30 marzo 2014

“Le Antigoni” di George Steiner



appunti di Emilio Michelotti

Questo magistrale studio si apre con la constatazione dell’esistenza, nel testo tragico, di imbarazzi atavici legati all’organizzazione familiare incestuosa (la comunità mostruosa delle origini umane – Caino e Abele sposati alle sorelle). Le figlie-sorelle di Edipo (Antigone e Ismene) sono un essere solo, “comune”, figlie e nipoti di Giocasta. Vi è un legame di sangue iperbolico, assimilazione-ingerimento dell’una nell’altra.

Anche la casa di Laio ha una coesione genealogica, ma ben diversa: Polinice-Etèocle –i due fratelli rivali rappresentano una fusione di dualità. La sintassi della separazione individuale (la nostra), va contro i misteri e i diritti di sangue. Il coro, nell’ottica di Steiner, è vestigia della collettività tribale che rendeva possibili e necessarie le fusioni di sensibilità, intenti e azioni. Antigone è“ innamorata, appassionata, dell’impossibile”(V.90).
Nel V stasimo il coro è “ditirambicamente” teso all’arrivo di Dioniso, mentre nel I stasimo, ”l’Ode all’Uomo”, (gli stasima sono le odi corali) è insita una dialettica insolubile fra un ritorno al focolare totemico e il nuovo focolare, un’istituzione privata garantita dalla legge.

Solo in un ritorno alle tenebre, alla “notte della tomba di roccia”, Antigone potrebbe ritrovare la collettività primitiva e ricongiungersi alla triade Edipo-Polinice-Etèocle. Ma non è sicura che la morte non si rivelerà una solitudine ancora più acuta di quella che deve sopportare in vita (il destino è falso e ironico).
Le sovranità dell’individuo proclamate dal metodo cartesiano hanno lasciato l’uomo nudo. Per Steiner è convincente l’interpretazione junghiana della natura corale dell’arte e del mito. Le voci della consanguineità emergono dalle incertezze consolatrici dell’ombra e, allo stesso tempo, cercano di ritornarvi.

L’autore paventa un rischio e individua un’antinomia: il proliferare delle interpretazioni rischia di seppellire il poema, eppure la sua sopravvivenza è anche assicurata dal processo ermeneutico
Versi 198-206 – Creonte lancia a Polinice una triplice accusa: vuole ridurre in schiavitù i tebani; vuol mettere a ferro e fuoco la città; è venuto per “per bere il sangue, per cibarsi dei suoi congiunti”. (Lo stile di questo passo è, dice Steiner, “primitivo”, con influenze omeriche e dei Sette contro Tebe di Eschilo).

L’editto di Creonte che condanna all’insepoltura i resti di Polinice non è solo furbizia per far aderire il coro e i cittadini a una causa dispotica. Anche se fosse questo il pensiero di Sofocle, oggi, dopo l’affermarsi della critica ermeneutica, non possiamo accettare, dice Steiner, il potere assoluto dell’autore nel determinare i significati. Inoltre, per Steiner, il decostruttivismo ermeneutico era già inerente alla pratica drammatica greca, era già presente e in azione nel coro, in modo “autosovversivo”.

La tragedia, ma tutta la cultura greca, riflette e comunica l’esperienza umana in termini conflittuali e polemici, agonistici, come nessun altro pensiero prima di Hegel.

 Antigone, rifiutando la “verità di guerra”, manifesta un’etica femminile e antieraclitea (nella visione di Eraclito la guerra è totale, coinvolge dèi, mortali, animali e natura). Per lei la guerra è calamità che stravolge il sistema stabile di fedeltà “parental-trascendente”.

Eric Dodds, ricorda Steiner, ha studiato magistralmente gli atteggiamenti dei Greci nei confronti dell’irrazionale. Pochissimo sappiamo però delle “sospensioni di incredulità” che la tragedia dionisiaca implicava (conoscenze mitologiche, accettazione del divino e del demoniaco, grado di ironia letteraria nel corpo della tradizione mitica). In che misura il miracoloso si trasformava in metaforico? Nelle Baccanti di Euripide, ad esempio, persiste una forza primordiale di nudo terrore.

 Nei miti è incisa la possibilità del soprannaturale, sia in quelli erosi, sia nei miti-ombra che formano le metafore e la stessa sintassi umana, dove affiora, specie nei poeti, il misterioso, l’extrasensoriale, l’allucinatorio, l’ipnotico. Conrad (Cuore di tenebre) è profondamente sofocleo. –Solo la musica può compiere questa estrinsecazione in modo più tenebroso ancora del linguaggio. Per questo i versi 417-425 sono “intraducibili”.

Versi 422-423- Che cosa evoca il discorso della guardia? Terrore imminente, possibilità di un intervento soprannaturale: la colonna di polvere vorticosa nasce dalla terra e s’innalza verso il cielo. Il primordiale santuario dei morti, la terra, è trasformata in un vortice di polvere: quella che Antigone sparge sul cadavere di Polinice sale verso gli stessi dèi che l’hanno suscitata. C’è una contiguità fra la sepoltura che Antigone dà a Polinice e il vortice sollevato dagli dèi, le cui polveri si uniscono indissolubilmente.
Il nido-letto di Antigone sarà vuoto, non diventerà mai sposa e madre, la sua progenie è annientata in nuce (Freud e Sofocle coincidono sull’identificazione del nido-grembo-letto). Il lamento e gli strilli da uccello di Antigone sono più antichi, meno razionali dell’uomo e del suo discorso.

 Il coro è sensibile alle manifestazioni fenomeniche del divino ed è timoroso che tali manifestazioni siano pericolose per la città: solo nel V stasimo, fuori-di-sé, valicherà il limes della razionalità e della Tebe civica, con l’invocazione estatica a Dioniso.
 L’astensione, l’esclusione dei fatti della fisicità violenta dalla scena dà al “mondo della parola” un’urgenza di intensità paradossale, che acquista energie e forze: la parola diventa attore, si libera dall’asservimento alla (simulata) azione.

“Su ciò di cui non si può parlare non si può tacere”, Heidegger (e Steiner con lui) rovescia Wittgenstein: egli scorge anche in Sofocle, come in Holderlin, una presenza residuale, gli ultimi fuochi dell’Essere stesso, del nucleo ontologico che precede il linguaggio e da cui il linguaggio attinge le sue capacità di significare molto di più di ciò che può essere detto.

19)- Nei versi 441-581 Sofocle realizza la totalità delle categorie dei conflitti attraverso i quali l’uomo definisce se stesso –avvenimento unico, per Steiner, nell’intero quadro universale dei testi letterari: dialettica dei sessi, delle generazioni, della coscienza privata e del bene pubblico, della vita e della morte, del mortale e e del divino. Sono le componenti radicali dell’umanità, che va sempre provata e delineata daccapo nel confrontarsi con l’altro. Esaminiamole.

1- Se di tutta la letteratura ci restasse solo questa scena centrale dell’Antigone, i lineamenti fondamentali della nostra identità e della nostra storia, certamente per quel che riguarda l’Occidente, sarebbero visibili. Il primo assoluto in conflitto è fra uomo e donna, essi sono una sola cosa eppure sono inalienabilmente diversi: è il paradosso del fac-simile, fonte originaria dell’incomprensione e forse della stessa tragedia dionisiaca. Ogni scambio verbale è drammatizzato da una dualità psicosomatica, perché mostra l’unità dell’amore e dell’odio.

2- La centralità dell’erotico è un fenomeno cristiano. Qui al centro è posto l’ordine naturale (cosmico) e la sua gerarchia fondamentale: la forza “maschile” (politica) di Antigone nega la virilità di Creonte. “Nessuna donna mi governerà”, afferma il re: meglio andare in rovina per mano di un uomo che soccombere, anche di poco, a una donna (questo dirà Penteo nelle Baccanti).

3- Eppure, una volta vittima, evolve la femminilità di Antigone: ella piange dentro di sé le altre vite future che solo una donna può generare. Anche il suo suicidio ha un’aura femminile, perché è risposta primordiale alla insensibilità maschile; e la morte illibata –come il parto illibato presente nei miti di tutte le culture- conduce al centro ctonio di quello che è la donna.

4- Nemmeno i conflitti fra generazioni sono negoziabili: tema antropologico ma anche poetico (le radici dell’Ellade si trovano forse nel XXIV dell’Iliade, dove il vecchio Priamo e il giovane Achille si incontrano per discutere la restituzione al padre del corpo di Ettore). La vecchiaia è degna di onore perché sinonimo di saggezza, eppure significa rischiare la derisione per le proprie infermità e per il declino della sessualità. Nella morte dell’eroe giovane in Sofocle c’è la stessa simmetria fra spreco e gloria che in Omero: è meglio non esser mai nati, o altrimenti morire giovani. La vecchiaia è quel che di peggio possa capitare (Sofocle-Edipo a Colono)

5- Qual è il peso della giovinezza di Antigone quando s’appresta a morire? Ella indica la mostruosa singolarità della procreazione incestuosa –è sorella e figlia di Edipo- e, al tempo stesso è “la più filiale delle figlie” (Edipo a Colono). E’ selvaggia e rozza come suo padre e come i cani mangiatori di carne umana dai quali bisogna preservare i resti di Polinice. La forza oscura dei versi corali, dice Steiner, lascia intravedere nel testo un rapporto inquietante fra l’istinto primitivo dell’uomo e quello delle bestie predatrici e divoratrici di carogne.

6- E’ nella natura dell’uomo (Creonte assassino di figli, gli grida Euridice) provocare la morte violenta della sua progenie. Sofocle indica una norma prescrittiva: si deve sacrificare anche la vita delle persone più care agli ideali più nobili di difesa della città e della civiltà. (E’ la motivazione con cui statisti e generali spediscono i giovani alla tomba).

7- Il conflitto fra coscienza e stato, com’è “inventato” da Sofocle (v.450seg), rappresenta il testo canonico della percezione occidentale dell’individuo e della società: è un dialogo fra sordi. Dove si situa l’abisso fra le domande di Creonte e le risposte di Antigone? Creonte è la temporalità (diritto, giustizia, legge –una violenza contro la physis?-), Antigone è l’eternità (forze soprannaturali e arcaiche non scritte ma ancora vive, non soggette a revoca,  armonia originaria del cielo con la terra). Ma questo ritorno all’assoluto può verificarsi nell’ordine temporale dell’esistenza o solo con la morte? Se le “leggi non sovvertibili” invocate da Antigone hanno un’universalità e un’eternità manifeste perché non sono incise anche in Creonte e nel coro?

8- Non c’è risposta: il tempo non è in comunicazione con l’eternità, Antigone sceglie coscientemente una morte che Creonte non può capire, perché essa ha una legittimità tutta anarchica, precedente alla ragione civica. Sofocle, come gli Eleatici prima di lui, vede nell’invenzione della parola un passo immediato verso l’organizzazione statale. Ma, come dirà Freud, egli sa che la stessa civiltà produce i propri malesseri mortali, generando costrizioni e autodistruzioni.

9- Non si può sfuggire al paradosso della colpa innocente (il parricidio e l’incesto involontari di Edipo), eppure deve avvenire la transizione da un codice di relazioni solipsistico-familiare a un codice di storicità e ragione civica: sul filo di intuizioni contraddittorie, l’azione maledetta di Antigone sembra incarnare le aspirazioni etiche dell’umanità, mentre invece il legalismo civico di Creonte provoca la devastazione.
L’intelligenza misteriosa dell’uomo ha dominato il cosmo, ma Eros, padre della pazzia e della discordia, dominando l’uomo, ha dominato tutto, compreso gli immortali. La pienezza dell’essere si collega a un potenziale minaccioso di distruzione essendo al di là del bene e del male, al di là della sfera etica: Eros è collocato a fianco delle leggi eterne. Antigone sfida anche queste leggi, rinunciando, con le sue nozze con la morte, all’iniziazione e alla consumazione sessuale: è una strada velleitaria, che disegna una dialettica inconciliabile fra legge morale e vitalità.

George Steiner
10- Versi 1115-1152. Ogni elemento di questi versi contribuisce a dare il senso della possessione ditirambica (un pensiero dalla profondità straordinaria, suppone Steiner, veniva danzato, mettendo il linguaggio “fuori di sé”, in un’illuminazione violenta di musica e gesti). Dioniso ha potere di vita e di morte, di rinnovamento e di distruzione, sia nella trance che nella lucidità –l’epifania di Dioniso è anche rovina. L’intera città è contaminata (verso 1141) dall’animalità dell’uomo, ma è anche minacciata dalle visitazioni del divino. Sofocle è ossessionato da presentimenti in merito a una fragilità radicale che incombe sulla città dell’uomo, dalla consapevolezza della terribile facilità con cui l’uomo può essere abbassato al di sotto o elevato al di sopra della sua condizione –due movimenti ugualmente fatali per la sua identità e il suo progresso.

11- Molti, oltre a Kierkegaard, hanno osservato che Antigone è pervasa di morte: soprattutto la seconda metà della tragedia è costituita da una serie di variazioni su questo tema, caratterizzata com’è da una forte intensità e complessità, a partire dal canto di morte di Antigone fino alla visione apocalittica di Tiresia. Sofocle porta in scena la marcia inarrestabile dei morti sulla società in dissoluzione dei vivi. Persefone, dal profondo dell’Ade, attrae a sé Antigone, Emone, Euridice e Megareo: il Messaggero, nel verso 1173, afferma che appartenere ai vivi significa essere assassini di morti. Le barriere della città secolare si rivelano fragili e inadeguate: “cadavere abbraccia cadavere” (v.1240), è la morte ora ad essere “nuova” e “giovane” (v.1288).

12- Solo il coro, composto da vecchi, è radicato alla vita. Alle origini del pensiero metafisico, Anassimandro poneva una simmetria del soffrire col vivere e il mistero di un’ingiustizia ineluttabile implicita nelle azioni umane: Sofocle spinge quest’idea di compensazione fino al commercio, all’equiparazione, tra vita e morte.

13- Il quinto grande asse riguarda l’incontro tra uomini e divinità. Tutta la tragedia ha una dimensione esplicitamente religiosa, come la mitologia che ne è la materia di riferimento. E’ una singolarità della cultura attica, che spiega anche la brevità di questa esperienza creativa, data la sua tensione interrogativa e sovversiva, tra epifania del dio e metaforizzazione  -umanizzazione-  dei suoi poteri. Fra i riti enfatici, mimetici e catartico-terapeutici della tragedia e il contesto del dibattito politico-metafisico c’è un evidente iato: dalla collettività al singolo individuo, da Solone a Socrate, da una possibilità immediata di dispiegamento simbolico teso e conciso, alla ragione civica predominante.

Se in Eschilo c’è un sentimento di vicinanza con gli dèi, funzionale allo stadio titanico e precivico dell’evoluzione, se la duplicità di Euripide rende gli dèi irrazionali –più arcaici delle loro vittime mortali-, la sensibilità di Sofocle, dice Steiner, coglie sia la minaccia della pressione anarchica dell’irrazionale sulla civiltà, sia la hybris presente nelle energie del progresso e della volontà di potenza.

Le intimità primitive tra uomini e dèi sono ormai raggiungibili solo in modo eccentrico o “scandaloso”: l’incesto di Edipo è come il ricordo dell’incesto più grande, quello fra uomini e dèi. “Un umanesimo visitato dalla trascendenza” è la definizione di Steiner della pietas sofoclea.

Creonte vede il suo rapporto con Zeus come una relazione blasfema di utilità reciproca: un do ut des. L’Antigone  è  dunque antitheos? Sofocle è, per Steiner, per ben distante dall’accento omerico ed eschileo sulla sostanzialità imminente del soprannaturale: per lui gli dèi si accalcano vicino alla negazione, da qui l’ambiguità della prossimità umana col divino, che è tenuto a “distanza di sicurezza”.

La contiguità fra dèi e mortali è foriera di catastrofi: nelle Baccanti di Euripide l’ibrido Dioniso –misteriosa progenie di un incontro estatico di Zeus con la mortale Semele- supera la barriera del limes  per vendicarsi.
             Nell’esaltazione di una percezione invasata il coro nomina e danza i tre miti del terrore che si collegano all’incontro erotico e fatale degli dèi con gli uomini, perché il dio è lì, è presente sull’altare dell’anfiteatro: gli uccelli gridano barbaramente, Efesto rifiuta la sua presenza, la fiamma sacrificale non si accende e il grasso e le viscere non bruciano, perché la città è infettata dalla carne putrefatta strappata dagli uccelli al corpo insepolto di Polinice (vv.1039-1044). Creonte scaglia una bestemmia che con rozza impudicizia assale lo stesso trono di Zeus: mai farò seppellire Polinice, nemmeno se le aquile di Zeus portassero il suo cadavere fin lassù.

           Alla fine gli dèi arrivano e la civiltà e la struttura della ragione soccombono: il conflitto uomo- divinità, com’è messo in atto nella tragedia greca, ha carattere atemporale: non è negoziabile ed è necessario quanto insolubile. Da qui la condizione tragica dell’uomo: la ragione, che è la sua essenza, lo allontana irreparabilmente dalla physis, dal suo rapporto con l’unità del tutto
                                                                                                   
George Steiner. Le Antigoni. Garzanti.

28 marzo 2014

"Col cuore come un temporale" di Giacomo Bini



 di Luciano Luciani



Continua anche ai nostri giorni il dibattito sulla natura della poesia. Eugenio Montale, uno che se ne intendeva, in un articolo apparso intorno alla metà del Novecento sulle pagine del “Corriere della sera” in proposito così si interrogava e si rispondeva: “Che cos’è la poesia? Per conto mio non saprei definire quest’araba fenice, questo oggetto determinatissimo, concreto eppure impalpabile, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia…”

In tempi più recenti, un bravo poeta originario della collina lucchese e nostro contemporaneo, Lio Attilio Gemignani, autore di una raccolta poetica, Mia Toscana, insieme intensa e delicata, tra memoria e bilancio esistenziale, si muove sulla stessa lunghezza d’onda e giudica la “poesia come mistero di ogni uomo. Quella zona segreta che ognuno di noi custodisce ed è fatta di dolore e di piacere, di commozione e di spiritualità, Noi  misuriamo sulla strofa la nostra interiorità”.

“Ragione cantata” (Lamartine”, “malattia” (Kafka), “un modo di prendere la vita alla gola” (Frost), la poesia continua a mantenere ignoti, impenetrabili, inconoscibili i suoi caratteri e moventi, origine e forza: a tutt’oggi non siamo riusciti a trovare risposte. Procediamo per approssimazioni circa i suoi modi di essere e manifestarsi, sempre elusivi, diversi,  sorprendenti…

Riflessioni, le mie, per niente originali, ma autentiche e sollecitate dalla lettura dell’ultima silloge poetica di Giacomo Bini, da tempo abituato a praticare questa particolarissima forma espressiva, per parteciparci sentimenti ed emozioni, rabbie e desideri, convinzioni e indignazioni: una pluralità, anche eccessiva, di toni e accenti che vanno dall’effusione lirica al recupero memoriale, dai versi d’amore alla retorica civile per raccontare il difficile mestiere di vivere hic et nunc, qui e ora: in un tempo spigoloso e tagliente quant’altri mai, in un luogo di antica civiltà, ma, certo, non esente dai problemi complessi di un faticosa e contraddittoria modernità.

“Poeta di pianura”, Giacomo appare intimamente legato alla sua terra, la Lucchesia, e alle sue genti di ieri e di oggi, ancora sospese tra un secolare mondo contadino e gli ultimi decenni segnati dall’irrompere di una contemporaneità globalizzata che, insieme alle prospettiva di formidabili - e sino a oggi aleatorie - possibilità, ci ha regalato anche nuove, inedite ingiustizie che sono andate a sommarsi alle antiche.

Contro le recenti e le vecchie povertà, materiali e soprattutto morali, s’impenna la voce del Poeta, talora troppo stentorea e non sempre capace di evitare il rischio di un’oratoria certo franca, schietta, ma, almeno a mio parere, troppo gridata. Più convincenti, invece, da rimanere in maniera duratura alla coscienza dei Lettori i versi intrisi di ricordi familiari; la riscoperta, con gli occhi di allora e la nostalgia dell’oggi, del tempo e dei giochi incantati dell’infanzia e della primissima adolescenza; e poi, forse, la novità più significativa di questa raccolta, i testi, ricorrenti, che richiamano un amore coniugale vissuto con pienezza di affetti, sensualità e gratitudine per la propria compagna di vita.

Sempre sincera l’ispirazione di questo Poeta “col cuore come un temporale”, vera, plausibile la sua commozione che s’impasta col piacere di una parola poetica densa ed evocativa, capace di suscitare in chi legge i continui cerchi concentrici di una suggestione mai fine a se stessa.

Con l’intenzione, invece, di ricordare agli uomini l’inesauribile ricchezza dell’esistenza e le sue straordinarie diversità e affermare le fondamentali verità umane che, giorno dopo giorno, devono servire da pietra di paragone al nostro vivere.


Giacomo Bini, Col cuore come un temporale, Comune di Capannori, 2014, pp.50, sip

26 marzo 2014

“Vado a Venezia” nota di Gianni Quilici




foto gianni quilici
Vado a Venezia con due propositi: dimenticare ciò che ho già visto in altri viaggi, cercando invece quello sguardo primigenio, che solo attraverso il silenzio della contemplazione può trovare l’incanto di ciò che prima non era e che ora, invece, esiste  ai miei occhi; e poi eliminare (per quanto sia possibile) i percorsi turistici, perché il turismo (la folla e i negozi-negozietti) si interpone alla possibilità di trovare quel silenzio e quella contemplazione in se stessi.

A Venezia vorrei innanzitutto abbandonarmi. Per abbandonarmi non devo avere una meta precisa. Voglio, però, avere degli obiettivi. Non mi basta perdermi, stupirmi contemplare. Voglio rappresentare. Soltanto con gli occhi non riesco a rappresentare. I miei occhi, purtroppo, vedono con molta fatica. Più che cogliere l’oggetto per come è fatto, colgono, a volte, il sentimento che questo oggetto può trasmettere. In altri termini sono occhi più da poeta (senza che necessariamente lo sia) che da scrittore. In questo senso la macchina fotografica diventa uno dei miei linguaggi. Un linguaggio che può descrivere come un romanzo (un palazzo, un paesaggio, un oggetto), ma che soprattutto può cogliere quel movimento in cui si incontrano l’elemento statico con l’elemento o gli elementi dinamici. Cogliere, cioè, quell’attimo fuggente, irripetibile, poetico che tanti fotoreporter cercano o hanno cercato, creando piccoli o grandi capolavori nella storia della fotografia e che nasce da un colpo d’occhio immediato oppure anche da una pazienza infinita in un luogo.

Però non mi basta. Lo scatto fotografico, nel mio caso libero da commissioni, realizzato per puro, semplice piacere, mi pare troppo facile, anche se poi difficile è  scattare quella foto, in cui vive il tocco della poesia o di un reportage. Non mi basta, perché la foto racconta soltanto attraverso un’immagine.

Ho bisogno, cioè, anche di parole. Forse perché nelle parole c’è ancora più “io”. Le parole del racconto, o meglio ancora del taccuino di viaggio. Le parole dell’emozione e della musica, cioè della poesia.   
E infine le parole del pensiero, le parole del capire ciò che si ha davanti, che richiama la storia, l’estetica, la scienza, compresi i linguaggi.

Ecco che la foto e la scrittura diventano bisogni complementari nel mio essere in viaggio, anche se sempre difficilissimi da realizzare all’unisono.

Questi sono i propositi. I miei. I risultati sono –come è ovvio- “quelli che sono” e comunque sempre impari ai desideri. Imparare, quindi, dalle frustrazioni ad affinare scelte e strumenti, linguaggi e sguardi.           

19 marzo 2014

"Viaggio in Media Valle del Serchio: Coreglia Antelminelli" di Gianni Quilici



foto Gianni Quilici

Ore 10.30.
 Lammari. Sulla panchina del prato di fronte alla corte dove vivo, aspetto. Così vedo una costellazione di margherite. Solo in un punto, quasi un cerchio. La luce le illumina. Ho con me la macchina fotografica. Scatto una-due-tre foto. Ritorno sulla panchina, le guardo. Banali. Non rendono la loro bellezza, la bellezza della realtà. Decido di avvicinarmi. Bisogna osservare le cose da vicino, penso automaticamente. Vedo così due vespe. Sono su delle margherite, ne succhiano la corolla per un attimo, poi volano su un’altra, la succhiano e così via. Penso alla micro-bellezza dell’esistere. Quante realtà materiche ed esistenziali ci sfuggono!

Ore 10.50.
Sulla macchina sfoglio velocemente La repubblica e Il manifesto. Mi colpiscono l’editoriale di Scalfari su Berlinguer, una dichiarazione di stima e di affetto, che è anche mia, ma un po’ mi fa pensare quell’alone un po’ santifico che la sua morte sul palco “fino all’ultimo respiro” gli ha diffuso intorno, nascondendo limiti ed errori, credo, sulla sua gestione politico-culturale; vedo poi con piacere che Walter Siti si è occupato questa domenica nella sua rubrica settimanale della poesia, che in assoluto, tra quelle che conosco, amo di più e su cui ho più ragionato, l’Infinito di Leopardi, mentre constato che le pagine di Alias nel manifesto finisco per non leggerle quasi mai. Troppo accademiche? Troppo limitato o pigro io?

Ore 12.20
Si salgono i tornanti verso Coreglia Antelminelli quando, ad un certo punto, si ha la visuale completa: la valle del Serchio aperta e vasta sulla quale si ergono magnifiche, poderose, nette le Alpi Apuane. Le guardo vedendole appena dalla macchina veloce che scorre, mi lasciano un’eco di bellezza e di forza, che non saprei descrivere se non genericamente.

foto Gianni Quilici
Ore 12.30
Dopo averla intravista tra pini e abeti altissimi, mi appare nuda nella sua interezza Coreglia. Fermiamo la macchina e scatto questa foto, che bene rende il piacere dello sguardo. L’imponenza al centro del campanile con accanto la chiesa, intorno a cui si raccolgono case e palazzi tra bianco-grigio-rosa-giallo e nello sfondo, come un disegno naturalistico, gli Appennini ancora innevati.
E subito dopo, come in molte cittadine della Provenza, ecco allineati ai lati della strada che si fa stretta, due file di platani con i loro rami nudi e protesi verso l’alto come per una preghiera.


Ore 13. Coreglia Antelminelli ( 592 metri, 5382 abit.)
Parcheggio nella piazzetta al lato della chiesa pre-romanica di S. Martino. Un bambino e un adulto (il padre presumo) si sfidano in bici girando intorno  alla fila di panchine disposte lungo la piazzetta alberata. La chiesa è piccola e aperta con quella lucente pietra marmorea, che dà calore agli occhi.
Sulla strada asfaltata un’insegna di un albergo ad una stella ormai defunto, l’insegna in pietra dei “Premi letterari” fondati nel 1992 ed il “Bar Roma”, strada-piazzetta, da cui si entra nel centro storico medievale.

foto di Gianni Quilici
13.20
Ecco infatti  la porta a Piastri con bella cornice di marmo, con sopra  un affresco, ormai scolorito dal tempo, della Madonna con bambino.
La via sale tra case e palazzi con portali di pietra grigia e di bugnato, a testimonianza di una storia ricca.
La piazza del Duomo di S. Michele appare ben presto nella sua scenografica bellezza, per certi versi teatrale, con panchine di legno e di pietra, che si prestano al riposo e alla contemplazione. Davanti ho, infatti, la bella fontana del 1896 ben disegnata con lo stemma, vasi floreali e un mascherone forse di gesso. Appena più in alto la chiesa con i gradini ed il muretto in cui è stata costruita la fontana stessa. Una ragazza con bei capelli folti e biondastri è seduta sui gradini della chiesa alla piena luce del sole.

foto Gianni Quilici
Se ci si alza diversi sono i punti di vista presenti intorno alla chiesa. Il palazzo rinascimentale comunale di fronte, l’uscita dalla porta di S. Michele affiancata dall’abside della chiesa, una delle facciate della Torre Ronaldinga, i resti della cerchia muraria e dalla parte opposta la facciata della Torre con gli scalini e la ringhiera, che salgono fino alla porta d’ingresso e, presumibilmente, a ciò che sembra dal basso una magnifica terrazza. Davanti alla torre, nella piazzetta, il monumento a quei famosi emigranti figurinai, piccoli artigiani itineranti, che realizzavano piccole statue di gesso, girovagando di città in città per il mondo.
Una via sale alla terza porta della cittadina: Porta a Ponte. Da lì si intravede la Rocca, oggi proprietà privata, e si incontrano anche interventi su case o palazzi, che stridono, troppo modernizzanti, gatti che scappano sospettosi e un cane dietro il cancello che si avvicina, si fa accarezzare il muso e poi, zampe allungate, si acquatta per terra.

Ore 14.20. Trattoria a Pian di Gioviano sempre aperta e fin troppo viva. Tre tavolate di una decina, più o meno, di persone, che parlano a voce alta e insieme. Le donne sono piene di anelli e anellini, bracciali e pendenti; gli uomini, così a vederli, sembrano privi di mistero. I piatti sono abbondanti e buoni. Nessuno parla di Renzi. Guardo le foto fatte. “Come è difficile fare buone foto” penso.  

Coreglia Antelminelli, domenica 17 marzo 2014   
   

         


16 marzo 2014

"Il museo dell'innocenza" di Orhan Pamuk


di Fabio Greco

Ho letto con colpevole ritardo il romanzo di Orhan Pamuk Il museo dell’innocenza. L’ho letto (finalmente) come viatico per un viaggio a Istanbul, avendomelo qualcuno consigliato come una buona guida alla Istanbul che c’è, ma soprattutto alla Istanbul che c’era. Così ho potuto accompagnare alla lettura di questo chilometrico libro una visita al Museo dell’innocenza vero e proprio, recentemente inaugurato dallo scrittore stesso nella città turca. Le due cose, lettura e visita museale, si sono integrate e potenziate reciprocamente, producendo un’esperienza difficilmente dimenticabile.

Il romanzo, dicevo, è ponderoso, e conosco qualcuno che non è riuscito a giungere a fine. Vuol dire che non gli è successo quel che è successo a me. A me è successo che ci sono sprofondato dentro e mi sono sentito come un pesce nell’acqua. Accolto, Nutrito.

Il museo dell’innocenza è  un romanzo che non va a diritto, ma procede a spirale. Quando individua un tema vi si avvolge attorno, ritorna allo stesso punto da cui siamo in attesa di staccarci e sembra non volersene allontanare, ma intanto procede, per gradi millimetrici. Una spirale. Che ha la carica ipnotica delle spirali, appunto, Se ti lasci prendere, è fatta. Se invece hai fretta, e magari cominci a saltare qualche paragrafo, allora è meglio non aver neppure iniziato.

Il libro è una grande storia d’amore: la storia del protagonista-io narrante, Kemal, per una ragazza bellissima, Füsun. Un amore che occupa ogni luogo del corpo e dell’anima di  Kemal, e lo strazia e gli fa scoprire che da quello strazio può nascere per lui l’unica possibile felicità. E attraverso gli occhi di Kemal, attraverso tutti i suoi sensi, anche il lettore si innamora di quella splendida ragazza. Anche lui vorrebbe incontrarla, toccarla, sfiorarne la pelle, il seno. Vorrebbe almeno averne un’immagine fisica, una fotografia.

E invece, anche visitando il piccolo Museo di Istanbul (cresciuto nella fantasia di Pamuk insieme al romanzo), l’unica curiosità che noi lettori non possiamo soddisfare è proprio quella di vedere Füsun, la sua grande bellezza. L’autore la lascia alla nostra immaginazione, come dev’essere. In compenso, troviamo in quel Museo, già citati nelle pagine del romanzo, migliaia e migliaia di oggetti che il protagonista ha accumulato nel corso della sua vicenda passionale, tutti quegli oggetti che a lui (ed a noi) ricordano il volto, il corpo, il tocco, il profumo, il calore, la voce, i luoghi, la tristezza di Füsun.

Un libro sul valore di quegli oggetti che, per un motivo o per l’altro, entrano nella storia di ciascuno di noi. Un bell’antidoto per un mondo in cui domina l’usa e getta e tutto finisce in spazzatura.

ORHAN PAMUK “IL MUSEO DELL’INNOCENZA”, EINAUDI


15 marzo 2014

"La veletta" foto di Martine Franck



di Gianni Quilici

Guardando per la prima volta l’immagine di Martine Franck, ho pensato: “Ci sono due foto!” Forse scontata  come impressione, forse meno come riflessione che ne consegue.

Infatti, bellissimo il volto con l’abbigliamento incluso della bambina. Ci sono gli occhi che (ci) guardano nell’obiettivo assorti e profondi e c’è la bellezza del cappellino floreale con la veletta, che le punteggia il candore del volto, trasformandolo anche.
Già questo sarebbe sufficiente per dire: “Che bel ritratto! Che bella foto!”

Tuttavia il bambino, che sullo sfondo si sorregge alla sbarra di metallo crea una moltiplicazione dello sguardo: si salta, cioè, guardando la foto, dall’una all’altro e viceversa, perché sia la bambina che il bimbo sono per un verso fortemente espressivi; per un altro dialettici: lei ci guarda/lui guarda altrove, lei è in primo piano/lui in campo medio-lungo, lei è in posizione statica/lui in equilibrio sospeso. Conseguenza: lo sguardo si è ampliato, la foto è diventata più complessa.
Infine,  la luce, o almeno una parte di essa, si incontra con il pavé, illuminando pezzetti di pietra che in sé hanno una loro resa fotografica e danno all’immagine maggiore compattezza e pregnanza estetica.    

14 marzo 2014

"Il prospettivismo in Don Chisciotte" di Emilio Michelotti




Nel XVII sec. l’Europa è percorsa da una vena di follia. Incantesimi, caccia alle streghe, superstizione, Inquisizione, magia, alchimia intralciano e aprono al contempo la strada alla rivoluzione scientifica.
L’arte barocca raccoglie e amplia la duplicità insita nei nuovi tempi: razionalità connessa alla spiegazione/riduzione matematica del mondo, fuga verso realtà illusorie e drammaticamente coinvolgenti.

La Spagna è una terra sostanzialmente estranea alla nuova scienza naturalistica. La modernità, lì, pare frantumarsi in imperizia e approssimazione. Cervantes s’inserisce perfettamente in questo clima sonnolento, conformista e antiereticale com’è, attratto com’è dalle stravaganze della diversità e dall’appiattimento sui poteri costituiti.

Il Don Chisciotte è un meticoloso réportage sull’arretratezza della provincia spagnola. Ma allegorie e simboli ne dilatano enormemente lo spazio, dilagano oltre la cornice e assurgono a emblema, convincente per lo scetticismo che lo anima. Un esempio può essere la discesa nella caverna di Montesino, nel cuore dell’arida Mancia eppur percorsa da un fiume carsico, la Guadiana.

L’ambiente irreale, “magico”, apre la possibilità ad una sorta di rito iniziatico. Il tempo reale non coincide col tempo mentale: Chisciotte crede di permanere tre giorni (come Gesù nel sepolcro).
Sancio mimerà una ironica iniziazione cadendo nell’anfratto di antiche rovine.
Il Don Chisciotte può essere visto – forse in modo troppo scaltro o troppo ingenuo – come un gioco di specchi, in cui l’inganno dell’occhio e della mente fa pendant col “desencanto”.  A tale esito e sentimento lo sfaldamento dell’impero di Carlo V da un lato, la persecuzione antislamica e antiebraica seguita alla “reconquista” dall’altro, hanno gettato il Paese (un popolo in apnea, dice Ortega Y Gasset).

Il Don Chisciotte è come un tromp-d’oeil: una serie di piani potenzialmente infiniti s’accavallano e si rispecchiano in rimandi continui (Velasquez con Las Meninas può rendere l’idea al livello pittorico di tale sommatoria rapsodica di prospettive: il quadro è già dentro il quadro, il pittore stesso ed il punto di vista dell’osservatore stesso vi sono già compresi).

Che cosa è reale, dov’è l’inganno? Impossibile discernere: il prospettivismo, portato alle conseguenze estreme, ammette e, al tempo stesso, confuta tutte le affermazioni senza bisogno di prove
L’arabo Cite Hamete Benengeli è evocato da Cervantes come il mitico primo autore di un romanzo ispirato alle gesta dell’hidalgo.
Successivamente egli si pone come semplice traduttore. Nel capitolo XXIV (2a p.) si scopre che Benengeli era già, a sua volta, traduttore di una storia più antica.

Entra poi in scena De Avellaneda che, effettivamente, ha pubblicato una seconda parte apocrifa del romanzo. Cervantes se ne serve per arricchire ulteriormente i riccioli del suo affresco barocco (costui ”rischia il rogo, e lo merita, per avermi descritto così”, dice Don Chisciotte).
Intanto l’opera sul “vero” personaggio si va compiendo all’unisono con le sue avventure, la storia si vive mentre la si scrive (un gioco simile al "ritratto" di O.Wilde). Nel XXXIII (2a p.)si dirà: “ma questo nella storia non c’è ancora”.

Il tempo si dilata, si sfasa e diviene a sua volta illusorio. Nel II e III (2a p.) Il romanzo figura già stampato. “Vendute 30.000 copie”, si precisa nel XVI. Come in una macchina del tempo, Chisciotte agisce anche sul passato (LIX,2). Avvertito da de Avellaneda, cambia il corso degli eventi e va a Barcellona anziché a Saragozza. L’autore spiega al lettore: “Mi accusavano di denigrazione, allora ho cambiato carattere ai personaggi”. E nel XXX, 2: “molti hanno già conosciuto, dopo aver letto il romanzo” (ancora non scritto) “le gesta del Cavaliere dalla Triste Figura”
Nel cap. LXXII,2 si viene a sapere che lo stesso Don Chisciotte ha già letto la sua storia. La finta Altisidora racconta che nell’inferno i diavoli giocano col romanzo già finito. All’inizio del XLIV,2 compare un nuovo primo traduttore di Benengeli.

Il travestimento è l’aspetto fondamentale della crisi d’identità che diviene il motivo dominante del romanzo moderno.
Questo capitolo, il XLIV, 2, è quasi una teorizzazione della genesi del romanzo, della sua necessità storica. E’ la parte nella quale il maggiordomo “è e non è” la Tribolata. Altrettanto “Sono e non sono” tutti i personaggi cervantiani, da Dulcinea al Cavalier del Bosco, Dalla principessa di Miccomiccone al cavaliere degli specchi-maschera della morte. E’ e non è la realtà stessa. In questo modo la maschera di Cervantes s’oppone e rovescia in ironia il sogno rinascimantale di Calderon e dell’Ariosto (la vita non è sogno, è teatro e commedia). Così egli scioglie anche il dubbio  di Amleto: l’essere è anche il non-essere.

O almeno così sarebbe se non intervenisse, senza sosta e puntualmente, l’esito realistico (spesso per mezzo di Sancio oppure dell’autore stesso che, in prima persona, chiama il lettore a giudicare), che riporta al pensiero comune, all’ovvietà del senso. Con molti distinguo, però: non c’è cosa né oggetto che, filtrato dalla ragione della mente, permanga immutata. Il dubbio si riproduce, inesausto, al livello più elevato (o se preferite più profondo) dell’intelletto. E così via, all’infinito, specchio dopo specchio.

24 settembre 2012

12 marzo 2014

Pioggia di W. Somerset Maugham



di Gianni Quilici


William Somerset Maugham  è scrittore in bilico tra l‘800 e il ‘900. Dall’800 riprende la storia come concatenazione di fatti che creano sentimenti forti, collocati in un ambiente, di cui possiamo cogliere poteri, classi sociali ed ideologie; del ‘900, invece, uno stile essenziale, in cui narrazione e dialoghi sono fluidi e avvincenti.

Ciò si ritrova anche in Pioggia, un romanzo breve, che ha al centro tre personaggi principali: un medico, che più di tutti rappresenta lo sguardo sulla vicenda (anche se Maugham utilizza la terza persona), un missionario ed una giovane prostituta, che fugge dal suo passato. I due uomini con le rispettive mogli, sono costretti a fermarsi in un’isoletta dell’oceano Pacifico come pure la giovane donna belloccia e provocante.

Una delle isolette, allora colonie europee,  dove si svolgerà il racconto,  con una striscia argentea di sabbia che sale rapida a colline ricoperte da una vegetazione rigogliosa con case di erba  e un chiesuola biancheggiante, abitata da uomini e donne seminudi, con segni di malattie diffuse: framboesia,  papule deturpanti e, per la prima volta, il medico vede, anche casi di elefantiasi.

In questo scenario si inserisce una pioggia così continua ed insistente da diventare  simbolica. Scrive Maugham:
“Non era la pioggerellina inglese, che cade gentilmente sulla terra; era una pioggia spietata, in qualche modo terribile; ci sentivi la malignità delle forze primordiali della natura. Non cadeva, fluiva. Era un diluvio celeste, e batteva sul tetto di lamiera con un’intima rabbia. E a volte ti veniva da urlare perché smettesse, e poi ad un tratto ti sentivi impotente, come se ti fossero d’improvviso ammollite le ossa, ed eri infelice e scoraggiato”   

Mr Richardson, così si chiama il missionario, è presentato, già nell’ aspetto, come singolare. Alto, magro, guance cave, zigomi prominenti, aria cadaverica con, però, labbra piene e sensuali, capelli lunghi e soprattutto occhi scuri, profondamente infossati, grandi e tragici come di fuoco e vagamente inquietanti.

Ho ripreso, in sintesi, la descrizione con cui Maugham scolpisce l’aspetto psico-fisico  del missionario, perché Pioggia rappresenta benissimo ciò che si nasconde dietro un misticismo, che non ammette possibili compromessi, neppure il più naturale  buon senso.

E questa rappresentazione risulta tanto più efficace, da un lato perché possiamo leggere nel comportamento privo di pietà del missionario una cultura repressiva vendicativa, che ha bisogno, cioè, di vendicarsi di un “torto” latente; dall’altra possiamo capire solo alla fine, quando scoppia la tragedia, in modo magistralmente implicito, ciò che Mr Davidson nascondeva dietro il suo ferreo e intransigente puritanesimo. Una profondità, che diventa stile.

W. Somerset Maugham. Pioggia. (Rain). Traduzione di Franco Salvatorelli. Adelphi Edizioni.


















10 marzo 2014

"La linfa dell'eros: Nozze a Tipasa" di Albert Camus


di Emilio Michelotti

Critici autorevoli hanno rilevato la circolarità del percorso culturale e umano di Albert Camus. In questo breve racconto giovanile compaiono, in effetti, alcuni dei temi tipici della sua produzione letteraria e filosofica: la fisicità, l'individuo di fronte a sé e al mondo, l'orgoglio dell'appartenenza a una stirpe, a una specie e a una condizione, quella di uomo, che “ci fa un dovere d'essere felici”.

E' un giorno di sole vicino ad Algeri, c'è il mare, le rovine d'una antica civiltà, una natura rigogliosa che grida le sue fioriture multicolori. C'è una donna, lo s'immagina dal “noi” che talvolta compare. Non verrà mai descritta, né chiamata per nome, solo marginalmente evocata. L'attenzione dei giovani sensi è tutta proiettata verso la contemplazione estatica, quasi un amplesso erotico con la grandiosità degli spazi, l'intensità dei profumi, la vivezza dei colori.
“Perché, davanti al mondo, negherei la gioia di vivere? Non c'è disonore a vivere felici, l'imbecille è colui che ha paura di gioire. A Tipasa, io vedo equivale a io credo”

In altra parte Camus dichiara: “Qui, lascio ad altri l'ordine e la misura. E' il gran libertinaggio della natura e del sole, che s'impossessa completamente di me”. Persino il mare partecipa di tale esaltazione erotica, poiché “succhia le rocce con un mormorio di baci”.

Il tripudio di queste nozze ierogamiche fra il giovane Camus e la tumultuosa linfa vitale che lo circonda dà le vertigini. Ma non al punto da fargli smarrire del tutto il pensiero critico, che lo riporta a un socratiano – e mai più abbandonato - senso del limite: “Che bisogno ho di parlare di Dioniso per dire che mi piace schiacciare le bacche del lentisco sotto il naso?”

Ma non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. E' il 1937, la guerra e gli stermini sembrano, a uno sguardo incantato, non appartenere al futuro. L'assurdo dell'esistere e la rivolta contro la propria falsa coscienza covano, per ora, sottaciuti di fronte a quelle concordanze dei sensi chiamate “amore”. Che non dobbiamo, con debolezza, rivendicare per noi soltanto, ma, come suggerisce Platone con le parole di Diotima nel Simposio- e come rivendica a sua volta Camus – estendere all'universo intero.

Nozze a Tipasa, in “Camus, Saggi letterari”- traduzione di Sergio Morando. Bompiani 1959                                                 

04 marzo 2014

"Il maestro e Margherita" di Michail Bulgakov

di Emilio Michelotti

Il modo migliore per accedere al mondo magico del Maestro e Margherita, anziché quello di ripetere o allungare l’elenco delle «fonti» che le letture intertestuali hanno compilato o di percorrere o accrescere il labirinto di riposti significati che le letture interpretative hanno tracciato, sarà allora quello di porsi una domanda falsamente «semplice», adeguata però alla falsa «semplicità» del testo, una domanda che un celebre «formalista» russo, Boris Ejchenbaum, si era posto per l’opera di un autore prediletto da Bulgakov, cioè per Il cappotto di Gogol´. Possiamo domandarci «come è fatto Il Maestro e Margherita?»

È vero che si tratta di un «romanzo magico», usando questa espressione in un senso non generico, ma nel senso di una vera e propria opera di magia. Per cercare di capire «come è fatto» possiamo però immaginare questo romanzo come un atto di prestidigitazione, di una magia, cioè, sui generis, frutto di un artificio più o meno occulto che si tratta di «smontare».
Il Maestro e Margherita è un’unione di due romanzi, un «romanzo nel romanzo», meccanismo non nuovo (al pari del «teatro nel teatro»), ma qui sostanzialmente rinnovato. Non è la storia della scrittura di un romanzo: il romanzo di cui si parla nel romanzo che si intitola Il Maestro e Margherita, infatti, è già stato scritto e poi distrutto e la storia che si narra riguarda il suo recupero, la sua resurrezione attraverso la scoperta che esso, pur essendo inedito e proibito, e bruciato dallo stesso autore, non solo ha avuto lettori straordinari, soprannaturali, ma la sua stessa prodigiosa ricostruzione è opera di questi lettori ultraterreni che ne attestano la veridicità.

Il romanzo in questione è, infatti, un’opera che vuole rivelare per la prima volta il reale svolgersi di un grande evento effettivamente accaduto, tanto che il suo autore, il Maestro, respinge con sdegno la qualifica di «scrittore», che lascia ai letterati suoi persecutori, e preferisce definirsi uno «storico». Il romanzo scritto dal Maestro è la riscrittura di un altro libro, che egli considera non rispondente alla realtà degli eventi in esso narrati, è la riscrittura d’un libro sacro: il Vangelo. Il suo protagonista è Gesù, chiamato col nome aramaico di Yeshua Hanozri, nel momento finale della sua vita terrena, quello della condanna e della crocifissione. L’altro protagonista del romanzo storico del Maestro è Ponzio Pilato, il procuratore romano della Giudea, che ratifica la condanna di Gesù. Il Maestro e Margherita è fatto col procedimento del romanzo nel romanzo, ma con un particolare rapporto tra contenitore e contenuto: il contenuto contiene, a sua volta, una terza scatola cinese o una terza matrioska, ossia un altro testo narrativo: il Vangelo come testo di riferimento.

Lasciamo il romanzo contenuto, quello del Maestro, e consideriamo il romanzo contenitore, quello di Bulgakov, il quale, ovviamente, è l’autore di entrambi. Ma dei due romanzi egli è autore con uno statuto diverso, con un diverso livello di stile, con un enigmatico sdoppiamento che costituisce un aspetto importante della magia del romanzo nel suo insieme. Non si tratta soltanto di differenza di scrittura: ieraticamente severa, classicamente equilibrata, sontuosamente elegante nel romanzo del Maestro; effervescente, sbrigliata, corrosiva nel romanzo sul Maestro. C’è anche l’impersonalità del primo romanzo che contrasta con la soggettività del secondo: chi narra la storia evangelica non si sa, la voce narrante sembra venire da un’altezza o profondità insondabili, trovando nel Maestro semplicemente un portavoce, colui che, intuito il Vero, lo trasmette senza una propria interferenza; il narrante del romanzo sul Maestro, invece, non intuisce per una virtù superiore, ma ricostruisce per indizi le vicende che riferisce con divertita partecipazione, attraverso una mimica verbale che ne sottolinea la presenza.

Messo in luce questo primo meccanismo del romanzo di Bulgakov, ci si domanda come operano gli ingranaggi che regolano i movimenti dei due sistemi narrativi, stabilendo tra essi una rete di corrispondenze. Va detto che i due sistemi sono due mondi, due entità spazio-temporali, oltre che due universi simbolici: il romanzo del Maestro si svolge a Gerusalemme («Yerushalayim») all’inizio dell’era cristiana, il romanzo sul Maestro si svolge a Mosca 1900 anni dopo, nel 1929. L’opposizione tra questi due mondi è netta e la narrazione la mette in concreta evidenza: spazio-tempo sacro quello di Gerusalemme, sede del Mistero cristiano; spazio-tempo non semplicemente profano, ma addirittura dissacrato quello di Mosca, centro di un’ideologia atea. Per questo il romanzo del Maestro ha subito traversie rovinose, tanto da poter essere tratto in salvo, e col manoscritto anche il suo autore, soltanto grazie a un intervento portentoso, che costituisce la storia del Maestro e Margherita.

Del resto, se è lecito un rapido passaggio dal mondo della «finzione» a quello della biografia, per ragioni affini l’autore del Maestro e Margherita, Michail Bulgakov, patì lui stesso tante traversie, come si accennava all’inizio, e il suo romanzo si salvò prodigiosamente, giungendo sino a noi, sia pure cinque lustri dopo la sua morte, grazie alla dedizione della Margherita di Bulgakov, la moglie (Elena Sergeevna) che, al pari della protagonista del romanzo, dedicò la sua vita al suo Maestro e poi alla sua memoria.

I congegni di raccordo tra i due sistemi narrativi devono essere particolarmente sottili per poter sincronizzare analogicamente i movimenti del mondo sacro di Gerusalemme e di quello empio di Mosca. Ma Il Maestro e Margherita non è fatto soltanto di questi due sistemi o mondi: c’è un mondo terzo, che non è quello della terza dimensione temporale, dopo il passato gerosolimitano e il presente moscovita: non è il futuro, anzi il futuro è assente nel romanzo di Bulgakov che è il più antiutopico o autopico che si possa dare, senza per questo essere disperato, poiché il mondo terzo, o terzo sistema narrativo, è atemporale o sovratemporale: è eterno. È un sovramondo, da dove viene inviato sulla terra, a Mosca, un essere misterioso per trarre a salvezza colui che ha intuito e servito la Verità: il Maestro. La salvezza del Maestro, se è dovuta a questo intervento ultraterreno, lo è però anche grazie a un’energia tutta terrena, pur nella sua eccezionalità di dono impareggiabile: l’amore di una donna, Margherita, eletta dalle forze ultraterrene a sua eterna compagna, quando alfine sarà loro concessa la Pace dopo le prove dell’esistenza terrena.

L’essere misterioso che giunge sulla terra, a Mosca, in pieno regime comunista, a punire i persecutori del Maestro e a proteggere lui e il suo manoscritto, l’essere che, oltre a svolgere questa funzione, può apprezzare l’opera del Maestro e comprovare la verità della sua narrazione perché degli eventi narrati è stato testimone, questo essere è il diavolo, alias, nel romanzo, Woland. Non si tratta quindi soltanto di congegni di raccordo tra i tre diversi sistemi narrativi (quello del presente, quello del passato e quello dell’eterno, oltre al metasistema che pervade il tutto: quello dell’amore, nelle due ipostasi di amore terreno e di amore celeste): si tratta del rapporto tra Woland e Hanozri, cioè di una questione metafisica, come già allude l’epigrafe del romanzo, tratta dal Faust di Goethe, dove a una domanda: «… Dunque tu chi sei?» la risposta è un enigma: «Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene».

Doppio enigma, qui, perché se è vero che Woland «opera costantemente il Bene» e del Bene punisce i nemici, sia pure con una gaia spietatezza e talora un’imperturbabile crudeltà, ci si domanda se davvero egli «vuole costantemente il Male». La demonologia del Maestro e Margherita, così come la sua teologia, sconcerta, anche se mai si deve dimenticare che siamo in un mondo dell’immaginario, non riducibile a teoria. Anche qui, seguendo il metodo finora applicato, anziché abbandonarci, come tanti altri dotti esegeti del romanzo, ad alti voli filosofici, ci atterremo sobriamente al «come è fatto» il romanzo, cercando nel testo i procedimenti di significato, e non solo di struttura, della narrazione.

L’incipit del Maestro e Margherita immette subito il lettore in una situazione paradossale, dove la realtà quotidiana è incrinata dalla presenza inquietante di una forza enigmatica e viene narrata con un tono ironico-giocoso che continuerà nel corso di tutto il «romanzo sul Maestro» ovvero nella parte sovietico-moscovita: «Nell’ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni Patriarsie due persone» .

Le due persone sono Michail Aleksandrovic Berlioz, direttore di una rivista letteraria e presidente di una delle più importanti associazioni letterarie di Mosca, il Massolit, come ne suona la sigla; l’altra è il giovane poeta Ivan Nikolaevic Ponyrëv, noto con lo pseudonimo letterario di Bezdomnyj (il «Senza casa»). La conversazione tra i due è delle più strane: un poema su Gesù scritto da Ivan Bezdomnyj nello spirito antireligioso sovietico non soddisfa l’ateismo militante dell’ideologo Berlioz. Ciò che Berlioz non può accettare è che Gesù sia presentato da Bezdomnyj come una persona realmente esistita, mentre, egli sostiene, Gesù storicamente non c’è mai stato e si tratta di una finzione, di un mito. Mentre l’ideologo ammaestra in questo senso il poeta, ecco comparire un terzo personaggio, tanto strano da sembrare uno straniero agli occhi dei due sovietici. Lo sconosciuto si inserisce garbatamente nella conversazione, portandola su temi «alti» come l’esistenza di Dio, l’autonomia dell’uomo, la predestinazione e si presenta ai due stupiti interlocutori come un «esperto di magia nera»: Woland ovvero il diavolo. Tutta la linea «moscovita» si svolgerà come una satira ora lieve ora violenta, con una coloritura grottesca e carnevalesca e una fantasia insieme macabra e giocosa di cui faranno le spese tutti i tipi alla Berlioz, cioè i rappresentanti dell’establishment moscovita, mettendo a nudo la miseria umana del mondo sovietico comunista a tutti i suoi livelli, dai più bassi ai più elevati.

È la realtà in cui è prigioniero e vittima il Maestro, che, con la sua dedizione spirituale alla ricerca del Vero, è l’antitesi di quel mondo: la satira è «antisovietica», dato che si tratta della Russia postrivoluzionaria, ma la si può immaginare anche appuntata su un’altra società di massa, sia pure meno oppressiva di quella totalitaria. Il punto di vista della satira, infatti, è estremamente alto: quello di un Vangelo riletto in chiave mistica. In questo Vangelo, che è stato riscritto dal Maestro e che il lettore viene a conoscere attraverso varie fonti (il racconto di Woland, che è stato testimone degli eventi; il sogno di Ivan Bezdomnyj, che subirà una trasformazione dal momento della sua comparsa all’inizio del romanzo; il manoscritto del Maestro, prodigiosamente ricostituito da Woland), un Vangelo che diventa una sorta di testo assoluto, i cui protagonisti, Hanozri e Pilato, sono compresenti nel romanzo, quasi uscissero dal testo evangelico, in questo Vangelo Gesù è una figura più che umana, misteriosamente divina, e Pilato, vero protagonista del veridico romanzo del Maestro, appare una figura umana, troppo umana, capace di vivere il dramma del dubbio, della solitudine, della viltà, in un confronto infinito con colui che egli ha mandato a morte, ubbidendo alla plebe e al potere. Sono la plebe e il potere come entità collettive, e sono i singoli esseri umani in quanto dotati di libertà i portatori del Male e del Bene: il diavolo è una sorta di provocatore e sperimentatore che, come una sottodivinità soggetta alla divinità suprema di cui il mite Gesù è un’emanazione, compie una missione a Mosca per salvare il Maestro e il suo manoscritto, divertendosi a dimostrare che l’«uomo nuovo», preteso risultato della volontà rivoluzionaria, è non meno miserabile dell’antico.

Il Maestro e Margherita si chiude con la dissolvenza del passato (il mondo di Gerusalemme), i cui protagonisti, Gesù e Pilato, usciti dal tempo, continuano nell’oltretempo un dialogo iniziato nel romanzo del Maestro, in quell’oltretempo e oltrespazio dove, in una zona inferiore, sono stati accolti il Maestro e Margherita, mentre il presente, la quotidianità moscovita, dopo gli «esperimenti» fatti da Woland e dal suo corteggio, riprende la sua routine. Solo Ivan Bezdomnyj è mutato, ma non al punto di diventare un altro, del tutto estraneo a quella quotidianità. Il romanzo si rinchiude su se stesso, come una sfera magica, nel cui terso cristallo sono apparse vicende e figure misteriose e fascinose. È vano cercare di coglierne gli occulti meccanismi: la sfera, senza svelare come è fatta, mostra le sue visioni ogni volta che la si scruta, senza mai esaurirne i significati. È la sfera che Michail Bulgakov continuò a far ruotare fino alla sua morte nella città terrena in cui era vissuto il Maestro prima di ascendere a una città celeste che aveva sognato.


Da Il Maestro e Margherita, il capolavoro di Bulgakov, riporto un passo indimenticabile, l'incontro tra Margherita e il Maestro, molto di più che un "semplice" colpo di fulmine! E sfido a scagliare la prima pietra chi non ha mai sognato di essere protagonista di un incontro così.
Sono state pubblicate innumerevoli traduzioni di questa opera, in libreria ne ho confrontate quattro o cinque e alla fine ho scelto quella di Vera Dridso edita da Einaudi.

***

Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile.
Aveva fiori gialli!  Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no?  Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi!  Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch'io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall'altro. Non c'era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l'avrei mai più rivista. E s'immagini, a un tratto fu lei a parlare:
- Le piacciono i miei fiori?
Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e - è sciocco, lo so - parve che un'eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull'altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:
- No.
Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh?     Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
Non dico niente, - esclamò Ivan, e soggiunse: - La supplico, continui!
L'ospite continuò.
- Si, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
- Non le piacciono i fiori?
Nella sua voce mi parve sentire dell'ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
- No, mi piacciono i fiori, ma non questi.
- Quali le piacciono?
- Le rose.
Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po' confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
Camminammo così, silenziosi, per un po', finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.

- E poi? - disse Ivan. - Per favore, non salti niente!
- E poi? - l'ospite ripeté la domanda. - Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso -. Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e prosegui: - L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpi subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico!   Del resto, lei affermava in seguito che non era così, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro... e io, allora... con quella, come si chiama...
Con chi? - chiese Bezdomnyj.
- Con quella, ma si... quella... mm... - rispose l'ospite schioccando le dita.
- Lei era sposato?
- Ma si, perché crede che schiocchi le dita?... Con quella... Varen'ka... Manecka... no, Varen'ka...  il vestito a strisce, il Museo... Ma non ricordo.

Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
Si, l'amore ci colpì in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un'ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell'esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino,
Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l'indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi.
Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino, al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L'arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno, il batticuore continuava finché senza tacchettio, quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d'acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.

- E chi è? - chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d'amore.
L'ospite fece un gesto a significare che non l'avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l'orologio che suonava ogni mezz'ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all'angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l'uno per l'altra.