21 luglio 2013

"Viaggio in Sardegna" foto di Gianni Quilici



Una lima di polvere in fuga
sotto cerchi spinti veloci dal fiato
nell'azzurro lungo di un cielo intuito
e la terra che cola morbida
dentro al mare.
                                   Caterina Donatelli

17 luglio 2013

"Vezzi d'arte" mostra di Aldo Bandini



Aldo Bandini, o la pittura
 come vocazione alla chiarezza

“i pochissimi pittori che hanno il cervello a
posto e  gli occhi puliti si accingono a ritornare
alla scienza pittorica secondo i principi e gli
insegnamenti dei nostri maestri antichi.”
(Giorgio De Chirico, Ritorno al mestiere)   

di Davide Pugnana



Ci sono artisti la cui opera acquista senso e valore alla luce della distanza storica. Gli occhi della generazione contemporanea, che la vede nascere e crescere, spesso non è pronta ad intenderne la portata. Ci vogliono decenni, talvolta secoli per una buona messa a fuoco. Sono scatti di accelerazione espressiva che conosciamo bene e che la storia dell’arte, al volgere di ogni secolo, ci racconta mostrandoci un ‘caso’ esemplare. Lotto, Caravaggio e Van Gogh, per dire i primi che vengono alla mente, sono lì a dimostrarcelo. La comprensione delle loro poetiche ha richiesto tempo e fatica. Eppure non sempre il prezzo dell’impopolarità al cospetto del proprio presente si sconta imboccando la via della rivoluzione. A generare esclusione e silenzio può talora contribuire la fedeltà ad una scelta d’origine; una sorta di atto di coscienza talmente risoluto da decidere la linea destinale di un’intera carriera. Ne è un esempio il patto di fedeltà verso uno status creativo come quello della pittura figurativa che ha contraddistinto la ricerca di artisti nati nella seconda metà del Novecento. Per molto tempo, in Italia, ci sono state personalità il cui profilo e la cui operosità sono stati oscurati dalla luce potentemente sperimentale dell’arte d’avanguardia. Il frutto di questa eclisse dentro il secolo è quella “città sotterranea” che Vittorio Sgarbi ha descritto con grande esattezza nel saggio che apre i contributi raccolti ne La stanza dipinta e che porta l’eloquente titolo di Arte segreta. Vale la pena porre mente ad alcuni passaggi, utili per introdurre l’attività pittorica di Aldo Bandini. Eccone il passo saliente: “Così è sorta una città sotterranea, dove si sono rifugiati orgogliosi e imperturbabili, artisti di sicuro talento, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata, alcuni temerari che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo. Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo gesto della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il discorso si era interrotto. Per molti è stata una testarda coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel silenzio; per altri, e soprattutto ora, è una dimostrazione di riscatto. C’è un intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso o inesplorato, di cui l’unico iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nell’affermazione di un valore non comparabile con la moneta corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua direzione e nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata elaborazione dell’immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dirvi dove poterli incontrare, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo non nei templi consacrati all’arte.”

Un luogo sconsacrato e la rara mostra di un rappresentante di questo “arcipelago” di pittori figurativi descritto da Sgarbi è possibile averli sotto gli occhi, proprio in questi giorni, a Carrara, con la personale di Aldo Bandini, un pittore dall’operosità silenziosa, lontano dall’assordante clamore della notorietà e dalle vetrine delle gallerie. La recente produzione trova uno spazio d’eccezione nella vasta sala espositiva della bottega Vezzi d’arte.

Le note che seguono sono lontane dal voler restituire un quadro complessivo della ricerca pittorica di Aldo Bandini. Esse non sono che glosse sparse, suscettibili di ripensamenti e di ampliamenti, depositate in margine ad una produzione la cui complessità è lungi dal mostrarsi docile ad un immediato addomesticamento storico-critico. Una collocazione dell’opera di Bandini nel contesto di una storia della pittura tra fine Novecento e nuovo millennio, alla luce dell’evoluzione di un certo tipo di figurazione, è ancora una sfida aperta. Tanto più che tra le buone maniere della critica figura quella che raccomanda di aver gettato uno sguardo sull’intera produzione dell’artista, di averne classificata tutta l’opera. Condizione che, nel caso di Aldo Bandini, si annuncia da subito come difficile impresa, dal momento che le sue tele vivono disseminate in varie collezioni private, in banche, in chiese, in uffici, in studi di avvocati, in case di industriali, e una cernita, anche parziale della sua produzione, richiederebbe molto tempo e un sereno piglio sistematico.

Quando si intende parlare dell’opera pittorica di Aldo Bandini si deve mettere da parte la veste complicata del linguaggio critico, il suo tecnicismo, la sua oscurità spesso inaccessibile, e lasciare che le parole scorrano con eloquente semplicità sulla sua pittura. Occorre verificare, per quanto possibile, che ogni vocabolo sia aderente al fatto figurativo che intende descrivere. Qualsiasi intervento critico sulla sua ricerca pittorica non può che essere, a sua volta, una professione di chiarezza. Chiarezza di pennello come chiarezza di pensiero. Un’equazione sacra che muove da sempre la ricerca espressiva di Bandini. Non c’è spaccatura tra la figurazione e le forme del reale. Nella sua pittura, la chiarezza è non solo l’assenza di retorica, di letteratura e di facili cenciate; è il senso del mestiere e della tecnica messi al servizio dell’espressione. Il fine artistico che Bandini persegue è quello di una pittura non tradisca se stessa e il suo statuto; che non si allontani dal suo midollo. E certo, in questo suo procedere, Bandini trova in Raffaello Borghini, scrittore d’arte attivo nell’ultimo ventennio del Cinquecento, un’equivalente sponda teorica. È proprio il Borghini a sostenere che la figurazione trova il suo motore immobile ne “l’abito intellettivo” della pittura.

E a chi salga alla bocca, di fronte alle opere in mostra, il nome di Brueghel, di Bocklin e di De Chirico, di certo realismo novecentesco, certo non sbaglia nell’intuire i referenti stilistici verso i quali Bandini si volge; ma è bene esser coscienti che questa suggestione non è che il punto di partenza. Il Novecento ha custodito un continente di pittori la cui tensione espressiva nasceva dal girare le spalle a Duchamp e Burri, e che ancora Vittorio Sgarbi raggruppa sotto la categoria di “pittura permanente”. Ossia una pittura di valore e di qualità che intende resistere nel tempo, incurante delle generazioni e delle mode. Se è vero che la tensione figurativa di molti maestri è stata, da un lato, straordinaria pittura, e dall’altro ha generato infiniti seguaci di una debolezza senza appello, per Bandini quella vocazione alla chiarezza di visione e di stile funge da cifra di autenticità. Anzitutto, perché Bandini è un pittore che la sa lunga: conosce Brueghel, conosce Rubens; sa quale abisso di pensiero pittorico passa tra Piero della Francesca e Cosmé Tura; dalla linea Tiziano Veronese Delacroix ha appreso cosa sia il colore; mentre da quella Rembrandt-Velàzquez gli è arrivato il libero miracolo del tocco. Sa come imitarli, piegando l’assimilato alla sua personalità; guardando a procedimenti e soluzioni espressive senza per questo contaminarsi coi loro cascami ‘accademici’, anzi uscendone al momento giusto, per rientrarvi d’improvviso e rinnovarli. Pittore da sempre, quasi per consanguinea appartenenza, Bandini sa cosa vuol dire essere figurativi, e non ha mai temuto di misurarsi col linguaggio pittorico che una tradizione così impegnativa reca in sé. Detto ciò, Bandini sa altrettanto bene di perdere terreno rifiutando la stendhaliana conversione della sua arte all’uniforme del secolo; ma sa anche benissimo di guadagnarne sia presso i figurativi di razza, sia in seno alla tradizione stessa, risvegliando efficacemente il prestigio della pittura, ridonandole l’imbattibile solidità dei suoi valori. A guardare quel suo piccolo medaglione ovale, finalmente sotto gli occhi di tutti, ci occorre subito marcare il motivo più schietto della sua pittura: quel dipingere chiaro, sempre teso alla verità delle cose. Ebbene, non solo la sua ma tutta la pittura figurativa, ieri come oggi, è ferma nell’affermazione che il peccato imperdonabile, la menda carica di gravità mortale, è l’opacizzazione del Vero. Per questo, sulle tele di Bandini, tutto si scopre; tutto gioca a manifestarsi in modo da non lasciar dubbi nel rapporto tra cosa e pittura.

Non è facile essere figurativi. È vero. Misurarsi col realismo, categoria senza tempo, significa possedere mestiere, immaginazione, senso delle cose e delle forme, potenza percettiva. Su questo terreno è facile scivolare e farsi male. Per un artista figurativo le imperizie  e le lacune espressive sono sempre in agguato, pronte ad esplodere sulla tela come oscenità. Se si sceglie, come ha fatto Bandini adolescente, la via della figurazione, bisogna essere coscienti che il viaggio sarà difficile e carico di responsabilità. In questo senso, fermarsi a meditare sulla recente produzione in mostra significa non tanto chinarsi a descrivere temi e tecniche; ma dare voce ad una concezione della Pittura che, tela dopo tela, vediamo prendere corpo. Bandini risolleva il primato della figurazione là dove gli era stato tolto. Ricomincia, ogni volta, laddove la Modernità l’aveva dimenticata. Il suo gesto è quello liturgico della mano con il pennello, ossia di ostinata fedeltà agli strumenti. Il suo mondo figurativo senza crepuscoli o gesti d’effetto, lontano dagli ismi, è l’incontro di una pittura vasta, pacata, intellettiva, con un lavoro sodo tutto teso all’onestà di visione. Se potessimo assimilare o calare in un luogo ideale il suo pensare artistico esso sarebbe in tutto simile ad un tempio o ad una corte, due spazi profondamente umanistici. Un pensiero pittorico, quello di Bandini, severamente limpido e in perenne continuità con la tradizione storica della grande pittura europea. Possiamo verificarlo in presa diretta sulle opere esposte. Vediamo che la tenuta di questo abito mentale si riflette nella coerenza di unità stilistica delle tele; nel passaggio, tutt’altro che scontato, dal medio al piccolo formato – quello riservato ai bozzetti o ai rapidi appunti visivi. La mostra carrarese testimonia la serrata unitarietà della poetica di Bandini, attraverso il dispiegarsi dei generi artistici, dal ritratto alla natura morta, passando per il paesaggio e il nudo.

La grande limpidezza visiva fa di Bandini un artista lontano da un approccio intellettualistico, criptico o capzioso. Se c’è una posizione da occupare dentro la storia della pittura, questa non può che essere quel bilico singolare che fa di Bandini un temperamento artistico insieme di cerniera e di frontiera. Questo bifrontismo dialettico finisce per incarnare il secondo punto di forza. Si è detto della vocazione alla chiarezza pittorica come profondità di pensiero, da un lato; va aggiunto, dall’altro, il senso di continuità e rinnovamento del vocabolario espressivo, a contatto con un continuo aggiornamento e studio della tradizione figurativa europea. Nel mezzo, si situa l’ossessiva passione per la regola dell’immagine. Bandini è un artista che crede alla bellezza della pittura. Ed è una fede nella quale la pittura è vissuta non tanto come forma di terapia (come, spesso, afferma la vulgata); ma è qualcosa da praticare come una scienza. Lo stesso mito romantico dell’ispirazione non trova spazio e viene sostituito dal dialogo con la storia delle forme e con il recupero del mestiere. L’osservazione della realtà deve essere esatta, permeata da quella particolare forma di esattezza che per il pittore figurativo è il grado di interpretazione, il realismo e l’intensità lirico-visionaria dello sguardo.    

Parliamo di pittura, insomma. Cioè: di luce, di colore, di composizione, di movimento, di scatole prospettiche, di bellezza di disegno, di trasfigurazione individuale della realtà. Se ci mettiamo di fronte al dipinto dei Viandanti sulla neve ne riceviamo il primo sentore. Di fronte al passo felpato dei due viandanti-guerrieri siamo portati nel cuore di una narrazione dilatata, dove il tempo è quello circolare ed immobile della fiaba. Sopra quelle teste, coperte da elmi e cappelli, spiccano alberi e rami: grossi, minuti, scheggiati, spruzzolati di neve si alzano e crescono assieme a tutta la complessa macchina del paesaggio, fino ad incidersi in un’aria di perla, dove la luce che nuota nel cielo è quella argentea della luna, arcana e stupenda sopra la chiostra di fiumi e colline a loro volta lunari. Come è possibile non intendere una visione come questa? E c’è poi quell’inconfondibile pasta pittorica che vibra di stesure condotte senza mai scadere su effetti di porcellanea compattezza; sono impasti risolti con una fittissima tessitura di pennellate, con un colore avaro e ridotto ad una timbrica essenziale di bruni, ocre e bianchi, al limite del monocromo; un colore usato come disegno nella resa di una gestione dello spazio che, magistralmente, incastra due scatole spaziali, sovrappone due linee d’orizzonte, conferendo all’insieme della composizione un moto di mistica ascensionalità.

Chi è, dunque, Aldo Bandini? Viareggino di nascita. Carrarese, per carriera scolastica e per docenza all’Accademia di Belle Arti. Sembrerebbe che tutto torni su questo tavolo esistenziale con le carte da gioco ordinate ed in regola. Ma Aldo Bandini è un artista che ha svolto il suo decisivo romanzo di formazione direttamente a contatto con il panorama europeo dei maestri. Alcuni li abbiamo già ricordati. Né viareggina, né carrarese, la sua pittura ha un respiro intrinsecamente nordico ed europeo. Le sue profonde molle generatrici risentono solo in parte delle ragioni biografiche e geografiche. Il loro humus è quella vertiginosa cultura figurativa che, fin dagli esordi, Bandini ha studiato e assimilato attraverso l’apprendimento delle tecniche e degli stili: in un primo tempo da studente (con una copia della Gioconda della quale ancora si mantiene intatta memoria al Liceo Artistico Artemisia Gentileschi); approfondendo la sua iconografia con fonti filosofiche e letterarie (dalle Vite di Plutarco ai romanzieri russi; da Fulcanelli a Guénon; da Platone all’amato Shakespeare); arrivando, alle soglie della maturità, a mutare un’attività di meccanica riproduzione dell’immagine, come quella di copista per mestiere, in una forma di studio matto e disperatissimo della scienza pittorica antica, procedendo cioè ad uno scavo quasi chirurgico del processo creativo dei maestri che andava a riprodurre, imparandone i segreti di bottega. Anche in questo caso, Bandini non si è contentato di apprendere un procedimento, ma ha sentito di doversi spingere nel sottopelle del fatto figurativo. Anche lui, a suo modo, ha grattato le lacche di Tiziano.

Nel tempo, il suo dialogo ininterrotto con la lezione della pittura europea è diventato un luogo di appartenenza e di identità. In questa dialettica Bandini è del tutto simile ad un altro toscano d’eccezione: Niccolò Machiavelli. Li lega la concezione umanistica del colloquio con gli antichi e un culto interiore per l’aristocrazia dello spirito. Nelle serate dell’esilio alla tenuta dell’Albergaccio, dopo una giornata passata ad ingaglioffirsi tra boscaioli, beccai, mugnai, fornai e un’indistinta fauna di avventori d’osteria, Machiavelli rientrava a casa e, spogliatosi dai panni maculati “di fango et di loto”, si ritirava nel suo scrittoio fasciato di libri e di voci illustri. Lì, incapsulato per quattro ore in un dorato spazio senza tempo, inviava struggenti interrogativi ai pensatori classici: “e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro actioni; e quelli per loro humanità mi rispondono, e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro.”

Non credo esistano, nel nostro Umanesimo, parole più esatte di questa confessione di Machiavelli all’amico Francesco Vettori per restituire la dinamica del rapporto di Aldo Bandini con i maestri dell’illustre genealogia pittorica. Quante volte, negli ormai dieci anni della nostra amicizia, ho visto Aldo togliere da una scaffale o sollevare da terra una monografia e avvicinare il naso ad un dipinto di Holbein o di Franz Hals, seguire un panneggio in iscorcio del Guercino o fermarsi a considerare un colpo di luce di Vermeer, sorridendo e tenendo la pagina sospesa a pochi centimetri dalle stesse lenti con le quali, poco dopo, e non prima di avermi congedato, avrebbe dipinto gli alberi, gli scudi, le torri e le nuvole del notturno sotto la neve; i riflessi sul vetro di un’ampolla e le curve della clessidra; il pane indurito e gli acini d’uva di una natura morta adagiata su di un panno pesante; o per portare a finitura le minute rugosità del carnato di Enea. Come Machiavelli, anche Bandini ha talmente frequentato i suoi autori che il loro dialogo quotidiano ha fatto della distanza storica e cronologica un mero accidente. Ciò che veniva assorbito in quelle lenti da pittore era molto più che un’immagine da citare o un carattere riflesso della lezione pittorica dei maestri. Vi rimaneva impressa la sintesi di una domanda che chiedeva “ragione” di un rovello estetico che, forse da anni, giaceva irrisolto o da risolvere. Nell’accostamento tra Machiavelli e Bandini il trait d’union rimane, insomma, quel pensiero umanistico che non conosce il dolore della frustrazione competitiva o della vergogna; ma trasforma la forza del dubbio critico in curiositas, e, infine, in identificazione vitale. In quei momenti di silenziosa interrogazione dello sguardo, avevo l’impressione che Aldo davvero tutto si trasferisse in loro.
Ma le analogie con Machiavelli non si arrestano al colloquio con gli spiriti magni. C’è una sorte da esiliati che accomuna i due toscani. L’uno per funeste ragioni politiche; l’altro per ragioni, almeno in parte, di rifiuto del mercato. Se andiamo a cercare cataloghi, monografie, articoli critici, curriculum che ci diano lumi sull’opera di Bandini rimarremo delusi. Delle numerose mostre, tra Viareggio, Lecco e Milano, ad esempio, non rimane traccia documentaria che non sia il prezioso album di fotografie conservato dall’artista. Queste stesse note non sono supportate da una pur minima storiografia precedente. Eppure chiamare in causa le ragioni dell’esilio volontario dalle logiche del mercato dell’arte non sembra lasciarci pienamente soddisfatti. Se gli chiedessimo spiegazioni sulla sua marginalità, credo che Aldo ci risponderebbe che il sistema dell’arte contemporanea è, per lui, quello della buona pittura e che la sola forma di immoralità è un quadro dipinto male, cioè con cattiva coscienza. Oltre al primato della Pittura, c’è, però, in Bandini l’idea che a parlare sia l’opera e nessun’altro. Se l’artista è lo stile e non l’uomo, questo assunto è tanto più vero davanti al suo caso. Bandini, pittore di opere e non di biografia. Su questo asse non si incrocia solo il nome di Proust, che, nel cuore della sua celebre teorizzazione contro il metodo biografico di Saint-Beuve, teneva distinti l’io biografico e l’io artistico; quanto, più vicino a noi, ci viene alla mente il gesto risoluto di Balthus, allorché, durante una retrospettiva alla Tate Gallery , gli venne chiesto di cedere qualche informazione sulla sua vita e sulla sua poetica; l’allora più che settantenne pittore liquidò i curatori con la celebre frase: “Balthus è un pittore di cui non si sa nulla e adesso guardiamo i dipinti.”
Questo sferzante epigramma balthusiano si offre come il miglior viatico alla mostra personale di Aldo Bandini. Popolata di eroi, di amici e di brani di natura, la mostra, allestita nell’ampia sala espositiva di Vezzi d’arte, è la sintesi poderosa di un immaginario figurativo e, nel contempo, un’antologia visiva dell’iconografia e delle forme che, da decenni, permeano la ricerca pittorica di Aldo Bandini. Una ricerca che non si sottrae alla molteplicità dei generi artistici. Contro le pareti bianche si squaderna una figurazione attraversata da una pluralità di temi e di tempi storici; talvolta, sono scenari poeticamente atemporali laddove l’immaginazione indugia nella narrazione di una bolla notturna con le impronte dei viaggiatori che marcano sulla neve il pellegrinaggio verso un’ideale, tolkieniana Gerusalemme. Oppure, è il ciclo di disegni a matita e acquerello che con timbro elegiaco ci raccontano gli enigmi speculativi delle ammantate e solitarie figure, stagliate contro rovine, abbandonate su strapiombi e campagne che hanno il sapore delle visioni severe di un Piranesi, corrette appena da uno stupore leopardiano mutuato da Friedrich, a sua volta, qua e là toccato dalla bellezza misteriosa da dettagli alla Max Klinger. All’opposto, racchiusi nel piccolo formato quadrato, i nudi femminili acquistano diverse polarità. Uno, sorpreso da tergo con sguardo voyeuristico, posa nella penombra di una stanza, come una Susanna nell’atto di concedersi un bagno, ma sbracata e tutta domestica, e dove anche i vecchioni barbuti sono ridotti alla stregua di maschere ghignanti da commedia dell’arte; il secondo nudo evoca, all’apparenza, l’iconografia dei San Giorgio e il drago, ma non manca di introdurre un’esile vena metafisica, con un’aggiunta d’ironia che assimila la figura del santo ad una statua classica e la donna ad una Eva/Venere insidiata dal serpente. Se cerchiamo una prova di genere ritrattistico come esplorazione psichica prima che omaggio alla verosimiglianza, essa è affidata al mirabile Ritratto di Enea, l’amico viaggiatore. Un’opera che rappresenta il perfetto equilibrio di sintesi tra contenuto e forma, ossia tra analisi fisiognomica, risolta a partire dal fuoco compositivo del corrugamento della fronte e dello sguardo fermato nell’acuta ricerca della lontananza, e da una lenticolare descrizione del carnato, sul quale si effonde la resa plastica  del dosaggio chiaroscurale, mediante l’uso di una tecnica vicina a quella dell’affresco. Un discorso a parte merita il piccolo capolavoro ovale della donna con gatto. Ma ci torneremo sopra tra poco. Se, fino a questo momento, il primo e più facile dei pregiudizi è quello dell’accusa di anacronismo o di realismo fotografico, questo piccolo ritratto femminile tutto d’invenzione è la risposta, e direi l’antidoto, alla sbrigativa superficialità dei giudizi estetici di gusto.

A quest’altezza è giunto il momento di recuperare le due direttrici del nostro discorso critico: la ricerca di un’idea di Pittura come vocazione alla chiarezza; e la tensione conoscitiva che fa di Bandini un pittore di cerniera (nel senso chiarito dall’esempio di Machiavelli) e di frontiera (per la sua incessante sperimentazione dentro la grande pittura). Gli stessi assunti potrebbero essere utilizzati per spiegare il caso pittorico di Pietro Annigoni. Ma se in quest’ultimo la meditazione sui massimi sistemi verteva spesso sulla testiera metafisica ed esistenziale (pensiamo all’Ecce homo, come manifesto dei valori e di pensiero e pittura, e al riuso del manichino), in Bandini ogni presenza sulla tela è un’emanazione della memoria. Non di una memoria comune, ma di un tipo  particolare di memoria che potremo definire sentimento dello sguardo. Quegli eroi solitari calati in struggenti prospettive bucoliche, prossime a misurarsi con l’infinito; quelle figure femminili immerse negli interni o figlie delle favole mitologiche; le pieghe nel viso di Enea; la luce lunare che tace immobile sul muscolo geologico di case e sull’incedere dei viandanti; la vita silente degli oggetti sparsi come amuleti, torno torno la figura di bellissima Venere moderna con gatto, sono tutt’altro che copie della realtà. Il Vero è una categoria messa in crisi dallo sguardo pittorico di Bandini. Ho scritto sguardo, ma avrei dovuto dire memoria. Nella sua officina, Bandini lavora dentro le sue immagini. Ogni suo gesto conoscitivo è motivato dalla tensione di portare a chiarezza immagini che sono concetti della sua interiorità. La tecnica stessa, la linea, il colore, la luce non hanno bisogno di modelli dal vero. La forme di Bandini sono oggetti del suo mondo interno: squarci paesistici, marine, volti, sguardi, stoffe, reveries di gusto mitologico o biblico, foglie, melograni, acini d’uva, sono elementi che, in un dato giorno ed ora lontani, sono entrati nel suo campo visivo, sono accaduti dentro di lui, e hanno poi macerato nelle maglie della sua memoria, incontrandosi, o fondendosi, con le immagini dipinte dai maestri della grande tradizione figurativa. Fedele ad una materia alimentata da forme della memoria intrise di un palpito di luce nuova, Bandini annulla il pericolo della fotografia e dell’eccesso di verosimiglianza, per misurarsi con la pittura, ossia con l’interpretazione individuale, nella sua singolare declinazione di sentimento dello sguardo. Così, scopriamo che ogni tela è una camuffata autobiografia dello sguardo pittorico, pronta a restituisce gli oggetti visti e interiorizzati, e, ora, ri-composti da una tecnica pittorica lirica e sofisticata, antiretorica nella sua visione sfrondata, ripulita e sapiente. Una pittura costruita nei suoi valori di materia e di luminosità, di plasticità e di vibrante nitore, e venata di afflati anche minimi di poesia e realismo.

Eccoci tornati di fronte al capolavoro in mostra: il ritratto ovale, dove cogliamo la sintesi suprema di questa concezione pittorica. Lungo pochi centimetri di tela, Bandini racchiude una summa della sua poetica, della sua vocazione alla chiarezza, dalla sua memoria come sentimento dello sguardo e del suo mestiere. Due tendaggi di bellissimo carminio, sbrecciati e mossi dal vento, aprono su un cielo nordico gonfio di nubi minacciose. Le nubi sono avvitate a vortice e quasi assorbite nel gorgo di un occhio da ciclope, che fissa, nel centro, una fenditura di luce, dove sembra prossimo a manifestarsi la presenza di un evento divino. In primo piano, in un’invisibile forma piramidale, una donna dal volto felino ci sorride guardandoci dritta negli occhi, e trattenendo nelle braccia un gatto nato dalla sua stessa sostanza cromatica. Lentamente, attraverso la veste di questa apparizione spettrale, si compone nel nostro sguardo un paesaggio che, per nitore e realismo visionario, richiama gli sfondi di Piero della Francesca e di Bocklin. Affiora e si snoda silente un fiume, bloccato in una trasparenza di quarzo; ai suoi lati si profila un paesaggio altrettanto immobile, addolcito da un dolce sentore di campagna toscana negli alberelli e nelle case. Al centro del fiume serrato tra colline e isolette, la sola presenza umana è il barcaiolo sospeso su uno specchio equoreo di silenzioso cristallo, ottenuto per velature fitte e finissime sopra solidi impasti.

Quest’opera ci dimostra prima di tutto un aspetto fondamentale. Come quella di Balthus, di Annigoni, dei fratelli Bueno e degli altri pittori dell’arcipelago figurativo, anche la pittura di Bandini segue una via che non è quella dell’illustrazione, della narrazione di genere o del citazionismo. La direzione ostinata e contraria della sua figurazione non è – secondo la distinzione di Campigli – arte ‘applicata’. Il suo versante è all’opposto, verso l’arte ‘implicata’. Implicata per quel suo viscerale ficcarsi dentro le immagini; per il lavorio della doppia memoria, quella del vissuto personale e quella della cultura visiva educata sulla tradizione. Per quel percorso di costruzione che ha al centro lo stile. In pittori della tempra di Bandini, il dipinto non è mai un corpo sul quale i tormenti, la nausea, il pessimismo, il male di vivere possano incidersi. Il mondo pittorico di Bandini non proviene dal basso. Non è figlio della moderna disperazione esistenziale. Non sappiamo nulla dei fardelli biografici dell’uomo.  E di questa forma di discrezione gli siamo grati. La sola percezione nella quale siamo immessi è la poesia visiva della memoria: quel distillato di esperienze, di osservazioni, di conoscenza della realtà che, fluida, trapassa sulla tela. Di fronte ad una concezione di questo tipo non possiamo fare a meno di pensare ad un’altra celebre risposta, questa volta di Nabokov: ciò che conta in un artista è la “biografia dello stile”.

Giunti su questa soglia, che è anche quella della mostra carrarese, si spalancano i valori della pittura: un decalogo stratificato, dove si intrecciano fantasia, senso eroico, sentimento, acume, lirismo, memoria, facoltà di assimilazione della tradizione e di asservire l’assimilato alla propria personalità. Ma Aldo sa bene che una tela, per quanto autonoma sia, non va lontana. Lo pensa da tutta la vita. La buona pittura è un “abito intellettivo” che non conosce fine, e che per esistere ha bisogno della buona materia pittorica. Occorre che una tela ben fatta sia seguita da altre che ne continuino il discorso, lo sviluppino e soprattutto siano d’accordo con la sua verità profonda. Solo allora, sentiamo che proprio lì dobbiamo tornare pienamente.

Mostra personale di Aldo Bandini, con la presenza dello scultore Gabriele Vicari. Vezzi D’Arte, via E.Chiesa, 1/f, Carrara. Ingresso Libero. Aperto tutto i giorni. Apertura: Venerdì 12 luglio 2013, ore 18-30

" Crescevano sogni, fiorivano eskimi" di Stefano Carlo Vecoli



Te lo ricordi il Sessantotto?

 di Luciano Luciani

Te lo ricordi ancora il ’68? Quando un’intera generazione “voleva tutto”, o meglio voleva cambiare tutto?
In primis la scuola e l’università, individuate l’una e l’altra come gli apparati di riproduzione di un sapere irrimediabilmente invecchiato e di un consenso a un sistema ingiusto.

Poi, la società: perché quella generazione, i figli del dopoguerra, credeva di aver svelato l’imbroglio nascosto in un benessere raggiunto da poco, a fatica e soprattutto sulla pelle di nuovi sfruttati. Pretesero, quei giovani, magari con qualche arroganza ma in buona fede, di mettere in crisi poteri e autorità, ruoli e istituzioni, origini sociali e relazioni…

Milioni di adolescenti o poco più, ragazzi e ragazze, in quell’anno formidabile e in pochi altri che seguirono, agirono collettivamente in nome di una cultura diversa, di una politica nuova, di una società più giusta: un vero e proprio “assalto al cielo”, il loro, che sperimentò anche differenti, originali modi di vivere, lavorare, comunicare, abitare, amare alla ricerca di un “uomo nuovo” che fosse all’altezza di quella straordinaria presa di coscienza, adeguato al sogno di un’armonia insieme sociale e personale, di un’esistenza non dissociata ma coerente tra valori e fatti, teoria e prassi. Un impegno titanico, prometeico, che dalla vecchia Europa alle Americhe, dall’Asia all’Africa delle giovani indipendenze, durò oltre ogni aspettativa. In esso si consumò la parte migliore di una generazione di giovani, in lotta non solo contro i poteri forti dell’economia e della politica, ma anche, e forse soprattutto, contro se stessi per tentare di diventare cittadini e uomini migliori dei propri padri…

I risultati? Modesti, anche se un bilancio compiuto ancora non è stato realizzato.
Sì, anche il ‘68 come tutti i movimenti non era destinato a durare nel tempo: a contrastarlo arrivò ben presto, dall’esterno, la reazione feroce e forsennata dei poteri messi in discussione e, dall’interno, la gelata delle ideologie. Poi, la progressiva deriva della violenza, del terrorismo e un nuovo inedito, subdolo avversario: la diffusione della droga, facile via di fuga per i più incerti, i più fragili, i delusi, gli impazienti.
A seguire, per un paio di generazioni, una progressiva perdita di memoria e di senso che ci ha resi oggi tutti delusi e risentiti verso le speranze del passato, mentre tanti segnali quotidiani ci avvisano dell’approssimarsi di un baratro, le cui forme non riusciamo neppure a immaginare. Ai nostri giorni la maggioranza dei protagonisti di allora vive la malinconica condizione di adulti maturi “più disingannati che rinsaviti”; molti ripensano a quel “bagliore di democrazia” come a un “calore di fiamma lontana” capace, comunque, di scaldare ancora, almeno in parte; altri, non pochi, sulle rovine dei sogni di allora hanno costruito rilevanti fortune personali.

Come è stato possibile che quel sogno si sia rovesciato nell’incubo di un presente dove riescono a fiorire solo vecchi razzismi e nuovi fondamentalismi, dove tornano a ripullulare antiche ingiustizie e nuove, impudenti, forme di dominio?

A darci ragione di quanto avvenuto, poco ci ha aiutato la storiografia, ormai monopolio di riconfermati e vendicativi poteri accademici. Meglio, allora, ricorrere all’invenzione narrativa. È quello che fa Stefano Carlo Vecoli con il suo terzo romanzo, Crescevano sogni, fiorivano eskimi, anche questo come i primi due storia di una delusione storica e amara riflessione esistenziale, proiettando quegli anni, i suoi protagonisti e le loro vicende nella dimensione ristretta della provincia toscana, dove non furono meno acute le tensioni politiche e sociali, né meno rovinose le conseguenze di quegli avvenimenti.
Romanzo di formazione ambientato negli anni dell’agire collettivo è anche il racconto di un’amicizia. Giulio e Cesare, legati a filo doppio sin dai giochi dell’infanzia, nel delicato discrimine tra l’adolescenza e l’età adulta si trovano a militare su versanti opposti della stessa lotta al sistema: l’uno “rosso”, l’altro “nero”, ambedue sinceri e conseguenti nella loro scelta vissuta con spontanea radicalità. Entrambi generosi e ingenui, tutti e due impotenti di fronte alla degenerazione violenta del movimento, facile preda di minoranze tanto furbe quanto agguerrite e organizzate. E il prezzo da pagare sarà alto, altissimo…

Vecoli racconta bene il crescendo dell’euforia rivoluzionaria, la sensazione rassicurante di sentirsi parte di un tutto destinato a cambiare la storia, lo stato d’animo di chi crede di essere sempre e comunque dalla parte giusta, l’esaltazione degli slogan, il primato della politica in ogni aspetto della vita quotidiana: dalle letture alla musica, dal modo di vestire all’amore, divenuto d’improvviso esperienza facile e disinibita. Non tace l’Autore le contraddizioni e le ambiguità di quella esperienza: la paura del compromesso, la mancanza di realismo, le reticenze che alimentarono, a poco a poco, stanchezze e disinganni, frustrazioni e sconforto. Fino alle pagine finali, cupe e liberatorie assieme come risulta essere sempre la perdita dell’innocenza e l’ingresso nel mondo adulto.

Narrazione sempre in equilibrio tra elementi autobiografici e invenzione letteraria, Crescevano sogni, fiorivano eskimi, con una chiarezza maggiore a quella di tanta saggistica interessata, ripercorrendo con sincerità le strade della memoria e del cuore, ci aiuta a trovare una spiegazione, ancora problematica ma plausibile, su questioni di stringente attualità: da quale storia recente veniamo? Cosa siamo diventati, oggi? Perché il nostro presente risulta tanto avvelenato, limaccioso, inabitabile?
Un romanzo forse non “politicamente corretto”, ma “politicamente utile”: da criticare, magari; da restituire al mittente, se credete; ma assolutamente da leggere.



Stefano Carlo Vecoli, Crescevano sogni, fiorivano eskimi, disponibile nel web in ebook, http://www.lulu.com/spotlight/stefanocarlovecoli

www.stefanocarlovecoli

07 luglio 2013

"Sole sulla città" di Roberta Vezzosi



Belle e combattive
 le popolane fiorentine

di Luciano Luciani

Attingendo a un largo e vivacissimo repertorio di ricordi propri e della generazione delle madri e dei padri, Roberta Vezzosi compone un vasto affresco di Firenze, e della sua gente, lungo un arco temporale che dalla fine degli anni trenta arriva a lambire i nostri giorni. L’aiutano a dipanare il filo, insieme memoriale e narrativo, Mario, libraio di strada, personaggio tra storia minore e invenzione letteraria, e uno smisurato amore per i fiorentini, soprattutto per la parte più popolare della città, gli abitanti di una Firenze “maledetta e derelitta”: ambulanti, prostitute, portieri d’albergo, sartine, parrucchiere, commesse, barrocciai, falegnami, gente di fiume, giostrai, tipografi, ferrovieri, contadini inurbati… Tutti riguardati con “simpatia piena” d’amore nei loro pregi e difetti, nelle opacità e zone di luce, ma sempre con una sincera fiducia nelle doti di elementare bontà e solidarietà, condivisione e accoglienza dei semplici e degli umili.

Ma è “l’altra metà del cielo”, sono soprattutto le figure femminili a occupare i punti strategici e più visibili del vasto ordito affabulatorio dell’Autrice. Le popolane fiorentine si impadroniscono a poco a poco della scena e almeno per gran parte della narrazione sono loro le portatrici di vitalità e speranza, di ottimismo e un concreto e positivo senso dell’esistenza. Inalterabile anche attraverso le dure, talora durissime, prove a cui la Storia le sottopone, costringe i loro uomini, figli, famiglie. Non le fiaccano, queste donne, il fascismo, la guerra, la fame, gli anni difficili della Ricostruzione, gli anni cinquanta, quelli “poveri, ma belli” ma, per chi c’era soprattutto poveri. In Sole sulla città la Firenze del secolo scorso ci appare prevalentemente declinata al femminile: c’è l’Uccellona, Fiorina, la battona che raccatta un Mario disperato e lo conforta come solo lei sa fare; c’è Nina, Giovannina, sartina rifinita, rossa di capelli, “il sedere più bello e desiderabile di Firenze”, che Mario sposa quando Nina non aveva ancora diciotto anni e che a venti ha già due figlie, Margherita e Bianca; poi, la sorella gemella di Nina, Lina, Angiolina, destinata a diventare la prima parrucchiera di Scandicci, l’una e l’altra figlie della vedova Libertà, nomen omen, così chiamata da nonno Ferrantino, originario di Poggibonsi, anarchico, gran donnaiolo e campione di pallone al bracciale; e poi le sorelle di Libertà, zia Corinna, zia Adua, zia Lotta con le loro bambine, cinque, tutte femmine naturalmente che per trovare il primo maschio della famiglia bisogna aspettare assai e assai fino a ben oltre la metà del secolo, fino a Olmo, figlio di Bianca… E poi tante, tante altre piccole figure femminili tratteggiate con mano lieve ma sicura che si snodano lungo quattro/cinque generazioni. 

E c’è Firenze, le sue vie, le piazze, i ponti della città toscana colti non attraverso un’ottica estetizzante, ma secondo un punto di vista popolano, nutrita di lavoro e fatica, amicizie e sacrifici, nascite, matrimoni, separazioni, morti.

Ecco, allora, le quarantottine, le commesse dei grandi magazzini di via del Corso numero 48 e tra loro Adriana che sposerà Gino Bartali e Angjameina, la nera etiope che amò, riamata, il Ferrantino anarchico, prigioniero di Menelik ad Adua, e che gli dette Isshajin, quel figlio maschio che donna Giselda da Poggibonsi non fu mai capace di mettergli al mondo; e poi Maria, la fanciulla con “gli occhi di fiume”, a cui solo la solidarietà tra poveri riuscì a garantire una casa appena decorosa per lei e la sua famiglia di gente d’Arno.

Un brulicare di umanità descritta sempre con felicità memoriale e d’invenzione, sospesa tra elegia e realismo, tra dimensione privata e rilievo storico/sociale: un libro che scorre veloce, orecchiabile come un valzer di Odorado Spadaro, denso di insegnamenti civili come un romanzo di Pratolini.



Roberta Vezzosi, Sole sulla città. A Firenze dopo il buio della guerra, Maria Pacini Fazzi editore, collana Riegel, Lucca 2012, pp. 168, Euro 15,00


03 luglio 2013

"Partorire in chiesa" di Antonio Porta


  
                                            
di Gianni Quilici


Sono quei librettini
di poco più di 60 pagine,
prodotte in un numero limitato di copie
con foto, scritture autografe,
che diventano "piccole chicche"
quando rispondono a una necessità.

Questo l'ho trovata per 2 €,
l'autore è Antonio Porta,
poeta, critico, scrittore
morto per infarto a soli 53 anni.
Contiene un racconto molto fresco
in cui la necessità si intreccia all'abilità.
E' un rapporto affettuosamente diretto con il lettore
il ritratto di una ragazza intravista in un convegno
che trasmette una serie di veloci condizioni:
attrazione,timidezza, erotismo immaginativo
ed una conclusione insolita.

Antonio Porta. Partorire in chiesa. Libri Scheiwiller. 1990