25 febbraio 2009

" Luigi Ciotti " di Gianni Quilici



Vedo-sento  Luigi Ciotti a Parla con me.
Ogni volta mi colpisce.
La passione. La passione straripante.
Sembra a momenti che predichi. Alza la voce come se parlasse di fronte non a Serena Dandini, ma ad un pubblico generico, ma vivo.

In realtà non gli basta parlare alla Dandini.
Vorrebbe raggiungere chiunque.
Perché in lui c'è un'osmosi tra ciò che è e ciò che con gli altri fa. E' un io che vuole-desidera essere noi.
Che avvolge nel suo messaggio-testimonianza di coraggio e di responsabilità, di progetto e di azione contro la rassegnazione e contro tutto ciò che è disgustoso.
E' uno degli esempi più alti di cattolici in Italia.
Un corpo, una voce che testimonia contro e per. Con quell'amore verso gli altri e l'universo, disinteressato al sé.

"La tregua" di Primo Levi


di Gianni Quilici


Ho letto romanzi come Se questo è un uomo, Cristo si è fermato a Eboli, Il sentiero dei nidi di ragno soltanto qualche anno fa, e soltanto ora La tregua, perché nella mia vicenda scolastica, come insegnante, sono rimasto condizionato da un pregiudizio: che venissero fatti leggere per la loro valenza didascalica e morale.

Ho scoperto che “La tregua” è sì una straordinaria testimonianza, che documenta una fase mobilissima dell'Europa centro-orientale, subito dopo la liberazione russa dai tedeschi, ma che lo è, perché Primo Levi non è solo un testimone, ma un finissimo scrittore.

Si potrebbe parlare di lui come di quei fotografi, che innanzitutto ci sono, sono testimoni in prima persona, ma che, a differenza di altri, riescono a comunicare nel tempo ciò che hanno visto e sentito, a futura memoria.

Primo Levi racconta, infatti, un lunghissimo, tortuoso viaggio tra le rovine e le devastazioni dell'Europa liberata: da Auschwitz attraverso la Russia, la Romania, l'Ungheria, l'Austria, la Germania fino a Torino. Viaggio, dal quale è possibile cogliere una ricchissima documentazione storica sulle condizioni di miseria, di fame, di disperazione, di speranza, di invenzione creativa di popoli tra loro diversi, in una situazione di grande sommovimento di massa.

Un viaggio avventuroso, picaresco, scritto con occhi attenti a intrecciare il racconto con la descrizione sociologica , a cogliere il dettaglio e l'insieme. Primo Levi, infatti, è uno scrittore che ci fornisce scenari di massa inediti e grandiosi (“memorabile” come scrive Giuliano Manacorda “il disegno che ne viene del popolo russo”) con una galleria straordinaria di ritratti, di cui riesce a farci vedere corpo ed anima, a renderli unici, anche quelli, a cui dedica soltanto poche righe.
Anzi, in alcuni casi, per l'importanza e la durata che hanno nell'economia del romanzo, a consegnarceli indimenticabili, come Cesare, il Greco

La scrittura è ricca e precisa, senza compiacimenti linguistici, ma aderente alla materia trattata. Anche l'io del narratore è più un osservatore, che sta a lato, che un protagonista. Vive, soffre, gioisce con gli altri, ma il suo sguardo è mobile: una panoramica, un primo piano su questo e quello, che si snoda poi con storie avvincenti per la loro materialità, crudezza, invenzione.

La tregua. Primo Levi. Einaudi Tascabili.

"Europa/Occidente: Bioetica, Biopolitica" Intervista a Roberto Esposito


di Emilio Michelotti


La filosofia è, per definizione, ricerca dell’autenticità, anche lessicale. Ma le tipologie si sono fatte sempre più sfuggenti: che cos’è l'Europa, quali i suoi confini, è legittimo interpretarla come un’unica realtà? E se si, in che senso: culturale, economico, geopolitico?

“Occidente” è termine ancor più carico di antinomie: da un punto di vista delle affinità sistemiche e delle vicinanze culturali in questa dizione potrebbero essere comprese parte dell’Europa, il Nord America, il Giappone. Da una prospettiva globalizzata, tendenzialmente, l’Occidente potrebbe includere l’intero globo.
E’ chiaro che, a quel punto, tale categoria si annullerebbe, allo stesso modo che, nella visione hegeliana, il compimento della storia equivale alla sua fine.

Più inquietante ancora è, per Esposito, il paradosso celato dal termine “Democrazia”: impossibile da praticare, se non per circoscritti periodi nella forma diretta e radicale, ci si è accontentati di una versione delegata, spesso vuota di contenuti. Ma il filosofo va molto oltre.

Per lui la fase democratica (indiretta, limitata, formale) si è chiusa (per quanto?) negli anni ‘30-‘40 del secolo scorso. Dai totalitarismi novecenteschi, ma anche dalla pratica del welfare (nordeuropeo e del new-deal) si fa strada e permane la “biopolitica”. Lo stato interviene massicciamente nella sfera privata, la vita e la morte diventano soggette alle leggi che regolano ogni comportamento.
Naturalmente, non è indifferente che ciò avvenga o no sotto il controllo e la possibilità di recesso.

L’idea di uomo come “cittadino” aveva lasciato il posto a quella di “persona”. Ma il punto che è oggi in discussione, sui temi bioetici, è: “quando un essere umano diventa persona?” Su questo etica cattolica e etica laica si scontrano solo apparentemente. Entrambe hanno la convinzione che vi sia una parte di vita che non appartiene alla “persona”, entrambe sono certe che i temi della vita biologica debbano soggiacere alla sfera pubblica.

Che l’uomo naturale sia un mito è già un’affermazione filosofica forte per un laico, al quale però si può chiedere che nemmeno i temi biologici siano sottratti alla morale condivisa di un contratto etico. Ma chi crede che dobbiamo soggiacere a leggi eterne come può pensare di espungerli alla naturalità di un percorso nascita-morte? La possibilità di legiferare su temi squisitamente privati non è che il riconoscimento della opportunità di consegnare alle generazioni future un’umanità sempre più artificiale.

Massimo Adinolfi intervista Roberto Esposito. RED – canale 890 di Sky – martedì 21/02/09 ore 21,30 – Europa/Occidente

"Capannori anthology" a cura di Lorella Sartini e Luciano Luciani























Lammari. Foto di Gianni Quilici

di Lorella Sartini e Luciano Luciani

Questi nostri anni, così incerti, così difficili hanno ancora bisogno di storie: anzi, le esigono, in quantità sempre maggiore e di qualità sempre migliore. Per continuare a chiarire agli altri, ma soprattutto a noi stessi, chi siamo e come siamo diventati, da dove veniamo e dove stiamo andando. Le storie sono importanti, importantissime:
“La distanza più breve tra un essere umano e la verità è una storia… Una moneta d’oro perduta si ritrova grazie a una candela che vale pochi soldi: la verità più profonda si trova grazie a una semplice storia”
(B. Ferrero, Tutte storie).

E, ci avete mai pensato?, un territorio è proprio come un buon racconto: ti narra una storia, ti fa conoscere dei personaggi. Se questo territorio, poi, è quello, assai vasto, di un Comune a fortissima vocazione contadina, che, però, come tutto il resto del nostro Paese, negli ultimi trenta anni ha conosciuto profonde e radicali trasformazioni nei suoi assetti produttivi, economici, sociali, culturali, allora le trame si infittiscono, si complicano e i personaggi si moltiplicano. Al punto che per raccontare Capannori è stato necessario ricorrere a una corposa antologia: quattordici racconti per quindici scrittori, originari di Capannori, che in questi luoghi hanno vissuto la loro infanzia, giovinezza e prime esperienze, oppure che tra la Piana e le colline hanno conosciuto vicende rimaste significative nella loro esistenza. Non fa meraviglia, quindi, se il fil rouge che percorre le pagine di questa antologia si ritrova proprio in un forte senso di appartenenza alla propria terra di origine, alle proprie radici. Radici profonde, radici fatte di zolle, conficcate nella terra del Comune rurale più grande d’Europa. Radici ancestrali, un attaccamento perfino un po’ morboso al luogo e alla casa natali (G. Parenti, Vertigine Marcheschi).

Un legame talora ambivalente, di amore e odio, come nel caso di Camera Iperbarica di U. Salvoni: “Capannori sembrava un fungo atomico sulla carta geografica attaccata all’aula delle elementari…” dice il protagonista che soffre del senso di inferiorità di vivere nel contado di Lucca, ma, allo stesso tempo, è orgoglioso della sua terra e, anche se si trasferirà all’estero per lavoro, ha come obiettivo tornare a vivere nella soffitta di corte Baroni, a Lammari.

Per la protagonista di Capannori per me di G. De Luca, la propria terra d’origine è solo ‘una macchia in mezzo ad una carta geografica,…’, ma lì sempre ritorna con senso di nostalgia anche dopo aver girato mezzo mondo. Un attaccamento forte, imprescindibile, che in questo racconto diventa una vera e propria dichiarazione d’amore.

E’ come se i campi, le colline coltivate a olivi, i fiori, il sole di Capannori esercitassero il potere di un benefico sortilegio. Un luogo quasi magico dove la vita è ancora a misura d’uomo e nel Volo di L. Di Ponte arriva addirittura ad avere un potere demiurgico.

Capannori è raccontata attraverso i suoi simbolici luoghi fisici: le ville storiche, le Pizzorne, i Monti Pisani, i torrenti e i laghetti (si legga in proposito Una pesca fortunata di Romano Morotti), il Padule e i luoghi del cuore; le corti dove si allevano le mucche, si ripone il fieno, si tirano quattro calci al pallone e i barini di paese, come Il Mattaccio, il circolino di Tassignano, sempre in bilico tra la realtà quotidiana delle interminabili partite a scopone o a tressette degli avventori di sempre e le aspirazioni, un po’ velleitarie, dei più giovani a trasformarlo in un centro sociale sul modello delle più avanzate esperienze metropolitane (M. Parenti, Il Mattaccio. Approdi e naufragi)

Sospesa tra tradizione e modernità, Capannori, con raccolta mestizia e un filo di speranza, ora scopre nel proprio seno i figli della globalizzazione e dei rapporti inuguali tra il Nord e il Sud, l’ Occidente e l’ Oriente (M. Cecchetti, Al castello), ora fa i conti con i i frutti avvelenati dell’avvento improvviso di costumi e stili di vita fin troppo disinvolti e disinibiti (M. Antonetti, Pam…6 morto).

E Capannori significa anche Capannoresi, donne e uomini, industriosi e pazienti, coraggiosi e intraprendenti. Quelli di ‘appena ieri’, nelle loro umanissime grandezze, passioni e miserie, con affettuosa ironia che sa farsi condivisione e ‘simpatia piena d’amore’, ce li raccontano D. Toschi, Marliesi di Piaggiola, S. Bartolini, Gli ultimi Capitani e G. Dovichi, Binda.

Capannori, poi, è anche terra di luoghi densi di mistero: talune lande ancora desolate, certe ville appartate e impenetrabili dietro i loro muri di cinta, capannoni industriali in disuso e abbandonati da anni, piccoli cimiteri di campagna circondati da un’ aura oscura… Ghiotti materiali narrativi che non potevano sfuggire a un paio dei nostri Scrittori (R. Giorgi Consorti, Per gioco e per amore; G. Gemignani Marchi, Vietato l’ingresso ai fantasmi: anzi Scrittrici, vorrà forse dire qualcosa?) che rielaborano questi dati alla luce della recente, diffusa sensibilità per la narrativa di mistero e d’indagine.

Può mancarti, Capannori? Quali le ragioni del fascino sottile esercitato “da questa macchia in mezzo al nulla delle carte geografiche”? Tocca ai due Autori più giovani ospitati in questa raccolta (M. Karakri e M. Poccioni, I cieli di Tofori Dialogo capannorese) rispondere: “niente è meglio del sano ozio nella campagna toforese”, e in fondo, “casa” è dove ti senti davvero bene!

Capannori anthology, a cura di Lorella Sartini e Luciano Luciani, editore Giulio Perrone.

23 febbraio 2009

"Miti, Emblemi, spie" di Carlo Ginzburg


di Emilio Michelotti



L’ambizione della corrente storiografica che non a caso nasce dopo il sommovimento sessantottino è quella di sottrarsi sia alle secche del razionalismo sia alle paludi dell’irrazionalismo. Il metodo di ricerca storica ruota attorno alla possibilità di inserire nella incerta “scienza” della narrazione dei fatti l’ermeneutica applicata a testi letterari – il gusto del particolare rivelatore –e a testi pittorici o scultorei (con un esplicito riichiamo a ABY WARBURG)

Dallo studio del folklore, della etnologia, della mitologia (Mondo Magico di De Martino, Dialoghi con Leucò di Pavese, Morfologia della fiaba e Radici storiche dei racconti di fate di Propp, I re taumaturghi di Bloch, Antropologia strutturale di Lévi-Strauss), Ginzburg trae lo spunto per una lettura della storia come scontro fra culture diverse – in special modo fra cultura alta (colta) e cultura bassa (popolare).

Raccogliere miti e credenze provenienti da ambiti culturali diversi sulla base di affinità formali è, mi pare, la caratteristica principale dello stile di ricerca – innovativo all’interno di un generale ripensamento sulla figura dello storico – usato da Carlo Ginzburg per ricostruire i percorsi e gli eventi . Egli “usa la morfologia come una sonda per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica”.

La “scoperta”, egli afferma, “che mi pare inconfutabile, è quella dell’esistenza di un nucleo mitico che per secoli, forse per millenni, ha mantenuta intatta la propria vitalità (ma, vorrei chiedergli, nell’analogia fra benandanti e sciamanesimo va riconosciuta una continuità storica o un rapporto tipologico?).

Una continuità, egli risponde, che è rintracciabile al di là delle innumerevoli variazioni: però, diversamente da Lévi-Strauss e da Jung, egli non la riconduce a “una generale tendenza dello spirito umano”. Scartate “le pseudo spiegazioni che non fanno altro che riproporre il problema (archetipi, inconscio collettivo)”, l’incontro inevitabile era con Freud e Dumézil.

Per Freud il complesso centrale della mitologia è lo stesso della nevrosi – la teoria psicoanalitica serve a comprendere il mito. Per Jung è esattamente l’inverso – nel mito-archetipo-inconscio collettivo è nascosta la spiegazione della nevrosi. In altre parole “siamo noi che pensiamo i miti” (Ginzburg, Freud e senso comune) oppure “sono i miti che pensano noi” (Jung, Lévi-Strauss e interpretazioni irrazionalistiche)?

Ginzburg valorizza le varianti, in polemica con il vecchio strutturalismo: la differenza fra le varianti e soprattutto i contesti entro i quali agisce il mito è grande, più grande ancora è quella fra il vivere passivamente un mito (i miti pensano noi) e il cercare di darne un’interpretazione critica. Un banale razionalista?

Nient’affatto: la formula di Lévi-Strauss ha il grandissimo merito di sottolineare provocatoriamente “l’indefinita approssimazione di ogni categoria analitica”.
L’irrazionale è l’altra faccia della storia, guai a non tenerne conto. (come già diceva cinquant’anni prima il grande, grandissimo Eric Robertson Dodds, aggiungerei).

Carlo Ginzburg. Miti, emblemi, spie. Einaudi, 1986

20 febbraio 2009

Margherita Hack


di Gianni Quilici

Mi viene da pensare a volte banalmente “ci sono in Italia donne e uomini pubblici di grande valore,” contrariamente a quello che qualunquisticamente si è, a volte, indotti a pensare.

Una di questi-e è Margherita Hack.

Ora di lei non conosco, ne' posso valutare il valore di scienziata; ho soltanto delle impressioni sulla sua persona sulla base delle sue presenze televisive e di ciò che ho, qua e là, letto.

Di lei ciò che mi colpisce, al fondo, è la libertà.
La libertà di essere semplice nella sua complessità, di essere diretta nella sua chiarezza, di risultare (forse) provocatoria nella sua naturalità. La libertà infine di parlare da “fiorentina” il “fiorentino”. Non omologandosi, risultando inconfondibile.

"Leggerezze" di Monica Dini


di Liliana di Ponte

Forse non ci si ferma mai abbastanza a riflettere su come ogni momento della nostra vita sia l’incrocio inconsapevole, ma non per questo meno rilevante, di storie, relazioni, incontri occasionali, eventi imprevisti, appuntamenti inevitabili: tutto quanto ci tocca o ci sfiora e che chiamiamo caso, fato, destino. E ad un certo punto ci si trova di fronte ad una scelta, ad un gesto impensato, ad una sospensione del quotidiano che sembra rimettere tutto in gioco, ma senza clamore, quasi con naturalezza, con leggerezza, come se da sempre avessimo messo in conto che poteva accadere.

Questi pensieri accompagnano la lettura dei racconti di Monica Dini, Leggerezze, edizioni Besa, introdotti da una riflessione di Julio Monteiro Martins.

Sono storie di donne e uomini comuni, di bambini reali alle prese con il mondo degli adulti o da questi rievocati come immagine della propria infanzia.
Storie di sentimenti quotidiani, di azioni rassicuranti nella loro ripetitività, su cui aleggia però una vaga inquietudine, a volte un esplicito malessere, che solo raramente dà luogo ad un vero cambiamento. Quasi sempre, infatti, i protagonisti si fermano prima, non compiono il passo decisivo che li porterebbe al di là del loro scontento, preferiscono continuare a camminare sul confine che separa il già noto dai territori inesplorati e a coltivare fantasie destinate a rimanere tali.
E allora il feeling che per un attimo attraversa, come una scarica elettrica, la casalinga e lo spazzino, si dissolve velocemente, assorbito dai rassicuranti odori domestici.

La violenza esplicita e quella occulta, non meno devastante, dei rapporti coniugali rimane cristallizzata, senza riuscire a sciogliersi nella ribellione, per incanalarsi invece nella rassegnazione e nell’abitudine. Così come i tradimenti, fantasticati o reali, che diventano vigliaccheria e alimentano rancori.

C’è anche molta solitudine, in questi racconti, quasi come un fatale corollario che accompagna la vita di chi solo lo è davvero ma anche di chi ha qualcuno al suo fianco.

E c’è, inevitabile, il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato e, insieme, la paura di stare preparando il rimpianto di domani, come dice Miriam alla nonna “(…) ho paura di questa domanda: ma tu cosa avresti voluto dalla vita? E se mi dimenticassi qualcosa da fare? Se non trovassi il coraggio di fare, se in fondo senza più forze non potessi rimediare?”

Le leggerezze del titolo stanno tutte qui, in questo scorrere di eventi e di pensieri che è la nostra vita, nei gesti compiuti e negli atti mancati, nell’incendio che divampa ad un passo da noi mentre continuiamo a parlare, a mangiare, a guardare la TV (come nel racconto che dà il titolo alla raccolta).

Monica Dini si guarda intorno e riconosce, in ciò che osserva, il tratto che tutti ci accomuna, quel misto di inconsapevolezza, coraggio e istinto di sopravvivenza che ci fa comunque andare avanti. Con una scrittura che sa essere lieve, incisiva e modulata su registri narrativi adeguati alle storie e ai personaggi, riesce a farci condividere il suo sguardo ironico e affettuoso, ci fa sorridere, ci fa riflettere.

Monica Dini, Leggerezze, Nardò (LE), Besa Editrice, 2008, pp. 126, euro 13,00

18 febbraio 2009

Albert Camus: "Lo straniero" è Sisifo?


di Emilio Michelotti


Camus pubblica “Il mito di Sisifo” nel 1942, lo stesso anno de Lo straniero. Ho buone ragioni per ritenere che “l’uomo assurdo” definito nel saggio letterario-filosofico sia esattamente Meursault, il protagonista del romanzo.

L’uomo non è assurdo di per sé, come non lo è il mondo, l’assurdità origina dalla convivenza fra i due enti, dall’estraneità irriducibile con la quale l’essere [denso di stranezza] della natura e delle cose si sottrae alla ragione.
"Ecco ancora degli alberi, di cui conosco le rugosità, e dell’acqua, di cui sento il sapore. E questi profumi d’erba e di stelle, la notte, in certe sere che il cuore si placa….come negherò questo mondo, di cui sento la potenza e la forza? Eppure tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene.Voi me lo descrivete e mi insegnate a classificarlo; enumerate le sue leggi, mentre, nella mia sete di sapere,ammetto che siano vere. Al termine ultimo, [del ragionamento]questo universo incantevole e variopinto me lo spiegate con un’immagine… Così questa scienza, che doveva tutto farmi conoscere, finisce nell’ipotesi, questa lucidità sprofonda nella metafora, questa incertezza si risolve in opera d’arte…Qual è dunque la mia condizione, se non posso aver pace che rifiutando di sapere e di vivere?”
(Sisifo, 1,II “Le muraglie dell’assurdo”)

Il mondo non è razionale né irrazionale: è irragionevole, e la coscienza dell’assurdo è la ragione lucida, che accetta i propri limiti. A Meursault il mondo chiede unità e solidarietà.
“Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché ciò non è evidente. Egli, appunto non vuol fare quello che non capisce. Lo si assicura che è peccato di orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato); che forse alla fine c’è l’inferno(ma egli non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi questo strano avvenire);che perderà la vita immortale (ma questo gli sembra futile). Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza, ma egli si sente innocente.A dire il vero egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile”. (Sisifo, 1,I “Un ragionamento assurdo”)

Nel senso dell’assurdo sta l’accettazione della vita. Ma che significa vita in un universo del genere? Nient’altro che indifferenza per l’avvenire e passione di esaurire tutto ciò che ci è dato. La credenza nel senso della vita suppone sempre una scala di valori, una scelta delle preferenze. La credenza nell’assurdo, che è quella di Meursault, insegna il contrario:
“L’assurdo mi illumina su questo punto: non esiste un domani. Ecco ormai la ragione della mia profonda libertà…..una libertà rispetto alle regole comuni, un ritorno alla coscienza di essere volto alla morte (intesa come la più evidente assurdità)e l’evasione dal sonno quotidiano ne rappresentano i primi passi… . i principi della sola libertà ragionevole, quella che un cuore umano può provare e può vivere,….dalla quale può trarre la forza, il rifiuto della speranza e della consolazione”. (Sisifo, 1,III “La libertà assurda”)

Si è detto: Camus non è Meursault. Ma in questo, sì: entrambi rifiutano il suicidio, possono sopportare la mancanza di speranza e il destino di morte proprio perché amano la vita, intesa come contraddizione inestricabile. L’uomo è mortale e la sua condizione è la non conoscenza, eppure la contingenza dell’esistenza, la sola che si può sperimentare, è incommensurabilmente preferibile al nulla. L’assurdo non libera, vincola. Così va inteso il dostoevskiano “tutto è permesso”:
“Tutte le morali sono fondate sull’idea che un atto abbia conseguenze che lo legittimano o lo cancellano a poco a poco. Uno spirito, penetrato di assurdo, giudica soltanto che gli effetti devono essere considerati con serenità. Tale spirito è pronto a pagare, e, per dirla in altre parole: se per esso vi possono essere responsabili, non vi sono colpevoli…. Il tempo farà vivere il tempo e la vita servirà alla vita….Quale regola potrebbe, dunque, derivare da quest’ordine irragionevole? La sola verità…. si anima e si svolge all’interno degli uomini”. (Sisifo, 2, I “L’uomo assurdo”)

La scelta di un personaggio come Meursault è dovuta al fatto che questo mira esclusivamente ad esaurirsi (oppure perché Camus stesso è cosciente che si esaurisce) Niente di più.
Voglio parlare di un mondo in cui i pensieri, come le vite, siano privi di avvenire [altrove dice: privi di eternità]. Tutto ciò che fa lavorare e agitarsi l’uomo trae partito dalla speranza. Dunque, il pensiero sterile è il solo che non sia falso. Nel mondo assurdo, il valore di una nozione o di una vita viene misurato in base alla sua infecondità”. (Sisifo, 2, I “L’uomo assurdo”)

Non credere nel senso profondo delle cose, essere indifferente, è la caratteristica di Meursault. Egli s’impossessa dello stupore dell’esistere, lo mette da parte come fardello inutile, lo brucia. E il tempo è dalla sua parte, egli non si separa mai dal tempo, ha coscienza della propria contingenza e la vive fino in fondo: non cerca l’eternità, nega il rimpianto – che è un’altra forma di speranza. In questo è simile a Don Giovanni:
“Don Giovanni ha scelto di essere il nulla….Ma dell’amore io non conosco che questo miscuglio di desiderio, di tenerezza o di intelligenza che mi vincola a una determinata persona, e il modo in cui esso è fatto non è uguale a quello di un altro.Io non ho il diritto di raccogliere tutte queste esperienze sotto lo stesso nome..amore generoso è soltanto quello che si sa,al tempo stesso, passeggero e singolare…. Don Giovanni [Meursault]trova normale essere castigato: è la regola del gioco, e la sua generosità sta appunto nell’aver pienamente accettato tale regola. Ma egli sa di aver ragione [la sua totale innocenza di assassino, n.m.]e che non può trattarsi di castigo: un destino non è una punizione…egli giunge a una scienza senza illusioni… ..per cui la sua fine è ritenuta degna di disprezzo” (sisifo,2,II “Il dongiovannismo”)

Camus, con “Lo straniero” ha messo in azione un principio che nel “Mito di Sisifo” espone apertamente, se ce ne fosse bisogno: la vera opera d’arte ha misura umana e, nella sua essenza, è quella che “dice meno”, che non spiega. Egli rifugge dal pretendere di presentare un’intera visione di mondo entro i limiti di una letteratura esplicativa: l’opera deve essere “ un brano intagliato nell’esperienza, una sfaccettatura di diamante in cui si compendia la luce interna, senza limitazione”. L’opera incarna, dunque un dramma intellettuale:
“L’opera assurda illustra la rinunzia del pensiero alla grandezza e la rassegnazione a ridursi alla sola intelligenza, che mette atto le apparenze e nasconde sotto immagini ciò che è privo di ragione. Se il mondo fosse chiaramente comprensibile,l’arte non esisterebbe….L’espressione comincia dove il pensiero finisce.…Scrivere per immagini piuttosto che con ragionamenti, è indice di convinzione dell’inutilità di ogni principio esplicativo e [invece] dell’istruttivo messaggio dell’apparenza sensibile… E’ la conclusione di un pensiero filosofico spesso inespresso, la sua illustrazione e il suo coronamento” (Sisifo,3”La creazione assurda”,I,”Filosofia e romanzo”)

Un atteggiamento, per essere “assurdo” – nel senso che dà Camus a questo termine – deve essere sempre cosciente della propria gratuità. Così è per l’opera d’arte, così è per “Lo straniero”: essa illustra il divorzio fra uomo e mondo, la rivolta, nega l’illusione e la speranza, in modo che ci si possa staccare da lei. Se il lettore vi trovasse un senso sarebbe ridicola, non rispecchierebbe la separazione e la passione, lo splendore e l’inutilità della vita di ogni uomo.
“Tenace è la speranza nel cuore umano. Gli uomini più miseri finiscono, a volte, per consentire all’illusione. Questa approvazione, dettata dal bisogno di pace, è intimamente imparentata con il consenso esistenzialista. Vi sono, così, dèi di luce e idoli di fango. Ma è la via di mezzo, che conduce agli aspetti dell’uomo, che è nostro compito trovare” (Sisifo,3,I,”Filosofia e rom.)

Kirillov, protagonista de I Demoni, ma in genere tutti i personaggi del Dostoevskij maturo, dice Camus, sente che Dio è necessario e che bisogna che esista, ma sa che non esiste e che non può esistere. E’ già il personaggio assurdo, come lo intende Camus, come Meursault, con però una contraddizione e una riserva fondamentale: che si uccide. In lui, alla logica lucida si aggiunge una straordinaria ambizione che è estranea a Meursault: vuole uccidersi per diventare dio. Una divinità ricondotta alla terra, come un Gesù che, morendo, non si sia ritrovato in paradiso ed abbia capito che la sua tortura era stata inutile, che era morto per una menzogna.
“Divenire dio, significa soltanto esser libero su questa terra e non servire un essere immortale e, soprattutto, trarre tutte le conseguenze da questa dolorosa indipendenza. Se Dio esiste, tutto dipende da lui e non possiamo niente contro la sua volontà; se non esiste tutto dipende da noi…Ma gli uomini non lo sanno e, come al tempo di Prometeo, nutrono in sé le più cieche speranze….Essi sono infelici perché sono obbligati a proclamare la propria libertà, una libertà terribile. (Sisifo, 3, II “Kirillov”)

Tutto è bene, tutto è permesso e nulla è detestabile. Ora questo mondo assurdo non pare più per nulla mostruoso: vi ritroviamo la quotidianità delle nostre angosce. Sisifo/Meursault è l’eroe assurdo: il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita gli procurano l’indicibile supplizio in cui tutto l’essere si adopera per nulla condurre a termine. E’ il prezzo che si paga per le passioni sulla terra. L’ora del ritorno di Sisifo verso il supplizio è l’ora della coscienza.
“In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino, è più forte del suo macigno. In che consisterebbe la pena se, a ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? Come un uomo si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui diviene cosciente. Il suo tormento è la sua vittoria: non esiste destino che non possa essre superato dal disprezzo…La felicità e l’assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili”. (Sisifo, 3, IV La creazione senza domani)

17 febbraio 2009

"Scorciatoie e Raccontini" di Umberto Saba


di Gianni Quilici


Ciò che (mi) colpisce leggendo Scorciatoie e Raccontini di Umberto Saba è il candore.
Un candore che si ama senza desiderio di supremazia; intelligente, ma senza esibizionismi; che sorprende per l'acutezza sintetica di alcune scorciatoie, che hanno alle spalle la sua radice culturale mitteleuropea (Freud e Nietzsche i dichiarati maestri); ma che si lascia (vuole lasciarsi) trasportare anche dall'aneddotica, senza una sua importanza -diciamo così- oggettiva.

Si potrebbe dire che dietro, anzi dentro, la scrittura di Saba ci sia il lettore, un lettore che il poeta non vuole assolutamente annoiare, che vuole interessare o divertire, con cui, in una parola, vuole comunicare.

Tra le tante scelgo una “scorciatoia” illuminante dei tempi che viviamo:
“Come possono gli inglesi aver pensato -pensare ancora- a un “pericolo” comunista in Italia? Non hanno occhi per vedere che l'Italia -il più illustre di noi informa- è il paradiso dei reazionari?
L'Italia -direbbe il loro e il mio Shakespeare- è una rosa troppo bella, troppo profumata, per non accogliere nel suo grembo il verme più ripugnante”

Umberto Saba. Scorciatoie e Raccontini. Pag. 206. il melangolo.

"Per amore o per finta" di Giuliano Parenti

di Luciano Luciani




Per amore o per finta, il secondo romanzo di Giuliano Parenti, arriva in libreria appena un anno dopo la pubblicazione dei suoi Racconti col fiato corto, Mantova, 2007, trentuno storie insolite, surreali, spiazzanti, a testimonianza della inesauribile vena inventiva di questo ‘creativo’ a trecentossessanta gradi: pittore, scultore, pluripremiato autore di testi teatrali, radiofonici e microeditore dei deliziosi volumetti delle ‘Edizioni del Trito&Ritrito – All’insegna del Povero‘ (libricini che non hanno prezzo “perché non sono in vendita da nessuna parte. Vengono regalati per simpatia verso chi li riceve e antipatia verso il Mercato con dispetto parlando”) - questo appartato scrittore toscano / lombardo dimostra di aver conseguito e mantenuto eccellenti livelli di un’invidiabile maturità artistica.

Così, dopo averci narrato, all’inizio del millennio appena iniziato, le quasi profetiche peripezie di Uliess, stralunato artista di discarica (Uliess, lettore d’immondizie, Il Grandevetro/Jaca Book, 2001), che dai sacchi di spazzatura colmi di rifiuti urbani ricostruisce abitudini, mentalità ed esistenze degli uomini e delle donne che li hanno prodotti, in Per amore o per finta Giuliano Parenti ci propone un altro dei suoi eccentrici personaggi: questo si chiama Other Berlina, è un attore meno che mediocre, ma ha avuto la fortuna di imbroccare l’unico tipo di spettacolo adatto ai suoi modestissimi mezzi espressivi: la fiction televisiva seriale. Grazie al provato mestiere del burbero regista Hans Christian Coltellass, il Nostro è riuscito nell’impresa di entrare come in guanto nei panni dell’ispettore Quapur, un po’ 007 e un po’ Maigret, ottenendo sì uno straordinario successo di pubblico, ma anche la completa consapevolezza della propria assoluta inettitudine: “Guadagnavo montagne di soldi senza interpretare nessuno, recitavo me stesso e la mia incapacità di esternare quello che avevo dentro” (p. 27). Tanta fama e tanti quattrini, dunque, che, come piacevole corollario, comportano anche eccezionali, prestigiose e raffinate storie d’amore: per esempio, quella con Mary Effy, donna misteriosa e insieme complicata e affascinante, di mestiere manager di una sofisticatissima multinazionale di profumi, quotata in Borsa…

Così, tra l’umoristico e il grottesco, tra il farsesco e il ridicolo, si dipanano e si intrecciano le vicende, ora professionali, ora erotico – sentimentali, sempre tragicomiche, di un attore – ma anche di un uomo - senza qualità, doti e vocazioni nella mani di un’astuta ed esigente manipolatrice delle esistenze altrui.

Una trama vitalissima e capace di continui colpi di scena quella orchestrata dall’Autore: apparentemente lieve e disimpegnata è, invece, tutta tesa a un feroce contrappunto nei confronti dello stato di cose esistenti, dei suoi banali e scadenti personaggi e protagonisti, delle loro velleità e ubbie. Ben sostenuti da un linguaggio tanto prosciugato ed essenziale quanto pungente e mordace, gli intrecci narrativi di Per amore o per finta evidenziano, col sorriso sulle labbra e senza mai ricorrere a facili moralismi, i vizi assurdi, le incoerenze, le insensatezze del tempo che ci è stato dato di vivere e dei suoi scialbi abitatori.

Giuliano Parenti, Per amore o per finta, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2008, pp. 196, Euro 12,00

15 febbraio 2009

"Geograficamente" di Manlio e Federico Dinucci


di Luciano Luciani

Un manuale, questo Geograficamente, Zanichelli, 2008, di Manlio e Federico Dinucci, che non nasconde le sue ambiziose intenzioni didattiche ed educative. Anzi, le proclama fin dalla quarta di copertina: “formare cittadini responsabili, capaci di osservare il mondo da un punto di vista geografico”. Un obbiettivo, chiunque lavori nella scuola lo sa, per niente facile da realizzare; piuttosto, un impegno da far tremare le vene dei polsi, ma che gli Autori, due noti ‘addetti al lavori’, affrontano con piglio fiducioso e un ammirevole ottimismo pedagogico.

A partire dallo stile di comunicazione scelto per i tre volumi: grande abbondanza di belle immagini vicine alle conoscenze multimediali ormai patrimonio di ogni studente sulla soglia dell’adolescenza;
un linguaggio che cerca sempre (talora addirittura con qualche eccesso !) di proporsi in maniera chiara, semplice, fruibile.

Scandito in paragrafi, corrispondenti ad argomenti che possono essere trattati in un’ora di lezione, accompagnati da opportuni approfondimenti (Visti da vicino), costruiti su temi ambientali e sociali, e da stimolanti e aggiornati Inviti alla lettura, racconti e articoli di interesse geografico, Geograficamente permette al giovane lettore / studente di percorrere tutto il lungo e complesso itinerario che, attraverso il nostro Paese, l’Europa e il resto del mondo lo porterà ad acquisire un abito mentale più largo e critico: “scoprirai” scrivono gli Autori nelle pagine di presentazione del loro lavoro “terre, popoli, e culture che non conoscevi; imparerai che cos’è la globalizzazione; ti renderai conto che viviamo in un mondo da un lato sempre più collegato, ma dall’altro ancora diviso tra una minoranza ricca e una maggioranza povera. Capirai così perché è importante considerarci cittadini del mondo.” Un traguardo educativo alto, da ottenersi attraverso una progressiva crescita di consapevolezza non solo geografica, ma civile.

Aiutata didatticamente sia da puntuali pagine di Verifica, ricche di test, esercizi sulle immagini e sul testo, sia dalla sezione Impara a imparare, che segnala argomenti ed esercizi che sviluppano la capacità di apprendere, una delle competenze che l’Unione Europea ha individuato come “strategica” per i cittadini della società della conoscenza.

Utilissimi, poi, e all’altezza della tradizione geografica Zanichelli, gli Atlantini in appendice a ogni volume con tanto di ‘carte mute’ (do you remember ?) e il dizionarietto Le parole della geografia, che offre definizioni precise e comprensibili dei concetti di base che stanno al fondo di ogni serio lavoro geografico.


Manlio Dinucci, Federico Dinucci. Geograficamente.
Volume 1 Noi e l’ambiente europeo; Volume 2 Noi cittadini d’Europa;
Volume 3 Noi cittadini del mondo, Zanichelli, Bologna 2008.

04 febbraio 2009

"Il monumento di Paganico"

di Luciano Luciani





Paganico: una delle innumerevoli frazioni del Comune di Capannori, un tempo il territorio rurale più vasto d’Italia. Toscana interna, Lucchesia profonda: generazioni e generazioni di gente contadina visceralmente attaccata alla piccola proprietà della terra. Ritmi di vita sempre uguali anno dopo anno, scanditi solo dalle faticose necessità del lavoro nei campi, dalle esigenze familiari, dalle pratiche religiose di una cattolicesimo semplice, magari in gran parte rituale ma sincero e sentito.

Ebbene, nella prima metà del secolo scorso, il Novecento di ferro e di fuoco, questo modesto borgo agricolo è stato sconvolto e duramente segnato da due eventi eccezionali: la partecipazione obbligata dei suoi giovani alle due guerre mondiali, destinate a insanguinare l’Europa e il mondo intero. Con il conseguente tributo di vite umane che la Grande Storia ha preteso anche dalla piccola comunità di Paganico di Capannori in Provincia di Lucca.

Sono stati 14 i caduti di questo tranquillo paese lucchese nel corso dei due conflitti mondiali e la pietà degli uomini è riuscita, solo con grande fatica e solo nel corso del mezzo secolo successivo a riportare a casa i loro resti, sparsi sui fronti di guerra di tutta Europa.

Oggi, in tempi di diffuso bisogno di pace, la comunità paesana ha sentito l’esigenza di ricordarli tutti assieme con un monumento che sia insieme memoria e monito forte per evitare lutti futuri. Questi i loro nomi: Cerri Giovanni Oreste, Fanucchi Giovanni, Fanucchi Giovanni Domenico, Fanucchi Marino, Massei Pietro, Morini Emilio, Pacini Giovanni, Picchi Andrea, Picchi Gino, Picchi Giovanni, Picchi Giovanni Pietro, Pinochi Luigi, Tolomei Giovanni, Tolomei Giovanni Giuseppe.

Di tutti loro, a partire dal novembre, 2008 farà memoria un piccolo complesso monumentale voluto, attraverso il gruppo di volontariato Donatori di Sangue “FRATRES” e l’Amministrazione Comunale di Capannori, dall’intera comunità di Paganico e realizzato secondo un progetto che nulla concede alla retorica bellicista presente su tante piazze del nostro Paese e che, anzi, sceglie di alimentarsi di quella “cultura della pace di cui il mondo d’oggi, attraversato ancora e di nuovo da tante guerre feroci, vicine e lontane, ha un gran bisogno”.

Nato da un’idea dell’architetto Luciano Lucchesi e prodotto in marmo e cor–ten, un particolare tipo di materiale ferroso capace di trasmettere con pienezza il senso di desolazione proprio degli eventi bellici e delle loro tristi conseguenze, il monumento è stato materialmente costruito dagli studenti e dagli insegnanti dell’Istituto Tecnico “Giovanni Giorgi” di Lucca, consentendo interessanti e utili connessioni tra le materie più specificatamente professionali e quelle umanistiche del loro corso di studi. Soprattutto, ha rappresentato un’indimenticabile lezione di virtù civiche. Due, soprattutto: il dovere della memoria e quello della pace.

03 febbraio 2009

"Il nuotatore" di John Cheever


di Gianni Quilici

Una delle scelte che il “tempo capitalista” suggerisce all'editoria è (anche) la pubblicazione di libri agili al di sotto, in certi casi largamente, delle 100 pagine. Le ragioni sono scontate: il lettore oggi ha meno tempo per leggere e quindi libretti scarni per una-due serate possono risultare l'ideale per essere comprati e poi letti.

Una di queste case editrici è la Fandango, che ha stampato “Il nuotatore”, tre racconti di John Cheever (USA, 1912), che arrivano appena a 50 pagine.
Il nuotatore, racconto che dà il titolo al libro, è, come ha scritto Franco Cordelli, “un piccolo capolavoro”.

Il protagonista Neddy è un uomo felice: ha una moglie e quattro splendide figlie. Lo troviamo all'inizio in una piscina disteso vicino all'acqua verdognola, una mano immersa nell'acqua e l'altra stretta intorno ad un bicchiere di gin. E' una bella giornata calda, anche se verso occidente si vede una massiccia formazione di nuvole cumuliformi. Neddy ha un'idea: tornare a casa sua a nuoto attraverso una serie di piscine di questo o quel suo amico. Una quindicina di chilometri, ma si sente il cuore leggero. Comincia a correre sull'erba con la sensazione di essere un pellegrino, un esploratore, un uomo del destino, sapendo che troverà sul suo percorso molti amici...

Il viaggio non sarà così lineare come Neddy aveva immaginato: la pioggia, la scortesia, il freddo, le auto, la debolezza, il buio...
Ed alla fine avrà una sorpresa. Viaggio metafora. Metafora ambigua: sogno o realtà, delirio oppure che cosa?
Scrittura lineare, quotidiana, da flusso di coscienza ordinata e in terza persona.
Gli altri due racconti: Un giorno qualsiasi, cechoviano; e Una radio straordinaria, ideologico.

John Cheever. Il nuotatore. Traduzione di Marco Papi. Fandango Tascabili. Pag. 59. euro 5,00.

01 febbraio 2009

"I bambini ricordano" di Oliviero Toscani


di Gianni Quilici


Bellissima mostra fotografica, con incluso il libro, “I bambini ricordano” di Oliviero Toscani, perché riesce a dare -oggi negli anni 2000- il senso e lo spessore della tragedia di un lontano 1944 in uno dei luoghi simbolo delle stragi naziste in Italia: Sant'Anna di Stazzema.

Perché Oliviero Toscani ha capito che due erano i linguaggi possibili per dare “senso”: i volti e le parole.

E che questi volti dovevano essere colti da vicino, ravvicinati il più possibile, in certi casi essere soltanto “occhi”. E che il bianco/nero sarebbe stata la pellicola più efficace per cogliere nella sua essenzialità di contrasto questa materia.

Così questi volti scavati dal tempo, questa sospensione muta di testimonianza, condanna, ferita, comunque memoria, ci guardano direttamente, ci attraversano. Volti bellissimi, perché veri.

Sarebbero bastate (queste foto)? No. Ci voleva la parola, che si facesse racconto, racconto corale. Quelle parole, quel racconto che forse tante volte (questi superstiti) avevano-hanno vissuto come ricordo incancellabile, come ossessione. Ecco allora che ogni volto ha la sua storia. La storia di quella mattina 12 agosto 1944. L'eccidio di Sant'Anna di Stazzema. 560 persone, tra cui moltissimi bambini, donne, anziani.

Sarebbero bastati quei primissimi piani di volti allora bambini-e o giovanissimi-e con la loro storia? Sì, ma Oliviero Toscani non è soltanto fotografo è anche grafico, conosce cioè l'importanza del rapporto tra immagine e parola, sa che la parola può diventare immagine. Ecco allora estrapolare da questi racconti una frase, evidenziarla ingrandendola. Gigantografia dei ritratti, racconto, gigantografia di una frase, che diventa grido, percorso, che accompagna la mostra.

“I bambini ricordano” di Oliviero Toscani. Capannori. Atrio del Palazzo comunale. Fino al 15 febbraio. Ore 9.00/19.30 da lunedì a venerdì e 9.00-13.00 il sabato.

Oliviero Toscani. I bambini ricordano. Sant'Anna di Stazzema 12 agosto 1944. Feltrinelli. Pag. 125. Euro 25,00.