26 agosto 2009

"Il canto del diavolo" di Walter Siti

di Emilio Michelotti  

Dalla pubblica autoflagellazione alla custodia in teca dell’istinto trasgressivo, dall’esibizione oscena di una sessualità mortifera alla pacificazione col proprio daimon.  

Walter Siti, non è inutile ricordarlo, è lo scrittore che suggerì la connessione sottile fra una notte d’orgia vissuta personalmente e la strage di Bologna, fra una vita senza regole e una società senza etica. La sua non era, in fondo, che l’estrema deriva di una “disperata vitalità”- con l’accento ormai posto sull’aggettivo -, mutuata dall’ultimo Pasolini, quello, per intenderci, della rivisitazione dell’inferno dantesco e, soprattutto, di Petrolio

Folgorati da una metamorfosi mefistotelica ci si può così, in vecchiaia, scoprire “parte di una forza” costretta a “volere sempre il male” ma ad “operare sempre il bene”. I Sette Emirati sono la via di damasco ideale per questa conversione: Dubai dal caos nutriente, assurda, demenziale nel suo sfarzo alla Disneyland, città digitale programmata da pazzi; Abu Dhabi più kitch ancora, torre di Babele di etnie che non si comprendono, magnete che attira gli affari del mondo. Non manca nulla del fenotipo pasoliniano, rintracciabile sotto i monumenti alla Rolex e a Paperino: varie apocalissi culturali hanno lasciato il posto allo sbigottimento, a una gioventù finta, liberata di anima nonché di modelli positivi. Nessuno ha coscienza del risultato finale di quel che sta facendo. Perfino i cammelli sono inselvatichiti. La tradizione è un “rimasuglio puzzolente” e il viaggiatore è facile preda del mito orientale secondo cui tutto si può comprare, tutto è lecito. E inoltre della convinzione che ciò che sopravvive del passato non abbia più niente di pittoresco, ma sia invece riducibile a una pelle che sventola nel nulla, come se una bomba al neutrone l’avesse spazzato via. Prove tecniche di solitudine. Disintossicamento dall’indifferenza. La felicità come depressione vista al contrario. Paesi intagliati nella stessa materia delle nostre paure. Senti che il mondo, per credere di sperimentare la felicità, deve ridursi alla parodia di se stesso. 

Egocentrico e maniacale, questo racconto è un’ossessione camuffata da reportage di viaggio. L’abbrutimento, lo scivolare continuo sulla soglia del disumano, va di pari passo con una sempre più marcata ipocondria, e questa con la nostalgia, riscattante, di un amore omoerotico squinternato e fuori controllo, dal quale trabocca però una sublimazione perennemente in agguato, disarmante, castissima, indomabile.

 “Chi l’ha detto che la bellezza deve essere armonia, coerenza, originalità? Se fosse vero che è, invece, aumento di vitalità, non potrebbe annidarsi in uno shock disarmonico? Una lingua innovativa, una grande capacità di affabulazione, una narrazione nella quale ti sorprendi a scoprire che fra l’infimo e il sublime non vi sono distanze, ma semmai identità. Che solo gli amori folli, disperati e perversi avvicinino davvero a Dio, come sfacciatamente sostiene Siti?  

Walter Siti – Il canto del diavolo,247 pag.Rizzoli 2009. Euro 16.50.

17 agosto 2009

“Viola” di Elisabetta Salvatori


di Gianni Quilici

Dino Campana è il poeta dell'eccesso: esistenziale e immaginativo.
In lui la poesia non è soltanto vita, ma è anche e soprattutto vita.
Vita come sperimentazione del corpo, degli occhi, dei paesaggi.
Rappresentarla non è facile. Si rischia l'estetismo (l'idealizzazione in nome della Poesia) o la banalità della superficialità.

Non è casuale che ci abbia provato Elisabetta Salvatori. Non è casuale perché i suoi spettacoli hanno spesso come protagonisti i diversi. Diversi, perché portatori di una vocazione, di un destino, di un Daimon. Alcuni noti come Ligabue e Campana, altri semplicemente personaggi del popolo.

Di Campana Elisabetta Salvatori ricostruisce la tragedia. Dei genitori che non lo amano, lo osteggiano, che forse, soprattutto la madre, hanno quasi bisogno che lui sia pazzo.
Questo sicuramente è la causa essenziale della vita tragica di Campana, costretto a dubitare fin da piccolo di sé, rimasto sempre ai margini e finito, come sappiamo, nel manicomio di Castel Pulci.

Vita tragica, ma anche esaltante. L'esaltazione è nella libertà selvaggia, che lo fa viaggiare vagabondo per il mondo. L'esaltazione è nella poesia che vive e che rappresenta, poesia misconosciuta, ma che costituisce la sua unica, vera, grande carta d'identità. Quella che lo ha fatto ri-conoscere.

Questi due elementi di fondo, la tragedia e la poesia, percorrono “Viola” in tutto lo spettacolo.
E' questo è il primo merito della Salvatori-scrittrice, presente in tutta la sua opera. Dare voce a dei personaggi, che hanno una storia con radici familiari e ambientali. Rappresentare le cause non solo gli effetti; l'individualità, ma anche il mondo che l'ha segnata.

C'è poi la recitazione. In “Viola” la Salvatori interpreta tre voci-volti: la narratrice partecipe, che racconta, a volte commenta la vicenda; l'interprete, che diventa personaggio nei ragazzi che prendono in giro il poeta, nella ragazza del popolo che ammira le poesie da lui recitate, in Campana stesso; ed infine, sia all'inizio, quando spiega, le ragioni di questo titolo (“Viola”); sia, alla fine, quando racconta la visita alla tomba del poeta, è lei stessa direttamente ad entrare in scena. Forse a sottolineare una adesione emotiva non soltanto intellettuale.

Avrei trovato forse ancora più efficace dare più spazio all'interprete, perché Campana, diversamente da Ligabue, ci ha lasciato l'eredità delle parole: oltre alle poesie, lettere, brani prosaici o di poesia in prosa.

Elisabetta Salvatori, invece, non recita Campana. Per scelta. Anche se non avrebbe avuto, credo, difficoltà ad inserire scorrevolmente suoi testi nella storia del poeta.
Ha fatto un'altra scelta. Canta “La speranza” “La chimera”... Canta, accompagnata da Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabresi al violoncello, le poesie di Campana, perché esse (alcune di esse) sono canti (orfici), che hanno una musica: ora languida, ora lampeggiante, ora allucinata...

Le musiche sottolineano alcuni passaggi. Calibrate. Trasportano verso l'alto e in profondità, fluide ma con un rapporto a volte aspro tra violino e violoncello.

Gli applausi convinti e prolungati del pubblico sottolineano che Elisabetta Salvatori ha raggiunto il suo proposito: raccontare una vita, raccontare un poeta. Trasmetterlo.


Viola. La vita di Dino Campana raccontata da Elisabetta Salvatori con Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabrese al violoncello. Ex Marmi, Pietrasanta. 13 agosto 2009.

"Storia naturale dei giganti" di Ermanno Cavazzoni


di Alessandro Trasciatti

Non è un libro per tutti (nessun libro è per tutti) Storia naturale dei giganti di Ermanno Cavazzoni, ma ha qualcosa di geniale.

Non si presenta come un romanzo né come una raccolta di racconti, ma come l'abbozzo, il manoscritto di un vero e proprio trattato di storia. Quella dei giganti, appunto, i giganti dei poemi cavallereschi quattro-cinquecenteschi, e ai poemi viene attribuita da Cavazzoni la stessa attendibilità di una cronaca o di un documento d'archivio. La finzione letteraria del passato assurge al rango di "verità" storica. Siamo di fronte, quindi, a un raffinatissimo e ponderoso divertissement, che ha qualcosa sia dell'etnologia fantastica sia della rigorosa antologia di letteratura. Sì, perché di tutti i giganti citati viene puntigliosamente ricordato il luogo letterario della loro apparizione, la fonte insomma, così che la letteratura cavalleresca si srotola di fronte al lettore fin nelle sue pieghe più recondite, nei suoi autori e nelle sue opere meno conosciute, tenendo sempre lo sguardo puntato sulla presenza dei giganti, figure che appaiono marginali e a cui, invece, nessun autore di poemi sembra saper rinunciare.

Di tanto in tanto, si fa sentire la voce dell'autore-ricercatore, sotto forma di notazioni diaristiche poetiche e desolanti intorno alla fatica dello studioso e ai suoi mali d'amore, incarnati dalla sfuggente signorina Guastavillani. La sfera intima del narratore si alterna al rigore della sua ricerca impervia e coscienziosa, una trama di ragno sul nulla, su quel mondo di nulla che è la letteratura.

Quando la passione amorosa prende il sopravvento sulla ricerca scientifica, la scrittura cambia passo, la voce si fa risentita e irresistibilmente comica, come nelle lunghe tirate contro Barbieri, l'inetto fidanzato della signorina Guastavillani. Altrove la voce rallenta, e il paragrafo si chiude con qualche sconsolata considerazione sull'esistenza, sulla solitudine.

L'inizio stesso del libro è desolato, poeticissimo e esilarante, è una Dedica futura che merita di essere riportata, almeno in parte: "Questo scritto, quando sarà perfezionato e pulito dalle note mie personali, voglio che sia dedicato a Monica Guastavillani, anche se da lei per la verità non ho avuto un aiuto, anzi, da lei ho sempre avuto un implicito ivito a lasciare perdere. I giganti non l'hanno mai interessata. Eppure sono stati una cosa gloriosa, a quanto dicono i poemi di cavalleria; una popolazione gloriosa di cui oggi poco si sa, purtroppo, dei loro usi, costumi, caratteri fisici, tendenze sessuali, sistemi riproduttivi, manie, sociologia; e poi decadenza e scomparsa; perché a questo mondo tutto finisce, Monica Guastavillani ad esempio con lei è finita, alla data attuale, e anche i giganti sono ad un certo punto finiti, poveretti, come sono finiti i mammuth, o come fra poco saranno finiti i gorilla del Kilimangiaro, i panda, la balenottera azzurra, la tigre della Tasmania. I giganti sono finiti per via della caccia spietata che hanno subito; e per via, io dico, del loro sistema riproduttivo male orientato, della attività sessuale sgonfia, imprecisa."

In questo inizio c'è tutto Cavazzoni, la sua voce, la sua tristezza impastata di euforia, la sua frase molle in cui si scivola dal rigore pseudo-scientifico all'imprecisione lirica del tema in classe, del pensiero a voce alta, e il discorso così va su e giù, tra massimi sistemi ("a questo mondo tutto finisce") e minimi collassi ("Monica Guastavillani ad esempio con lei è finita, alla data attuale") che ne sono la poco calzante dimostrazione, per poi infilzare come salsicce le parole, una dietro l'altra, perché Cavazzoni conosce bene il comico degli elenchi, il riso che nasce dagli accumuli, dalla sproporzione. E questo sui giganti è un libro sulla sproporzione.

Mi ricordo - vagamente devo dire - che qualcuno criticava il suo primo libro, Il poema del lunatici (1987), perché era bello, sì, ma troppo lungo. Ora, anche questa Storia naturale dei giganti non è che sia corto, sono 250 pagine molto fitte, e a un tratto mi sono chiesto anch'io se ci volessero davvero tutte. Poi mi è venuta in mente una scena del film Amadeus: qualcuno critica Mozart dopo un concerto perché nella sua sinfonia c'è qualcosa di...come dire..."Troppe note!". Al che Mozart, tagliente, chiede che gli vengano indicate quelle da togliere. Il critico ovviamente non sa che dire. Ovviamente neanch'io saprei che dire a proposito del libro di Cavazzoni, è un'impressione buttata lì senza pensarci troppo. Una certa dismisura è implicita nella sua scrittura e, del resto, proprio la letteratura cavalleresca trova nella sovrabbondanza inesauribile dei suoi episodi una delle sue ragioni di fascino. E forse è anche il retaggio di un certo sperimentalismo, di una certa poetica dell'oltranza (mi vengono in mente Queneau e soprattutto Perec). Cavazzoni non è certo estraneo a questi ambienti, anzi, è membro dell'Opificio di Letteratura Potenziale.

Ma poi davvero cosa depennare, l'Indice dei giganti citati, strepitosa parodia degli indici ragionati della saggistica? ("Amoroldo: non pensa niente e scalcia", "Antena: simile a un martello pneumatico", "Arcifanfano: scorreggia molto prima di essere castrato" ...e così via). O l'altro indice, quello delle opere citate, prezioso di indicazioni e di commenti autoriali? ("Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1516-1532; libro da venerare e tener sempre in tasca in edizione mignon - ad esempio Hoepli - perché mai fu scritto al mondo libro più eccelso ed aereo"; Cesare Lombroso, L'uomo delinquente, 1876; questo è un libro che può riuscir comico e fantasioso, quando si è di buon umore; altrimenti è il libro di un povero citrullo"...). Ovviamente no. Resta solo un'impressione vaga di ridondanza. Nient'altro. Nient'altro che un libro bello e singolare.


Ermanno Cavazzoni. Storia naturale dei giganti. Guanda 2007. Pag. 252. Euro 14.50.

14 agosto 2009

"Philo Vance, investigatore e superuomo" di Luciano Luciani



Il romanzo poliziesco made in Usa delle origini si ispirò più ai grandi modelli inglesi che all’americano Edgar Allan Poe. Nemo propheta in patria e, infatti, l’inventore del Cavalier Dupin era stato apprezzato più in Europa che negli Stati Uniti: gli americani non lo avevano percepito come un loro autore e i pionieri del genere l’avevano ben presto dimenticato per preferirgli i miti, i moduli, le convenzioni di Wilkie Collins, Conan Doyle, Richard Austin Freeman.

Una perdita di memoria e un complesso di inferiorità che pesarono per oltre mezzo secolo sulla produzione americana: lo conferma la scrittrice americana Anna Katharine Green (1846 – 1935) con il suo decoroso The Leavenworth Case: A Lawyer’s story, 1878, conosciuto in Italia, dove venne pubblicato agli esordi della mondadoriana collana dei “gialli” con il titolo Il mistero delle due cugine, 1929. Diligente ma prolissa descrittrice della psicologia dei personaggi, attenta ma convenzionale osservatrice degli ambienti e del costume della borghesia puritana, la Green ottenne negli Stati Uniti un grande successo di pubblico. Oggi, ce lo spieghiamo solo con la novità rappresentata dal suo poliziesco plasmato sui modelli dickensiani di moda in quegli anni in Gran Bretagna grazie ai lavori di Wilkie Collins, più “serio” e formalmente più curato, rispetto al melting pot costituito dalla letteratura popolare dei dime novel: opuscoli scritti in maniera sciatta, che contenevano una storia compiuta, a metà strada tra il racconto lungo e il romanzo breve, in vendita al contenutissimo prezzo di dieci centesimi, un dime, appunto e che proponevano tanto avventure western che celebravano i miti fondativi degli States banalizzando i temi della tradizione cooperiana, quanto racconti giudiziari e storie criminali. A Mistery Novel è il sottotitolo che la Green assegna a questo suo romanzo d’esordio, il cui successo sarà replicato cinque anni più tardi da un altro romanzo X.Y.Z. A detective story, 1883: due dizioni che saranno adottate d’ora in poi nei paesi di lingua inglese per definire un genere che sembra aver acquisito ormai una sempre più sicura coscienza della propria esistenza in quanto tale.

Pochi anni più tardi, fu tutta americana la fortuna di Arthur Conan Doyle: infatti, nel 1887 apparve sul “Beeton’s Christmas Annual for 1887” A study in scarlet, Uno studio in rosso, che l’anno dopo fu pubblicato in un volume autonomo. Scarsa l’attenzione del pubblico inglese, contraddetta di lì a un paio d’anni dai meno esigenti lettori americani che sancirono entusiasticamente il successo di The Sign of the Four, (Il segno dei quattro): una popolarità che tornò di nuovo in Inghilterra per poi dilagare nel resto d’Europa, in tutto il mondo e durare fino ai nostri giorni…

E dall’una all’altra sponda dell’Atlantico continuava a rimbalzare, acquisendo via via sempre nuove sfaccettature, particolari, tonalità la figura di un nuovo protagonista aristocratico per sangue o per denaro, snob, esteta e nietzschiano. Intorno all’ultimo prodotto di questa convenzione letteraria dura a morire, leggiamo quanto scrive Corrado Augias, lettore, scrittore e buon divulgatore delle problematiche relative al genere poliziesco:
“Nel 1923, quando aveva 35 anni Willard Huntington Wright (1888 – 1939) si ammalò di tubercolosi. Fino a quel momento era stato un brillante intellettuale nuovaiorchese, nativo di Charlottesville in Virginia e quindi ingentilito da un’aristocratica vena meridionale. Noto giornalista e critico d’arte, il giovane Wright aveva scritto per le migliori testate dell’Est e pubblicato, a 28 anni, un romanzo sperimentale (The man of promise) giudicato, almeno dalla critica, con grande favore.
Poi venne la Tbc e con la malattia la lettura, su ordine dei medici, solo romanzi “ameni”, vale a dire polizieschi. L’argomento lo appassionò al punto che Wright decise di scrivere una “storia” del giallo. Fortunatamente invece di un saggio scrisse un romanzo, La strana morte del signor Benson, che pubblicato nel 1926, segnò la prima uscita del detective Philo Vance e dello pseudonimo di S.S. Van Dine”.

Se Philo Vance non è il più originale dei protagonisti del genere - né il più simpatico, Raymond Chandler, non senza qualche ragione, lo definì “il personaggio più pomposo e balordo dell’intera narrativa poliziesca” - certo è il più colto: è un’autorità in materia di stampe cinesi e giapponesi, esperto di arazzi e ceramiche; collezionista di quadri e objets d’art che vanno da oriente a occidente, dall’antico al moderno, dai primitivi italiani a Cezanne e Matisse… Le sue raccolte avrebbero suscitato l’invidia di un eroe dannunziano. E’ anche straordinariamente colto: i corsi da lui frequentati comprendevano la storia delle religioni, la letteratura greca classica, biologia, educazione civica, e ancora economia politica, filosofia, antropologia, letteratura, psicologia teorica e sperimentale e lingue antiche e moderne… Scrive giustamente Augias che, al confronto della cultura di Vance, il mitico Sherlock Holmes fa la figura di uno studente di provincia. Elegante, insolitamente attraente, alto un metro e ottanta, aggraziato, capitano della squadra universitaria di scherma, eccellente giocatore di golf, nazionale di polo, gran viaggiatore, è il primo detective completamente americano nella storia del genere, anche se si ricollega alla ormai consolidata tradizione del detective-superuomo inaugurato da Poe con Dupin, riproposto da Matthew Shiel con il principe Zalesky e ribadito dallo scrittore Henry Cristopher Bailey con il suo Reggie Fortune, erudito, raffinato gourmet e gran conoscitore di vini francesi. Insomma, Philo Vance sembra tutto interno alle convenzioni ormai ben definite del genere: forse, però, come nota con grande acutezza Giuseppe Petronio nel suo fondamentale Sulle tracce del giallo, “dentro quella impalcatura da secondo Ottocento si muovono tante cose nuove e moderne, da Novecento”.

Lasciamo ancora la parola al grande critico italiano: “Il più innovatore, un rivoluzionario addirittura, è proprio quel Van Dine che in apparenza è il più legato al modello. Il suo Philo Vance è, se fosse possibile, più dandy di Sherlock Holmes; la sua spalla è più Watson dello stesso Watson; i suoi omicidi hanno luogo tutti in ambienti aristocratici o del bel mondo, i suoi assassini sono tutti colti e intelligenti; la sua concezione del delitto è ancora ottocentesca: intorno a lui infuria già il gangsterismo, a Chicago imperversa Al Capone, e lui sentenzia, sprezzante e nicciano che ‘il crimine non è un istinto di massa se non in tempo di guerra, quando diventa uno sport osceno. Il crimine… è un fatto personale, individuale’ ”.
Contrariamente all’apparenza, dunque, per Petronio i romanzi di Van Dine non rappresentano un’esperienza statica nella storia del poliziesco, un consolidamento un po’ ripetitivo di situazioni e personaggi, ma dinamica. I suoi libri costituiscono “una specie di manifesto… di una poetica e di una epistemologia antipositivistiche, di un rifiuto ragionato e sprezzante della detection fondata sulle certezze scientiste”. Il dandy newiorchese non ha nessuna fiducia, infatti, nella criminologia o nell’antropologia criminale; per lui le prove indiziarie - impronte digitali, informazioni sulle ceneri di tabacco lasciate sul luogo del delitto, conoscenza delle diverse qualità di fango rimaste attacate sulla suola delle scarpe, i materiali consueti di ogni buon detective da Sherlock Holmes in poi - sono del tutto inadeguate ed inaffidabili e ad esse vanno di gran lunga preferite le teorie psicologiche e le ipotesi, per così dire, estetiche. La natura umana non può essere ridotta ad una formula e “la verità è che l’uomo, come la vita, è infinitamente complesso. E’ astuto e ingannatore, allenato da secoli ai tiri più diabolici. E’ una creatura scaltra e meschina che, perfino nel normale corso della sua vana e idiota lotta per l’esistenza, mente istintivamente e deliberatamente novantanove volte su cento”. Per Philo Vance, in perenne polemica con il procuratore distrettuale John Markham e con tutti i poliziotti che lavorano diligentemente sulle prove indiziarie, “nessun criminale intelligente lascerà le sue impronte per i vostri compassi e nastri misuratori”. Il disprezzo per il valore conoscitivo dei fatti non potrebbe essere più totale: ad esso va sostituito la conoscenza dell’uomo perché ribadisce Vance “… ogni atto umano, grande o piccolo, è l’espressione diretta della personalità dell’uomo e porta l’inevitabile impronta della sua natura”: la stessa svalutazione del dato di fatto che proprio in quegli anni si poteva ritrovare in tutta la produzione del decadente Pirandello e che un quarto di secolo più tardi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, diventerà la cifra dei polizieschi di Friedrich Durrenmatt.

Philo Vance avrebbe risolto casi misteriosi fino al 1939, anno della scomparsa del suo creatore: oggi, lo scrittore americano è ancora letto e ripubblicato, anche se nessuno scrittore di romanzi polizieschi si attiene più al suo doppio decalogo, ovvero Le 20 regole per il delitto d’autore (Twenty Rules for Writing Detective Stories) spiritosamente suggerite da S.S. Van Dine in un articolo apparso nel settembre 1928 su “American Magazine”. Ne riportiamo le prime sette in quanto hanno costituito e costituiscono ancora i confini e i criteri a cui si attengono i cultori - scrittori e lettori, ancora peraltro molto numerosi - del cosiddetto “poliziesco classico” :

1.Il lettore deve avere le stesse possibilità di risolvere il mistero che ha l’investigatore. Ogni indizio e ogni traccia debbono essere accuratamente descritti ed annotati.
2.Il lettore non deve essere oggetto di trucchi e raggiri diversi da quelli che il criminale usa legittimamente nei riguardi dell’investigatore.
3.Le storie d’amore non devono essere troppo appassionanti: lo scopo è quello di condurre un criminale davanti ai giudici, non due innamorati davanti a un prete.
4.Il colpevole non deve mai essere né l’investigatore né uno dei poliziotti ufficiali…
5.Bisogna arrivare a smascherare il colpevole attraverso deduzioni logiche, non per coincidenze o per caso, o per una confessione non motivata…
6.In ogni romanzo poliziesco deve esserci un poliziotto e un poliziotto è tale in quanto indaga e deduce. Suo compito è di raccogliere indizi che permettano la cattura del criminale colpevole…
7.In ogni romanzo poliziesco deve esserci almeno un morto che più è morto, meglio è…

E così via… investigando.

10 agosto 2009

"Vite di corsa" di Zygmunt Bauman


di Gianni Quilici

Ho scoperto tardi e casualmente in un dibattito pubblico la “società liquida” di Bauman.
Merito di Rina Gagliardi, allora senatrice di Rifondazione Comunista, che lo citò.
Mi colpì, perchè “società liquida” è una metafora che si adatta bene ai tempi che corriamo.
Così ho iniziato a comprare e a leggiucchiare i libri e gli articoli (su Repubblica delle donne) di Bauman.

Il primo libro che ho letto interamente è questo, Vite di corsa, una lezione magistrale tenuta, da Bauman, a Bologna.

La prima impressione: difficoltà ad appassionarmi, nonostante il tono discorsivo, per un linguaggio specialista, da studioso, in questo caso, sociologico. Non sarà sempre e con tutti così. Ma le esemplificazioni, le citazioni, quel particolare tipo di citazioni con definizioni o statistiche, allentano forse la tensione speculativa, la consequenzialità del ragionamento, a volte forse la perdono, facilitano la ripetizione dei concetti.

Quindi: se per un verso ho trovato osservazioni giuste, condivisibili, penetranti; per un altro la lettura non mi ha appassionato, tendeva ad annoiarmi. Diversamente da un altro studioso come Hillman [mi sono trovato, più o meno, contemporaneamente a leggere “Cent'anni di psicoanalisi”, lettere e incontri del filosofo-psicoanalista con lo scrittore e giornalista Michael Ventura], in cui, pur nella vastità di riferimenti culturali, si avverte che le argomentazioni puntano dritte “all'anima”. C'è quello, per fare un'associazione ardita, che Roland Barthes chiama “punctum”.

Detto questo, la più profonda impressione è che Bauman sia un sociologo assolutamente da leggere, per chi, oggi, voglia capire e, eventualmente, trasformare questa società agonizzante che ci ospita.

Tuttavia non è facile, anzi impossibile, raccogliere in sintesi il suo ragionamento.
Il tema centrale di questa lezione è forse la velocità non a caso presente nel titolo stesso del libro.

La velocità in un processo produttivo, che sforna continuamente nuovi oggetti, li rende desiderabili, richiedendo quindi al consumatore, se vuole “essere” all'altezza dei tempi, un continuo adeguatamento al loro mutare.
La velocità altrettanto rapida nel consumo (comprare-consumare-gettare).
Una strumentazione pubblicitaria che mira al consenso (approvazione ed inclusione come status symbol, ogni volta da rinnovare), agendo sui processi più intimi dell'identità.

Le conseguenze sulle strutture psicologiche sono “sottilmente” devastanti: cultura del presente-tirannia dell'istante, cancellazione del passato. Il tempo non è più né ciclico, né lineare, come accadeva nella società contadina e industriale, ma diventa puntillistico, frammentato, cioè, in una moltitudine di particelle separate con la facile conseguenza che i frammenti prendano il sopravvento e che diventi sempre più difficile creare narrazioni, ordini, gerarchie e sequenze evolutive.

E' questo il punto più interessante: il rapporto tra consumo, desideri e psicologie, perché è questo che ha prodotto e produce un mutamento radicale delle classi sociali, anche delle più povere.
Perché è mutata e muta la disposizione psicologica ( percezione, concentrazione), l'utilizzo del pensiero (assimilazione, elaborazione, sistemazione) in una struttura complessiva dell'esistenza, in cui compiti, responsabilità, ritmi per la loro frammentazione, forza, pesantezza, precarietà, seduzione si fanno sempre più difficili da seguire, controllare, scegliere.
Bauman, e non è il solo, ci avverte con un'analisi puntigliosa: la nostra identità di persone è pesantemente a rischio, perchè può essere, dall'alto, “assembleata e disassembleata in modo intermittente e sempre nuovo”.

Per questo, conclude Bauman “abbiamo bisogno dell'educazione permanente per avere la possibilità di scegliere. Ma ne abbiamo ancora più bisogno per salvaguardare le condizioni che rendono le scelte accessibili e alla nostra portata”.

Ma quale educazione permanente oggi è possibile che non sia anche lotta politica? E quale lotta politica oggi può avere successo se non recupera creativamente le analisi che Bauman ed altri (la scuola di Francoforte, Eriksen, Jameson, Lyotard, Sartre, Hillman, il Pasolini luterano, nonché scrittori e registi) dedicano alla società postmoderna e al mutamento corpo-anima dell'essere contemporaneo?

Zygmunt Bauman. Vite di corsa. Traduzione di Daniele Francesconi. Il Mulino. Pag. 102. Euro 10.

09 agosto 2009

"Finalmente ti scrivo" di Carmen Llera Moravia


di Gianni Quilici

C'è una ragione “forte” per leggere questa esile “testimonianza”. La ragione è Alberto Moravia: per le sue lettere, ma anche per il modo con cui Carmen Llera Moravia le ha inserito nel libro.

Finalmente ti scrivo è un colloquio tra Carmen Llera, la giovane moglie, e il romanziere, che prende spunto da un centinaio di lettere che Moravia le ha scritto “lettere d'amore tenere o disperate lucide intelligenti vitali generose comiche” che lei distruggerà, perché sono solo per lei, “il pubblico ne farà a meno”. Con parti di queste lettere Carmen Llera dialoga nel corso del libro; sette, autografe, che inserisce una all'inizio, le altre alla fine.

Prendiamo la prima:
“Cara Carmen
Tutto sarebbe semplice se
io non ti amassi. Siccome
ti amo e l'amore è già
di per se stesso complicato,
tutto è invece orribilmente
complesso e angoscioso.”

Queste lettere hanno insieme la lucidità “estrema” di Moravia e il dolore, spesso, di non “raggiungerla”, di non trovare non dico amore, ma “incontro” con la determinazione di lasciarla comunque libera, di non ricattarla in ogni modo con stati d'animo. C'è qui la grandezza dell'intellettuale ed anche dell'uomo, che si mette accanto, né davanti, né dietro.

L'altro aspetto di interesse del libro è la figura di Carmen Llera, che sembra vivere in un vuoto continuo di noia, di disperazione, di inutile fuga da risultare infine misteriosa e indecifrabile, più coatta forse che libera.
Memorabile la lettera in cui Moravia, un po', la tratteggia.

“Cara Carmen
non so quello che ti succede né voglio saperlo tanto più che tu stessa non sembri saperlo.
Ma da qualche tempo hai preso la strada del nulla, come ti ho detto oggi per telefono. Da un nulla crei un nulla che però purtroppo ha effetti tutt'altro che inconsistenti.
Sono convinto che in questo nulla che vai creando, io non c'entro, è il caso proprio di dirlo, proprio nulla. Non sarebbe la prima volta che fatti a me estranei e soltanto tuoi intervengono nella nostra vita e nei nostri rapporti (....)”
In un'altra lettera scrive:
“Purtroppo tu continuerai a fare quello che hai sempre fatto: distruggere quello che c'è per correre dietro a quello che non c'è...”

Ed anche nel suo raccontare-raccontarsi Carmen Llera tale rimane. La sua scrittura asciutta a mo' di poesia in prosa è orizzontale e lapidaria. La differenza con Moravia è netta. In Alberto Moravia il fatto diventa subito “perché” e la risposta spesso un altro “perché” ancora, come una trivella, che ad ogni scavo trova nuove profondità. In Carmen Llera i fatti si susseguono ad altri fatti a rappresentare non sviluppo, interazione, sorprese, ma immobilità, noia, non senso, assurdo, perché non c'è altro, così è.

Carmen Llera Moravia. Finalmente ti scrivo. Romanzo Bompiani. Pag. 88. Euro 10.33.

07 agosto 2009

"Grigio" poesia di Michela Ladu


di Gianni Quilici

Grigio
Seguo con gli occhi voltati
i rintocchi d'un pendolo morto.
Sbottono la scarlatta vestaglia
floreale, ma il seno s'è diradato
aprendo alla luce d'un eden tagliente,
alla massima saturazione.
La testa mi cade come da burattino
e rotola e morta
si rifugia nella penombra che all'angolo freddo
regala il fantasma del pendolo grigio.
Michela Ladu


E' una poesia narrativa.
Leggiamola senza bisogno di comprenderla subito.
Colpisce la sua inusuale narratività: una donna e i rintocchi di un pendolo; una vestaglia che si apre e il seno che si dirada in una luce limpidissima; la testa che cade, rotola e si rifugia in un angolo freddo.

Poesia non realistica. Una sorta di incubo ad occhi aperti. Visionaria. Onirica. Allucinata. Edgar Allan Poe?

Ri-leggiamola. Tre attimi. Il tempo percepito come morto. La luce e la disintegrazione del corpo. La testa che si separa dal resto in una sorta di schizofrenia: muoio, ma mi vedo, contemplo la mia morte.

La domanda più radicale potrebbe essere. Dolore vero o dolore falso, cioè estetico?
La risposta la dà la poesia stessa.

Primo: nella sua “fattura”. “Grigio” è percorsa infatti da continui contrasti, da (improvvisi) ossimori: eden e tagliente, vestaglia scarlatta e floreale e seno diradato, massima saturazione della luce e angolo freddo in penombra.

Secondo: ha un montaggio musicale. Seguo (con gli occhi), sbottono (la scarlatta vestaglia) e poi bellissimo come stacco per la sua naturalezza radicale “La testa mi cade ...” con una similitudine visionaria molto efficace (“ come da burattino”)....

Infine e soprattutto questa poesia di disperazione e solitudine è scritta senza compiacimenti, in una specie di distaccato dolore come se la protagonista fosse al tempo stesso attrice e spettatrice. Non c'è quel compiacimento di chi vuole suggerirti “quanto soffro, come sono brava!”

Ma chi è Michela Ladu?
Michela Ladu non è lucchese, è sarda, è nata a Oristano e lì risiede. Non ha mai pubblicato poesie. Questa è una delle tante inedite. Le ho chiesto: “Presentati”. Ecco la sua risposta.

“Vorrei cominciare con una citazione, ma evito.
Ho 28 anni e non ho ancora un lavoro che mi permetta di mantenermi.
Sono laureata come la maggior parte degli ignoranti del Paese.
Amo la pittura ed Egon Schiele in particolare.
Sono lunatica, intransigente e vanitosa, ma i complessi di inferiorità complicano i miei tratti caratteriali.
Sono innamorata.
La poesia? E' soltanto una terapia.
Non vedo il mio futuro e odio tutto ciò che ha a che fare col consumismo.
Mi piace la lattuga dell'orto della mia migliore amica.
Amo viaggiare ma non me lo posso permettere.
Vorrei essere Tim Burton.
E questo è quanto.
Michela”

da "Arcipelago" n. 44

03 agosto 2009

"La lentezza" di Milan Kundera


di Emilio Michelotti

Vincent si porta le dita al naso, l’odore di femmina dopo l’amplesso gli fa scordare per un attimo la sua insaziabile sete di velocità.
Fermarsi, rimandare, ritardare, tenere sospesa più a lungo possibile l’eccitazione. C’è un ineffabile alone di sensualità che le donne custodiscono e riescono a calibrare con astuzia. Oltre questo nelle nostre vite non c’è che banalità, se le si guarda da un punto appena eccentrico; tale angolo prospettico ci può consentire di irridere loro e trattarle con i più esilaranti degli sberleffi. In fondo non meritano altro.

Alle due storie, lontanissime nel tempo ma non nello spazio, che Kundera sa intrecciare con il solito sarcasmo, al lettore salta subito agli occhi che se ne può aggiungere una terza. E’ quella che l’autore sperimenta con la moglie Vera, autentico campione di perspicace lentezza, accomunata alle altre donne del racconto da un’incrollabile fiducia nella necessità di assaporare con calma l’esistenza. Non così Immacolata, avida telecronista d’assalto, che ha più fretta e più palle di un uomo.

Accadde che, oltre duecento anni fa, uno scrittore noto come Vivant Denon dette vita al personaggio di Madame de T: gli intrighi di questa maschera di fine Settecento sembrano essere il modello, o forse meglio l’archetipo, dell’universale permanenza della capacità avvolgente della seduzione e dei tranelli femminili.

Come macchiette, marionette, pupi, ci affolliamo sul palcoscenico di una grottesca rappresentazione, ognuno occupato a scalzare l’altro, a ridicolizzarlo, a creare intorno a se stesso un’aura di esecranda sacralità. Si finisce così per prendere sul serio perfino i più buffoni di noi, coloro che riescono a vendere come intrigante e poetica l’immagine di una luna “buco di culo spalancato sull’universo”. Il disprezzo per gli altri è vissuto soggettivamente con la convinzione teologica di appartenere a una classe di eletti.

Nel tratto autoironico che sta dietro la caricatura di un intellettuale ceko, eroizzato senza meriti dalla stupidità del vecchio regime, Kundera cela il sospetto che tale tipologia sia da estendere erga omnes. Nel teatro dell’assurdo nel quale ci accalchiamo non c’è posto che per la corsa frenetica dell’esibizione. Eppure un odore ci può rimandare in modo del tutto involontario ad una inconsapevole appartenenza alla natura selvaggia, e quindi a una remota libertà. Può, come le nuvole in un famoso corto di Pasolini, riconnettere le tracce di umano che sono in noi al fluire impalpabile del respiro cosmico.

Milan Kundera – La lentezza – traduzione di Ena Marchi - Adelphi edizioni, 1999 e 2002