfazione e vera serenità al protagonista, ma ne aumenta la frustrazione. “Gli altri sono la possibilità, il rischio..” mentre libri e silenzio “non bastano a fare una vita”.

Silvio non è contento (“Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia”, dice il fratello 
Roberto, citazionista compulsivo, appunto citando Paul Valery): vorrebbe, nell'anniversario decennale della morte della moglie, accanto a sè i suoi tre figli ed il fratello e così in qualche modo li richiama, li rievoca. Ed essi si presentano. Peccato che anch'essi siano afflitti -in una sorta di tremendo incubo psicopatologico sociale- da altrettante solitudini, oscillanti fra narcisistiche necessità di farsi comprendere e sentimento di aver fallito, fra rimorsi e rancori. Va da sé che in questa epidemia di solitudine l'incomunicabilità è il tema ricorrente, un nodo nel nodo delle innumerevoli varianti di solitudini (per essere tale, la solitudine fa in modo di specificarsi, in ciascuno, in modi e maniere diverse, così da acuirne il singolo ed incomparabile dolore). 


Ad essa si legano le varie manie ed ossessioni del protagonista e dei suoi consanguinei: Alice, Vincenzo, Maria nonché il fratello maggiore, Roberto -impersonato dal grande e consumato attore Roberto Nobile- mentre si crogiuolano nei loro disagi, gareggiano in definizionismo, offrendo, al protagonista, descrizioni e soluzioni, ma senza risalire o interessarsi alla radice del malessere. Essi, dunque, vivono la malattia come stato consolatorio in una società che impone la dittatura della salute, soffrendo altresì la fatica di occuparsi gli uni degli altri (“occuparmi di te mi prosciuga”, dirà Silvio ad Alice).  

In questo riuscito spettacolo inframmezzato da battute e spunti comici (i figli uno non si aspetta, crescendo, che diventino dei “suoceri” criticoni e , oltre una certa età, si dovrebbe passare di grado a cugini..), Silvio Orlando si staglia come un gigante, padroneggiando una sceneggiatura analitica profonda ma verbosa e si conferma come un maestro di eccezionale talento.
Bravi tutti nelle loro interpretazioni, essenziale la scenografia ma al contempo elegante e raffinata, spettacolo da non perdere (al teatro Quirino, fino al 2 febbraio) che fotografa mirabilmente la società e la sua deriva solitaria e isolazionista.


foto di Silvia Chessa
SILVIO ORLANDO
SI NOTA ALL’IMBRUNIRE
(Solitudine da paese spopolato)

Scritto e diretto 
da Lucia Calamaro

Con (in ordine alfabetico):
Vincenzo Nemolato, Roberto Nobile,
 Alice Redini, Maria Laura Rondanini

Scene: Roberta Crea

Costumi: Ornella e Maria Campanale

Luci: Umile Vainieri

22 gennaio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani

foto di GIANNI BERENGO GARDIN
terza puntata
di un libro autobiografico di più che dubbia pubblicazione

A questo punto un po' mi dispiaceva... L'idea.
A questo punto, un po' mi dispiaceva. A Pisa avevo trovato casa. In affitto, naturalmente: un appartamento di recente costruzione alla periferia est della città, località La Cella, sulla via Fiorentina o Tosco-Romagnola che dir si voglia. Tra l'Arno, la ferrovia e sulla testa l'andirivieni - come lo vogliamo definire? Rumoroso? - degli aerei del vicino areoporto. Attraversata la strada, proprio davanti all'abitazione, un importante, almeno per me,  valore aggiunto: la locale Casa del Popolo, intitolata ad Antonio Gramsci. La sera, poi, quando tornavo da Pontedera, c'era una ragazza ad aspettarmi.
Insomma, l'intenzione era quella di restare e per questo necessitava un'idea, insieme semplice e forte. Una proposta comprensibile a tutti che permettesse alla scuola delle Acli di rimuovere l'immagine negativa che le era cresciuta addosso, rompere l'isolamento e ricollegarsi con quanto di nuovo e significativo - e non era davvero poco - si muoveva nella società di quegli anni.
Ed eccola l'idea! Perché non rifare nella proletaria Pontedera quello che aveva funzionato così bene nel quartiere lumpen di Anzio Colonia? Ovvero, una scuola popolare per prepare all'esame di licenza della scuola dell'obbligo, quanti, giovani e adulti, per i motivi più vari, ne fossero privi.
A sud di Roma, in un contesto diverso, socialmente disgregato, un'esperienza del genere aveva dato buoni frutti. Perchè non provare a esportarla anche nella politicizzata e sindacalizzata cittadina toscana dove non pochi di coloro che si iscrivevano ai corsi professionali si dichiaravano sprovvisti di licenza media?
Facemmo circolare la notizia (grazie Mannucci!) che presso il Centro Enaip, la sera dopocena, avremmo iniziato un'attività gratuita di lezioni di preparazione all'esame di scuola media. Gli ambienti erano a disposizione, sufficientemente ripuliti, luminosi e riscaldati. C'erano i banchi e le lavagne. Per il materiale didattico si poteva attingere agli avanzi di anni e anni di corsi. E gli insegnanti? Un manipolo di volenterosi con motivazioni diverse: chi aveva letto don Milani, chi aveva sempre desiderato insegnare. Altri speravano che la partecipazione a tale esperienza li avrebbe  messi in buona luce per ottenere qualche ora pagata nei corsi professionali a venire... Insomma, quell'ideuzza, neppure tanto originale, - l'Italia di allora era piena di iniziative simili - servì a rompere l'assedio dell'indifferenza cresciuta intorno al Centro e alle sue attività istituzionali. Oddio, non è che le masse premessero al portone del Cfp, però non si poteva negare intorno all'aurorale scuola popolare un discreto movimento d'interesse e di gente. C'era il carabiniere che aveva bisogno della licenza media per progredire nella carriera all'interno dell'Arma; l'inserviente del vicino ospedale che voleva diventare infermiere; l'apprendista che aveva lasciato la scuola per andare a lavorare appena smessi i calzoni corti; il padre di famiglia, operaio, che desiderava essere all'altezza dei figli che studiavano; la parrucchiera immigrata dal sud che la scuola l'aveva solo sfiorata e malamente...
In cattedra una pattuglia di generosi. A me toccavano le ore d'italiano; a Mario Mannucci, appassionato di storia, la ricostruzione degli accadimenti del passato e la geografia; a Ubaldo Sassi, studente di ingegneria a Pisa e in predicato di insegnare nei corsi professionali, gli argomenti scientifici previsti dai programmi; alla maestra pontederese Daniele Santerini, se non ricordo male, l'inglese. Lingua che Daniela aveva imparato nientemeno che suonando in una band femminile che si era esibita nelle basi americane del sud-est asiatico in piena guerra Usa-Vietnam, tra il '68 e il '69: una ragazza vitalissima che sembrava davvero incarnare i migliori spiriti di quegli anni.

Un cambiamento radicale.
Per rimpolpare il numero degli iscritti ai corsi professionali fu però necessario un radicale cambiamento del punto di vista. Sino a quel momento avevamo sempre ragionato e programmato il nostro intervento pensando a un bacino di utenza come ristretto alla sola città e ai suoi lavoratori che immaginavamo vogliosi di migliorare professionalmente. E se invece ci fossimo rivolti alle  "campagne"? Se, fatta nostra la strategia del compagno Lin Piao dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne, per intercettare i nostri potenziali iscritti ci fossimo rivolti agli abitanti della Valdera e delle Colline Pisane giù giù fino a Volterra? Ai giovani, donne e uomini, del lavoro a domicilio sottopagato; ai precari delle decine e decine di fabbrichette dell'indotto Piaggio sparse tra borghi di straordinaria bellezza e antiche corti; ai lavoranti dell'industria del mobile in crisi occupazionale per l'introduzione di nuove tecnologie; ai ragazzi dall'incerta professionalità che con il loro sfruttamento  garantivano l'espansione della  piccola industria calzaturiera...

Così, per alcune settimane, la mattina o/e il pomeriggio, Orlando Minguzzi, il segretario del Centro, e io ci muoviamo da Pontedera per l'operazione ribattezzata la Grande Campagna di Reclutamento. Destinazioni: Bientina e Buti, Lari e Chianni, Ponsacco e Peccioli, Crespina e Palaia... Mezzo di locomozione, una vecchia Fiat 500 Giardinetta immatricolata a metà degli anni sessanta: al volante Orlando, perché io - allora come oggi - non ho la patente. Obbiettivi sensibili: Circoli Acli; Case del Popolo; bar; palazzi comunali; l'uscita delle fabbrichette... Dove affiggiamo i nostri manifesti, distribuiamo depliant e volantini, attacchiamo locandine e parliamo, parliamo, parliamo... Con i giovani operai poco più che adolescenti, coi lavoranti di quella fabbrica diffusa che è il lavoro a domicilio, con i sindaci e gli assessori di Comuni piccoli e piccolissimi, spingendoci a sud, sempre più a sud. Fino a Guardistallo, fino a Volterra! Orlando, l'amministrativo del Cfp, è un bravo ragazzo al suo primo impiego. Tra le sue mansioni, immagino, anche quella di esercitare un discreto controllo sul sottoscritto e riferire. Io lo so e lui sa che io so. Riusciamo lo stesso a diventare quasi amici e non poteva essere diversamente: siamo sulla stessa barca, ci dobbiamo inventare un lavoro e abbiamo poco più di mezzo secolo in due. Discorriamo di come immaginiamo il futuro e del presente complicato che ci mette a dura prova; di grandi ideali - una società più giusta, il socialismo, la rivoluzione - e miserie quotidiane - i soldi che non bastano mai ad arrivare alla fine del mese -; di donne e motori. Soprattutto quello della nostra 500 Giardinetta, che un giorno dopo l'altro sempre più ansante e stentato ci significava rumorosamente la sua intenzione di lasciarci a piedi. Anche la splendida stagione tardo-autunnale, giornate terse e un clima da perenne "estate di San Martino" che per quasi un mese ci avevano accompagnato e sostenuto, declinava ormai verso l'inverno umido, freddo e nebbioso proprio di queste aree interne della regione.
 

Riuscirono i nostri eroi a organizzare i loro sospirati corsi professionali? Sì, la spuntammo. A fatica, ma la spuntammo. Le attività ebbero inizio; gli insegnanti videro riconfermate le loro ore di docenza e ne assumemmo di nuovi; si stabilì un'utile osmosi tra i corsi professionali e la scuola seral-popolare. Tutto bene, dunque? No. I problemi, quelli veri, sarebbero iniziati subito dopo, ma questa è un'altra storia e chissà se merità raccontarla.

15 gennaio 2020

"Autodifesa di Caino" di Andrea Camilleri






di Silvia Chessa

Dal peso di pochi grammi e dal volume di un'ottantina di pagine, "Autodifesa di Caino" contiene un pezzo dell'anima del maestro Andrea Camilleri, un suo lascito, ed anche il basamento di quello che sarebbe stato un suo monologo spettacolo, programmato per il 15 luglio 2019 alle Terme di Caracalla di Roma  (dopo quello, indimenticabile, su Tiresia, portato in scena nel 2018, al teatro Greco di Siracusa).


Inventandosi un'immaginaria e dotta autodifesa di Caino, il “contastorie” (come amava definirsi) Camilleri trae le mosse da questa biblica figura del male per scuoterci nelle fondamenta dei nostri stereotipi e sovvertire semplicistici schematismi sul male e sul bene. 

Per farlo, chi meglio di Caino: il male per antonomasia, assassino fratricida, ma, come ci dimostra Camilleri, anche simbolo necessario a Dio affinché capissimo che, senza il male, il bene non esisterebbe. Tanti gli insegnamenti che vengono da questa originale rilettura di Caino filtrata attraverso la vastissima cultura di Camilleri : e quindi da Borges ("Ora so che mi hai perdonato davvero (..) perché dimenticare è perdonare") a Dario Fo, dai padri della Chiesa a Dante, e ancora Metastasio, Byron, Hermann Hesse, Hugo, Unamuno e via elencando. 

Tra questi insegnamenti la nozione che male e bene sono presenti in tutti gli individui così come lo sono il maschile e il femminile con una preponderanza dell'uno o dell'altra che contraddistingue, in via di massima, i generi ma in modo variabile, senza una legge fissa, laddove invece l'omofobia rifiuta questa semplice constatazione e di questa variabile ne fa una malattia. 

Quindi, in questa concezione della storia e della genesi, è doveroso il rispetto dell'omosessualità e il rispetto delle donne (nate dalla stessa materia di Adamo !), nonché la necessità di ridestare noi ultime generazioni dalla nostra rassegnazione alla malvagità: in 150 anni di stermini, massacri, genocidi, pulizie etniche, stragi, attentati e femminicidi.. -dice, presentandosi, Camilleri-Caino- abbiamo fatto il callo agli assassini.


Con la sua naturalezza nell'esposizione e padronanza della materia Camillieri riesce persino a parlare di un lato borghese di Dio senza però cadere nella blasfemia, e a saltare da Max Weber a Malachia rendendo, con la sua ragionevolezza il suo intuito psicologico e la sua adesione all'umano, plausibili anche gli apparenti salti logici e cronologici.


Vale la pena riportare la sua citazione di Elie Wiesel:

" Abele non si muove. Non fa niente per consolare il fratello, né niente per divertirlo, per calmarlo. Lui, che è responsabile della prostrazione di Caino, non fa niente per aiutarlo. Non si duole di niente, non dice niente. È semplicemente assente, sta lì, senza esserci realmente. Sogna senza dubbio mondi migliori, cose sacre. Caino gli parla e lui non ascolta. O ascolta ma non sente. Ecco in che cosa Abele è colpevole. Di fronte alla sofferenza, di fronte alla solitudine, nessuno ha il diritto di nascondersi, di non vedere. Di fronte all'ingiustizia, nessuno deve voltarsi dall'altra parte. Chi soffre ha la precedenza su tutto  La sua sofferenza gli dà un diritto di priorità su di voi. Quando qualcuno piange -e questo qualcuno siete voi- ha dei diritti su di voi, anche se il suo dolore gli è inflitto dal vostro Dio comune".


Nel finale l'avvertimento di non condannare a morte i discendenti di Caino ma al contempo di non dimenticare in fretta il male che abbiamo causato si va a ad allacciare ad una bellissima citazione di una battuta dell'attore e regista Orson Welles (tratta dal film Il terzo uomo, di Carol Reed); e così, avvalendosi di un ennesimo e denso paragone (nel quale la poesia del cinema si cala nel momento storico), ci lascia ad interrogarci ancora sulla duplicità del male, che tutti ci riguarda, nessuno escluso.

Andrea Camilleri. Autodifesa di Caino. Sellerio.

14 gennaio 2020

"Uccidendo il secondo cane" di Fabio Izzo e Valerio Gaglione


di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Varsavia, 1956. Fra le rovine di una Polonia sgretolata, piena zeppa di ubriaconi e reietti, il giovane scrittore Marek Hlasko (1934-1969) osserva e descrive l’individualismo e la disperazione dei sobborghi. Intanto una giovane coppia, Piotr e Agnieszka, vive la propria storia d’amore all’ombra dell'oppressivo regime socialista. Attraverso l’occhio attento del James Dean polacco - la somiglianza con l’attore era impressionante - prende vita un decadente affresco costellato di bettole fumose, alcol e violenza. Voce scomoda in patria (le sue opere furono vietate per 20 anni), Hlasko conduce un’esistenza randagia di cui saprà anche costruire astutamente il mito: ex camionista, scrittore in fuga dalla Francia all’Italia poi pappone a Tel Aviv e sceneggiatore al fianco di Roman Polanski a Holliwood, fino al tragico epilogo nella Germania dell’Ovest.

Non è stato inutile aver fondato Il Foglio Letterario nel 1999, visto i talenti che abbiamo scoperto, pure se pochi ce ne riconoscono il merito, quasi nessuno ci cita, finisce che ci tocca dirci bravi da soli. Non abbiamo un buon ufficio stampa, come tanti fanfaroni che poco fanno e molti raccolgono, questo è certo. 

Fabio Izzo è una mia scoperta di cui vado fiero, più volte presentato al Premio Strega, ha debuttato con Eco a perdere, proseguendo con Balla Juary, Doppio umano, To jest, Il nucleo, Ieri Eilen, tutti romanzi usciti sotto la mia direzione editoriale. 
Valerio Gaglione, invece, ha esordito con il romanzo grafico Se sapessi come fai - Le cinque prove del’omicidio di Luigi Tenco, scritto da Giusepe Bità, sempre con Il Foglio. Autori di cui vado fiero e che - da lettore onnivoro appassionato pure di fumetto - ritrovo con piacere alla corte di Oblomov, sotto la guida di un maestro come Igort, nel catalogo di un marchio editoriale importante, non solo per dimensioni ma anche per spessore culturale. Uccidendo il secondo cane è un concentrato narrativo dello stile di Izzo, perché con poche e incisive pennellate tratteggia il carattere di uno scrittore maledetto (alla Modigliani), ne descrive le notti a base di alcol e trasgressione, approfondisce la sua lotta politica, il suo essere contro un regime che osteggia il suo lavoro. Lo stile grafico di Gaglione è maturo e superbo, tutto chiaro scuri, in un evocativo bianco e nero che rimanda ai grigi tempi di una Polonia comunista, con un tratto che sembra vergato da un poetico carboncino.  

Uccidendo il secondo cane è il titolo di un libro di Hlasko, pubblicato nel 1965, inedito in Italia, ed è perfetto per ricollegare due delusioni, due momenti esistenziali in cui lo scrittore tocca il fondo e non riesce a riemergere. 
Izzo conosce molto bene la Polonia, per apprezzare a fondo la sua scrittura e i suoi personaggi forse sarebbe importante saperne quanto lui, ma basta qualche nozione sui danni prodotti dal regime comunista per capire il senso dell’epigrafe: Giulietta e Romeo non si sarebbero mai incontrati a Varsavia nel 1956. Non era terra per l’amore quella dittatura, era terra per il dolore, per la disillusione, per l’alcol e per notti disperate, per avere soltanto voglia di fuga e di ribellione.
 I protagonisti del romanzo grafico sono scrittori dissidenti che hanno scelto di non tacere e hanno sacrificato la loro vita per un profondo un desiderio di libertà. Un graphic novel da non perdere, se amate il fumetto colto e la letteratura.

Gaglione – Izzo
Uccidendo il secondo cane
Oblomov – Euro 18 – Pag. 175

13 gennaio 2020

“Savita” foto di Dario Mitidieri



nota di Gianni Quilici

E’ una di quelle foto per cui viene da dirci con tutta l’ingenuità che arriva immediatamente dagli occhi “che bella!...così bella che non ha bisogno di parole”.

E’ uno scatto originale, perché capita raramente di vederne uno simile.
E’ uno scatto tenero per questi occhioni impauriti, per questo corpicino di bambina rivolta in alto e protesa nel vuoto.
E’ uno scatto essenziale e puro per quel biancore di aria che invade buona parte del rettangolo fotografico.
E’ uno scatto geometrico per il palo (o pertica o asta) che attraversa centralmente la foto con il prolungamento del braccio proteso dritto verso il cielo della bambina.
E’ uno scatto sorprendente, quasi inconcepibile, per quel pollice che riesce a sostenere
ed a tenere in equilibrio il palo con la bambina.
Ed è uno scatto straordinario per avere Dario Mitidieri colto il tempo giusto e l’inquadratura eccellente.
Ed è infine uno scatto tragico, perché la bimba, Savita, ha soltanto due anni e mezzo e si esibisce di fronte a turisti arabi a Bombay, nel quartiere di Colaba, col rischio di cadere.
Ed è una delle numerose straordinarie foto dell’inchiesta che Dario Mitidieri realizzò nel 1992 per le strade di Bombay, dove si calcolava allora che fossero circa 100.000 i bambini e adolescenti orfani e senza casa abbandonati per le strade tra povertà, droga e malattie.
 Dice, a questo proposito Mitidieri:” Stavo con loro giorno e notte. Mi chiamavano zio. Abbiamo fatto un documentario sulla nostra ricerca della bambina sul palo. L'abbiamo ritrovata, ed è stato molto commovente. Ne ho anche ritrovati altri, che all'epoca avevano cinque, sei, sette anni e che ora sono adulti, eppure sembrava passato pochissimo tempo. Si ricordavano tutto, e tutto di me”.

Dario Mitidieri. Bombay. 1992.   

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani




seconda puntata di un libro d'improbabile pubblicazione
                                        Pontedera 1972. I bianchi e i rossi.
Va senza dire che la realtà si rivelò ben più al ribasso rispetto alla letteratura e al cinema Intanto, memorabile la bruttezza del Centro Enaip pontederese: alla periferia della città, dopo il passaggio a livello, nella via dell'ospedale sulla strada per Ponsacco assomigliava a un bunker tedesco sopravvissuto a stento ai bombardamenti alleati. Aulette anguste e claustrofobiche; ampia l'officina, ma con macchinari da esercitazione - torni, banchi da aggiustaggio - obsoleti, residuali, scarti di scarti che portavano ancora i segni dell'alluvione del '66; sgangherati i tecnigrafi per i disegnatori; un paio di scaffali di libri raccogliticci e mai sfogliati; una segreteria organizzata secondo il sistema "tutto a mano" e una sola, moderna fotocopiatrice: solo da guardare, però, e da non usare troppo spesso "perché se no si rompe". 
Deluso e frustrato il poco personale rimasto: un segretario alla vigilia delle nozze e di cambiare lavoro e tre o quattro insegnanti pratici, anziani operai di mestiere abili con le mani, poco liberi di testa e gelosi tra loro, assunti attraverso i severi filtri del favoritismo aclista, della compiacenza democristiana e, immagino, del benestare di qualche ufficio e/o dirigente della onnipotente Piaggio. Preagonica l'attività della scuola, in caduta libera le iscrizioni: nessuno che sapesse indicarmi con precisione le date degli ultimi corsi iniziati e portati a termine e su tutto un'aria di smobilitazione, incuria, trascuratezza.
E poi rossa sì, Pontedera, ma con una minoranza bianca ben organizzata nelle sue tradizionali casamatte: parrocchie, associazioni cattoliche, circoli Acli, un vasto e articolato sistema di servizi, dagli asili delle suore ai corsi di formazione professionali. Appunto. Ero finito in partibus infidelium e per di più in un momentaccio: Livio Labor, storico presidente Acli, aveva posto fine al collateralismo della sua associazione con la Dc, i vescovi l'avevano sconfessato - papa Paolo VI addirittura "deplorato" - e sostituito col più prudente Emilio Gabaglio. Per evitare pericolosi smottamenti a sinistra, e per reazione a destra, gli aclisti tradizionali serravano le fila, si facevano sospettosi, guardinghi e non si fidavano di nessuno. 

Su questo scenario arrivavo io, in fama di "mezzo comunista mandato da Roma". Sì, su Roma avevano ragione: venivo proprio da lì; sul "mezzo" no, perché al Pci ero iscritto già da qualche anno, vuoi per personale convinzione, vuoi per tradizione familiare. Agnello migrante in mezzo ai lupi, privo, com'ero, di una qualsivoglia rete di relazioni, in un momento politico e sindacale delicato, mentre l'impeto rivendicativo che aveva caratterizzato il movimento sindacale negli ultimi 3/4 anni si andava affievolendo e tutti i conservatorismi locali e nazionali rialzavano la testa in cerca di rivincite, dovevo farmi prudente come il serpente e semplice come la colomba.
Corsi e ricorsi.
Mentre a guidare il Bel Paese era chiamato il celeberrimo e già chiacchieratissimo Giulio Andreotti alla testa di un governo di destra che più di destra non si poteva e in Parlamento entravano, sotto la specie missina, militari golpisti e picchiatore fascisti, io mi buttai nel lavoro.
Lo aggredii quel lavoro, lo presi alla gola. Intanto ripulire quegli ambienti degradati, fatiscenti. Mi aggregai ai dipendenti di una piccola impresa di pulizie e insieme a loro  spazzai e detti il cencio, lustrai e vuotai cestini... Privo di particolari esperienze in materia, supplii al'impreparazione con l'energia e l'entusiasmo dei vent'anni. Ebbi, poi, lunghi conversari con i vecchi insegnanti che, bontà loro, si resero disponibili, per eventuali corsi; ne individuai di nuovi, di insegnanti; elaborai un depliantino colorato e lo feci stampare in qualche migliaio di copie insieme a un po' di manifesti e qualche locandina e mi misi alla caccia degli allievi che avrebbero permesso l'organizzazione dei corsi. E con essi la ripresa dei finanziamenti che sarebbero arrivati da una Regione Toscana appena costituita e, se non ricordo male, piuttosto circospetta nei confronti di un Ente così politicamente ambiguo.
Fare le cose, farle bene, e soprattutto farle conoscere. Quindi cominciammo a dire in giro che le attività formative riprendevano. Non è che tale notizia venisse accolta con particolare calore dalla Piaggio. A dirla tutta, la proposta di una collaborazione tra la nostra scuola e l'azienda - che pure in passato c'era stata e anche piuttosto intensa - trovò i suoi funzionari di terza o quarta fila da me interpellati in proposito alquanto disinteressati: "vedremo...", "se ci saranno le condizioni...", "le faremo sapere..."  Tiepidi i nostri referenti naturali, i circoli Acli della zona; arcigno l'allora presidente provinciale aclista, Lamberto Tellini, un democristiano quarantottesco che sedeva a Firenze sui banchi dell'opposizione in qualità di consigliere regionale; indifferenti i parroci che, tutti o quasi, si dissero assai presi dai loro doveri spirituali e impossibilitati a calarsi nella concretezza del quotidiano.
Un aiuto, insperato, venne, invece, dalla redazione locale della "Nazione" che in più di un'occasione garantì largo spazio alle notizie di una ripresa dei corsi Enaip in via Roma: il giovane redattore locale, Mario Mannucci, simpatizzò da subito con la nostra esperienza e la sostenne con le parole stampate e alcuni fatti che illustreremo a breve. Comunque, alla fine della fiera, di iscritti ai nostri corsi professionali - meccanici; tornitori; lattonieri; disegnatori tecnici; stenografia e dattilografia - ce n'erano davvero pochini. Con quei numeri a una sola cifra le nostre attività professionalizzanti non sarebbero mai iniziate con tutte le conseguenze, anche economiche, del caso.
Me ne sarei dovuto tornare, sconfitto, da dove ero venuto?

09 gennaio 2020

“Su una foto di Paolo Pellegrin” di Gianni Quilici



Guardo senza sapere chi siano questi giovani, dove si trovano, in quale situazione e perché. Li osservo come se fossero un quadro, una pittura, una creazione non necessariamente frutto di una realtà precisa.

Centrale il giovane con tatuaggi scolpiti sul corpo, le labbra strette, gli occhi obliqui ed abbassati come se contemplasse un pensiero doloroso o l’impossibilità ad agire.
 Intorno a lui gli altri: volti o occhi soltanto, nel chiaro- scuro della luce, a formare un gruppo, stretti l’uno con l’altro, che lo sfondo completamente scuro evidenzia con nettezza. Con un dettaglio felice: la  mano con unghie bianche, che si posa leggera sulle spalle del giovane.

In questo contesto colpisce il tipo di inquadratura: trasversale, che dalla ragazza sulla sinistra sale fino al quarto giovane tagliandogli volto, occhio e spalla.
E’ uno scatto frettoloso? Paolo Pellegrin ha colto al volo un’immagine che sarebbe stata altrimenti persa o la sua è stata una scelta?
Quale che sia la risposta, il risultato espressivo dell’immagine è forse  più convincente   di uno scatto realizzato a regola d’arte.  Perché l’inquadratura dà mobilità ad una situazione fisicamente statica, ma psicologicamente drammatica.

Ma dove ci troviamo e in quale situazione non sono riuscito a scoprirlo navigando sul web. L’unica fatto certo è che questa fotografia è la copertina di un libro sulla Cambogia. In quale attimo e contesto resta ancora da scoprire e , in questa situazione, certamente può risultare importante. 

"A proposito di pubblicità con bambini"


Gianni Quilici
Detesto la pubblicità con bambini-e
strumentalizzati a scimmiottare
bambini-e

Mariogiulio Guccione   Io invece mi chiedo di cosa si occupi in realtà il garante che ha per ambito di sorveglianza la pubblicità.
La cosa più oscena e inaccettabile (non la sola) è quella che ammicca a una visione strumentale,distorta e tendenzialmente pedofìlica dell'immagine dei bambini.
 
Non sfugge il caso imbarazzante della bambina/Cappuccetto Rosso che pubblicizza come imbonitrice da televendite i telefoni per nonni, assistita dal lupo e con rossetto pronunciato come mai si dovrebbe, accelerando l'immagine di donna su una bambina.
Oscena. Osceno l'uso che si fa dell'immagine della bambina, sia ben inteso.
Oscena anche l'inquadratura morbosa dei bambini, ipocritamente sfumata,proprio quando si parla al telegiornale di episodi di pedofilia.
Il linguaggio che ci proviene dall'uso dell'immagine potrebbe essere decriptato e smascherato nella sua indecenza e illiceità.
 
Ma attraverso la pubblicità, soprattutto attraverso di essa, noi siamo pervenuti alle nostre innumerevoli perversioni educative, sociali e non ,a un progetto non dichiarato ma socialmente eversivo e dissociativo :un cambiamento patologico della comunicazione che ha riversato nella direzione dei cittadini/consumatori le patologie implicite sui nostri sentimenti, la nostra educazione un tempo condivisa che è diventata morbosità e cattiveria vissuta in solitudine .
 
Non può essere passato inosservato agli illustri sociologi, psicologi, pedagoghi,
teologi, educatori, comunicatori, scienziati, filosofi, poeti che per decenni hanno nutrito di sola complice distrazione i tanti talk show presso i quali si narcisizzavano come Krusty il Clown.
[da una conversazione su Face Book]


08 gennaio 2020

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



di Bartolomeo Di Monaco
   da "Leggiamo insieme gli Scrittori Lucchesi" Volume 2

Ci accorgiamo subito che sarà una storia di intense vibrazioni. Le prime che avvertiamo, restano nell’aria al pari di quelle emesse da un tasto di pianoforte, poi da un altro e così via. Suoni unici, il cui effetto, però, si prolunga fino a spegnersi sommessamente ed annullarsi nel momento in cui comincia l’altra vibrazione, lenta ad esaurirsi anch’essa per confluire nella successiva. Si sta costruendo qualcosa di speciale, dunque, una catena che non è solo musica di sentimento e di poesia, ma anche d’immagini che si formano lungo l’arco della stessa vibrazione.

Il protagonista, che narra in prima persona, ci sta consegnando, suddivisa in dieci giornate (i dieci tasti di un pianoforte personale, o le dieci giornate del “Decameron” di Giovanni Boccaccio) la sua vita, anche la più riservata, intima. Ad ogni tasto che preme è lui che s’invola e colma di sé, del suo spirito, immagini e suoni.

La scrittura è una partitura. Si potrebbe pensare, vista la consuetudine dell’autore con il cinema, anche a una sceneggiatura, ma sarebbe sbagliato. La differenza sta nella poesia che ogni vibrazione irradia attorno a sé. È una storia privata, interiore, come privata e interiore è sempre la poesia: “Una sera, in un angolo del pianerottolo al buio, le mordo la gola, le infilo le mani sotto la gonna; lei smania facendo frullare la massa di capelli selvaggi…”; “Dall’alto la città mi inebria. Guardo tetti che si sovrappongono, campanili di marmo e di mattoncino, la Torre Guinigi snella e alberata e mi sento così vasto e leggero come se fossi aria, che si spande padrona dello spazio.”.

Non ci sono parole inutili o vuote in questa scrittura. L’uomo che ne esce fuori è rastremato, ne vediamo lo scheletro ma anche la formazione del pensiero, le scariche elettriche che lo sollecitano al movimento e alla riflessione: “La notte è dolce. Due ragazze ridono come matte solitarie in via Fillungo. In Piazza S. Michele non c’è nessuno. Mi siedo sui gradini della statua del Burlamacchi, tiro fuori un foglietto e mi sdraio. La luna troneggia piena sbucando da Palazzo Pretorio. Mi lascio corteggiare.”. Il protagonista è un uomo impegnato in politica e nel sociale; le sue idee maturano in una realtà refrattaria, che desidera forzare. Scaccia l’inedia e la rassegnazione. La donna vi assume il ruolo di un riferimento appagatore per avviare un nuovo inizio: “Così decido: farò il vuoto mentale.”; “Mi rimescola i sensi quando percepisco la possibilità di inventarmi.”. Gli incontri con le donne hanno quasi sempre una carica erotica che l’autore sa esprimere con efficacia e controllo assoluto; si veda, come esempio, l’incontro con la donna separata, nella seconda delle dieci giornate. Ma ne avremo altre, e l’insieme di esse contribuirà a dare del protagonista l’immagine di una ossessiva e mai appagata inquietudine.

Spegnimenti e ricariche, accondiscenza e ribellione, voglia sessuale improvvisa e spasmodica si alternano dando vitalità ad un personaggio in cerca di una identità che non riesce a trovare: è nel bientinese, in una zona frequentata da prostitute: “Passo via con lo sguardo. Me lo cerco sopra i pantaloni. Lo abbranco. È un desiderio fresco, quasi esaltato.”; “Corro in bici pigiando sui pedali così accanitamente che i denti mi spuntano fuori e scricchiolano come la ruota di un carro sulla pietra, il cielo è blu notte e piango.”. Anche la notte e il buio sono elementi svelatori e formativi. Come la paura per un futuro che non si conosce: “Ho paura del mio futuro.”. La bicicletta con cui va in giro ad osservare è simile a un sensore, come la lingua tattile di un basilisco o di un camaleonte: “Così, pedalando in scioltezza, vedo come se fosse la prima volta i Fossi.”; “pigio sui pedali, sento che la città è grande, più grande di quanto possa immaginare e che il mondo per me è immenso e che io non voglio, non devo pormi più limiti…”.

Si ha la visione di una lotta titanica: da una parte una società cristallizzata (si veda la sterile e caotica supplenza nella scuola), dall’altra un desiderio quasi satanico di ribellione, di rivolta che si aggrappa ad ogni occasione, l’aggredisce, come per sfoderarla e scarnificarne il contenuto, unghiarla e graffiarla fino a farla sanguinare. In certi momenti la scrittura si fa accelerata come un batticuore; il protagonista sembra rimanere soffocato dalla propria furia; la stessa donna verso la quale ogni tanto trova rifugio e acquietamento, si fa muro di fronte al suo desiderio di libertà: “Mi vedo inginocchiato sul pavimento, un foglio di carta per terra, un pennarello blu in mano, che scrivo… Sarà l’inizio della svolta, il mio dover essere, attaccherò un manifesto grande sulla parete dello studio come propellente per farci, ogni giorno, i conti.”. È la stessa rabbia rivoluzionaria che attanagliò tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento i francesi Lautréamont, Radiguet, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire ed una serie di epigoni che, rifiutando il mondo, lo facevano soffrire per distruggerlo.

L’analisi di Quilici, seppure formalmente racconti una storia di disadattamento, nel suo profondo sta indagando per una rivincita che annienti l’avversario e da questa sua morte si rimodelli il tutto, sia in senso materiale che spirituale. L’atmosfera è impregnata volontariamente di una caligine che ne smorza la lucentezza; i personaggi sono in simbiosi con essa: insicuri, enigmatici, disorientati, paurosi.

Nel libro manca l’amore; vi si incontrano continue sfuriate di sentimenti di ogni genere, compresi quelli erotici, ma dell’amore non vi è nemmeno l’ombra. Forse, ogni tanto, un po’ di trattenuta nostalgia: “Sulla macchina penso che avrei voluto accarezzarle i capelli, poi prenderli e tirarli, mentre le mordevo il collo sogghignando.”. La poesia, ad esempio, si avverte nell’aria, ma l’amore no, è assente; non vi avrebbe potuto trovare, infatti, la sua collocazione e il suo senso. Vincono l’impegno, dinamico,  forte e nello stesso tempo delusivo, e la rabbia.

Non sono molti, oggi, gli scrittori che sanno farlo con l’equilibrio di una consapevolezza pervicace ma al contempo irredimibile. Nel fuoco che sempre più si ravviva e si espande noi troviamo l’embrione di una rinascita, la fisionomia di un nuovo che non riesce a prendere forma ed alimenta il disordine e lo scuotimento della fiamma. Una donna (ancora la donna), Eloisa, ne diventa la raffigurazione più embrionale e significativa: “L’immagine di Eloisa mi morde ossessivamente.”. Come pure la scuola, la quale assume la forma magmatica di una ebollizione continuamente alimentata e destinata a non finire, così come lo è la nostra indomabile, effervescente e incontrollabile realtà. Le riunioni nella sede del Pci (assisteremo anche allo smarrimento provato tra i militanti in occasione della svolta occhettiana della Bolognina, nel 1989)  rappresentano un anelito che la paura frena e fossilizza. Tutto si muove, tutto fermenta, tutto appare come l’inizio di una nuova creazione, ma qualcosa manca: la mano, o l’idea, creatrice e salvifica. L’uomo è impotente di fronte ad una realtà che lo sovrasta, che è più forte e le cui ragioni di esistere sono sconosciute e dunque insidiose e aggressive. È una nuova lotta tra David e Golia, in cui a vincere questa volta sarà Golia.

L’autore dovrebbe soffrire per la disastrosa situazione che ci para davanti, e qui sta la sua bravura coadiuvata da una indiscutibile lucidità: egli non soffre, poiché si sforza di credere nella sua ricerca e nella sua sperimentazione, e dunque decide di cospargere di una raffinata e leggera ironia il disordine intellettuale e quello materiale che si spartiscono la realtà. Egli propone, e resta ad osservare. Conosce le reazioni e le risposte. Non insiste più di tanto, le ha già introiettate  e sorride nel constatare che la sua previsione era esatta fin nei minimi particolari. Allora, la sua è una resa? No, è una consegna, come la letteratura maledetta ci consegnò in quel tempo la sua rivolta e la sua disperazione senza alcuna pretesa ma soddisfatta del messaggio lanciato alla posterità: “Scendo le scale del Pci devitalizzato. (…) Cammino a testa bassa. Le mie proposte sono da qualcuno guardate con interesse, ma, più spesso, respinte con fastidio, perfino con astio. Colpa mia. Non riesco a trasmettere sicurezza e concretezza. (…) Dovrei trasformarli. Ma come faccio se anch’io non mi trasformo?”.

Sono scariche elettriche quelle che ci accolgono lungo lo scorrere delle dieci giornate; hanno le sembianze di un diario che raccolga sfoghi, sensazioni e propositi; in realtà sono vibrazioni dell’anima, irregolari e distinte dal battito del cuore. Esse trovano nel nucleo centrale dello spirito una sorgente inarrestabile e dal flusso potente, il quale si insinua, come un nuovo sangue, in ogni particella del corpo imprimendole più di una direzione, così che il protagonista, mentre avverte tutta la ricchezza e vastità del proprio essere, ne resta smarrito e prigioniero.

È un romanzo che si divide equamente tra eccitazioni (“Ci ho addosso una forza che mi porta via…”; “Arriverò nella classe ad occhi chiusi correndo e lascerò che le parole escano fuori liberamente, diventerò per loro non solo quelle parole, ma questa energia giovane e frenetica, che si allargherà, conquisterà…”), le quali oltrepassano perfino, talvolta, il confine della sovversione, e delusioni ed immobilità per un futuro preannunciato, ma ormai furiosamente reso impossibile. Tutto ciò produce un grido, un urlo, più di disperazione che di rassegnazione, contagioso e lacerato, alla Munch. Non è un caso che, tra le tante diapositive che deve selezionare per una manifestazione del Pci, scelga questa: “Solo un’immagine funziona davvero: una studentessa che urla, il pugno alzato, il volto interamente preso insieme ad altri studenti, nel cuore di una manifestazione studentesca. Funziona: c’è un sentimento forte, un soggetto in evidenza, una realtà sociale, la piazza come contesto.”. È l’urlo ora a dominare, diventato un simbolo, un’icona, una rappresentazione universale della condizione umana. La piazza, la scuola (qui il riferimento all’esperienza della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani è evidente), ogni spazio diventano una esercitazione alla vita, una novella sperimentazione che, guidando ciascuno alla scoperta di sé, lo forgia per un rapporto innovativo con il prossimo: “Vorrei portarli laddove si crea, circuendoli in un rapporto stretto e diretto di domande-risposte, dove l’individualità diventa anche apporto collettivo, sentimento collettivo, in cui l’uno si sente parte di un insieme.”. È la ricerca ansiosa e fideistica di un percorso nuovo, un tentativo di cambiamento per resistere e ancora sperare. Nel libro, come non c’è amore, nemmeno ci sono silenzi. Pur in quello che immaginiamo possa essere il silenzio assoluto, noi percepiamo il nostro respiro, ossia il nostro essere e il nostro vivere, quello passato, quello di oggi, e perfino quello che è già dentro di noi in gestazione per il nostro futuro.

È una storia di forte e accelerato movimento. Le dieci giornate sono l’espressione di una eternità in divenire, che non potrà mai arrivare a sintesi e comprensione, né potrà mai né implodere né esplodere, ma semplicemente estendersi, invadere e dominare ogni volta sempre di più. E il suo rendersi incomprensibile altro non è che una astuta strategia di lotta per continuare a vincere. Un amico “filosofo” gli dirà: “per il nostro pianeta, per noi genere animale non c’è più speranza.”. Lui stesso rifletterà: “Mi sento senza alcuna estensione e spessore come se fossi soltanto questo grumo di dolore statico e ripetitivo, che mi inchioda ad un sentimento del nulla, di uno zero, che tuttavia esiste.”; “Mi sento investito di futuro e oscillo tra la cieca esaltazione dell’esserci e una paura poco decifrabile.”.

Quando arriviamo in fondo al libro, nemmeno ci se ne accorge. La scrittura è filata via liscia, i dialoghi sono di un sincronismo raro.

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe editore. Euro 12,00 


Bartolomeo Di Monaco 

nato a San Prisco il 14 gennaio 1942, ma risiede a Lucca dalla nascita. 
Ha scritto vari libri alcuni dei quali qui ricordiamo.
 
Opere di narrativa:
Cencio Ognissanti e la rivoluzione impossibile; Mattia e Eleonora; Caro papà, Caro figlio; Giulia; Cara Anna; Le tre sorelle; Lo sconosciuto; Gigolò; Celeste; La scampanata; Lucchesia bella e misteriosa. Storie e leggende; Tales told in Lucca; La casa delle meraviglie; La collina del Santo e del Diavolo; Il nonno racconta. Lucca, favole e leggende; Le favole di nonno Bart; In giro per Lucca con nonno Bart.
 
Opere di saggistica letteraria:
Quaranta letture. Percorsi critici nella letteratura italiana contemporanea; Quarantatre letture. Il Sud nella letteratura italiana contemporanea; Generazioni a confronto nella letteratura italiana; Leggiamo insieme gli scrittori lucchesi; Uno sguardo sulla letteratura straniera di ieri e di oggi; Letture sparse tra vecchio e nuovo; Il Risorgimento visto da ‘Il Conciliatore toscano’ del 1849; I Maestri. Gli elzeviristi del ‘Corriere della Sera dal 1967 al 1970; I Maestri. Scelta di articoli de ‘La fiera letteraria’ dal 1967 al 1968; Omaggio a Carlo Sgorlon. I romanzi; Narrativa minore sotto il Fascismo, Scrittori di guerra lucchesi.