30 dicembre 2009

“Hyères, Francia, 1932” foto di Henri Cartier-Bresson


di Gianni Quilici

Ci sono delle foto che mi affascinano. La ragione -mi dico- è in me e nella foto.
Una di queste foto è qui: di Henri Cartier-Bresson.

Se dovessi definirla soltanto con una voce scriverei “linee di fuga”. Sono le linee di fuga che mi affascinano.
La linea di fuga della strada semicircolare, la linea di fuga delle scale, le linee di fuga delle ringhiere.
Su tutto il ciclista: corpo immobilizzato dallo scatto fotografico, ma che, nonostante ciò, appare più mobile degli altri “segni”. La sua mobilità risiede in ciò che si immagina, non in ciò che si vede. Nell'immaginario: egli viene e va in un attimo, sparisce.

Ecco il fascino che avverto: quella transitorietà, che da un lato rappresenta il desiderio di sfuggire all'immobilità, alla stasi, alla fissità: pedala, corre, passa, fugge; dall'altro però si può fermare, fissare con un disegno, una poesia, un fotogramma, un semplice click.

E però questo contrasto acquista un senso, si scolpisce, come qui nella foto di Cartier-Bresson.

Questa è la filosofia che ho colto all'interno dell'immagine, ma anche semplicemente osservando, oltre il primo sguardo, non si può non cogliere la bellezza compositiva delle geometrie che si sovrappongono, i leggeri contrasto di bianco e nero, la forza poetica di quell'uomo in bici così fugace.

C'è, infine, un altro elemento, che sottilmente mi commuove: il fotografo, Cartier-Bresson, il suo aspettare. Lo immagino. Ha trovato un luogo ed un punto ideale per una foto. Ora aspetta un corpo, che dia senso esistenziale e storico alla bellezza di esso. Eccolo arriva: il ciclista veloce. Lo aspetta e lo ferma nell'attimo giusto dopo la ringhera, prima che sparisca.

Henri Cartier-Bresson. Foto scattata a Hyères, Francia, 1932.

28 dicembre 2009

"Intervista a Erri De Luca di Fabio Fazio"


di Emilio Michelotti

L’invito a chiunque abbia votato per gli xenofobi a distruggere la capanna che nel presepio ospita “Miriam-Maria” e il suo bambinello clandestino, per quanto conseguente, mi ha sgomentato per la sua radicalità. E’ una visione estremamente conflittuale, quella di Erri De Luca, confermata dalla giustificazione del ricorso alla violenza “per difesa, per reazione contro l’oppressore”, e dalla parallela condanna del dominio sul mondo naturale.

Soccorre De Luca, mi pare, la rilettura in chiave greca del mito cosmogonico ebraico: in Adamo come in Prometeo c’è il seme della rivolta contro ciò che l’ha originato.

“La bestia sa la morte”, come per Pavese. La sapienza suprema è indicibile, misteriosa, inesplicabile e, soprattutto, tanto ignara di sé quanto necessitata. L’uomo, come per Nietzsche, “ultimo arrivato al banchetto della natura”, costruisce una divinità mostruosa, “a sua immagine” dotata in modo blasfemo della stessa “volontà di potenza”, seppure in quantità ultra umana.

Tutto ciò con due battute in un talk-show televisivo.

Brevi impressioni sull’intervista di Fabio Fazio a Erri De Luca (Che tempo che fa, Raitre, domenica 29.11.09)

24 dicembre 2009

"Laura e Julio" di Juan José Millàs


di Gianni Quilici

Laura e Julio sono una coppia madrilena come tante, che trascina la sua vita tra noia e lavoro. Li troviamo all'inizio nel loro appartamento, descritto da Millàs con il distacco dell'analista, quando squilla il telefono. Come al solito lo lasciano squillare per un po', fino a quando Laura risponde. Il suo volto, mentre sta ascoltando, acquista la rigidità di una maschera, proferisce appena due o tre monosillabi, riattacca, poi, parlando più a se stessa che a suo marito, dice che un auto ha appena investito Manuel.

Manuel è il vicino di casa, scrittore senza pubblicazioni, ricco, elegante, disinibito e affascinante con cui la coppia ha, da poco tempo, stabilito uno stretto sodalizio. Ora si trova all'ospedale, in coma.

Da qui inizia il romanzo, che avrà come protagonista Julio, il marito. Sarà lui che Millàs seguirà da vicino, e, attraverso lui, scopriremo ciò che si nasconde dietro questa amicizia a tre. Amicizia apparente, come è prevedibile.

Lasciamo perdere, però, la storia. Svelarla, come fanno troppi recensori, significherebbe non solo banalizzarla, ma togliere uno dei piaceri del romanzo: scoprirla.

Infatti “Laura e Julio” è un romanzo che ha l'andamento di un thriller. Un thriller psicologico, che mi ha ricordato a tratti Moravia e Patricia Highsmith.

Di Alberto Moravia ha la capacità di scandagliare psicologicamente il protagonista, dando ai pensieri sia il movimento dell'azione, che la sorpresa di un'immaginazione vivida, ossia creativa. Uno dei punti critici interrogativi del romanzo, infatti, può essere questo: Julio ha una personalità fragile e la personalità sicura e provocatrice di Manuel, la sua naturale eleganza e capacità intellettiva lo disorientano, ma anche lo affascinano tanto che egli ne rimane coatto, desideroso di modellarsi su di lui. Nello stesso tempo dimostra, però, anche una sorprendente capacità di immaginazione sia nel suo lavoro che nel rapporto con la bambina della sua sorellastra, che sembra più un aspetto dello scrittore che una possibilità del personaggio.

Di Patricia Highsmith c'è, appunto, il desiderio di Julio di farsi Manuel, lo stesso processo identificativo di Tony Ripley, protagonista di tanti romanzi della scrittrice americana, che anche in Julio, come in Tony, si riveste di quel pathos, di quella sospensione ansiogena e tragica, quando scopre cosa c'è dietro a quel teatrino quotidiano, che tutti recitavano.

Alla fine, abbiamo fatto, come lettori, un viaggio oltre le apparenze, ritornando, però, al punto di partenza. Qualcosa forse poteva cambiare. Invece nulla è cambiato. Siamo ritornati all'inizio, quando la storia era cominciata. Di diverso solo un figlio che deve arrivare.

Millàs si dimostra ancora una volta uno scrittore acuto e avvincente, che ti tiene sulla pagina, mai banale. E tuttavia il finale mi è sembrato poco convincente.

Perfetto letterariamente: il colpo di teatro di Julio, che con un tocco da maestro “riacquista la sua normalità”; perfetto anche ideologicamente: la medio-piccolo-borghesia è ormai troppo integrata nei meccanismi dell'alienazione per potersi salvare e forse anche per poter essere salvata. Questa “perfezione” riduce i personaggi: rende troppo “credulona” Laura; toglie, di conseguenza, un po' di ambiguità diabolica a Manuel (troppo facile risulta “giocare” con Laura); e infine l'escamotage di Julio ( va scoperto leggendo il romanzo) può finire per sembrare una brillante trovata.

Juan José Millàs. Laura e Julio (Laura y Julio). Traduzione di Paola Tomasinelli. Einaudi. Pag. 160. Euro 12,00.

21 dicembre 2009

"Alchimia" poesia di Loredana Giannini

di Gianni Quilici












Alchimia


L’emozione che arriva
delle volte improvvisa e potente
mi sovrasta,
impedisce altri sguardi
come un blocco di pietra
che è caduto dinnanzi

E si impone di colpo
con la sua prepotenza,
con le sue dimensioni,
con la sua consistenza

Ed è allora che io mi decido
a spaccare, a cercare
poi, pian piano a scolpire
cesellare, limare
per far uscire l’essenza


Solo allora ne nasce una forma
che finalmente io posso afferrare
quella forma che è unica e rara
quella forma che son le parole.
settembre 2007

Le uniche poesie pubblicate finora da Loredana Giannini sono uscite recentemente nel libro Parole nel palazzo. Loredana è, infatti, impiegata nel settore cultura del Comune di Capannori, che questo libro ha realizzato con i suoi stessi dipendenti e dirigenti.

In “Alchimia” Loredana Giannini ci presenta innanzitutto ( prime due strofe) l'emozione. Non una di quelle emozioni, che hanno la fugacità e l'inconsistenza del futile desiderio e che evaporano subitaneamente; ma l'emozione vera che s'impone, che non ti lascia, che ti impedisce perfino “altro”.

Nelle ultime due strofe ci fa invece capire come questa emozione fortissima possa divenire poesia. Più esattamente ce la fa “sentire” attraverso quei processi creativi nei quali essa si realizza: spaccare, (cioè superare, distanziare l'emozione), cercare, scolpire, cesellare, limare fino ad arrivare al punto in cui la poesia acquista quella forma che non sarà mai (ai nostri occhi) perfetta, ma forse quasi.

Loredana riesce, a mio parere, a fondere due processi intellettuali ed emotivi molto radicali e profondi con una forma in cui la scelta lessicale, l'utilizzo non scolastico di anafore e di assonanze danno ad “Alchimina” la forza e la bellezza della Poesia che ha spessore conoscitivo ed una musicalità accorata e insieme perentoria.

da Arcipelago 2008 [foto di Gianni Quilici]

"Baffi e tiranni" articolo di Luciano Luciani




Se è vero che “barba non facit philosophum” i baffi, però, hanno fatto paura. Sì, nella prima metà del XIX secolo, in taluni dei regimi dispotici che opprimevano il nostro Paese, l’onore e l’ornamento del labbro superiore, i baffi, hanno destato più di una preoccupazione: essi erano il segno, o almeno così venivano percepiti dal potere di allora, della ribellione a ogni prepotenza e di una ben manifesta volontà di lotta. Chi li portava era un carbonaro, un liberale, un cospiratore. Pertanto i baffi erano vietati e perseguito con la galera chi ne faceva sfoggio.

A Modena, più di un secolo e mezzo fa, l’ottuso governo locale aveva emanato in tal senso ordinanze assai severe: al punto che i pacifici sudditi, per evitare guai, avevano preso l’abitudine di radersi regolarmente e di offrirsi alla vista coi volti lisci, netti, liberi dai fastidi della peluria e dalle attenzioni dell’occhiuta polizia ducale. Anche gli stranieri erano soggetti all’inflessibile legge del rasoio, cosa che dette luogo una volta a una comica vicenda di cui fu protagonista Felice Romani, letterato genovese, celebre allora per i libretti d’opera scritti per i più famosi musicisti del tempo come Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi.

Francesco IV d’Este duca di Modena, il feroce carnefice del prete rivoluzionario don Andreoli e di Ciro Menotti, amava come si dice oggi, “fare immagine” e passava per amante delle arti e protettore in modo particolare della musica e dei suoi protagonisti. A tale proposito aveva invitato Vincenzo Bellini a sovrintendere alla “prima” del suo capolavoro, la Norma, nel suo teatro cesareo: il musicista catanese aveva accettato di buon grado, purché all’allestimento dell’opera partecipasse anche il Romani, autore del testo poetico.

E fu così che, in una bella mattina di sole, l’uomo di lettere ligure se ne andava tranquillamente a passeggio per le vie della città emiliana, godendosi la giornata, fiero del suo bel cilindro, della sua mazza e soprattutto dei suoi visibilissimi mustacchi. Tutto bene fino a quando, sotto la Ghirlandina, la torre tanto cara ai modenesi, il Romani con la coda dell’occhio si accorse di essere seguito ed osservato con estrema attenzione da un signore tutto vestito di nero che non lo perdeva un attimo di vista. Lui si spostava e quello lo seguiva; affrettava il passo e quello dietro, accelerando l’andatura. Questo gioco andò avanti finché il poeta non venne raggiunto dal suo persecutore che si qualificò per funzionario della polizia ducale e gli chiese di esaminare i suoi i documenti personali. Non soddisfatto, pregò il Romani di seguirlo, lo condusse in una bottega da barbiere, invitandolo a sedersi su una delle accoglienti poltrone di velluto rosso per sottoporsi all’immediato taglio dei baffi.

Ma il Romani non aveva intenzione di rinunciare a quelli che, oltre a tutto, rappresentavano una tradizione della parte maschile della sua famiglia. Si recò allora immediatamente presso la sede della polizia per farsi vistare il passaporto per l’immediata partenza dallo Stato.

I funzionari di polizia rimasero colpiti da quell’individuo baffuto che con tanta dignitosa autorità aveva sostenuto le sue ragioni “estetiche”. Non era improbabile che si trattasse di un personaggio ragguardevole, per cui riferirono la cosa ai loro superiori i quali, a loro volta, la riportarono al “serenissimo duca”.

Questi, in un primo tempo, ne rise; poi considerò l’accaduto con qualche preoccupazione e concluse che concedere libera circolazione al Romani munito dei suoi mustacchi avrebbe potuto costituire un precedente nocivo per la sua autorità. Pertanto, in quella grave contingenza, mostrò una fermezza degna di un grande monarca e sentenziò: o l’immediato taglio dei baffi o l’espulsione dal ducato.

Quando seppe, però, che anche Vincenzo Bellini, per solidarietà con il suo librettista, avrebbe a sua volta abbandonato Modena e che la “prima” della Norma sarebbe stata forse compromessa, ci ripensò. Anche perché gli era stato riferito del malumore creatosi in teatro tra gli artisti, alcuni dei quali minacciavano di sospendere le prove in segno di protesta.

Feroce ma non sciocco, Francesco IV valutò allora che l’incidente avrebbe avuto una risonanza del tutto negativa per la sua fama di principe saggio e paterno protettore delle arti belle. Decise di venire allora a più miti consigli, convocando in fretta, come nelle contingenze più gravi, i suoi più fidati collaboratori, per cercare insieme a loro un rimedio che appianasse la questione senza perdere la faccia.
I migliori cervelli ducali si concentrarono e dopo un’intensa riflessione trovarono la soluzione di permettere al poeta di permanere nello Stato e circolare liberamente durante l’allestimento e la rappresentazione dell’opera belliniana. Al tempo stesso, però, allo scopo di tutelare l’integrità della legge si sarebbe provveduto a far circolare per la città la voce che il signore tanto arditamente baffuto era l’inviato di un governo straniero giunto a Modena per trattare delicate questioni di importanza internazionale.

Così, mentre Felice Romani era nel suo albergo a fare le valige, arrivò un messaggio del duca per comunicargli le superiori deliberazioni, informandolo anche del ruolo inconsueto che egli avrebbe dovuto sostenere. Il poeta, allora, dopo aver indossato il più sgargiante dei suoi abiti e controllata accuratamente allo specchio la forma dei mustacchi che avevano corso un così serio pericolo, uscì soddisfatto per la città con incedere austero e dignitoso.

Intanto Francesco IV per mezzo degli agenti della sua propaganda aveva sparso la storiella del plenipotenziario estero in missione segreta. E allorché il poeta fece la sua passeggiata per Modena fu oggetto di timorosa riverenza e di perplessa curiosità. Guardandolo i modenesi pensarono a macchinosi intrighi di cancellerie, a complesse trattative di carattere politico e non mancarono quanti pensarono che da una parola sola di quell’uomo baffuto poteva dipendere, forse, l’incombere tragico della guerra sulle loro case. Dopo la prima esecuzione della Norma il Romani si affrettò a partire e nessuno pensò più a lui. Anche il duca, quando seppe che per la città non circolavano più quei vistosi baffi che avrebbero potuto far balenare nella mente dei suoi fedeli sudditi le sovversive parole cospirazione e rivolta, sorrise beato, quasi libero da un’inquietudine strana ed indefinibile. Era convinto, il tiranno, che l’accorgimento geniale d’aver messo al bando barbe e baffi sarebbe stato sufficiente a deviare il corso fatale della storia.

15 dicembre 2009

"La morte di Felice Cavallotti"



di Luciano Luciani


Parole e musica di un anno durissimo
Il 1898, che doveva rivelarsi come uno degli anni più duri e drammatici nella ancor breve storia del giovane stato unitario, era iniziato davvero male. Il gelo dell’inverno non aveva ancora lasciato il passo ai primi tepori primaverili, quando, nel pomeriggio della prima domenica di marzo, si spargeva improvvisamente la notizia della tragica morte di Felice Cavallotti.

Scrittore, uomo politico della estrema sinistra parlamentare, grande e combattivo avversario prima del trasformismo di Agostino Depretis, poi delle tendenze autoritarie e imperialistiche di Francesco Crispi, suo antico e più anziano compagno nella spedizione dei Mille, Cavallotti non disdegnava risolvere con un duello le vivaci polemiche e gli aspri contrasti che gli derivavano da un‘ intensa ed appassionata attività giornalistica e parlamentare. L’ennesimo, quello del 6 marzo 1898 con il deputato monarchico e crispino Ferruccio Macola gli fu fatale. Narrano le cronache che “al terzo assalto Cavallotti…accaloratosi nello scontro investiva all’impazzata l’avversario e la sciabola di questi gli si conficcava nella gola tagliandogli la trachea e uccidendolo quasi all’istante.”

Enorme l’impressione e unanime il compianto per la morte del “bardo della democrazia”: il Parlamento decretò un lutto di otto giorni ed espressioni di cordoglio giunsero da mezzo mondo, dalla Camera dei deputati francese come dai Parlamenti di Grecia e di Bulgaria! A Roma sembrò che l’intera città partecipasse al lutto per la scomparsa del protagonista generoso e disinteressato di tante battaglie parlamentari e giornalistiche; a Milano i funerali risultarono imponenti con una straordinaria presenza di popolo e di autorità. Larghissimo l’intervento della sinistra politica: radicali, repubblicani, socialisti…Per le autorità di polizia una prova in più per affermare che il tale occasione erano state gettate le basi della ‘rivoluzione’ che, qualche settimana più tardi, avrebbe dovuto scuotere Milano e l’Italia.

Non mancò neppure chi, come il poeta Lorenzo Stecchetti, intravide in quella vicenda il risultato di oscure trame crispine, finalizzate all’eliminazione di un irriducibile avversario politico. Così, con la foga oratoria propria del periodo, il poeta forlivese si rivolgeva a Francesco Crispi individuato come il mandante di Macola:…

Nel mortal duello/ non fu tua la vittoria./
Con un colpo di spada o di coltello/
non si uccide la Storia!

La storia naturalmente “non si uccide” e non si ferma…e di lì a poche settimane la questione sociale irrisolta trascurata da Crispi e dai suoi successori avrebbe reclamato con forza i suoi diritti.

Canta che ti passa
Dal Nord al Sud della penisola agitazioni e tumulti causate dall’aumento del prezzo del pane riproponevano drammaticamente il tema delle durissime condizioni materiali di vita delle classi subalterne: nell’inverno e nella primavera di centodieci anni or sono Sicilia, Emilia, Romagna, Marche diventano il teatro di manifestazioni per il pane, il lavoro e contro un esoso sistema fiscale che arrivava a tassare addirittura gli animali da tiro. Particolarmente gravi gli incidenti che avvennero ad Ancona, dove, per riportare la calma, il governo è costretto a far intervenire due squadroni di cavalleria e ricorrere a massicci arresti di avversari politici. A guidare la repressione quel generale Baldissera che aveva negoziato la pace col Negus Menelik dopo la sconfitta di Adua del 1896 e che, partendo per la sua missione africana, era stato accompagnato dalla celebre e beffarda canzoncina Baldissera, Baldissera/non ti fidar di quella gente nera…

Intanto in Veneto e in Lombardia già da qualche anno circolava La boje, un canto che accompagnava di solito le mobilitazioni e i moti contadini sempre più numerosi a mano a mano che ci si avvicinava alla fine del secolo: La boje, la boje e de boto la va de fora (Bolle, bolle e all’improvviso trabocca). Soggetto implicito, ma chiarissimo nella coscienza sia dei padroni sia degli sfruttati, la rabbia delle classi subalterne sempre più simile all’acqua di un pentolone che procede verso un’ebollizione inarrestabile.

Al brontolio delle plebi affamate faceva riscontro il cicaleccio un po’ vacuo di una borghesia non all’altezza dei problemi, testimoniato dal successo di canzonette “canta che ti passa” come la celeberrima Ciribiribin:

Ciribiribin, che bel faccin,
che sguardo dolce ed assassin!
Ciribiribin, che bel nasin,
che bel dentin, che bel nasin…

Le stragi di maggio
Intanto si approssimava il sanguinoso maggio del 1898: nei primi giorni di quel mese l’esercito fa sei morti a Bagnocavallo, cinque a Molfetta, uno a Piacenza, uno a Figline Valdarno, quattro a Sesto Fiorentino, due a Livorno…
Questa nuova geografia della repressione doveva trovare a Milano la propria capitale: il 5 maggio a Pavia, la polizia interviene duramente per reprimere una manifestazione popolare e uccide il giovane figlio del sindaco della città. A Milano il sindacato stampa dei manifesti di protesta, di cui viene impedita la distribuzione e l’affissione. Anzi, questo episodio viene usato dl generale Fiorenzo Bava Beccarsi per imporre lo stadio di assedio alla città e scatenare una vera e propria caccia all’uomo per le vie di Milano. Si spara contro i passanti per strada, contro coloro che ardiscono affacciarsi alle finestre, contro gli uomini, le donne, i bambini. I soldati, fanatizzati contro “il nemico interno”, non esitano ad assalire il convento dei frati di Corso Manforte e scambiano i mendicanti in fila per ricevere la quotidiana ciotola di minestra per pericolosi sovversivi: a colpi di cannone radono al suolo il muro di cinta dell’istituto religioso e li assaltano con le baionette innestate. Una strage.

Così racconta quelle tragiche giornate Paolo Valera, scrittore tardo – scapigliato e giornalista di orientamento socialista:
“Ero circondato da feriti che imploravano soccorso, e da morti che mi guardavano in faccia con la loro faccia gelata e coi loro occhi ingrossati e spaventati dalla morte. Non dimenticherò mai quello dalla testa scallottata. Il disgraziato era tutto impillaccherato del suo sangue. I capelli alle pareti craniche ne erano incatramati e le guance e il collo ne erano lastricati. Giaceva come un orrore. In quel momento non ho potuto trattenermi in gola la parola concitata. Io ho detto qualche cosa contro i soldati, ho detto che non avrei mai fatto il soldato” (P. Valera, I cannoni di Bava Beccaris, Milano 1966, pp. 37/38).
Milano venne trattata come una città nemica e la strage durò tre giorni: alla fine si contarono 118 morti e 450 feriti secondo il governo, più di 400 morti e oltre 2000 feriti per l’opposizione.

Una repressione durissima
Durissima anche la repressione che tenne dietro: voluta da un governo ossessionato dal pericolo”rosso” e da quello clericale, rischiò di portare il Paese sull’orlo della guerra civile. Centinaia e centinaia gli arrestati, cui vennero inflitte migliaia di anni di reclusione: repubblicani, cattolici, anarchici, socialisti, sindacalisti, organizzatori di mutue e leghe di resistenza fecero la conoscenza delle patrie galere.

I nomi? Filippo Turati e Anna Kuliscioff, Andrea Costa e Leonida Bissolati, don Davide Albertario e Gustavo Chiesi: intellettuali ed operai, separati nella società civile, si ritrovarono uniti da una repressione feroce ed ottusa.

Facciamo parlare ancora Paolo Valera che fu cronista e testimone sia delle stragi di maggio sia della successiva vendetta giudiziaria voluta dal governo:
“In camerata non eravamo più che delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556, don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558. Paolo Valera il 2559, Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561…A mano a mano che si veniva chiamati, si andava vicino al cancello a ricevere la ‘bianchieria’. Per asciugarci la faccia e tutto il corpo, ci avevano dato una pezzuola di canape ruvido, a rigoni spaventevoli, a listoni alternati che andavano dal bigio al cioccolato – due colori che porto nella testa con orrore. Perché sono le striscie che rappresentano la casa di pena e riassumono l’emblema del reclusorio…” (pp. 168/169).

Giosue Carducci, letterato ormai stanco e filosabaudo, definì quella vicenda “le cinque giornate di Milano alla rovescia”. Anarchici, socialisti e repubblicani ricordano ancora oggi quegli eventi luttuosi con una dolente canzone che, affidata a cantastorie, “volantoni” e canzonieri, fece il giro d’Italia per arrivare fino ai nostri giorni:


Alle grida strazianti e dolenti
di una plebe che pan domandava
il feroce monarchico Bava
gli affamati col piombo sfamò.

Furon mille i caduti innocenti
sotto il fuoco degli armati Caini
e al furor dei soldati assassini
“Morte ai vili”, la plebe gridò


Deh, non rider, sabauda marmaglia
se il fucile ha domato i ribelli
se i fratelli hanno ucciso i fratelli,
sul tuo capo quel sangue cadrà.

La panciuta caterva dei ladri
dopo avervi ogni bene usurpato
la loro sete ha di sangue saziato
in quel giorno nefasto e feral.

Su piangete, mestissime madri,
quando scura discende la sera
per i figli gettati in galera
per gli uccisi dal piombo fatal.

Tempestoso lo scenario sociale e politico italiano di oltre cento anni fa. Forse proprio per questo nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nei café - chantant furoreggiavano O sole mio e la sua aria serena dopo ‘na tempesta. Un testo con cui si alimentava l’immagine di una Napoli – e di un’Italia – tutta sole e allegria, amore e passione. Non era affatto così, ma era questa la rappresentazione del Bel Paese destinata ad affermarsi, per decenni, nel mondo.

10 dicembre 2009

"LUCCAdigitalPHOTOfest 2009: un viaggio tra le Mostre"


di Gianni Quilici

Anche questa edizione di LUCCAdigitalPHOTOfest 2009 è stato un successo: di pubblico e di critica. Quello che offriamo è un viaggio (non completo) tra le mostre di questa quinta edizione.

Prima mostra: Bazancuba di Ernesto Bazan.
Colpisce subito la scrittura (a mano), che accompagna ogni periodo-sezione della Mostra per la felicità di vivere che trasmette, per la gratitudine che dimostra, per le scoperte che via via compie su di sé e sul fotografare. Le immagini sono poi straordinarie, perché nella loro complessità di punti di vista diversi, di angolazioni insolite, di accostamenti a volte prodigiosi, colgono il cuore ed il vissuto di un popolo, quello cubano. Il video di Jaan de la Cruz ripercorre le foto della mostra, ma l'autore, muovendo la videocamera sulle immagini, inserendo musiche evocative di Cuba ne fa, anche, un'opera a sé.

Seconda mostra: Cronache da fonti autorevoli di Alex Majoli: immagini disperate dalla Palestina a Bagdad, dal Rwanda alla Bosnia, dalla Georgia all'Afghanistan.
Pur importanti e dense nel rappresentare un “mondo” doloroso e in sfacelo, le foto di Mojoli a volte, con alcune eccezioni, non hanno la capacità di dilatarsi, rimangono come importante significativa testimonianza.

Terza mostra: Aquila di Gianni Berengo Gardin.
Vediamo l'Aquila nel 1992, nello splendore delle sue chiese, palazzi, fontane, biblioteche come ora non più. Foto documentative, che non colgono l'attimo, ma ciò che è (che era). Un grande fotografo, che ha testimoniato come pochissimi altri i mutamenti della nostra penisola come poeta, sa farsi anche, con umiltà, semplice descrittore delle “cose”.

Quarta mostra: Living the apple: una performance, un video, una mostra fotografica di Patrizia Dottori.
La bellezza dei colori, nella gigantografia delle cornici: il rosso mantello di decine di giovani ragazze, l'azzurro del cielo, il bianco del marmo rimangono piacere di superficie, che però scivola dagli occhi.

Quinta Mostra:The fifthy faces of Juliet di Man Ray.
Una Mostra da vedere tenendo presente le bellissime parole scritte dallo stesso autore: foto per lui (Man Ray) e per lei (Juliet), non per noi. Se le vediamo dobbiamo entrare nell'ossessione della rappresentazione, nell'ossessione della sperimentazione e “osservare” alcune foto, come autentici ritratti-capolavori.

Sesta mostra: World Press 2009.
Difficile commentare una mostra come questa che raccoglie il meglio nelle varie sezioni: politica e società, arte e spettacoli, sport e natura. Non sempre c'è la grande foto, che da sola illumina una situazione, ma il reportage nel suo raccontare una condizione sociale, un evento. Da qui l'importanza della didascalia informativa, che ci porta in un pianeta, in cui guerra, disastri ecologici, catastrofi, condizioni di miseria stanno insieme alle bellezze naturali, a corpi scolpiti nello sforzo competitivo, all'energia di primi(ssimi) piani umani o animali che siano.

Settima mostra: Richard Avedon.
Che Avedon sia un grande fotografo ed uno dei più grandi ritrattisti del '900, credo che sia un dato critico acquisito. Ed infatti vedendo In memory of late Mr. and Mrs Comfort una delle possibili impressioni può essere “ perfetta, stupefacente”.
Una modella bellissima nelle forme, nei lineamenti, nell'espressività del volto, nell'eleganza della figura insieme ad uno scheletro, con cui ha un rapporto come con persona umana:di denaro, sesso, arte, seduzione, disperazione, narcisismo ecc, ecc, in un ambiente fatiscente, putrido, polveroso, abbandonato. Metafora chiaramente didascalica sui destini umani: tutto, anche ciò che è sfolgorante è destinato a finire in uno scheletro senza forma, senza bellezza, senza respiro. L'operazione che sta dietro è una messinscena teatrale-cinematografica con un ambiente, che nel suo squallore è curato alla perfezione fino ai più piccoli dettagli; dove i protagonisti sono colti magnificamente nell'attimo giusto e più efficace. Grande professionismo, che può lasciare, però, freddi, forse perché l'emozione è fin troppo studiata, calcolata. Da qui si potrebbero porre interrogativi sul rapporto tra fotografia e cinema, tra fotografia e teatro...

06 dicembre 2009

"Il liberalismo economico e intelligente di Thomas Babinghton Macaulay"

di Luciano Luciani






Thomas Babington Macaulay non è stato forse il più grande storico inglese, ma è di sicuro uno tra i più letti e popolari. Alla sua notorietà contribuirono i profondi mutamenti intervenuti in età romantica nella cultura inglese e in quella europea: se il XVIII secolo era stato caratterizzato dai progressi della fisica classica newtoniana e dalla diffusa attenzione per la speculazione scientifica, nel secolo XIX il pubblico colto leggeva con interesse ed entusiasmo i lavori degli storici anche quando questi si sviluppavano in opere di grande impegno distribuite in molti e ponderosi volumi.

Nella borghesia europea dell’Ottocento si manifestava una vivace esigenza di cultura storica che dava alle opere di Gibbon, Niebuhr, Ranke, Mommsen, Treitschke, Macaulay, Michelet, Guizot una risonanza e una diffusione difficili da immaginare ai nostri giorni.

Leggibili e godibilissimi i suoi scritti afferravano l’immaginazione del lettore con la forza espressiva di un buon romanzo: lo stesso Charles Dickens non aveva molto da insegnare a Macaulay in fatto di stile colorito e vigoroso. Per lui la storia non era una scienza e non doveva rimanere al di sopra delle parti: era soprattutto letteratura “impegnata”, civilmente e politicamente, in favore del liberalismo inglese, schierata con le ragioni della libertà e del progresso contro gli ideali di ordine e tradizione dei Tories, i conservatori inglesi.

Macaulay era un uomo di parte, partigiana era la sua storia e proprio questo suo atteggiamento polemico, palese e dichiarato, induceva molti a leggere i suoi libri. Non erano i fatti ad interessare Macaulay, ma la loro interpretazione. Per lui il compito dello storico non era tanto registrare il passato quanto soprattutto illuminarlo: ma lo studioso e lo scrittore di storia non dovevano trascurare il divertimento dei lettori: “ Per me ” – ebbe a dire una volta Thomas Babington – “ un libro che non sia divertente è privo di una delle sue virtù essenziali ”.

Macaulay era nato nel 1800 da una famiglia economicamente modesta ma ricca di sensi liberali ed anticonformisti: il padre, Zachary, era stato un famoso riformatore puritano, esponente di spicco del movimento d’opinione contro la tratta degli schiavi; la madre, a sua volta, proveniva da una famiglia di liberi pensatori.
Le sue eccezionali doti intellettuali si rivelarono sin dalla più giovane età. Prodigiosa la sua memoria che gli permetteva di citare senza errori pagine e pagine di qualunque pubblicazione. Entrato a diciotto anni al Trinity College di Cambridge, ottenne tutti i riconoscimenti possibili nel campo degli studi classici e letterari, acquistando anche un’eccellente fama di oratore. A Cambridge, tuttavia, la matematica era tra le materie obbligatorie e Macaulay, nonostante tutti i suoi successi sul versante delle discipline storico-letterarie, non sapeva districarsi tra le più semplici operazioni aritmetiche. Nonostante venisse rimproverato in un paio di occasioni a causa di questa sua debolezza, a soli 24 anni era già professore al Trinity College. I suoi esordi professionali lo videro impegnato nella carriera legale, un’attività che, allora come oggi, permetteva di passare facilmente alla vita politica.

A 30 anni, infatti, preceduto dalla notorietà che gli derivava dalle sue abilità oratorie, Macaulay venne eletto alla Camera dei Comuni tra le file dei Whigs, i liberali inglesi. Fin dall’inizio, la sua presenza in Parlamento si rivelò assai vivace e Macaulay divenne uno dei personaggi più in vista del dibattito politico e del liberalismo inglesi.

All’inizio di quel decennio la società inglese si trovava a godere di un benessere economico mai conosciuto prima: le attività economiche si fondavano sull’apparato industriale più moderno del tempo e gli imprenditori, i banchieri, gli speculatori inglesi dominavano il mondo finanziario ed i mercati mondiali. I diritti fondamentali (opinione, parola, religione, proprietà) erano garantiti e sostanzialmente rispettati. La classe dirigente inglese, in cui aristocratici intraprendenti e attenti alla modernità si mescolavano con gli esponenti più capaci della borghesia urbana, poteva così aprirsi ad una politica di riforme senza scatenare aspre tensioni sociali. “ Riformate, affinché possiate conservare“: così intelligentemente si esprimeva nel marzo del 1831 il giovane deputato Macaulay nel corso del dibattito sul First Reform Bill, un provvedimento finalizzato ad abbassare il reddito minimo previsto per esercitare il diritto di voto che fu poi approvato nel 1832.

A 33 anni Thomas Babington Macaulay dovette prendere una difficile decisione: gli fu offerto, infatti, un posto di grande rilievo nell’amministrazione coloniale inglese in India, la cui conquista si era conclusa nel 1818. Gli veniva garantito uno stipendio di diecimila sterline annue: accettare voleva dire rinunciare ad una carriera politica brillantemente avviata e trascorrere alcuni anni lontano dall’Inghilterra. Gli veniva offerta, però, la possibilità di guadagnare in pochi anni il denaro sufficiente per vivere con agiatezza per tutto il resto della vita.
Macaulay, agli inizi della carriera e di condizioni economiche ancora piuttosto modeste, scelse di vivere e lavorare in colonia per alcuni anni. Partì nel 1834 in compagnia della sorella Hannah. Il primo lavoro che gli toccò in qualità di funzionario governativo fu quello di presiedere una commissione incaricata di decidere i programmi di studio per le scuole che gli inglesi intendevano organizzare in India.
Nutrito degli ideali ottimistici e delle certezze della borghesia che stava costruendo l’impero britannico, Macaulay non ha che un modello di cultura da proporre: quello occidentale, da realizzare attraverso la diffusione della conoscenza della lingua inglese. Scarsa la sua attenzione per le tradizioni, le lingue, la storia, la cultura indiane.
Così nel pieno delle sue funzioni scriveva al governatore inglese: “Il problema che dobbiamo risolvere è semplicemente se – avendo noi la possibilità di insegnare l’inglese – dobbiamo insegnare lingue, in cui per universale consenso non ci sono per nessuna materia libri degni di essere comparati con i nostri; se, potendo insegnare le scienze europee, dobbiamo invece diffondere dei sistemi che, per consenso universale, dovunque differiscono da quelli europei e differiscono in peggio; e se, potendo promuovere una sana filosofia ed una veridica storia, dobbiamo diffondere, a spese pubbliche, dottrine mediche che farebbero arrossire dalla vergogna il peggior ciarlatano inglese; un’astronomia che farebbe ridere le ragazzine di un nostro pensionato; una storia zeppa di re alti nove metri e di regni della durata di trentamila anni, e una geografia fatta di mari di melassa e di burro “.

In India fino al 1837 Macaulay non si occupò solo dei problemi dell’organizzazione dell’istruzione pubblica: membro del Consiglio Supremo lavorò al Codice Penale che più tardi doveva essere accettato in tutto quello sterminato territorio coloniale.
Rientrato in Inghilterra due anni prima del previsto, rimise piede in Parlamento come deputato di Edimburgo e venne addirittura nominato segretario alla guerra nel governo liberale di Wilson Lamb, conte di Melbourne. Gli incarichi ministeriali non facevano, però, per lui che salutò probabilmente con un sospiro di sollievo la sconfitta elettorale subita dai Whigs nel 1841 ad opera dei conservatori guidati da Robert Peel. Ebbe così finalmente il tempo per scrivere poesie di ispirazione storico-narrativa che lo resero famoso in tutto il mondo di lingua inglese. I suoi Lays of ancient Rome (Canti di Roma antica), 1842, che rievocavano episodi eroici della leggendaria storia di Roma, ebbero un enorme successo di pubblico e se ne vendettero oltre centomila copie in trent’anni. Meno entusiasta la critica: Macaulay, che affermò più tardi che “ forse nessuno può essere poeta e forse neppure godere la poesia, senza un pizzico di follia “ (Saggi letterari) non si adontò per questa incomprensione e tornò a dedicarsi ai suoi amati studi storici. Due anni dopo la pubblicazione dei Canti furono raccolti in tre volumi i Saggi critici e storici che erano originariamente apparsi sulle pagine dell’ “ Edimburgh Review “, a cui Macaulay collaborava con regolarità fin dal 1825.
Anche questo lavoro riscosse in breve tempo uno straordinario successo: in Inghilterra fu subito best-seller e negli Stati Uniti per molti anni il numero delle copie vendute dei saggi fu inferiore soltanto a quello della Bibbia!

In queste pagine l’attenzione di Macaulay si allarga dal suo Paese a tutta l’Europa: memorabili i suoi ritratti di Bacone, Milton, i due Pitt, Machiavelli, Mirabeau, Federico il Grande. Trattando di questo sovrano, re di Prussia dal 1740 al 1786, Macaulay ne fa il modello del principe illuminato settecentesco, razionalista e ammiratore della cultura francese. Atteggiamento che non gli impedì, con il trattato di Westminster del 1756, il famoso “rovesciamento delle alleanze” in funzione antifrancese, antiasburgica e a fianco dell’Inghilterra.

Non contento della sua ottima riuscita come storico, nel giro di pochi anni, Macaulay dimostrò di avere ben altre frecce al suo arco e di non essere solo lo scrittore brillante che nel breve spazio di un saggio sapeva avvincere l’attenzione del lettore per l’eccellente qualità della prosa, la capacità di ricostruire con lucida sintesi lo svolgersi di avvenimenti anche complessi, l’acutezza del giudizio storico. Nel 1849 uscì la sua opera di maggior impegno e più vasto respiro: la Storia d’Inghilterra dal 1688 al 1701, in cinque volumi pubblicati tra il 1849 e il 1861. E’ questo un classico della storiografia liberale, che con grande chiarezza espositiva affronta un periodo cruciale della secolare vicenda inglese: la sconfitta del cattolico Giacomo II Stuart e la sua cacciata dall’Inghilterra ad opera di una coalizione di liberali protestanti e conservatori; la nascita della nuova monarchia costituzionale degli Orange; la Declaration of Rights (Dichiarazione dei Diritti) del 1689 che prevedeva la libertà di parola, l’approvazione delle tasse da parte del Parlamento, un esercito non permanente. Una fase difficile ma propizia della storia d’Inghilterra che proprio in quegli anni conquista il predominio sui mari e si avvia a diventare la prima potenza commerciale del mondo, mentre all’egemonia francese sull’Europa si andava sostituendo il principio dell’equilibrio, la balance of power, tra le potenze del continente.

Macaulay naturalmente scrisse da appassionato sostenitore di quella che gli inglesi ancora chiamano glorious revolution, la gloriosa rivoluzione e ne attribuì la maggior parte dei meriti ai liberali. Il suo lavoro fu però ben accolto sia dai Whigs, sia dai Tories e lo stesso principe Alberto di Sassonia-Coburgo, marito della regina Vittoria, dopo la pubblicazione dei primi due volumi mandò a chiamare l’autore della Storia d’Inghilterra e gli offrì il posto di Regius Professor. Macaulay, tuttavia, declinò l’invito: era membro del Parlamento, rettore dell’Università di Glasgow ed i nuovi doveri di accademico di corte lo avrebbero distratto dai suoi amati studi storici che conduceva con uno scrupolo ed uno zelo fuori dal comune: infatti, non si limitava a raccogliere e studiare tutti i documenti reperibili intorno a personaggi e situazioni, ma era solito anche visitare i luoghi legati agli avvenimenti da trattare.

La fama che gli derivò dalla pubblicazione della sua Storia dell’Inghilterra gli aprì le porte della cultura europea. Le maggiori istituzioni accademiche del continente si contesero la collaborazione dello storico inglese: fu fatto Cavaliere dell’Ordine del Merito Prussiano e nominato membro dell’Istituto di Francia, dell’Accademia di Utrecht, Monaco e Torino.

Ritiratosi dalla vita parlamentare nel 1857 per ragioni di salute si vide offrire un seggio alla Camera dei Lords: un riconoscimento che Macaulay accettò come segno di stima e di gratitudine dal suo Paese che egli aveva così bene onorato con l’attività intellettuale e la ricerca storica. In quella Camera “alta” e non elettiva del Parlamento britannico, dove in molti sedevano per diritto ereditario, Macaulay non volle però mai intervenire.

La morte lo colse, ancora fervido ed operoso, il 28 dicembre del 1859. Le sue spoglie riposano nell’Abbazia di Westminster. I posteri – “questa alta corte d’appello che non è mai stanca di elogiare la propria giustizia e il proprio discernimento” (Saggio su Machiavelli) – hanno ridimensionato il valore delle sue opere storiche, apprezzandone però il vigore narrativo e la straordinaria capacità di raccontare ed appassionare il lettore. Una qualità rimasta come tratto distintivo della migliore storiografia di lingua inglese.

01 dicembre 2009

" Il soccombente" di Thomas Bernhard

di Emilio Michelotti




Thomas Bernhard intinge la penna nel veleno. La sua ossessione monologante lo porta a una visione assolutista. Lo muove un pessimismo senza possibilità di riscatto. Demolitore e alchimista, muta in caos l’armonia, e l’oro in piombo. Tutto vero?

Non mi pare, se si guardano con attenzione i suoi scritti, per esempio questo Il soccombente, il cui tema sembrerebbe essere l’invidia (Salieri versus Mozart, per intenderci). Pista falsa: l’io narrante è affidato a un anonimo, quello che, dei tre allievi-amici della scuola pianistica di Horovitz, è sopravvissuto per inerzia e ignavia.

Il secondo, l’ambizioso Wertheimer, “gettato per la crudeltà dei genitori nell’ingranaggio dell’esistenza”, è sconfitto, soccombente nel confronto con la perfezione.

Perché il genio del terzo personaggio, l’immenso Glenn Gould, appartiene all’alterità, ha per orizzonte la sfida senza limiti, l’invasamento, la sete di gloria, una hybris che muove la sua grandezza e non può che condurre a follia, malattia, morte.

Il suicidio a cinquantun’anni – programmaticamente concertato – di Wertheimer, è preceduto di pochi mesi dalla morte alla stessa età di Gould, consunto per troppo amore, insonne perfezionista, risucchiato, dopo aver strabiliato il mondo, dallo Steinway nel bel mezzo delle Variazioni Goldberg, vendetta dello strumento contro il suo domatore e stupratore.

E’ duro andare controcorrente. Bernhard percorre le vie di un rigore spietato e incrollabile, le certezze del pensiero solitario contro il relativismo del ragionare dialogico. Rimette in circolo l’agostiniano ordo amoris al tempo in cui tutto si può dire ( perché tutto è vero nulla essendo più vero), e in cui tutto ciò che si fa ha una giustificazione etica predisposta.

Difficile, al tempo dell’indifferenza e dell’indifferenziazione, ascoltare, per orecchie disincantate, l’eco di antiche gerarchie valoriali, storie di eletti e reietti, filtrate da una mente analitica e iconoclasta.

“Il mondo è pieno zeppo di mutilati, nel corpo e nell’intimo”. Bernhard, che “detesta chi parla senza aver finito di pensare, quindi quasi tutta l’umanità”, è, proprio per questo, uno splendido esempio di narratore disgustato dalla finitezza dell’esistere.

“Tutto ciò che era nato per essere grande ha finito per rimanere un ridicolo dettaglio. I grandi pensatori sono solo esseri pietosi che hanno abusato della loro mente e operato per se stessi una reductio ad absurdum. Assurda è l’intera nostra vita”. Parola di soccombente.


Thomas Bernhard – Il soccombente – trad. Renata Colorni – Adelphi 1985

"Americani a Roma nella prima metà del XIX secolo"


di Luciano Luciani


Per tutto il Settecento e buona parte dell’Ottocento il Viaggio in Italia ha costituito un momento centrale nella formazione culturale ed umana di ogni letterato europeo degno di questo nome. E se, a questo riguardo, restano giustamente celebri i libri delle peregrinazioni e delle esperienze lungo l’intero arco della penisola di Goethe e di Stendhal, meno indagato risulta invece il fascino che il nostro Paese ha esercitato in questo periodo sui gruppi intellettuali degli allora giovanissimi Stati Uniti.

I primi a muoversi da oltre Atlantico, attratti dal “sogno d’Arcadia”, come lo ha definito Van Wick Brooks in un suo famoso saggio, furono i pittori: Benjamin West, autore di quadri allora assai celebrati negli Stati Uniti – il Wolfe’s death, per esempio, e il William Penn’s Traty with the Indiano – e Washington Allston, poeta e pittore, autore di ritratti e tele di soggetto biblico.

Poi vennero gli scultori: e furono soprattutto loro ad eleggere Roma a luogo privilegiato per l’ispirazione artistica. La città dei papi offriva, infatti, oltre agli insuperati modelli di stile del passato e a quelli di una scuola di scultura, la neoclassica, rinomata ed imitata in tutta Europa, anche le migliori condizioni materiali possibili di vita e lavoro: affitti modesti; maestranze specializzate competenti e poco costose e facilmente reperibili; modelle e modelli di grande bellezza e largamente disponibili… E poi soprattutto l’opportunità di lavorare accanto al famoso Bertel Thornvaldsen, illustre scultore, danese d’origine ma romano d’adozione, rigoroso continuatore ed interprete della dominante sensibilità neoclassica e della lezione del Canova.

Presso questo maestro, che aveva scelto Roma come sua patria “estetica”, si formarono due importanti scultori statunitensi. Horatio Greenough e Thomas Crawford: il primo, sostenitore della funzionalità nell’arte e nell’architettura, frequentò gli ambienti artistici romani e fiorentini e non nascose mai la simpatia e il rispetto con cui guardava al processo nazionale unitario dell’Italia; il secondo, dai suoi studi a Roma ricavò scelte formali nettamente indirizzate in senso neoclassico, che trasfuse in un apprezzato Orfeo; nel monumento equestre a George Washington e nella famosa Armed Liberty.

Crawford fu più che un simpatizzante per la causa italiana: a Roma nei mesi inquieti che precedettero la Repubblica romana si arruolò nella Guardia civica e - racconta la giornalista e scrittrice Margaret Fuller - per partecipare alle esercitazioni di questo corpo militare volontario e popolare non esitava a trascurare la disciplina artistica, i cui studi lo avevano portato in Italia.

Assieme a loro meritano di essere ricordati altri scultori americani presenti a Roma nella prima metà del secolo: Hiram Power, divenuto molto noto negli ambienti artistici europei per un’opera, La schiava greca (1843), in cui fu vista la Grecia sottomessa al dispotismo turco e William Wetmore Story, oltre che scultore anche poeta e studioso del folklore romano.

Il primo scrittore americano di fama internazionale a visitare l’Italia fu Washington Irving, anche se nei suoi Tales of a traveller non riuscirà quasi mai ad andare oltre una serie di immagini piuttosto convenzionali.

Toccherà a James Fenimore Cooper, il creatore delle saghe dei pellirossa del settentrione del nuovo continente, fissare sulla carta, in un organico e completo libro di viaggio, le impressioni, vivacissime e complete di una lunga permanenza nel nostro Paese. Infatti, all’interno di un soggiorno in Europa durato ben sette anni (1826-1833) che lo portò in Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera, Fenimore Cooper trascorse quasi due anni in Italia, percorrendola in lungo e in largo, tra l’ottobre del 1828 e la primavera inoltrata del 1830.
Visitò e soggiornò anche per lunghi periodi a Firenze, Pisa, Livorno, Genova, Napoli, Roma, Venezia, colpito dal paesaggio italiano, meglio di altri seppe apprezzarne la bellezza, la luminosità, i modi della sua umanizzazione, il rapporto, allora ancora armonioso tra uomo e ambiente naturale. E’ proprio in virtù di questa disposizione d’animo che riuscì ad abbandonarsi con pienezza al godimento estetico offertogli sia dagli scenari naturali,sia da musei e gallerie d’arte, interessandosi anche all’urbanistica delle città, alle opere d’ingegneria civile, ponti, strade, piazze, mura che gli suscitarono rispetto ed ammirazione.
Programmaticamente alieno da interessi politici, il suo diario di viaggio non spende molte parole intorno alle tensioni politico-nazionalistiche che agitavano allora il nostro Paese. Eppure, lo scrittore della frontiera, da vigoroso assertore qual era della democrazia americana, non poteva non aver percepito, non aver colto il disagio, le sofferenze della parte più consapevole e avanzata del nostro popolo. Su queste questioni il suo silenzio ci appare strano, eccessivo… fino all’ultima lettera del suo viaggio in Italia, quando con grande lucidità scrive: “La natura sembra aver destinato l’Italia ad essere una sola nazione. La gente che parla la stessa lingua, un territorio circondato quasi tutto dall’acqua, o separato dal resto d’Europa da una barriera di grandi montagne, l’estensione, la storia antica, la posizione geografica, e gli interessi, sembrerebbero tutti direttamente tendere a questo unico fine… Prima o poi, inevitabilmente l’Italia diventerà un solo Stato: è un risultato che ritengo inevitabile, anche se non si sa ancora bene come potrà avvenire…Se non ci fossero grandi eventi politici per indebolire l’autorità dei governi attuali, l’educazione sarebbe il processo più sicuro, anche se lento. Ad ogni modo, nessun popolo dovrebbe fidarsi degli stranieri per raggiungere i propri fini politici… e se io fossi un italiano che vuole l’unità, non guarderei al di là delle Alpi in cerca d’aiuto”. L’uomo della frontiera aveva la vista lunga.

Tra questi “passionate pilgrims”, appassionati pellegrini dell’Italia, “paese solare e insieme romantico” (A. Lombardo) merita di essere ricordata Margaret Fuller, giornalista, intellettuale insieme raffinata e combattiva, scrittrice provocatoria e di successo.
Nata a Boston nel 1810, dopo aver ricevuto un’eccellente educazione – conosceva, infatti, il latino, il greco, il tedesco, il francese e l’italiano – era entrata in contatto prima con la cultura di Harvard, poi con gli ambienti del Trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, Henry D. Thoreau e Nathaniel Hawthorne, un movimento filosofico-letterario-estetico che, richiamandosi soprattutto a Schelling ed Hegel, sosteneva un idealismo panteistico e romantico che considerava l’uomo e la sua divinità al centro dell’universo. Direttrice dal 1840 al 1842 del periodico “The Dial”, rivista che si faceva interprete e propagandista di questa nuova sensibilità, aveva fatto parlare di sé pubblicando nel 1844 Un’estate sui laghi, disincantato reportage di un lungo viaggio all’ovest, luogo di trasformazioni formidabili e non sempre positive, e soprattutto La donna nel XIX secolo, uno dei testi più importanti nella storia del femminismo americano dell’Ottocento. Nel 1846 Margaret Fuller partiva per l’Europa per un “grand tour” estetico-politico-culturale. Tocca prima l’Inghilterra e la Scozia dove conosce Carlyle, Wordsworth e l’esule Giuseppe Mazzini. Visita poi la Francia e qui incontra George Sand – “ Donne come la Sand parlano ora, né si lasceranno zittire” – e Adam Mickiewicz, poeta e patriota polacco che da allora le sarà amico e confidente. Nel febbraio del 1847 è in Italia, che visita in lungo e in largo: Genova, Livorno, Napoli. Poi Roma, Firenze, Ravenna, Bologna, Venezia, Milano… Di nuovo Firenze, di nuovo Roma, per fermarsi.

Puntuali e sempre capaci di cogliere con grande perspicacia i processi collettivi in atto tanto nel senso comune, quanto nelle coscienze individuali, in quel tormentato periodo della storia d’Italia, dall’ottobre 1847 a luglio 1849 Margaret Fuller spedisce al “Tribune” di New York diciassette corrispondenze esemplari, “inviata per caso” in uno dei fronti più drammatici della rivoluzione europea del ‘48-’49: quello della Repubblica romana assediata e piegata dallo strapotere delle armi francesi.
Commosse e partecipi le parole della sua ultima lettera (luglio1849) : “Sì, il 4 luglio, il giorno festeggiato con tanta gioia nel nostro paese, è il giorno dell’entrata dei francesi in Roma…! Ieri ho visitato i luoghi delle battaglie. Era terribile anche soltanto vedere le rovine del Casino dei Quattro Venti e del Vascello, dove francesi e romani erano stati per tanto tempo così vicini; frammenti di preziosi stucchi e di affreschi erano ancora appesi alle travi tra gli squarci fatti dai cannoni, ed era terribile pensare che vi erano rimasti dentro e vi avevano combattuto degli uomini, quando già erano una massa di rovine…
Più che mai mi ha colpito l’eroico valore del nostro popolo – lasciate che lo chiami così ora e sempre; poiché, dovunque io vada in futuro, un’ampia parte del mio cuore rimarrà per sempre in Italia. Spero che i figli di questo popolo sempre riconosceranno in me una sorella, anche se non sono nata qui”.
Poi, rivolgendosi ai lettori americani del “Tribune”, il cui editore Horace Greeley si era spesso mostrato solidale con la causa italiana: “Mandate soldi, mandate incoraggiamento, riconoscete come capi e governanti legittimi gli uomini che rappresentano il popolo, che comprendono le loro necessità, che sono pronti a morire o a vivere per il loro bene… Mazzini lo conosco, conosco l’uomo e le sue azioni, grandi, pure, costanti, un uomo a cui soltanto l’epoca futura potrà rendere giustizia, quando mieterà il raccolto del seme che egli in quest’epoca ha seminato. Amici, compatrioti, e voi amanti della virtù, amanti della libertà, amanti della verità state all’erta; non riposate ignavi nella vostra vita così facile, ma ricordate che “L’umanità è una sola e pulsa con un grande, unico cuore.”

Appena un anno più tardi, nel luglio 1850, in un terribile naufragio, davanti a Fire Island, l’oceano doveva sommergere la Fuller, il marito Giovanni Ossoli, conosciuto a Roma, e il figlio Angelino di neppure due anni. Un tragico destino in cui doveva andare smarrito e per sempre anche il manoscritto di quella Storia della Repubblica Romana a cui Margaret intendeva affidare il compito di continuare negli Stati Uniti la battaglia per la libertà del popolo italiano.



Per Roma e l’Italia “lette” con occhi americani nei primi decenni del diciannovesimo secolo rimandiamo a due bei lavori:
James Fenimore Cooper, Viaggio in Italia 1828-1830, Nistri-Lischi, Pisa 1989, introduzione, traduzione e note a cura di Angelina Neri, da cui abbiamo tratto il passo di J.F.Cooper; Margaret Fuller, Un’americana a Roma 1847-1849, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1986, a cura di Rossella Mamoli Zorzi, a cui dobbiamo la traduzione del brano conclusivo di Margaret Fuller.

27 novembre 2009

"Una carezza un po’ ruvida" di Odino Raffaelli


di Luciano Luciani


Sono sempre più numerosi i nostri concittadini che negli anni della loro più piena maturità decidono, talora per la prima volta nella loro esistenza, di prendere in mano carta e penna per raccontarsi. Per scrivere di sé, della propria storia, delle proprie esperienze ripercorse lungo il filo sottile e fragile della memoria personale. Perché siamo solo ciò che siamo stati, ciò che ricordiamo di essere stati, in un rapporto col passato sempre ambiguo, sempre in bilico tra memoria e oblio… Di una cosa, però, siamo ben consapevoli: nel momento in cui lo ripensiamo, il passato non è più tale. E’ di nuovo presente con la forza delle sue emozioni, dei suoi turbamenti, addirittura delle stesse sensazioni – tattili, olfattive, acustiche, visive – di allora.

Sarà forse, allora, per questo inganno, per questa forma di resistenza, l’unica che ci è consentita, alla morte che ogni anno fanno la loro apparizione centinaia, migliaia di scritti autobiografici, nati dal vissuto di persone comuni, non necessariamente colte o letterate, talora appena sopra la soglia dell’alfabetizzazione. Una consuetudine con la scrittura in via di larga diffusione che ha addirittura dato vita a un nuovo genere letterario, le “storie di vita” che si posizionano felicemente in una particolarissima, originale, feconda “terra di nessuno” tra storia e antropologia, documento umano e letteratura… Storia vivente, storia degli umili: l’unica possibile per quanti sono stati sconfitti dal potere, emarginati da rapporti sociali ineguali e ingiusti, tenuti lontano dalla scrittura e dall’espressività da un’idea dominante di cultura, astratta, bellettristica ed elitaria.

Per questo, a nostro parere, le “storie di vita”, sensibili al quotidiano, agli atti minori degli uomini e al loro spessore concreto, vanno conquistando uno spazio sempre maggiore tra chi scrive e chi legge, mentre gli stessi studiosi tendono a utilizzarle sempre più di frequente nel loro sforzo di organizzare e interpretare il nostro passato, in modo particolare quello prossimo. E’ ormai diffusa la consapevolezza che è lecito e legittimo interpretare una società attraverso la biografia di un solo uomo che “non è mai un individuo, sarebbe meglio chiamarlo un universo singolare: ‘totalizzato’ e allo stesso tempo universalizzato dalla sua epoca, egli la ‘ritotalizza’ riproducendosi in essa come singolarità” (Ferrarotti).

Sollecita queste riflessioni la lettura di Una carezza sui ricordi, bella e densa “storia di vita” di Odino Raffaelli, classe 1931, originario di Vaglie, piccola frazione del Comune di Ligonchio. L’Autore, alla sua prima prova di scrittura autobiografica, nelle sue pagine ha inteso recuperare le memorie dell’Appennino reggiano prima delle trasformazioni indotte dall’industrializzazione e dal boom economico dei primi anni Sessanta, riservando una particolare attenzione al ricordo di antichi mestieri, alle consuetudini dimenticate, ad antiche credenze le cui origini affondano in un tempo ancora più remoto. Senza trascurare il racconto degli anni tormentati dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana, rievocati senza enfasi né retorica da un particolarissimo punto di vista: gli occhi curiosi e stupiti di un bambino che, quasi sulle soglie dell’adolescenza, si trova a dover fare i conti con le vicende formidabili e terribili della storia degli uomini, quella con la S maiuscola.
E poi il periodo della ricostruzione e la faticosa conquista di una professione che lo porterà, con compiti di pesante responsabilità, a navigare lungo tutti i mari del mondo…

Tra le intenzioni di Odino Raffaelli, quella di “lasciare ai propri nipoti, e in genere a tutti i giovani, un piccolo cenno di memoria per far conoscere come era la vita nel mondo in cui vissero i loro nonni” (dalla bandella di copertina). Un tempo che a un giovane lettore dei nostri giorni potrà apparire lontano, addirittura remoto, ma che è soltanto ‘l’appena ieri’ di tutti quanti noi.



Odino Raffaelli, Un carezza sui ricordi, Collana “cartacarbone” 10, Daris - Libri e stampe, Lucca 2009, pp. 222, Euro 10,00


21 novembre 2009

Alla tavola di Mariù e Zvanì" di Laura Di Simo


di Liliana di Ponte

Un Giovanni Pascoli in versione più intima e domestica emerge da un libro fresco di stampa, Alla tavola di Mariù e Zvanì. I cibi pascoliani, di Laura Di Simo, che si presenta come una gradevolissima incursione nel mondo raccolto, ma non per questo chiuso, del poeta, negli anni di Castelvecchio di Barga, dove si ritirò a vivere con la sorella Mariù nel 1895, per rimanervi fino alla fine.

Di Giovanni Pascoli è nota la passione per la buona tavola, che per lui era tutt’uno con l’amore per la campagna, per i sapori semplici dell’orto, per i cibi genuini, che gli ricordavano le sue origini e l’infanzia.

Ma uno dei pregi di quest’opera è nell’amalgama, fatta con mano leggera e competenza (come sanno i veri cuochi), tra le diverse anime che in Pascoli convivevano: il letterato colto e raffinato, la persona riservata che sapeva però coltivare lunghe e fedeli amicizie, l’amante della natura, cantata in tanti versi.

Una vita un po’ appartata nella bella casa (ora Casa/Museo) che chiamava “la bicocca”, da cui Pascoli usciva però volentieri, non per incontri mondani ma per mescolarsi con la gente semplice del luogo, per mangiare nella locale osteria “Zì Meo” o per frequentare gli amici lucchesi, con cui s’incontrava al Caffè “Carluccio” in via Fillungo, ritrovo di intellettuali e artisti, di proprietà di Alfredo Caselli. L’amicizia con quest’ultimo fu duratura, coltivata anche tramite un fitto epistolario, in cui spesso si parlava di vino buono, di biscotti e caramelle (Caselli era artista e droghiere), delle pietanze cucinate da Mariù.

Un altro caro amico fu Gabriele Briganti, direttore della Biblioteca Governativa di Lucca, anche lui frequentatore del Caffè Caselli e di molti incontri conviviali, per il quale scrisse una delle più belle liriche, “Il gelsomino notturno”, come imeneo per le sue nozze.

Il cibo, dunque, è una presenza discreta ma costante sia nella quotidianità del poeta che nella sua produzione letteraria, tanto che dai suoi versi spesso si possono ricavare vere e proprie ricette.

Al riguardo, Laura Di Simo rileva, da un’analisi più approfondita dei testi, uno stretto legame tra il gusto della cucina e la ricerca linguistica. Pascoli infatti adotta con naturalezza, nei suoi scritti, i vocaboli contadini – cruschello, cavolo cappuccio, buzzo, gallinelle – e gli attrezzi domestici – stacci, testi, coli, testi, laveggi – di uso comune in cucina. Di conseguenza, dice Di Simo, “Risulta evidente quindi che sia i piatti tipici che gli attrezzi, testimonianze della civiltà contadina di fine ottocento rientrano a pieno titolo in quella poetica delle piccole cose che percorre l’intera produzione pascoliana”.

A conferma di questo intreccio, nel libro compaiono sia le liriche e i testi in cui il poeta parla di pietanze e di prodotti dell’orto, sia vere e proprie ricette dei piatti della tradizione locale, in uso tuttora, ricavate dalle sue stesse pagine o tratte da manuali di cucina, di alto profilo come l’Artusi, o di impianto più domestico.

Alcune immagini d’epoca dei personaggi e dei luoghi citati completano l’opera, che si offre dunque come una bella passeggiata (non a caso è inserita nella collana Appunti di viaggio) tra temi letterari, poesie, ambienti rurali e cittadini, curiosità storiche e, non da ultimo, ricette da mettere subito in pratica, magari per evocare, in casa propria, un po’ di atmosfera pascoliana.



Laura Di Simo, Alla tavola di Mariù e Zvanì. I cibi pascoliani, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, pp. 79, € 7,00.


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"Pietre dure a colazione" di Rossana Giorgi Consorti


di Luciano Luciani

Certo, come scrive Charles Dickens, uno che di storie e storiacce se n’intendeva e non poco, “capitano incidenti anche nelle migliori famiglie”. Certo… Però, quello che accade ai Farinelli in quella calda, maledetta estate del 2006 nella loro bella villa, la “Casa inglese”, amenamente posizionata nella Piana lucchese, sembra davvero superare qualsiasi immaginazione: episodi delittuosi, infatti, si susseguono, uno dopo l’altro carico ognuno di una sua crudele efferatezza, di una propria atroce e teatrale barocca malvagità. Né può essere diversamente perché quel clan familiare, tre generazioni di Farinelli concentrati nell’area di un’antica dimora dalle eleganti linee architettoniche, appare percorso da remote rivalità e antichi disamori, odi malcelati e laceranti questioni d’interesse. Non sono i vincoli di sangue a tenere uniti i componenti della famiglia, quanto piuttosto una strana alchimia emotiva fatta di oscure avversioni e indecifrabili livori: una diffusa malevolenza che intride perfino le mura, le fondamenta stesse della residenza signorile.

Su tutto e tutti incombe l’ombra del misterioso zio Orazio ( è vivo? E’ morto? Era un santo o un personaggio totalmente negativo?), vero protagonista dei crudeli delitti che sconvolgono la routine estiva di una famiglia magari male assortita ma di sicuro appartenente al rango privilegiato della buona borghesia provinciale. E’, forse, il caso più difficile da sbrogliare nella lunga carriera del commissario della Questura di Lucca Antonio Spaino che, fresco sposo, non ha proprio nessuna voglia di cimentarsi con le zone buie dell’animo umano in generale e con le complicatezze, passate e presenti, dei Farinelli in particolare. E sarà dura, davvero dura per il povero commissario affetto per la prima volta nella sua vita, proprio lui scapolo convinto, dal terribile bacillus maritalis che tante e illustri vittime ha sempre seminato in giro… Toccherà a lui, ancora una volta, di fronte agli impazzimenti del cuore umano ricondurre a ragione il magma delle pulsioni che agita gli abitanti della bella villa in stile inglese. Lo aiuterà nel suo difficile compito il solito mix: un po’ di fortuna, eccellenti doti di intuizione, un’acutezza psicologica non comune nel condurre gli interrogatori ricavandone informazioni importanti tanto dalle parole dette quanto da quelle taciute. Insomma, ancora una volta, il metodo induttivo/deduttivo inaugurato un po’ più di un secolo fa dal caro, vecchio Sherlock Holmes… E, come si conviene, al termine delle pagine che seguono, ristabilito l’ordine violato dal crimine, rassicurati e consolati i lettori, l’ormai semisecolare Spaino potrà tornarsene al calore dell’alcova, alla sposa e a trepidare in attesa di un erede.

Dopo aver incrociato le sue armi (pacifiche, per carità, quelle della fantasia narrativa, ma comunque affilate e taglienti lo stesso) con la Nobiltà e il Clero lucchesi, senza trascurare il racconto delle complesse dinamiche dell’odio all’interno del prestigioso liceo classico “N. Machiavelli”, una delle strutture portanti del senso di sé della comunità che vive dentro e a ridosso della Mura, al suo quarto romanzo poliziesco Rossana Giorgi Consorti ci svela gli anfratti del ‘cuore nero’ di una famiglia ‘bene’ della città toscana e dei suoi dintorni. A districarsi nel complicato viluppo dei pericolosi legami familiari l’aiuta una scrittura limpida e venata d’ironia quanto basta a riscattare l’altrimenti cupa e torbida atmosfera fitta di violenze e di morte. Senza trascurare lo sguardo lucido e disincantato dimostrato dall’Autrice nell’evidenziare al giusto grado di visibilità le angustie morali e le miserie umane di un vissuto provinciale intossicato da ogni genere di grettezza e ottusità.

Sono queste - sembra dirci la scrittrice lucchese - sono ancora queste le vere responsabili dello smarrimento diffuso e dello sgomento che attanaglia, anche ai nostri giorni, le menti e i cuori. Unico antidoto non tanto la riaffermazione del valore di un’istituzione, quella familiare, ormai ridotta a un guscio vuoto o quasi, quanto piuttosto l’educazione a una consapevole pratica dei sentimenti. Per esempio, l’amore. Anche quello coniugale, come accade tra Spaino e Isa e con cui delicatamente, teneramente si chiude il romanzo.



Rossana Giorgi Consorti. Pietre dure a colazione. Collana Via lattea MPF 2009.

Pietre dure a colazione, , l’ultimo romanzo di Rossana Giorgi Consorti sarà presentato a Lucca, domenica 6 dicembre, alle ore 16,00, presso la Sala Tobino di Palazzo Ducale.
Interventi di Stefano Baccelli, Giorgio Marchetti e Luciano Luciani.
Sarà presente l’Autrice.

13 novembre 2009

"La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia" di Paolo Folcarelli


di Luciano Luciani

Questo lavoro di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia, si raccomanda per almeno quattro motivi:

perché è il lavoro più organico e completo esistente sulla secolare vicenda della Manifattura lucchese;

per il metodo scientifico che sovraintende a quest’opera, fondato su documenti la cui ricerca ha portato l’Autore tra le filze dell’Archivio di Stato di Lucca, tra i cataloghi delle Biblioteca Statale di Lucca e della Marucelliana di Firenze e quelli del Ministero dell’Agricoltura a Roma. Lavoro d’archivio, dunque, dietro questa pubblicazione, tanta pazienza, passione e ‘olio di gomito’ da storico vecchia maniera;

l’Autore non ha poi trascurato le fonti orali, almeno come indicazione di lavoro nelle ultime pagine del suo libro; per esempio, le belle, umanissime testimonianze di due anziane sigaraie del Compitese, che all’oggettività un po’ fredda dei documenti hanno aggiunto il calore e il colore delle ‘storie di vita’, il sentimento proprio di una lunga vicenda personale oltre che professionale

e qui si introduce il quarto dato che fa di questa pubblicazione un unicum: il forte senso di appartenenza che trapela da gran parte delle pagine del libro. Questa caratteristica la indico per ultima, ma non è tale per l’importanza e il peso che acquista nella narrazione l’attenzione riservata all’aspetto umano e sociale della secolare vicenda della Manifattura Tabacchi di Lucca e a ciò che questa azienda ha significato e ancora significa per la città, nel senso comune e nella plurisecolare percezione dei suoi abitanti.

L’originale, denso lavoro di Folcarelli si dipana lungo tre direttrici distinte ma complementari: la storia del tabacco; la storia degli immobili, degli ambienti in cui a Lucca fu lavorato; le vicende umane, sociali, sindacali dei lavoratori delle maestranze della Manifattura.

Di grande interesse le pagine relative alle prime testimonianze sul tabacco, i suoi usi e i significati antropologico/religiosi ad esso connessi. La pianta, come è noto, era usata sia nelle cerimonie religiose dei popoli indigeni americani, sia come droga medicinale per stimolare il sonno o come impiastro per curare infiammazioni e contusioni. L’uso di fumare il tabacco si trasferì dalla sfera esclusivamente religiosa allo stadio di occupazione fine a se stessa. Naturalmente i primi a contrarre questa abitudine furono proprio i sacerdoti, così che il nuovo “vizio” rimase per un certo periodo un piacere riservato alla loro casta, anche perché il tabacco era considerato un’erba sacra. Gradualmente, però, tale usanza finì per estendersi a persone estranee alla cerchia religiosa, si ‘laicizzò’, passando ai rappresentanti di rango e censo più elevati tra la popolazione, e poi, piano piano, a tutti.

Cortez vide usare la Nicotiana tabacum nell’isola di Tabasco e già nel 1518 il feroce conquistatore la inviava all’imperatore Carlo V: alla metà del XVI secolo Fernandez de Toledo ne introdusse la coltivazione in Spagna e Portogallo e l’ambasciatore francese in Portogallo, Giovanni Nicot, faceva dono di alcuni campioni della pianta a Caterina de’ Medici, regina di Francia che ne divenne un’entusiasta consumatrice e propagandista. La regina, infatti, soggetta a violente e frequenti emicranie trovava un immediato sollievo nel fiutare tabacco e la corte, ovviamente, la imitò: un comportamento che divenne segno di distinzione per cui il tabacco fu denominato l’Erba della Regina.

In Italia la introdusse a Roma il cardinale Santa Croce, legato papale e Lisbona; a Firenze Niccolò Tornabuoni nel 1570, per cui il tabacco assunse ancora un altro nome: erba tornabuona.

Ecco, dunque, che il tabacco si avvicina a Lucca, città con cui avrebbe dovuto stringere una secolare alleanza che, tra alti e bassi, dura proficuamente ancora oggi. Anche se, come scrive nella seconda metà dell’Ottocento Salvatore Bongi, direttore e illustre archivista dell’Archivio di Stato lucchese, “sarebbe impossibile ritrovare notizie precise del tempo e del modo con cui l’uso di fiutare e fumare il tabacco dell’America… si introdusse nel territorio che già fu dell’Antica Repubblica Lucchese”. E risale al 5 gennaio 1649 una relazione dell’Ufficio delle Entrate con cui si indicava la possibilità di ‘fare provento’ dei nuovi generi di consumo, in particolare del tabacco. Il compratore di ‘esso provento’ (che per la prima volta si concedette senza incanto) fu il milanese Silvestro di Bernardo Marselli, il quale si impegnò a pagare 140 scudi lucchesi a patto di “poter, lui solo, nella città e Stato di Lucca vender tabacco o farlo vendere a chi più gli piaccia. Obbligandosi però a dare sempre tabacco vero, buono e mercantile, senza inganno o frode al prezzo di bolognini 15 la libbra.”

Sono anni difficili quelli centrali del secolo XVII, anni di fame e disperazione in molte parti d’Europa e d’Italia. E’ appena terminata la Guerra dei Trent’anni e Lucca non fa eccezione: la repubblica si trova a vivere uno dei periodi più difficili della sua storia e anche la peraltro modesta entrata rappresentata da questa prima “privatizzazione” tornò probabilmente di grande utilità. Insomma, la storia di una relazione forte e duratura, quella tra la città e l’industria del tabacco, uno dei regali della prima globalizzazione della storia dell’umanità, prese l’avvio in tempi di grave crisi economica e sociale, riuscì a superarla e forse proprio per questo tale rapporto si consolidò e rafforzò. E mentre le industrie tradizionali declinavano, per esempio quella della seta, la manifattura e la commercializzazione del tabacco resistettero e si ampliarono: al punto che alla fine del ‘700 la Repubblica la avocò a sé, scegliendo la gestione pubblica affidata a un organismo, la ‘Deputazione sul tabacco’ la cui direzione fu affidata a 9 cittadini, 6 estratti a sorte e tre eletti in base alle proprie capacità: obiettivo assicurare al governo un rientro economico di almeno 8000 scudi.

Mentre l’autore continua a dipanare le trasformazioni che avvengono nell’assetto proprietario dell’azienda (la II e la III privatizzazione che precedono il Monopolio del 1869 affidato a una società anonima e la gestione diretta del Monopolio ripresa dal Governo nel 1883), le pagine più interessanti del libro, quelle capaci di illuminare di una luce nuova la storia della città, sono quelle che raccontano i diversi siti della fabbrica, le condizioni e l’ubicazione dei locali, le loro modifiche nel tempo: avvenimenti spesso complicati come sono sempre le cose degli uomini.

Folcarelli ci descrive puntualmente i vecchi metodi e l’organizzazione del lavoro, arricchiti da precise osservazioni demografiche e sociali sul lavoro a Lucca nel XIX secolo. Un periodo in cui cresce l’importanza della Manifattura Tabacchi nel contesto dell’economia lucchese dell’Ottocento, e peggiorano invece le condizioni materiali, salariali, di lavoro e di vita dei suoi addetti, in grande maggioranza donne.

Si creano così le condizioni per uno scontro sociale che caratterizzerà tutto il primo quindicennio del XX secolo. E’ nel 1909 che giungono al pettine i nodi e le contraddizioni accumulatisi negli anni precedenti e mai risolti. Il casus belli fu rappresentato dall’imposizione da parte della direzione di un’ora di straordinario a tutte le “sigariste”, e così per tutto il mese di marzo di quell’anno gli scioperi si susseguirono alle serrate. Uno scontro duro, per la cui composizione intervennero il prefetto e il sindaco. Uno stato di sofferenza, di disagio nel sistema delle relazioni interne alla manifattura che doveva culminare nell’episodio più acuto dello scontro sociale: lo sciopero generale della tarda primavera 1914, concluso con una netta sconfitta dei lavoratori che non riuscirono a creare la necessaria simpatia e la solidarietà dell’opinione pubblica lucchese attorno alle loro rivendicazioni.

Poi la Grande Guerra, gli anni del fascismo, la liberazione della città nel settembre 1944 che trova “la Manifattura, unico stabilimento della zona intatta nei suoi edifici, nelle sue macchine, nei suoi impianti, nelle sue attrezzature con scorte di tabacchi, con quasi intatte le scorte di materiali e articoli vari, in grado di riprendere immediatamente il lavoro normale”. Un merito non piccolo della direzione e delle maestranze.

Il resto è storia recente: la discussione sulla ubicazione della fabbrica fuori o dentro le Mura; l’individuazione della nuova sede a Mugnano, alla periferia di Lucca, l’inizio dei lavori, la loro conclusione. Contemporaneamente avviene l’ennesima privatizzazione, con il passaggio delle attività produttive e commerciali all’ETI (Ente Tabacchi Italiani) e, alla fine del 2000, l’acquisto dell’ETI da parte della multinazionale angloamericana, la BAT (British American Tabacco) Italia. Ancora più recente la dismissione della ‘Divisione sigari’, affidata dal 2006 al gruppo Maccaferri – Eridania che attualmente opera negli stabilimenti di Lucca, Cava de’ Tirreni (Sa) e Foiano della Chiana (Ar).

Paolo Folcarelli, La manifattura Tabacchi di Lucca; una fabbrica, una storia, pp. 128, Euro 15,00


Il libro di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia, si può richiedere al “Club Amici del Toscano”, telefonando al numero verde 800 853 335

11 novembre 2009

"Una poesia di Virginio Bertini" di Gianni Quilici

foto di Gianni Quilici


Istigazione al suicidio

Brevi in cronaca:
ventisei anni
identificato
l'immigrato
morto.
Un mattino d'inverno
freddo
come il marmo bianco di S. Michele
profumato di caffè e croissant
appena sfornati
il cliente della caffetteria centrale
allarga le braccia
leggendo il giornale
" vanno fuori di testa
non è colpa nostra nostra non è ".
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna
indifferenza sofferenza
estraneità male sociale
caffè e croissant …….
Due volte schiacciato
sull'asfalto cercato
come ultima dimora
Ahmed Echchari
giovane clandestino
sfruttato
al nero
il tempo consumato
che gli era stato dato
istigato
al suicidio
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna……
A ridosso delle antiche mura
nelle celle basse senza finestre
dove la notte fa paura
nel capannone abbandonato
giovane marocchino asfissiato …..
" si ubriacano non è colpa nostra nostra non è "…….
Tecnico informatico
permesso di soggiorno regolare
un futuro da inventare
Adil cittadino del nostro mare
con grave colpa terribile dolo
essere solo.
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna….


E' un articolo, è una poesia, è una canzone.

Da leggere, da recitare, da musicare, da cantare, da meditare.

Si pensa a Ungaretti e a Garcia Lorca, al rap e a Brecht forse anche a Primo Levi.

Ci sono tre protagonisti: lo sfruttamento, il dolore, la solitudine dell'immigrato; l'indifferenza e l'autoindulgenza dell'uomo da bar; la voce altra, il poeta, che, semplicemente rappresentando, giudica e nello stesso tempo suggerisce un mondo (presente) possibile (“sole nascosto/residuo di luna”).

C'è un ritmo nei versi brevissimi che diventa narrazione, storia, musica, palpitazione, senso dell'esistenza... correndo lungo un contrasto: due mondi (il capannone abbandonato e il profumo dei caffè e dei croissant appena sfornati caldi e profumati), l'indifferenza e il grido, la responsabilità e l'accusa. Bellissima poesia civile.

Chi è Virginio Bertini?
E' stato leader degli studenti nel 68, sindacalista della FIOM a Mirafiori, ricercatore presso l'Ires Toscana, oggi dirigente della Cgil lucchese.
Ha pubblicato un libro di poesie, introdotto da Marco Revelli, Fraternità, edizioni ETS, ed è uno degli autori de “Il corpo e l'anima”, edizioni ETS, con un bellissimo diario, che racconta una lotta dura, lunga, che assume la forma originale del digiuno contro il provvedimento, assolutamente ingiustificato, di espulsione di un marocchino, da decenni presente nella nostra città.
Ed è un diario, che servirebbe leggere per capire cosa vuol dire “essere di sinistra oggi”.

da "Arcipelago" periodo dell'Arci di Lucca

"Igor Stravinskij dall’Uccello di fuoco all’Histoire du soldat"


di Luciano Luciani

Pietroburgo, 1908: Sergej Diaghilev, collezionista d’arte e organizzatore di concerti di risonanza europea, ha modo di ascoltare le composizioni di un allievo di Rimskij-Korsakov, autorevole interprete musicale dell’anima profonda del popolo russo. Il giovane musicista, appena ventisettenne, si chiama Igor Stravinskij e impressiona a tal punto Diaghilev che gli commissiona un lavoro di grande impegno e a cui tiene molto: la partitura dell’Uccello di fuoco.

Due anni più tardi, nel 1910, la compagnia dei Balletti russi lo rappresenterà a Parigi, ottenendo un successo tale che il nome di Stravinskij diventa immediatamente celebre in Francia e in Europa. Raramente nella storia della musica del nostro tempo, un capolavoro tanto compiuto, tanto perfetto era nato dalla fantasia creatrice di un autore così giovane.

Nell’Uccello di fuoco, musica danza, libretto e scenografia si fondono in maniera esemplare in un racconto coreografico che è uno “spettacolo totale”, merito tanto di Stravinskij quanto di Diaghilev che riuscirono a trasmettere ad un pubblico ampio, assai più largo dei soliti addetti ai lavori, le forme d’arte più avanzate del loro tempo.

Dietro questa straordinaria rappresentazione e il suo successo, anche popolare, ci sono tutte le trasformazioni intervenute da almeno mezzo secolo nella società, nella cultura, nella mentalità dell’uomo europeo. Sono quelli gli anni formidabili e contraddittori della cosiddetta “belle epoque”: se progressi tecnici impensabili fino a pochi anni prima (il telegrafo senza fili, l’automobile, l’aereo, il cinema…) stanno avvicinando gli uomini, le sempre più acute tensioni politico/diplomatiche mettono i popoli gli uni contro gli altri armati, fino a sfociare nell’immane macello della Grande Guerra; se eccezionali progressi scientifici sembrano offrire a vaste masse la speranza di una vita più degna, le ingiustizie sociali, mai così diffuse e percepite come tali, con il loro corollario di scioperi, violenze, rivolte, rendono fragile, incero, precario il senso dell’esistenza.

Tradizione e novità, conservazione e avanguardia si scontrano con inusitata durezza in tutti i campi dello scibile e dell’esperienza umana: dalla politica alla letteratura, dalle arti figurative alla musica.

In questa fase della propria vita artistica Stravinskij – un piccolo musicista russo triste, freddo, diligente che affascinava il mondo musicale, “un giovane selvaggio che porta cravatte chiassose, bacia la mano alle signore pestando loro i piedi (Debussy) – si muove sulla lunghezza d’onda della novità e dell’avanguardia che avevano fatto di Parigi, la capitale culturale del pianeta.

Dopo L’uccello di fuoco, i balletti Petrouschka, Parigi, 1911 e ancor più La sagra della primavera, Parigi, 1913 sottolineano lo “scandalo” costituito allora dalla musica di Stravinskij, che, continuando a mantenere legami forti con l’esperienza etnica propria del folklore musicale russo si apriva decisamente alle novità: il ritmo scatenato e l’incisività della frase musicale si intrecciano con i blocchi sonori ripetuti in maniera ossessiva; la violenza politonale, ovvero l’impiego simultaneo o di melodie o di armonie che appartengono a tonalità diverse, e lo spiegamento dei mezzi orchestrali colpirono quasi brutalmente pubblico e critica, francesi ed europei e sancirono la fama e il successo internazionale del compositore russo.

Una musica rivoluzionaria, la sua. Pochi anni più tardi, nel 1918, con l’Histoire du soldat, su testo dello scrittore Charles-Ferdinand Ramuz, ancora una provocazione. Abbandonata la grande orchestra, ridotto all’essenziale l’organico strumentale, ai caratteri propri dell’esperienza maturata fino a quel momento Stravinskij aggiunge un’ulteriore sfida: la contaminazione con la musica da cabaret; col tango, appena arrivato in Europa dall’Argentina e considerato un ballo equivoco e immorale; col ragtime, musica popolare pianistica, anello di congiunzione tra canti popolari e blues da una parte e jazz dall’altra, allora ancora per molti “musica da negri” e quindi inferiore e primitiva; con l’operetta, nei cui confronti non pochi critici conservatori storcevano il naso considerandola nient’altro che musica triviale.
Rappresentata a Losanna pochi mesi dopo la fine della prima guerra mondiale e mentre sulla coscienza europea pesa ancora quel terribile carico di lutti e distruzioni, l’Histoire du soldat, fin dalla sua ispirazione, ribadisce i diritti della fantasia e dell’immaginazione sulla desolazione indotta dal più terribile conflitto di tutti i tempi.

“La musica” scrive Stravinskij mi si è qualche volta presentata in sogno (…) Fu durante la composizione dell’Histoire du soldat, e fui sorpreso e felice del risultato. Non solo la musica mi apparve, ma anche la persona che la suonava era presente nel sogno. Una giovane zingara seduta sul ciglio della strada. Aveva in grembo un bambino e per intrattenerlo suonava il violino (…). Il bambino era molto entusiasta di quella musica e l’applaudiva con le manine”.

Riaffermazione dei diritti del sogno e della fantasia come spazio assolutamente umano in quest’opera, ma non certo speranze in una liberazione definitiva: nella storia fiabesca di un soldato che, tornando dalla guerra in un luogo sconosciuto e in tempo indefinito, scambia col diavolo il suo vecchio, malandato e amatissimo violino per un libro magico e onnipotente che non gli darà la felicità ma lo condurrà alla rovina, precipitandolo nel regno delle tenebre, c’è già il presagio delle tragedie a venire, ancor più immense e terribili di quelle appena trascorse.
Forse mai, come nell’Histoire du soldat, Stravinskij è riuscito a rivelare la sua urgenza poetica con tanta sapienza e lucidità: infatti, se l’uso di materiali contaminati (ragtime, tango, marcia, valzer…) e la tecnica della parodia anticipano di almeno un secolo quella che sarà la cifra evolutiva non solo della musica ma di tutti i linguaggi di comunicazione, le sue esigenze esistenziali lo collocano, insieme a tutti noi, sul fragile balcone del nostro XXI secolo.