20 dicembre 2021

“Carissimo Leonardo . . .” a cura del Circolo del cinema di Lucca

 


        La foto di copertina è bellissima. L’ha scattata la figlia Alice: Leonardo nella notte, a piedi con la mano sulla bici tra luce e ombre. Quindi: uno scatto che non definisce, magmatico. Leonardo Ghivizzani il 20 dicembre 2019  viene travolto da un camioncino, in una serata buia, piovosa, mentre a piedi tornava a casa, dopo il lavoro. La mattina dopo ci lascerà.


 

       Il libro, realizzato dai compagni del Circolo del cinema di Lucca e dei familiari, con la accurata grafica di Maurizio Della Nave, si compone di due parti: Pagine di diario dove viene percorsa la vita di Leonardo attraverso le sue foto: bambino e adolescente con amici, il matrimonio e le figlie fino all’attività con il Circolo del Cinema. Foto vive  ed espressive, che colgono attimi  significativi della sua vita.

      


       

       Nella seconda parte  sono raccolte le testimonianze “Ciò che Leonardo è stato per noi”. Più di un discorso generico ci  sembra più proficuo scegliere pensieri salienti di alcune di queste testimonianze.                                         

                                      

       Se c’è una competenza riconoscibile e fortemente spiccata in lui era quella della creatività, seppure svolgesse un lavoro molto tecnico. La sua abilità a studiare e a vedere da ogni angolatura il problema era ciò che gli permetteva di risolvere ogni cosa a volte con proposte impossibili da pensare. ( Simone Bigongiari)

      “Era, anzitutto, il “bambino dei perché”. Passavamo ore a discutere sul significato delle cose non era mai soddisfatto della mia risposta che, spesso, si rivelava superficiale; quindi, tutto ricominciava da capo, finché non riuscivamo a trovare una risposta condivisa che, per qualche tempo, soddisfaceva entrambi. ( Luca Bilancioni)

       Mi veniva in mente quando mi raggiungevi dopo aver raccolto tutti i biglietti dei voti del pubblico all’uscita del cinema, scendevi acrobaticamente della bicicletta e facevamo un pezzo di strada  a piedi insieme raccontandoci le impressioni del film appena visto. Ci scoprivamo così affini nei gusti e negli occhi, attenti ad ogni particolare. Quante discussioni abbiamo fatto, di quanti film abbiamo parlato, quanti km abbiamo fatto insieme. (Stefano Barsocchi)

          E poi il fine film, fuori con la bici per tornare a casa, con serate spesso tremende piene di pioggia, di cui non si curava, sempre senza ombrello, in due in bici con Alice sulla canna, pronto a bagnarsi sempre e a rifiutare decisamente,ogni qualvolta gli venisse offerto un ombrello per  pararsi. (Luigi Massagli)

        Sono ancora vivi nella mia mente i nostri incontri all’ingresso del cinema Centrale e a san Micheletto prima delle proiezioni: mi accoglievi con un abbraccio. Questo abbraccio non era una formula rituale, né tanto meno dettato da banale sentimentalismo, no: era espressione di un riconoscersi fra persone che si interessano l’una all’altra e che desiderano scoprire qualche nuovo pezzetto delle loro vite. (Maddalena Ferrari)

       Leonardo era giovane. La sua giovinezza era fisica e psichica. Fisica nel corpo agile e snello, nell’abbigliamento sportivo, nella bici come cavallo da posare e cavalcare ora qui, ora là. La sua giovinezza era psichica negli occhi che brillavano carezzevoli o ironici, empatici o provocatori, comunque curiosi, interessati. (Gianni Quilici)

       Amava moltissimo la Sardegna. Con Lui ho scoperto, a volte avendo anche degli screzi piuttosto accesi, luoghi bellissimi, selvaggi, insoliti di questa isola. Sapeva portarti in certi luoghi e lasciarti là senza dire niente; gli piaceva vedere o capire che genere di emozioni ti suscitassero, in un certo senso, ti sfidava. ( Maria Cristina Leboffe)

        Dai Leonardo andiamo facciamo tardi, sono quasi le otto di sera, ti metti a pescare ora, gli altri ci aspettano per cena e poi non abbiamo i mezzi? Mi guardò sorrise e disse: “Non ci vuole mica la scienza per pescare, il gommone ce l’abbiamo …dai monta su, prima però togli la sabbia dai piedi se no lo sporchi”. (Simone Bilancioni)

       


       Ricordo la tua giacca a vento rossa e lo strano codino che una volta facevi con i capelli, ricordo il tuo sguardo perennemente sorpreso, ricordo i tuoi punti di vista puri e originali, ricordo il tuo sforzo di pensare in un mondo che non ha più voglia di pensare, ricordo il tuo ballo senza regola nel video per il compleanno del tuo Circolo del Cinema, ricordo quella sera e quella tua trovata estemporanea che salvò la proiezione nel tuo regno di San Micheletto (Vittorio Toschi)

       Spesso mi tornano in mente frammenti della nostra vita, non mi vengono in mente che bei ricordi, attimi, istanti, magari insignificanti, ma che danno un senso a vivere; istanti di noi e di noi con le bambine, quei momenti belli che tu mi chiedevi di ricordare ed io, per dispetto, ti rispondevo che non ce ne erano, perdonami . . . (Antonella Leboffe)

A Leonardo

I tuoi occhi vispi

che nascondono

brillanti illusioni,

schiudono la porta

a una vita

frastagliata ma pura,

dolce nel contempo

 ma anche aspra

come una fragola acerba. (Mario Rocchi)

Carissimo Leonardo . . . a cura del Circolo del cinema di Lucca e dei familiari. Pag. 64

16 dicembre 2021

"Hannah Arendt" di Luca Mori

 


 

 


di Carla Rosco

L’occasione per riflettere sul pensiero di Hannah Arendt mi è venuta da  un breve ma intenso scritto di Luca Mori (insegna Storia della filosofia a Pisa) pubblicato dal Corriere della Sera  nella collana “Grandi donne della Storia”. Mori racconta la dimensione privata e quella pubblica in modo chiaro e coinvolgente.

Per la Arendt, dopo lo shock della scoperta di Auschwitz, la cosa più urgente da capire è come sia possibile che un uomo possa comportarsi in modo così atroce verso un altro uomo.

“A partire dalla malattia del padre, Hannah dovette affrontare molti traumi, ma il vero trauma per lei fu il giorno in cui seppe di Auschwitz. Era il 1943. Nella celebre intervista a Gaus dice che lei e il marito all’inizio stentavano a crederci, perché sembrava impossibile arrivare a tanto, anche da parte dei nazisti”. Tornata in Germania nel 1949, nel 1950 pubblica un rapporto sulla situazione dopo il nazismo, nel quale sostiene che in meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale (Ritorno in Germania, Donzelli 1996).

L’urgenza più pressante per la Germania postbellica, secondo la Arendt, era quella di riabituarsi a pensare. Il conformismo e il consenso fondato sull’incapacità di giudicare possono diventare un problema molto grave, anche all’interno di forme di governo democratiche.


Quando volle andare a Gerusalemme per seguire il processo, Adolf Eichmann le apparve un uomo che “non ebbe più bisogno di pensare”, assorbito nel suo compito. Non dunque una diabolica perversità, ma una fondamentale stupidità, l’assenza di pensiero, una “spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”.

Mi vien da pensare (fatta salva una grande stima) che forse Hannah Arendt pecchi di astrazione, dovuta alla sua formazione filosofica probabilmente. La possibilità di riflettere, di porsi domande, è piuttosto - secondo me - il frutto di una condizione sociale e/o psicologica determinata. Inoltre, nonostante gli uomini preferiscano considerarsi liberi, in genere si funziona in automatico, e secondo schemi di comportamento appresi fin dall’infanzia.

A proposito di infanzia, mi sembra utile ricordare la psicologa e saggista Alice Miller (1923 Polonia, 2010 Francia) che nel suo libro “La persecuzione del bambino: le radici della violenza” (Bollati Boringhieri) passa in rassegna i testi pedagogici degli ultimi due secoli: “a fin di bene” ad un bambino può essere fatta molta violenza, reprimendo la sua autonomia emotiva e mentale. La Miller la definisce Pedagogia nera. Il bambino così represso non saprà da adulto reagire alle ingiustizie sociali e potrà accettare le imposizioni dei regimi totalitari. Nel suo libro dedica un capitolo ad Adolf Hitler, alla sua terribile infanzia con un padre che lo picchiava e maltrattava (la madre non era in grado di difenderlo), che gli aveva impedito di seguire la vocazione per la pittura, un padre padrone violento. Secondo l’autrice, ci sono approfondite ricerche secondo cui non tutti quelli che ricevono violenza la agiscono poi, ma tutti quelli che fanno violenza, l’hanno ricevuta.

Dunque quale era “la struttura morale del mondo occidentale” che il nazismo, secondo la Arendt, avrebbe distrutto? Educazione autoritaria e aggressiva, guerre molte, patriarcato dominante con violenza di genere, violenza sugli animali (Tolstoj: “finché ci saranno macelli, ci saranno le guerre”), e altre simili cose.

Allora è di conforto ricordare che l’archeologa Marija Gimbutas (1921 Lituania, 1994 Stati Uniti) ci racconta di una civiltà della Vecchia Europa, dal 7500 al 3500 a.C. circa, pacifica e paritaria (moltissimi i reperti archeologici trovati). Forse il nostro paradiso perduto.

Anche molto utile non dimenticare la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, redatta da studiosi di varie discipline e di varie Nazioni riuniti a Siviglia nel 1986: la stessa specie che ha inventato la guerra, e se ne deve assumere tutta la responsabilità, può inventare la pace, attraverso l’educazione alla pace appunto.

Luca Mori. Anna Arendt. Grandi donne della Storia. Corriere della sera.

 

 

15 dicembre 2021

"Cosa e come scrivere su Facebook?" di David Pugnana

 

       

        Tempo fa, amici di amici, mi hanno mandato a dire che su facebook non si scrive così. Che insomma certi argomenti, o un certo modo di trattarli, qui sopra non vanno bene, sarebbero come i cavoli a merenda.

      Meglio fare dei post sulla cronaca della più minuta quotidianità personale: la spesa ahimè costosa, il bus che non è passato, il sugo che cuoce, il dentifricio vuoto, l'ultimo shopping, l'ennesima bolletta, il PC che si inchioda, l'amore che tarda ad arrivare, la cena con gli amici, i nipoti, i nonni, gli zii, il ritratto di famiglia, il ritratto individuale, l'attacco al politico, al virologo, al calciatore ecc ecc. La lista delle attività umane è infinita.

         Io non so se c'è una ricetta giusta su cosa e come scrivere su Facebook. C'è la massima libertà, ognuno mette parti del suo mondo. So solo che, almeno per me, Facebook è un diario pubblico dove ho scelto di non mettere gli accadimenti privati (la tessitura minuta, anonima, del piccolo evento quotidiano) perché non li trovo interessanti. Cerco semmai di condividere il lato migliore di me, le parti meno noiose; di passare ad altri passioni feroci, scoperte, entusiasmi, tenendo lontane, su uno sfondo invisibile, le scorie e le miserie.

📖📖      Facebook è una nuova forma di autobiografia, a volte persino di autofiction quando i dati al grado zero della realtà vengono filtrati e rielaborati, sia in senso fisico (il taglio delle foto, i filtri, l'erotismo, la dolcezza, la moda ecc) sia in senso culturale, possibilmente di nobilitazione di sé (le citazioni colte, le poesie, l'aforisma, l'ultimo libro, la mostra o il museo, talvolta un'opera d'arte, l'affondo politico, medico, filosofico, orfico, sapienziale, oracolare ecc).

 📝📝      Allora, quando gli amici di amici mi hanno mandato a dire che su facebook non si scrive così, ho pensato allo statuto di quelle scritture social che pretendono di portare sulle bacheche virtuali argomenti generalmente percepiti come appannaggio della saggistica.

         Ho ripensato ai modelli possibili. Ci sono? È storicizzabile? Ad esempio quelli che, una volta, venivano chiamati i "corsivi" come esempi di alto bordo di giornalismo culturale. Ricordo solo gli "Improvvisi per macchina da scrivere" di Manganelli che elevavano la scrittura sul giornale a letteratura.

         Non si possono fare "corsivi" anche sulle bacheche virtuali? Perché no? Così, a volerli ordinare in un assetto più duraturo, ne è venuto fuori questo libro: "Un diario pubblico di passioni private", edito da GD Edizioni