07 aprile 2024

"La nonna giovane" di Beppe Calabretta

 

 

di Marisa Cecchetti

       Caterina, Vera e Bianca sono madre, figlia e nipote - la madre non arriva ai quarant’anni - al centro della storia di Beppe Calabretta, oltre ad un commissario di polizia, ad un uomo momentaneamente smemorato e a qualche comparsa. Se il titolo di per sé incuriosisce, quando si entra nel loro mondo la curiosità diventa maggiore.

Si scopre che la madre, ciò la nonna, è un avvocato, che la figlia Vera è nella fase di allattamento e frequenta la scuola superiore, che la sua piccola Bianca è gestita da entrambe le donne con tempi regolarmente suddivisi, grazie al fatto che Caterina ha lo studio legale sotto casa. Una famiglia non comune, ma ordinata, che sembra serena.

   Un giorno, di ritorno dai giardini pubblici con la bambina, Caterina sente suonare, apre, non fa in tempo a vedere un uomo davanti alla porta, che  lui si accascia per terra privo di sensi. Chi è? Perché cerca proprio lei? Entra dunque in scena un commissario a cui è affidata la soluzione, complicata dal fatto che l’uomo sembra avere dimenticato tutto di sé.

   Il tema della smemoratezza acquista un peso notevole, infatti anche Caterina è in lotta con ricordi lontani che non riesce a ricostruire: al centro hanno la figura del nonno, che svanisce quando sta per pronunciare parole importanti che lei ha dimenticato. C’è qualcosa di doloroso, come una ferita nascosta dalla nebbia, che ha lasciato nel suo sguardo un velo di tristezza: se ne accorge presto il commissario quando cominciano a frequentarsi. Quale mistero deve ancora venire alla luce?

  In modo leggero, che non si compiace di scavare nel dramma, in un alternarsi di prima e terza persona, di dialogo, riflessione individuale e narrato, Beppe Calabretta affronta il tema del dolore, quello tanto forte da causare amnesie momentanee o rimozioni durature: solo la scoperta delle radici, delle cause della sofferenza, può permettere di recuperare se stessi e intervenire dove necessario.

   Vera è una adolescente che si trova a essere madre per caso, per distrazione: quando è lontana dalla piccola Bianca, quando non si sente investita dai propri doveri educativi, riprende con gusto il linguaggio colorito dei suoi coetanei. Come incredula di fronte alla profonda trasformazione della sua vita, si pone domande che si farebbe un infante, che strappano un sorriso.

   Questa famiglia così ben organizzata nelle sua unicità porta in sé un  messaggio forte, quello del superamento di ogni pregiudizio e di ogni stereotipo, del coraggio di affrontare le conseguenze dei propri atti ed errori, quando si possono trasformare in un percorso di amore.


Beppe Calabretta, La nonna giovane, Tralerighe Editore 2024, pag. 120

 

 

 

 

 

 

 

27 marzo 2024

"Ci diciamo l'oscuro" di Helmut Bottiger

 


di Giulietta Isola

La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione. Era la mia vita. L’ho amato più della mia vita”.

                   Ingerborg Bachmann e Paul Celan, due dei più grandi poeti del Novecento , parlavano la lingua “oscura” della poesia. I due hanno condiviso una grande travolgente storia d’amore per sei settimane, non hanno quasi avuto il tempo di conoscersi, ma la grandezza di una storia d’amore non ha niente a che vedere con la sua durata. 

           Siamo a Vienna, nell’Europa distrutta del secondo dopoguerra , in questo clima inquietante nasce l’esigenza di una presa di coscienza, di una riflessione profonda su quelli che sono stati i mali del totalitarismo, della

guerra, delle bombe, di quell’aberrazione che era stato l’Olocausto. 

         Celan, nato in Ucraina da genitori ebrei, visse la tragedia della loro deportazione e del loro sterminio nei lager nazisti, evento che lo segnò in maniera irreversibile. Si trasferì poi in Romania, fuggì ancora per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche del regime comunista di Ceausescu, approdando a Vienna, dove incontrò la Bachmann ivi giunta dalla Carinzia alla ricerca della sua affermazione di giovane poeta emergente. Ma anche Vienna è ostile agli ebrei, Celan si trasferisce a Parigi, si afferma come poeta influenzando profondamente, sia pure a distanza, la Bachmann. Da Parigi intrecciò rapporti con i maggiori letterati e poeti dell’epoca. La Bachmann era a sua volta rimasta profondamente segnata dalla dichiarata adesione del padre al nazismo, e dall’aver visto sfilare le truppe di Hitler sotto le sue finestre in occasione dell’annessione dell’Austria al terzo Reich. 

          La storia fra i due è continuata a distanza, non si è mai interrotta nonostante incomprensioni, dissidi e recriminazioni, ognuno viveva altre storie di cui rendeva partecipe l’altro. La monumentale coppia della letteratura tedesca del dopoguerra elabora una poesia in grado di esprimere la contemporaneità̀ e di legare l’impegno letterario alla questione morale. Si scrivono, cercano di esprimere l’oscurità e l’indicibile con le parole, le loro lettere evidenziano bene i sentimenti di colpa e responsabilità che i due sentono verso la storia recente, fino al baratro psicologico della Bachmann e al suicidio di Celan. 

       Incontri letterari, sfioramenti, silenzi e assenze , il loro rapporto con la poesia ed i traumi da entrambi vissuti nel periodo bellico sono in questo libro che oltre alla semplice narrazione di una storia d’amore contiene elementi di critica letteraria e di carattere filosofico, che lo rendono complesso e dalla lettura non sempre agevole.

“noi ci guardiamo, noi ci diciamo cose oscure

ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria

dormiamo come vino nelle conchiglie,

come il mare nel raggio sanguigno della luna.

È tempo che la pietra accetti di fiorire,

che l’affanno faccia battere un cuore.

È tempo che sia tempo.

È tempo.”

CI DICIAMO L’OSCURO di HELMUT BOTTIGER NERI POZZA EDITORE

 

26 marzo 2024

"Lucy davanti al mare" di Elizabeth Strout

 

di Marigabri

“È nostro dovere sopportare il peso del mistero con tutta la grazia possibile.”

       Ed è con tutta la grazia possibile che Elizabeth Strout scrive i suoi libri. Ciascuno è come una lunga carezza. Al cuore, all’intelletto. Una sorta di vibrante dolcezza che raggiunge ogni fibra. Succede così anche in questo suo ultimo, nonostante sia, fra tutti, il meno riuscito.

     Perché Lucy Barton, protagonista di altri tre romanzi, ha dato quel che doveva dare e probabilmente è tempo di lasciare che le sue storie siano depositate nell’archivio delle memorie letterarie, nella nostra immaginaria biblioteca universale.

       Certo, per gli estimatori della Strout -come la sottoscritta- incontrare fra le pagine di questo racconto molti altri personaggi già conosciuti -la mitica Olive, Bob Burgess, Tyler Caskley e la figlia Katherine- non può che essere fonte di gioia: il calore intimo e diffuso di ritrovarsi tra vecchi amici, davanti alla luce affabile di un caminetto. (E infatti ho cominciato piano piano a rileggere quei romanzi che avevo tanto amato).

      Perché con Strout è sempre essere chiamati in prima persona, a partecipare delle vite degli altri come fossero parte della nostra stessa vita. Con misura e gentilezza, cifre inequivocabili del suo stile narrativo.

     Dunque ripercorriamo qui l’incredulo isolamento in cui ci ha costretto la pandemia, ma ritroviamo anche gli amati, a volte ostili, paesaggi marini del Maine e l’immaginaria cittadina di Crosby, teatro di tanti intrecci, relazioni e sentimenti contrastanti.

      Accogliamo i pensieri vagabondi di Lucy, scrittrice che nella crisi globale immagina di non poter scrivere più (ma non sarà così); ascoltiamo i discorsi e le riflessioni di coloro che, nonostante il lockdown, le sono vicini: l’ex marito William, il buon amico Bob (Burgess). E poi le contraddizioni, i conflitti, gli ostacoli interiori di ciascuno, specchio naturale di quelli esteriori…insomma, le ombre di un periodo che ha messo tutti a dura prova.

     Eppure la maggior parte di noi, come dice Lucy/Elizabeth, cerca di fare del proprio meglio, cerca soltanto il modo di arrivare in fondo, e forse anche di capire il senso del proprio passaggio su questa Terra, “triste e bellissima com’è”.

Elizabeth Strout. Lucy davanti al mare. Einaudi

22 marzo 2024

"Sinfonia di un bosco in rivolta" di Paola Massoni

 


di Daniele Luti 

       Che poi qualcuno potrebbe dire che il titolo, Sinfonia di un bosco in rivolta, è normale visto che a scrivere il testo è stata un’artista che, nella sua sofisticata complessità, è anche musicista, soprano, musicologa. Sì, questo è certo, ma c’è anche un altro motivo: la scelta denominativa allude a un ritmo della vita, proprio di chi la prende sul serio, la vita, e vuole onorarne la luce e la bellezza, un ritmo che poi è anche quello della Storia che io non vedo marciare marziale, con robotica militare, col passo dell’oca come una marionetta mossa da mani artritiche. La Storia, per me, incede, avanza, e ristà, ma sempre con flusso morbido, elegante anche in mezzo alle macerie e alle fughe perché rivoluzioni e scontri non sono “pranzi di gala”, come qualcuno ha detto. Insomma, questo libro ha una geometria dinamica, dipinge, scenografa; è un ballo che ha tutti i caratteri della danza che vuole occupare la centralità dello spazio.

       È evidente che se si parte da qui, da un arabesco, da un volteggio disegnato nella architettura poliedrica di una sfida esistenziale, si vede subito che il romanzo di Paola Massoni è anche un omaggio alla libertà mai celebrata ma sempre vissuta con spontaneità. 

     Ho detto romanzo, ma mi sono tenuto sul generico. In effetti, è un romanzo allegorico, che ha preso in prestito i caratteri di una fiaba/favola, alla maniera di Orwell.

     E a rendere più intrigante la struttura c’è il bosco nell’accezione simbolica con caratteri che rimandano alla foresta della tradizione letteraria medievale. Un luogo, dunque, dove l’esistere ha ancora quei caratteri primitivi che rimandano agli albori della vita quando in ogni cosa animata e inanimata si avvertiva ancora la perfezione creativa, l’orma di Dio. Il bosco, dove tutto si svolge, che è il teatro delle azioni, dei sentimenti, dell’equilibrio, è una dimensione edenica che si vive una minaccia, un progetto eversivo e violento da parte di un nemico che agisce dall’esterno e che si presenta con l’arroganza di chi si sente il dio imperturbabile e indifferente, padrone e signore di tutte le forme del creato. Gli esseri, che lì vivono in sintonia, sentono come un alto dovere stare dalla parte dell’esistenza e respingere, sconfiggere la brutale volontà di chi vuole distruggere le regole su cui si basa e si fonda la dimensione della natura. Il nemico agisce, ottuso come sempre, in nome della boria dello sviluppo e della modernità che, come sappiamo, sono il contrario del progresso, convinto com’è che del concetto di tempo siano rimasti solo gli attimi velocissimi di quel divenire che gli esseri   più accorti chiamano presente perché questi, essendo accorti, hanno anche il senso del passato e del futuro. Gli uomini dell’eterno presente, invece, sacrificano piante secolari, attentano al ciclo della vita, devastano, liberano la terra dalle radici degli alberi perché il profitto è l’unico valore che conoscono, pensando che, oltre loro, il mondo non avrebbe significato. 

      Ed è contro questo totalitarismo “materialistico”, contro questa bestemmia contro il Creato che il popolo del bosco lancerà la sua sfida e vincerà in nome della meravigliosa irregolarità, diversità, poliedricità della Vita. L’ idea morale che sta dietro il testo e il suo lieto fine è, in fin dei conti, questa: Nulla Aesthetica sine Ethica, che poi è anche la convinzione di un grande artista che ho avuto la fortuna di avere come amico: Carlo Bimbi.

 
Paola Massoni, 

Sinfonia di un bosco in rivolta, 

Transeuropa, 

Massa 2024

 

 

20 marzo 2024

"La volontà di cambiare" di Bell Hooks

 


di Giancarlo Beriola

       Penso si possa dire che il potere esercitato nel tempo dal maschio sia stato ed è la cosa più perniciosa per il mondo intero. Questo potere che definiamo patriarcato ha ottenuto la conquista dei corpi e delle menti e indotto il genere umano a ritenere che non possa esistere un’altra strada, un altro modo per convivere (si tenga presente che forme diverse di convivenza - sparse nel mondo a macchia di leopardo - sono esistite ed esistono tuttora).  Il patriarcato - per mezzo delle religioni, del potere politico, dell’arte e, negli ultimi due secoli, del capitalismo - massifica il pensiero sia di maschi che di femmine, impregnando la nostra cultura. In quanto sottomesse, le donne hanno dovuto difendersi dal sopruso maschile con lotte - individuali e di gruppo - che nel secolo scorso hanno dato risultati confortanti.

      Tuttavia esiste un “difetto” di lettura della realtà sociale da parte delle femministe: perché il femminismo combatte il maschio anziché aiutarlo per sconfiggere insieme il patriarcato? Questo è quanto si chiede Bell Hooks nel suo saggio La volontà di cambiare - Mascolinità e amore”.

      Gli uomini non sono abituati a esprimere i loro sentimenti: “L’infelicità degli uomini nei loro rapporti, il dolore che provano per il fallimento dell’amore, nella nostra società passa spesso inosservato proprio perché in realtà alla cultura patriarcale non importa se gli uomini sono infelici. [...] I costumi patriarcali impongono una sorta di stoicismo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano.”  Tuttavia c’è una emozione ”che il patriarcato  apprezza quando è espressa dagli uomini: la rabbia. I veri uomini si arrabbiano. E la loro collera, anche se è aggressiva e violenta, è considerata naturale, un’espressione positiva della mascolinità patriarcale. Per chiunque cerchi di nascondere il dolore o l’angoscia, la rabbia è il rifugio migliore.”  Con queste premesse l’idea che da sole le donne possano scofiggere il patriarcato è illusoria perché fino a quando l’uomo non capirà che il patriarcato lo opprime e quindi inizi a combatterlo, sia gli uomini che le donne ne resteranno succubi e il patriarcato continuerà a seminare le sue “trappole” di libertà. 

   “Nel nostro Paese, il patriarcato è il disagio sociale più pericoloso per il corpo e lo spirito maschile”, eppure, dice la Hooks, la maggior parte degli uomini non usa la parola patriarcato; quando ne sentono parlare ritengono che abbia a che fare con il femminismo e quindi non ha niente a che vedere con loro ignorando un aspetto importante del sistema politico che plasma e condiziona l’identità di sè degli uomini dalla nascita alla morte.”Uso spesso l’espressione patriarcato capitalista suprematista bianco imperialista per descrivere l’interconnessione tra i sistemi che sono alla base della politica in America. Di questi sistemi, quello sul quale tutti impariamo di più crescendo è il patriarcato perché i ruoli di genere patriarcali ci vengono assegnati da bambini e ci viene continuamente ribadito come possiamo svolgere al meglio questi ruoli.” E’ palese che la trasmissione di questo sistema ha come base la famiglia (anche la più “aperta”) rafforzato poi dalla scuola, dalle istituzioni religiose, dai mass media, come pure”in famiglie con capofamiglia donne [che] sostengono e promuovono il pensiero patriarcale, contrariamente a quanto si possa ritenere, data l’assenza del maschio”.           

   Il libro della Hooks  si compone di undici capitoli (Capire il patriarcato, Fermare la violenza maschile, La virilità femminista, ecc.) che rappresentano le angolazioni da cui analizzare il patriarcato nelle sue diverse sfaccettature. In ogni capitolo l’autrice ribadisce che tutti hanno bisogno di amare ed essere amati: “Un tempo le donne credevano che gli uomini le avrebbero rispettate di più  se avessero dimostrato di essere loro pari [ma] gli uomini negano alle donne il loro rispetto. [...]  L’amore che le donne cercano nelle relazioni con gli uomini è basato sulla reciprocità. La reciprocità è diversa dall’uguaglianza.” Anche in un mondo in cui la disuguaglianza di genere è accettata il dominio del maschio inficia l’amore:“L’amore non può coesistere con il dominio. L’amore può esistere anche in circostanze in cui l’uguaglianza non è la norma. La disuguaglianza, di per sé, non genera il dominio.” 

    L’uguaglianza raggiunta dal movimento femminista nel campo del lavoro, per esempio, viene ancora attuata più a parole che nei fatti e la Hooks non perde l’occasione di evidenziare che ”le conquiste femministe nel nostro Paese hanno avuto un impatto positivo sulle donne delle classi privilegiate” la maggior parte delle quali avevano il solo interesse di ottenere lo stesso potere dei padri o dei mariti.“Ora che hanno ottenuto il potere, e soprattutto la parità economica con gli uomini della loro classe sociale, molte di loro hanno praticamente perso interesse per il movimento.”

    “Per porre fine al patriarcato dobbiamo mettere in discussione sia le sue manifestazioni psicologiche sia quelle concrete” di cui tutti siamo vittime, ma principalmente le donne non devono abbandonare gli uomini nella riconquista della loro integrità (sincerità ed espressività emotiva) che è il fondamento del benessere.“Tutti dobbiamo cambiare.”  

    Questo libro, benché sia stato scritto diversi anni fa, è (purtroppo) attuale e la sua lettura non può che aiutare tutti i “generi” contemporanei nel loro percorso di libertà perché il patriarcato è abile nell’inganno.                                                                  

La volontà di cambiare - Mascolinità e amore di Bell Hooks - ed. Il Saggiatore, pagg. 199, euro 19,00 

   Bel Hooks (Hopkinsville, 1952 - Berea, 2021), pseudonimo di Gloria Jean Watkins, docente universitaria e scrittrice è stata pioniera e icona del pensiero femminista. Il focus della sua scrittura è stato l’intersezionalità di razza, capitalismo, genere e la loro capacità di produrre sistemi di oppressione e di dominio di classe. Ha pubblicato 30 libri e numerosi articoli accademici; attraverso una prospettiva postmoderna ha affrontato problemi di classe e genere nell’istruzione, nell’arte, nella sessualità, nel femminismo.


19 marzo 2024

"Sconfinamenti” di Tano Siracusa

 




di Gianni Quilici

       “Sconfinamenti” di Tano Siracusa: un centinaio di pagine appena, ma  forse una delle più profonde e soprattutto articolate riflessioni su ciò che significa “fare fotografia”. Perché dentro queste pagine sono affrontati i problemi e i processi psichici, pratici e intellettuali, che si snodano prima, durante e dopo lo “scatto”. Che sono tanti: la scelta e la motivazione di un reportage,  il viaggio e la sua narrazione, la ricerca dello scatto, l’attesa o la casualità, l’istante scelto, rubato,  fortunato, o viceversa mancato, la riflessione sulla foto e quindi sulla realtà stessa dell’immagine, il lavoro in camera oscura e le sue sorprese, le differenze tra la macchina fotografica analogica e quella digitale, l’interrogativo di fotografare o non fotografare in situazioni specifiche e così via.  

      L’originalità e la forza del libro nascono comunque dalla qualità in cui si fondono il fotografo, il critico e il narratore. Perché non è, neppure da lontano, un manuale fotografico, ma 23 racconti di viaggi in Paesi che vanno dall’India al Marocco, dal Cile al Perù, dal Madagascar alla Tanzania, dal Nepal alla Guinea, dalla Turchia a Agrigento, l’unico luogo italiano, dove, tra l’altro, il fotografo vive. 

Il fotografo e il critico

        Della qualità del fotografo ho già scritto interpretando la foto di copertina di questo libro ( vedere qui sopra, Libere recensioni, giugno 2023) e ne scriverò, penso, in uno dei suoi libri –credo- più impegnativi “con i suoi occhi”. Vorrei qui soltanto fare due osservazioni su due foto abbastanza diverse.



       La prima è questo scatto, “rubato”, di cui è facile cogliere immediatamente il valore. Siamo in una cittadina della Guinea, anno 1997, dove non è neppure consigliabile girare con una macchina fotografica a tracolla, quando, scrive Tano Siracusa “all’improvviso da destra e da sinistra, convergendo verso il binario, erano apparsi un bambino e un cane. Correvano entrambi, il bambino inseguendo dietro un copertone,  che sembrava dotato di una sua propria vitalità e intenzione” e per un attimo (quello dello scatto) si era felicemente formato un triangolo,  che  inserendo sullo sfondo l’uomo che stava entrando nel capannone, si trasformava in una forma romboidale. Da questa lettura Tano Siracusa esplicita una conseguenza, che potrebbe far parte di un’ipotetica “teoria fotografica”, certamente più pertinente del famoso “punctum” di Roland Barthes, molto suggestivo poeticamente, quanto oggettivamente troppo personalistico. Scrive infatti:” . . .  uno scatto ha senso se mostra ciò che raramente si vede, se presenta un coefficiente alto di improbabilità”. In questa immagine questo alto tasso di improbabilità è ” la complessità dell’ordine che si può formare spontaneamente in un frammento di spazio-tempo”. Non sarà questa un’osservazione inedita, ma vera, perché una qualità di un fotografo (vero) è sapere scegliere la foto “buona”, da una “non buona” o anche solo apparentemente buona.



      Questa immagine scattata nel Benin, anno 2000, ad uno sguardo superficiale o distratto potrebbe, invece, sembrare banale. Non lo è. E Tano Siracusa la interpreta motivando il valore espressivo e sociologico della suora chinata e sfuggente e dei due personaggi “appena profilati ai lati che sembrano aprire e incorniciare lo spazio” offrendo a lei, la suora, il centro. Da qui un’osservazione, osservo, che può sembrare scontata: una foto ha bisogno di essere osservata, incamerata, perché ci sono dettagli che non si comprendono facilmente.   

Il narratore

       L’aspetto, a mio parere,  però, più originale del libro per un fotografo è la sua qualità narrativa. Enucleo in modo scolastico, perché non c’è una divisione netta, tre profili narrativi della prosa di Tano Siracusa.

Una narrativa visiva.

“A Benares quell’estate del 1989 c’era il coprifuoco. All’imbrunire sulle rive del Gange all’affacendarsi degli umani, degli asini e delle vacche, si aggiungeva quello dei cani rinvigoriti dalla prima brezza al tramonto. Ma appena fuori dalla zona franca, dove l’acqua e la terra, la vita e la morte non cessavano mai di mescolarsi, la città era deserta, agli incroci si vedevano solo pattuglie di militari e persone affacciate ai balconi. Ogni tanto dall’oscurità appariva qualche spericolato risciò a pedali che si arrischiava a scivolare nelle vie più buie, per spavalderia e molto per la mancia di chi veniva portato a destinazione”.

       In poche parole due immagini vigorose non solo descrittive, ma incorniciate dentro una dimensione realistica (tra l’acqua e la terra) e una metafisica ( tra la vita e la morte).

Una narrativa sociologica.

L’uomo della foto circondato da bambini somigliava un po’ al Gatto collodiano e come lui non si faceva scrupoli di abbindolare i bambini. Sfacciato e sornione, si esibiva volentieri nei suoi trucchi anche davanti al fotografo occidentale che non doveva neppure chiedergli il permesso di riprenderlo.

Il Gatto apparteneva ad una vasta corte dei miracoli, personaggi vestiti spesso in modo stravagante, imbonitori, truffatori per vocazione e naturale talento mescolati ai cantastorie e ai musici che si esibivano davanti a un pubblico di adulti e  incantatori di serpenti che popolavano quel mondo di meraviglie e di avventure pericolose.

C’era questa comune sensazione d’irrealtà che tornava a sovrapporre l’incerta memoria del passato a un presente ambiguo, sfuggente, che accostava l’urto dei tre mendicanti ciechi, cantilenanti la loro preghiera nel casbah  di Casablanca, ai miraggi di un paesaggio che sconfinava, sbalzava le prospettive, alterava le distanze come nelle allucinazioni.

        Tutto il viaggio nel Marocco, a Safi, a Essaouira è ricco di osservazioni acute. Qui il ritratto del “gatto collodiano” è  penetrante nella doppiezza della sua natura di imbroglione e questo si allarga a una vasta tipologia di personaggi che stupiscono, che meravigliano. Un mondo ancora premoderno in cui anche la percezione visiva del paesaggio si sdoppia, vicina o lontanissima, sospesa tra realtà e irrealtà,  e la percezione del  tempo, a volte, si rallenta, rimane sospesa, immobile; qualche volta, si dilata in una sorta di estatica eternità. Erano quei viaggi fatti negli anni tra il 1983 e il 1988.  

E infine una narrazione decisamente introspettiva

Uscendo a precipizio da casa aveva avuto un lucido retropensiero e aveva preso la borsa fotografica, forse per una memoria innervata nel corpo, al di qua del panico e del gorgo che lo inghiottiva. La memoria di un silenzio che crea lo stacco, l’arresto del tempo che rotola verso la catastrofe, e vi sostituisce una visione: nulla a che fare con le estasi mistiche o di fumatori di oppio, ma solo la visione di una forma in equilibrio che rompe il rovinoso  precipitare del tempo”.

       L’autore scrive in terza persona. Quel giorno ad Agrigento nel 1984, infatti, era scisso, perché “soggetto a rare ma travolgenti crisi di panico”.  Per questo aveva un piano di azioni in mente con lo scopo di raggiungere il primo bar aperto per chiedere subito aiuto, oppure ordinare un caffè o anche una Ceres ecc, ecc. Nel breve estratto postato qui sopra c’ è una sottilissima introspezione. L’autore supera, in un primo momento, il panico, il gorgo che lo inghiottisce, perché prende la macchina fotografica. Questo atto quotidiano nasce da un  pensiero retroattivo, una sorta di memoria innervata automaticamente nel corpo, non una scelta consapevole,  diventa una visione che si contrappone al panico e forma una sorta di equilibrio momentaneo. Tutto questo avviene naturalmente in un attimo. Il panico cesserà poco dopo sulla strada, quando il suo sguardo sarà attratto da un gruppo di ciclisti nel controluce del sole “con le loro ombre sull’asfalto come su un fiume di luce”. A quel punto, guardando  dentro il mirino, si accorge con stupore che “era cessato il frastuono, la fuga insensata, il tonfo del sangue alle tempie”.

           “Sconfinamenti” diventa allora un bellissimo titolo nella sua nettezza, perché tutti questi viaggi nell’immagine e nella parola diventano la ricerca dell’altro e dell’altrove, il desiderio di uscire dai confini, di entrare in territori mai visti vivendoli, oltrepassandosi, rappresentandoli. 

Tano Siracusa. Sconfinamenti. Prefazione di Alfonso Maurizio Iacono. Antìpodes, Palermo 2023. £ 12,00         

     

 

 

 

10 marzo 2024

"Amare Volterra senza retorica" di Daniele Luti

 

Monte Voltraio

      
... C'è un'altra cosa che ho imparato da Carlo: ad amare Volterra senza retorica, senza ridicole dichiarazioni di orgoglio (nascere in un luogo non è mai merito nostro, ma di chi ci ha concepito). Amarla avendola capita, letta come un libro raro, e quindi considerata, valutata, rispettata. Amarla sentendosi dentro i suoi modi di essere, la sua storia, abitandone la "lingua", i modi di dire, l'aneddotica, cogliendone le peculiarità. 

      Una Volterra quindi diversa a seconda della sensibilità, cultura, amore. Una Volterra per ogni volterrano. La mia è il colle di San Martino, il Poggio alla Rocca (monte Voltraio), i borghi della periferia, la campagna primaverile, dai verdi pastello, smaltati, lucidi e quella estiva assolata, bruciata, fattasi mobilissima quando le lucciole, imitando la volta del cielo notturna, bucano il buio con i loro respiri di luce. 

      In ogni fase della mia vita, da quando ho dovuto (per le occasioni che mi hanno scelto) vivere altrove, mi hanno sempre visitato i ricordi e con essi i volti degli amici, dei miei cari così come li ho visti in quella che considero la mia età più bella, quella della fanciullezza, delle scuole elementari, del mio slalomare tra le strade di borgo Sant'Alessandro, oltre le peschiere del Pino, verso i cappuccini o dello zigzagare attraverso i poderi che, passando dalle "corte", si trovavano sulla strada, disegnata in funzione del terreno, che va verso la Bacchettona. 


       Ci sono delle mattine invernali qui, a Lucca, nel quartiere dove abito, in cui si crea un silenzio antico, ovattato che mi porta lontano nel tempo, lontano da qui. A Volterra, a casa mia quando i rumori nitidi, l'abbaiare lontano di un cane, l'aria vibridata mi dicevano che nottetempo era caduta la neve. Dalla finestra della mia camera, attraverso le "lamelle"delle persiane, vedevo le forme delle piante dell'orto, i cardoni, i cespugli, il roveto delle more, arrotondati, nubigeni per la benedizione della nevicata. Mi sarebbe piaciuto uscire subito. Dovevo aspettare, però, per vivere l'allegria elettrizzata dei compagni di scuola, le pallate lungo la rampa della croce e sul piazzale antistante la nostra scuola, a due passi dalla Chiesa nel cuore del borgo.

05 marzo 2024

"Maigret si difende" di Georges Simenon. Adelphi

 



di Marigabri

“Maigret prese tempo. Non si era mai sentito così umiliato in vita sua e le dita stringevano talmente la pipa spenta che erano diventate bianche.”

       Eh già, perché adesso l’accusato è proprio lui, Maigret, e l’interrogatorio che è costretto a subire a opera di un giovane arrogante pivello, che però si ammanta del titolo di questore, lo offende fino a desiderare di accogliere il non troppo velato invito del suo superiore a dare le dimissioni e ricorrere alla pensione anticipata.

       Nessuno dei suoi fedeli collaboratori, né la dolce signora Maigret, e tantomeno gli affezionati lettori possono prestar fede all’accusa paradossale che una giovane di buona famiglia non ha esitato a pronunciare contro il celebre commissario.

       Ma quale macchinazione stia dietro a questo assurdo imbroglio sarà suo compito svelare. Vincendo l’amarezza, lo sconforto e pure la rabbia che la sua reputazione sia compromessa e la sua onorevole carriera messa a repentaglio dalla chiacchiera balorda di una giovincella oziosa.

       Maigret comincia dunque la sua ricerca aspettando che la rete lanciata apparentemente a caso verso acque infide riesca a intrappolare il grosso pesce che ha ordito l’inganno.

       Le inconfondibili atmosfere parigine ci accompagnano, deliziandoci, lungo tutto il percorso.

Georges Simenon. Maigret si difende. Adelphi.

04 marzo 2024

"L’invincibile estate di Liliana" di Cristina Rivera Garza

 

di Giulietta Isola

Donne cresciute in una città e in un paese che le molesta a ogni passo e non le lascia in pace. Donne sempre sul punto di morire. Donne che muoiono e. tuttavia, sono vive.”

     Il 16 luglio 1990 la ventenne studentessa di architettura Liliana Rivera Garza viene uccisa nel suo appartamento in un quartiere popolare della periferia nord di Città del Messico. Gli investigatori si orientarono subito verso la figura di un ex-fidanzato che risultò latitante. Da allora, nonostante una strenua caccia all’uomo ed un ordine di cattura, il presunto assassino non è stato mai trovato ed il crimine è rimasto irrisolto fino ad oggi; uno dei molti cold case che macchiano il sistema giudiziario messicano. 

        Ho fatto qualche ricerca: la violenza contro le donne è uno dei grandi flagelli dell’America Latina. In Messico tra il 1990 e il 2022 sono state uccise più di sessantaseimila donne, molte da compagni o ex-compagni. Dal 2007 in poi le cifre si sono alzate in maniera terrificante fino ad arrivare all’infame media di dieci donne assassinate ogni giorno. Una situazione tanto tragica portò all’introduzione, nel 2012, della categoria femminicidio nel Codice Penale Federale. Secondo l’articolo 325 “commette femminicidio chi priva della vita una donna per questioni di genere.” Solo quindici Paesi al mondo hanno adottato questa figura legale e trattandosi di un fenomeno recente è difficile sapere se avrà il risultato desiderato. 

       Nel frattempo, i movimenti femministi latinoamericani continuano a crescere e a diffondersi annaffiati dal sangue di donne assassinate. La letteratura si fa eco di questa strage. Cristina Rivera Garza ci ha messo trenta anni per raccontare la storia tragica della sua sorella minore, è tornata a Città del Messico per mettere assieme i pezzi del rompicapo della vita e della morte di Liliana. 

       Il suo è un libro tremendo nel quale spesso usa il modo vocativo per stabilire un colloquio intimo con la sorella morta. E’ una conversazione che testimonia una vita, una preghiera laica che vuol esorcizzare un insistente e devastante silenzio, è l’elaborazione di un lutto ed è, per Cristina, la ricerca del fascicolo della causa di sua sorella ed a tal proposito dice “questo libro è basato sui quaderni, le annotazioni, gli appunti ,i ritagli, le piantine, le lettere, le cassette e le agende trovate fra le sue cose , che nessuno aveva toccato nei trent’anni successivi alla sua morte. “ 

       Il risultato è un testo polifonico, originale e commovente nel quale parlano le amiche e gli amici di Liliana, il padre, ma soprattutto parla la stessa Liliana, una ragazza espansiva, temeraria, affettuosa e carismatica, solare e anche opaca, appassionata dei suoi studi, dei film stranieri e delle sigarette Raleigh , una ragazza che fu soffocata “alla fine di un percorso lungo e sotterraneo di violenza.

      ” L’invincibile estate di Liliana mostra tutte le ferite aperte non solo tramite la storia ma anche attraverso la forma , come il recupero della calligrafia di Liliana, copie di messaggi e bigliettini che contribuiscono a rendere il racconto leggermente trasandato senza perdere né forza né autenticità. Cristina con la sua scrittura vigorosa e frammentaria invita a riflettere sul sistema arcaico e patriarcale che rimane indifferente alla necessità di proteggere e dare garanzie alle donne. Dobbiamo avere cura delle sue parole vere, sincere, delicate e preziose che ci dicono che non è più tempo di tacere. Siamo travolti da una cascata di parole, e anche questo è il senso del libro: non bisogna tacere, anche in nome delle troppe vittime di femminicidio.

Di fronte all’inimmaginabile non abbiamo saputo cosa fare. Di fronte all’inconcepibile, non abbiamo saputo cosa fare. E siamo rimasti muti. E ti abbiamo avvolta nel nostro silenzio, rassegnati di fronte all’impunità, di fronte alla corruzione, di fronte alla mancanza di giustizia”.

L’INVINCIBILE ESTATE DI LILIANA di CRISTINA RIVERA GARZA SUR EDITORE

25 febbraio 2024

" Se amore guarda" di Tomaso Montanari

 

di Giulietta Isola

Se amore guarda gli occhi vedono

       Ci sono ragioni profonde per interessarsi al patrimonio culturale ed alla storia dell’arte, forse le abbiamo smarrite, eppure la frequentazione di “tali soggetti” apre il nostro cuore ed i nostri occhi a una dimensione «altra», ci offre la possibilità di allontanarci, almeno per un po’, dal flusso incessante dell’attualità e ci mette in contatto con ciò che è avvincente, ciò che dà un senso alla vita.        ”Per vedere – per sentire – tutto questo, è però necessario riattivare la sua connessione con la parte più intima della nostra anima individuale e collettiva; occorre una vera e propria educazione sentimentale”. 

       Tomaso Montanari nelle pagine di questo saggio lucido e appassionato parla del patrimonio culturale che considera la nostra religione civile, è “l’unico possibile luogo materiale di una comunione tra i vivi e i morti” , è la nostra scuola di liberazione e non riguarda soltanto il paesaggio o le opere d’arte, ma riguarda soprattutto noi e quell’amore che tutto congiunge. 

       Va ricordato che la nostra Costituzione definisce la nostra nazione per via non di sangue, etnia, fede o lingua, ma solo per via di cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico e artistico: cioè per via di inclusione, evoluzione continua, contraddizione, pluralità. Le nostre vestigia rappresentano una storia che è incontro, meticciato, convivenza. 

      Frequentare in modo casuale o forzato, il patrimonio potrebbe essere l’occasione per una formazione umanistica di massa, un’educazione a salvarsi dai nazionalismi. Dobbiamo infatti considerare che” le discipline umanistiche non hanno il compito di arrestare quello che altrimenti fuggirebbe, ma di richiamare in vita ciò che altrimenti resterebbe morto quindi si potrebbe dire che l’educazione al patrimonio culturale è una educazione a diventare e a rimanere umani, il contatto con esso, in tutte le sue forme , può essere una via di salvezza.” 

       Se posiamo lo sguardo su una chiesa antica, camminiamo su un selciato può capitare di porsi domande alla ricerca di risposte ed interpretazioni, ci viene facile, con una certa lentezza , attribuire significato alle cose e ai luoghi fino a sentirci parte di essi, in questo caso il discorso sul patrimonio culturale ci sarà utile per recuperare le ragioni di una convivenza universale, fondata sulla giustizia e sulla condivisione. Tomaso Montanari è uno storico dell'arte e saggista italiano, rettore dell'Università per stranieri di Siena.

Quando davvero entriamo in comunione , in risonanza, in osmosi con le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono, sentiamo che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate. Qualcosa che ci cura. Qualcosa che ci fa sentire che no, non è ancora finita”

SE AMORE GUARDA di TOMASO MONTANARI EINAUDI EDITORE

 

22 febbraio 2024

"L'alveare" di Emilia Giorgetti

 


di Elisa Bertoni

Il romanzo “L'alveare” di Emilia Giorgetti ha il grande merito di essere un libro coraggioso, non nel senso comune che attribuiamo al termine, spesso riferito a chi ha compiuto gesta eroiche di fronte a rischi minacciosi. 

    Il pericolo che sfida questo libro è quello di mettere al centro la gentilezza ed i buoni sentimenti, oggi spesso maltrattati quasi fossero puerili sfoghi di anime semplici, incapaci di rapportarsi, anche machiavellicamente, con la crudezza della realtà che appare edulcorata dalle lenti di un colpevole ed ingenuo buonismo. 

      Emilia Giorgetti non teme di parlare attraverso la voce narrante di una bambina che vive la sua infanzia nel secondo dopoguerra: Marta, o affettuosamente Martina, si affaccia a piccoli passi alla vita, scoprendo attraverso l'esperienza il manzoniano guazzabuglio presente nel cuore degli uomini, siano essi bambini siano essi adulti.

       Lo schema stesso del libro rifugge da forzose architetture razionalistiche e per questo scontate, lasciandosi guidare dal tempo interno di matrice bergsoniana che ogni stagione offre a Martina. Alla tradizionale quadripartizione “Inverno, Primavera, Estate, Autunno” si aggiungono altre due sezioni, “Ancora estate” e “Verso l'autunno”, quasi fossero due nuove stagioni che si affiancano alle altre sulla base della percezione del tempo di una bambina che riconosce proprio nei mesi di massima luce e di assenza di impegni routinari cadenzati -primi tra tutti la scuola- la dilatazione e l'esplosione degli spazi di libertà, vissuti per lo più all'aria aperta in una dinamica relazionale ricca e variegata, fatta di scoperte, delusioni, di avventure, di creatività, di contatto con la natura nei suoi imperscrutabili cieli, negli animali, nelle piante. 

      Il mondo descritto, rapportato a quello attuale caratterizzato dall'individualismo crescente delle giovani generazioni, appare come uno spaccato di società perduta; il romanzo diventa pertanto una testimonianza urgente di come sia necessario recuperare relazioni autentiche, non più prevalentemente assorbite e mediate da apparecchi tecnologici e chiuse entro pareti illuminate a led, che diventano oggi subdole prigioni di bambini.

      Non è un caso che il titolo sia “L'alveare”: un'operosità di piccoli insetti in continuo movimento che lavorano insieme per la fecondità del gruppo attorno ad un'ape regina. L'alveare diventa simbolo efficace di una vita che non rifugge da fatiche e che trova il miele -quasi una trasposizione figurata del senso della vita- proprio nell'operosità, nello scambio e nella solidarietà umana. La grande casa delle zie, con le tante cellette delle stanze in cui si possono ospitare tante famiglie e condividere spazi e letti, è metafora di accoglienza, di apertura, di collaborazione.

      In questo romanzo, il punto di contatto tra mondo degli adulti e quello dei bambini si coglie proprio nell'approdo al simbolico, immaginario ponte tra l'ardita fantasia dei fanciulli e la ricerca di un significato che dia ragione all'esperienza secondo un procedimento di razionalizzazione tipico degli adulti. 

      Esempio significativo può essere il regalo che viene donato alla compagnia dei bambini dalla signora Ester: la Menorah, la lampada ebraica a sette bracci. Lungi dal costituire un mero oggetto di valore religioso, la protagonista cerca di trovarne il messaggio che renda quel dono significativo: esso rappresenta per Marta, così come l'alveare per l'autrice, l'importanza della collaborazione; i sei bambini insieme alla signora Ester formano una unità capace di illuminare la vita attraverso i pensieri e le azioni solidali di tutti. Marta inizia dunque a dare il suo significato a ciò con cui entra in contatto, scrutando anche le pieghe oscure che la spaventano ma che sono allo stesso tempo anch'esse un mezzo privilegiato per crescere e prendere consapevolezza. 

      Il difficile passaggio da un'infanzia percorsa da ombre alla percezione che il mondo degli adulti non è poi così inaccessibile ed impenetrabile è infine rappresentato dall'acquisizione di coraggio da parte della protagonista che per mano alla sorellina Innocenza può affermare nell'Epilogo: “Neppure io ho più paura della scala buia”. Ciò che vince il buio è il coraggio del pensiero che, come quello dell'autrice, non si nutre di freddo intellettualismo, ma che può vivere di emozioni ed è capace anche di una “riflessione interrotta” in nome di una socialità piena e vitale.

Emilia Giorgetti. L'alveare. Giovane Holden Edizioni. 

19 febbraio 2024

"romanzo senti/mentale" di Bianca Bellova

 

di Marigabri

       Al contrario di quel che annuncia il titolo, questo non è affatto un romanzo sentimentale nel senso classico e comune del termine. Tutt’altro. È un racconto tragico, di passioni profonde, di relazioni torbide, di sensi accesi e di latente follia; è l’incontro impossibile e sempre deviante fra personaggi con l’anima ferita e silenzi gravi che pesano nel cuore come pietre in fondo a un lago.

      E'un racconto dove, fin dal primo capitolo, entra in scena la morte che, fino all’ultimo, ci sentiremo alitare addosso col suo ansimo inverecondo.

C’è una doppia narrazione: Eda e Nina cominciano a tracciare il loro cerchio di memorie raccontando di sé, definendo le situazioni del presente che poi inevitabilmente vanno a pescare negli eventi passati. Ed è così che questi cerchi apparentemente separati e distanti a poco a poco si avvicinano ruotando fino a incontrarsi e convergere in un punto, in un nome: Eliška.

        Eliška, con la sua vulnerabilità e la sua forza, con la sua stranezza e il suo talento, con i suoi diari segreti e i suoi disegni geniali. Eliška con “le sue dita impeccabili laccate di uno smalto perlato rosa chiaro, dieci figlioletti vestiti per la cresima”.

       Gli eventi, le relazioni reciproche, i traumi inevitabili sono tutti da scoprire.

      Un romanzo sorprendente per lo stile schietto, la costruzione impeccabile, per il dominio della forma che svolge con lucidità un contenuto drammatico disvelando progressivamente una realtà feroce e labile e innalzando intorno al gigantesco e umbratile personaggio di Eliška un edificio fatto di ambiguità e reticenze. Fino a toccare la verità di ciascuno, quella che snuda il dolore e la colpa.

…non abbiamo fatto altro che ratificare la nostra colpa, questo pensa lui, non finirà mai, gli anni futuri li trascorreranno entrambi soli come in una cella della morte, una morte la cui distanza tende al limite dell’infinito, dannazione, tradimento, espiazione, colpa, retaggi, inappetenza, insonnia e baccanti selvagge sulla soglia.”

Il primo romanzo di Bianca Bellova è già una prova matura: una scrittura densa, un ritmo incalzante che non lascia altra scelta se non galoppare trepidanti verso la fine.

Bianca Bellova. Romanzo senti/mentale.Feltrinelli