29 marzo 2013

Il Museo del Risorgimento di Lucca" di Luciano Luciani



Una ‘casa della memoria’
 aperta a tutti



Inaugurato domenica 17 marzo il Museo del Risorgimento di Lucca, riorganizzato, ristrutturato e riallestito secondo un rinnovato progetto scientifico-didattico, permetterà a tutti noi di recuperare un importante segmento della memoria cittadina e provinciale.
Quella degli anni che precedettero e seguirono la formazione dello Stato nazionale unitario; dei problemi, complessi, né piccoli né pochi, che la connotarono; degli uomini e delle donne che seppero realizzare un’impresa - l’Italia una, libera e indipendente – che, ancora oggi, a tanti storici e studiosi appare come una felice e fortunata miscela di passione e intelligenza, iniziativa popolare dal basso e fattivo ruolo giocato dalle istituzioni.

Inaugurato nella sua nuova veste di percorso culturale e didattico, proprio nella giornata ad alta densità simbolica del 17 marzo, festa civile di recentissima istituzione per celebrare l’anniversario dell’unità del Paese, il Museo del Risorgimento di Lucca si propone come un’occasione permanente per ripensare in quale misura la storia italiana possa ancora essere considerata serbatoio di identità; qual è l’eredità che ci portiamo addosso; che cosa significa essere italiani oggi e quale idea di Italia vogliamo avere per il futuro.

Insomma, chi siamo stati e chi siamo; da dove veniamo e dove stiamo andando… Per contribuire, anche noi, a elaborare risposte positive e condivise alla perenne ricerca di senso, direzione e significato che sempre percorre e pervade in ogni tempo, ogni tipo di società.

Un impegno, questo, rivolto con particolare riguardo alle giovani generazioni, che, da tanti segni, lasciano trapelare un preoccupante disorientamento di fronte alle difficoltà di costruire un presente che appare sempre più inabitabile.

A loro, soprattutto, ma anche a tutti i Visitatori che si soffermeranno nelle sue sale e di fronte alle sue vetrine, il Museo racconterà delle storie:
- le innumerevoli vicende in esso racchiuse di personaggi Grandi, minori o addirittura minimi, uomini e donne di ogni condizione sociale che conobbero numerose sconfitte, rare ma decisive vittorie;
- che segnarono il loro tempo con il gusto per l’avventura intellettuale e politica;
- che, con il loro agire, magari ancora oscuro ai contemporanei, seppero prefigurare tempi, cieli e terre nuovi e una vita più libera e giusta, pacifica e umana.

Una “casa della memoria”, dunque. il Museo del Risorgimento di Lucca: ma non un deposito di oggetti o di fatti inattuali e anacronistici, una memoria inerte. Piuttosto, una sollecitazione affinché il passato entri in relazione con quanto stiamo vivendo e serva da strumento interpretativo per il nostro presente.

27 marzo 2013

"La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla Pop Art " di Flavio Caroli

di Davide Pugnana


“Ma qual è allora la prospettiva
entro cui si colloca la
domanda su ciò che,
 in una determinata epoca, cultura,
società si è detto e scritto
 a proposito di un’opera d’arte
o di uno stile di pittura?” (1)




Scrive Francesco Porzio(2): “Fra gli amori di Arcangeli ce ne sono alcuni che hanno fatto l’arte italiana, forse europea, del secondo dopoguerra. Ma la statura del critico era tale, che accade un fenomeno curioso: man mano che ci si inoltra nella lettura, i pittori svaniscono tremolando nella cronaca, mentre lentamente prende forma una delle riflessioni più profonde mai condotte, in Italia, sul significato e sul destino dell’arte moderna.” Questa riflessione, che procede assumendo il punto di vista della scrittura come dote metamorfica del critico di trasferirsi tutto nei suoi pittori, di cibarsi del loro lavoro introiettando linee colori spazi luci ombre, in un processo in cui la materia pittorica si deposita in profonde macerazioni interiori, mi sembra il miglior grimaldello per comprendere la natura singolare di un saggio vero e appassionato come La pittura contemporanea dal Romanticismo alla Pop art (Electa, Milano 2013, pp. 166) Opera del 1987, questo saggio ha la statura di un classico della storiografia: una piccola Bibbia portatile per chi desideri aver chiaro il quadro storico complessivo delle tendenze e delle poetiche europee della pittura occidentale, dall’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento. La ristampa, con una veste tipografica tutta incentrata sul malinconico Ritratto del dottor Gachet, aggiunge una tessera preziosa al serrato mosaico storiografico che, dalla fine degli anni Settanta, ossia dal ventaglio di monografie su Lorenzo Lotto, sulla dialettica forma/informe in Burri e sul tema della dimensione politica nell’arte, Caroli è andato svolgendo senza sosta e con un’ampiezza prodigiosa di visione fino ad oggi.


Non intendo qui discutere i puntelli periodizzanti e il campionario di opere trascelte da Caroli nel lungo viaggio compiuto dalla pittura occidentale, dalla generazione del Romanticismo europeo alle avanguardie novecentesche, fino al decennio Cinquanta-Sessanta della Pop Art. Del suo impianto storiografico; del suo metodo e della sua visione storica degli eventi; della sua capacità di scorciare momenti di snodo in quadri di sintesi, come della sua finissima ricostruzione dei “primari” del pensiero in figura, ho già dato conto recensendo Le tre vie della pittura (Libere Recensioni, Novembre 2012). Quest’ultimo saggio mi dà la possibilità di focalizzare il cannocchiale dell’analisi su di un aspetto che ho sempre avvertito come cifra caratterizzante della produzione saggistica caroliana, e, per dir così, come un valore aggiunto: la scrittura. Non la prosa saggistica che racchiude un testo nei confini del suo “genere” scientifico; ma un tipo speciale di aderenza del testo verbale al testo pittorico che viene definita scrittura d’arte.


Non sembri questa prospettiva un tradimento della vocazione argomentativa e della missione persuasiva della forma-saggio. Leggere un saggio per come è scritto; considerarne la fattura della prosa non equivale a perdersi nell’elogio della forma, o nell’indugio estetizzante del lavorio di cesello. Considerare il saggio - e nella fattispecie un saggio su di una materia visiva come l’arte pittorica - alla luce della scrittura significa toccare due livelli: da un lato, studiare il metodo di ri-creazione delle opere, pittoriche o scultoree, attraverso la “messa in parole” della loro sostanza visiva; dall’altro, cercare di delineare i caratteri di questo uso della scrittura critica dotata di statuto estetico e imbastita su valenze poetiche ed espressive. Si può, quindi, parlare di “scrittura d’arte” quando la prosa acquista un’autonomia di bellezza tale da affrancarsi dal brano pittorico preso in esame, senza per questo perdere di rigore scientifico e di profondità interpretativa. Su questo terreno, tenuto sul filo di confine tra scienza e arte, prende corpo una sapiente traduzione in linguaggio verbale dell’immagine pittorica. Nel 2005, Vittorio Sgarbi ha dedicato un intero libro alla comprensione della scrittura d’arte, assumendo come esempi massimi della tradizione Vasari e Longhi. Riaprendolo, per cercare un’ulteriore sponda teorica valida alla scrittura caroliana, ne riscopro la forza degli assunti. Nel capitolo Ricostruire l’immagine, la prosa longhiana e la natura della scrittura d’arte sono presentati così: “Quando si legge una pagina di Longhi […] quando si leggono i saggi su Piero della Francesca, su Caravaggio e sulla pittura ferrarese, si scopre, si abbia o no in mente il quadro, che la parola riesce effettivamente, quasi in virtù di un’equivalenza, a ricostruire l’immagine, e questo è il vero scopo della critica. Cioè, la critica deve essere capace di formare un nuovo corpo che si affianca al quadro e sta in piedi da solo. Ci sono pagine di Longhi talmente poetiche, talmente forti, che potrebbero quasi far a meno del testo pittorico che le ha motivate. Senza dubbio è importante che abbiano un rapporto con quell’immagine, ma sono così riuscite che potremmo anche non vedere il quadro.”(3)


A voler cercare nei secoli passati un brano prosastico di questa levatura, l’esempio forse più significativo proviene da un’epistola datata maggio 1544 al “signor compare Tiziano”(4). Sotto il cielo di una sera veneziana prossima alla notte, Pietro Aretino ha cenato in solitudine, contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana, una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli lasciano in bocca nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La lettera registra in presa diretta, come una stenografia degli istanti, i gesti e i pensieri di quella sera di amara, cupa solitudine. Pietro si alza da tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale della finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto, nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci miste, “turbe” salgono dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono pigre navicelle volanti che s’incontrano nell’ora del giorno, quando il mare abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come dentro una veduta veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello specchio di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” stanno in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la terribilità del pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e di tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo] non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio di Aretino si dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del reale ricordano pigmenti di colore, velature, trasmutano di essenza. Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la lettera e ne muta registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in quell’istante di risveglio la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e respiro. “Onde l’aria era tale quale vorrebbero esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel cielo che adesso stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura, l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario; la vaghezza dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della malinconia, trovano nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le motive e memoria figurativa uno squarcio improvviso nel quale s’allineano e mescolano gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano. Poter esser Tiziano! Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si disegna repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone. L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi degli edifici, l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile di San Marco, alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. Sferzato da questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione sostantivi e aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria figurativa e moderna trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa: “Imprima i casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbe dei nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la principal veduta si stavano vicino ai tetti de gli edifici, e mezzi ne la penultima, però che la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azurro verde, veramente composto de le bizzarrie della natura, maestre dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri isfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?’


Questa capacità di costruire un’equivalenza tra testo pittorico e testo verbale e, attraverso questa, giungere a tratteggiare pagine talmente poetiche da reggersi da sé, è il comune denominatore della linea degli scrittori d’arte. Certo, non è l’unico modo della parola scritta di avvicinarsi all’arte. Ci sono molti e collaudati modi di scrivere sulle opere. C’è quello rigoroso e documentato della prosa scientifica e accademica, rifluito in manuali, monografie, articoli e contributi di corto e ampio respiro; ed è questo un tipo di prosa esplorativa e chiarificatrice; solidamente positivista, trapuntata d’erudizione e d’intelligente senso della storia. Il suo raggio d’azione storicizza, razionalizza, squadra, scolpisce, colloca fenomeni e personalità in un ordito fittamente elaborato di trame che aggiungono, via via, argini al grande letto della storiografia. Parallelamente, corre la prosa dei giornalisti d’arte di solida formazione umanistica, con scritti tutt’altro che riducibili alla compilazione di un giornale di bordo della mondanità artistica, delle mode, delle Biennali, dei ‘casi’. E c’è poi il territorio dell’arte di scrivere d’arte, come recita l’eloquente titolo di una raccolta di interventi incentrati su uno dei maestri assoluti della scrittura d’arte del Novecento: Roberto Longhi. Nel panorama della critica italiana del secolo scorso, esiste tutta una linea di autori, tesa tra Longhi e Flavio Caroli - passando per Francesco Arcangeli, Giovanni Testori, Roberto Tassi e altri - che è possibile stringere come una costellazione di pleiadi. Le loro pagine rifulgono di una rara tenuta e bellezza di stile: sono pagine sorrette e nutrite da un’incessante esercizio dell’occhio sopra l’oggetto d’arte poi volto in scrittura: ossia, incorporato e sciolto entro un processo di trasmutazione della forma artistica in sostanza verbale. Questa capacità di restituire a parole l’opera d’arte, facendola rivivere in pagine capaci di reggersi da sé, senza più il sostegno dell’oggetto artistico, è stata definita da Longhi stesso come “equivalenza verbale”. Su questa via di ricerca, il lavoro dell’intelligenza critica sull’opera e le percezioni tuffate nell’inchiostro della penna trascinano con sé la scoperta, nella storia intima di questi critici-scrittori, di una vocazione, ossia della presa di coscienza di una latente inclinazione alla scrittura letteraria e poetica.


Dopo la lettera dell’Aretino a Tiziano, almeno altri due campioni testuali ci possono aiutare a ricostruire il solco genetico della scrittura caroliana e ad averne, durante la lettura, un quadro più consapevole del suo valore e della sua continuità con la tradizione italiana della scrittura d’arte. Rimanendo nell’orbita dei pittori veneziani, cade in taglio la pagina longhiana sul San Giorgio del Carpaccio, pittore narrativo: “E il San Giorgio? An onta di malori innumerevoli rimane ancora un quadro supremo; non però di piana decifrazione. Che mai, infatti, di questa inscenatura arcaicamente profilata e stemmata che, in apparenza, vuol riportarsi ai vecchi esemplari di cinquant’anni prima, ai cassoni di Paolo Uccello? Solo chi conosca bene il Carpaccio sciolto e profondo può annuire all’astuzia culturale che qui evoca, attraverso la più vecchia ed araldica iconografia, l’antichità della favola cavalleresca […] Creò così, tra drago e cavaliere astato, questa specie di immane rosta in ferro battuto alla ribalta del quadro; al di là però, eccolo esplorare a fondo fino all’orizzonte il vasto palcoscenico naturale che gli è caro: prima il terreno stregato dove la morte espone lucida, tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari ‘memento’: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato, i resti della donzella dove la camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare, si compongono nei segni di un affetto supremo; più lontano, i palmizi che sfilano lungo la città balconata donde gli abitanti, minutissimi, guardano alla rovescia il nostro stesso spettacolo; più in fondo ancora, sotto il cielo imbrattato di nubi, l’orizzonte marino con il veliero che s’incanta stupefatto sotto la rupe forata.”(5)


Pagine di altrettanta abilità e profondità di osservazione fusa ad una fattura stilistica capace di venirci incontro in completa autonomia, tornano in Francesco Arcangeli, che fu, come lo stesso Caroli, allievo di Longhi. Tra le ‘pagine di galleria’, dove Arcangeli ha fissato pezzi di raffinata oreficeria critico-narrativa dedicati a grandi e piccole mostre, spicca una memorabile traduzione in parole della Battaglia di Montebello di Giovanni Fattori (Museo Civico Fattori di Livorno): “Nella Battaglia di Montebello il livornese risponde, dalle coste di un mare comunicante, alle marine di Palavas che Courbet dipinge, talvolta, entro la luce splendente che il suo occhio di medioeuropeo affissa nel Mediterraneo. Non indegnamente, il toscano moderno, non più sotto la luce zenitale di Piero, anzi entro l’ansia sospesa di una polvere di battaglia, concepisce un grande spento intarsio d’azzurri, di grigi, di verdi, agitato e compreso entro un’area ‘all’infinito’; dove sordi e pur solenni accadimenti - la tela, tre metri di largo - , dove giberne bandoliere casacche pantaloni dorsi di cavallo chepì si posano forti nel tramestio mortale, sotto un indimenticabile cielo di cenere.”(6) E ancora ai cieli dei pittori, a quella “storia naturale dei cieli” che la ricerca di Constable isolerà in brani di assoluta e poeticissima pittura, dedica pagine di raffinata scrittura Roberto Tassi: “Constable indagava il volto della natura, i giochi della luce, i cambiamenti d’atmosfera, conosceva la forma e la diversità delle foglie, il tipo di piante, come un naturalista; così le note che scriveva in margine ai suoi quadri nuvole, il cui stesso titolo di ’studi’ più che un significato di preparazione per quadri ’finiti’, che in realtà non faceva, avevano quello di documentazione scientifica […] ma ecco che l’obiettività cominciava ben presto a tralignare, quelle righe scritte sulla stessa base del grande foglio di carta sul quale nasceva l’immagine bellissima e vera di un cielo nuvoloso, mostravano subito il loro lato poetico, la sfumatura del sentimento. […] Egli sposa la vista dell’emozione, l’indagine alla fantasia, l’esperimento alla pittura, il distacco all’amore. Quelle note erano indicazioni scientifiche, ma davano anche il senso poetico del tempo; la pittura di Constable porta il sentimento dell’ora. E dopo di lui, a cominciare da lui, tutta l’arte del secolo è una grande poesia del tempo indimenticabile e fugace, dell’ora che ha in sé la sua eternità e subito passa. Essere fissati alla memoria, quindi alla morte, dell’attimo e rendere l’attimo eterno; essere piccoli, transeunti e assoluti. Quando la luce batte su un muro il tetto fa la sua ombra, o quando avvolge un albero l’ombra cade sul prato, quando è il momento della mietitura o quando dal sottobosco esce un capriolo, o si allontana sul mare un nembo di pioggia, o fioriscono i papaveri, la pittura indica questi attimi come una grande meridiana; tutto è sospeso e intoccabile; nasce il senso umano, irripetibile ed estremo della stagione e dell’ora.”(7)


Ma a questo punto, prima di introdurre la prosa di Caroli, sento di dovermi fermare per aprire un intermezzo a giustificazione dell’intelaiatura massiccia di citazioni che tramano questa recensione. La ragione di punta è senz’altro la necessaria centralità di essais testuali, organizzati in un reciproco dialogo capace di restituire il passo, la grana e la cifra di singolarità della scrittura d’arte. Un altro motivo di fondo è l’uso della citazione come mezzo per stimolare la ricezione del lettore, investendolo con punte acute di scrittura in grado di allargarne la biblioteca mentale, e, attraverso le note a piè di pagina, portarlo all’attraversamento della linea degli scrittori d’arte. La citazione, infine, o meglio lo spirito della citazione, compare qui secondo la lezione di Montaigne e di Walter Benjamin: come strumento conoscitivo orientato a gettare luce sulle grandi idee, nel rispetto storico della tradizione di pensiero e trapuntando il proprio testo di voci come “agguati” che lascino il destinatario spiazzato.


In questa famiglia di prosatori, dunque, s’incunea la scrittura di Flavio Caroli. Chi si mette di fronte alle pagine di un critico d’arte arriva sempre, prima o dopo, a chiedersi: “Come ci parlerà dei dipinti? Con quale linguaggio avviterà nei nostri occhi i colori e le forme di quelle opere che il libro, per limitata economia di spazio e di costi, non è riuscito a riprodurre?” L’orizzonte di attesa del lettore di critica d’arte è in questo senso tra i più esigenti. Proseguendo l’esplorazione dei cieli nei brani paesaggistici, iniziata con l’epistola dell’Aretino fino a Tassi, troviamo, nel primo capitolo sul Romanticismo, la resa in parole della Veduta di Zurigo (1842) di Turner: “Ciò che era sottinteso nel dipinto giovanile [ il Ponte del diavolo, 1802] adesso è internato nell’occhio come una verità inevitabile. Le norme spaziali sono disciolte, liquefatte. Una sorgente luminosa sottile e obnubilata sparge cerchi concentrici di nebbia e candore; tinge di rosa e malva i tetti, i muri, i cieli, le montagne; trita le cose in una polvere alterna ma omogenea; allarga l’universo di uno splendore stupefatto e abbacinante, la luce primeva di una prima alba del creato.” Diverso registro ha la resa in trama verbale de Il mulino di Flatford da una chiesa sullo Stour dipinto da Constable nel 1811: “Il fiumicello segna una traccia prospettica ancora settecentesca. Ma il quadro è affondato nei più struggenti e sobri sentimenti ottocenteschi. Il pennello accarezza zolle madide di muschi e d’umidità, ‘sente’ un’acqua tersa e densa come vetro, restaura il vecchio rosso dilavato e scrostato dei muri, sintetizza con straordinaria modernità la macchia smeraldina di un albero, lo fa dialogare col verde pastoso di un pioppo, abbozza querce spiumate dal tempo, vede biaccose nuvole di gesso nel cielo limpido delle giornate inglesi spazzate dal vento dell’Atlantico.”


Questi esempi ci portano nel corpo vivo della narrazione verbale dell’icona pittorica. In questo ombelico di segni materici, nella cui cavità il codice linguistico della lingua pittorica diventa scrittura, Caroli buca l’immagine: rende leggibile ciò che già accade sotto i nostri occhi in figurazioni riconoscibili ma arcane, e che solo attivando la funzione poetica della lingua - quell’apparecchiatura incandescente fatta di metafore, aggettivi, frizione tra campi semantici anche distanti, incanto musicale della sintassi, guizzo visionario - possiamo accedervi, vedendola per la prima volta. L’esempio forse più calzante è la decifrazione caroliana del nuovo realismo de I mangiatori di patate (1885): “Van Gogh è già grandissimo quando dipinge quella specie di antro selvatico e caliginoso che contiene I mangiatori di patate. […] Non sa dipingere, Van Gogh, quando accumula i grigifumo dei Mangiatori. Meglio: non padroneggia la pittura come le molte mani dotate dell’Ottocento. Struscia col pennello terre ammorbate, verdi incupiti e marci, ‘lumetti’ gessosi di luci approssimative, appena memori di un lontanissimo Rembrandt. Appallottola la pittura con segno arrotolato e ritornante, impastando le psicologie (tuttavia, sublimi) con pochi tocchi rotanti di terra e nero. Ma che importa? Questo quadro è scavato nella pietra stessa dell’animalità umana, e in una tenue, dolcissima, tenerissima fede in qualcosa che ci salverà. Qui c’è lo strato basico dell’umanità, la sua divina semplicità, e c’è la più nobile, elevata, sacra certezza di un amabile riscatto.”


Chi si misura con le opere d’arte cercando di ricrearle in una equivalente tessitura di parole conosce bene la difficoltà di far aderire la forma della scrittura al linguaggio novecentesco della dissoluzione della forma: la ricerca astratta e informale. Come fare a trasferire la grammatica della “via astratta” e della contaminata materia informale con il sistema di segni della lingua italiana? Quali verbi e aggettivi, quali sostantivi e quali slogature sintattiche dobbiamo scegliere per nominare, fino in fondo, ogni minima fibra di questo linguaggio pittorico privato di referenti naturalistici? Come si fa a scrivere sulle tele di Kandinsky, di Pollock, di Burri, Fontana e Morlotti restituendone l’inaudita gestualità del processo pittorico, la qualità “organica” dell’immagine, gli spessori e l’attrito furente e abrasivo? E come farlo, soprattutto, senza tradirne il midolloestetico depositandovi sopra cattiva letteratura? A molti di questi interrogativi aveva già dato risposte la prosa critica di Francesco Arcangeli. I suoi contributi su Pollock e Morlotti sono tra i più alti toccati dalla prosa critica italiana affacciata sulla sperimentazione estrema dell’informale e dell’astratto. Scrive Arcangeli su Grande sacco (1952): “Per Burri non si tratta di incollare dipingendo, o di evadere o di riconfermare la pittura giocando; si tratta, prima, d’intendere la frusta bellezza della superficie d’un sacco, o il cupo brillare dei legni, o il rigido e opaco splendere d’una lamiera; e poi, cucendo sottilmente, calcolatamente bruciando e tingendo, e soprattutto alternando gli spazi di materia con gli spazi di pittura, dializzando i nei neutri d’un fondo con i neri brutalmente viventi e infetti di cenci e residui d’abbigliamento, dare a tutto questo una nuova e diversa vita; sottolinearne una cupa e vivente sostanza, o una incredibile possibilità di grazia. È soltanto issando sulla parete il Grande sacco del ‘52 (un’opera che a terra sembrava bruta materia, scoraggiante per la sua irrimediabile apparenza materiale), che ci si accorge di quanto le due sole brevi zone dipinte, un bianco e un nero più intensi, respingano sapientemente la grande superficie del sacco entro un velo di tono, malinconico e trattenuto. La materia compare, allora, vera ma altra da sé; affiora la bellezza della sua sostanza al di là della sua sostanza.”(8) E proprio a fianco di Arcangeli Flavio Caroli scrive le sue pagine sull’astratto e l’informale. L’ultimo esempio è quindi anche un confronto che mostra l’intima, connaturata e serrata continuità, da aria di famiglia, della tradizione italiana degli scrittori d’arte, da Longhi a Caroli. Ancora una volta, a distanza di anni e nel solco aperto da Arcangeli, un critico italiano si mette di fronte al Grande sacco di Burri, perché rimangono zone da esplorare: “E’ difficile immaginare lo scandalo che procurarono, al loro apparire, i suoi quadri, eseguiti con logore tele di sacco e poche, stemmanti campiture di colore. Eppure il Grande sacco possiede una scansione di spazi così solenne e misurata, così ampia e perentoria, di eguagliare non tanto una pur implicita devozione al ‘neoplasticismo’ di Mondrian, ma l’imposto spaziale di un affresco rinascimentale. E che dire di quella tela logora e ‘vile’, riscattata all’arte nella luce tonale di un pomeriggio che ha il colore del caffè tostato, e combina sinfonicamente note caramellate, e marroni di castagne bruciate, e squarci bianchi raccolti come uova minerali a contrappesare in alto una toppa quadrata come una forma aurea pierfrancescana, e il nero assoluto, tizianesco, che incombe su questo muricciolo consunto e perfetto, e la breve nota rossa, acutissima, caravaggesca, che solo un grande colorista avrebbe potuto immaginare così pura, per infondere vita e sacralità a questo paesaggio di morte? […] Se le slabbrature dei sacchi di Burri, come è stato detto, si trascinano memorie di un’antica professione medica dell’artista, la chirurgia di Burri è praticata sulla
stessa corteccia del mondo, in interventi supremamente lucidi che, per essere salvifici, sanno esprimere pietà tenera eppure impassibile. Se questi sacchi, come è stato detto, conservano la polvere e l‘indigenza del francescanesimo umbro, Burri è il più sontuoso, il più regale di tutti i monaci medievali.”

Poter scrivere così, internando la lingua verbale nell’esistenza materica di Burri, significa non allontanarsi di un millimetro dal fuoco creativo di questo artista. Significa accorgersi che la materia esiste e lungo i secoli, è impiegata dall’artista in maniera nuova. Così come inventivo e camaleontico deve essere il linguaggio della scrittura quando intende narrare l’essenza di una ricerca artistica, in sé considerata, trasfondendola in un nuovo ‘testo’.

Flavio Caroli, La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla Pop Art. Electa.



Note

(1) G. Patrizi, Et in Arcadia ego, in Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Donzelli, Roma 2000, p. 5

(2) F. Porzio, Francesco Arcangeli, in Cronache d’arte, Skira, Milano 2002, p.157

(3) V. Sgarbi, Vedere le parole. La scrittura d’arte da Vasari a Longhi, Bompiani, Milano 2005, pp. 42-43

(4 ) P.Aretino, Lettere, III, in Scritti scelti, a cura di G.G. Ferrero, Utet, Torino 1970

(5) R.Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Da Cimabue a Morandi, Meridiani Mondadori, 1978, pp.638-639

(6) F.Arcangeli, “Macchiaioli”, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973, Accademia Clementina, Bologna, 1994, p. 563

(7) R.Tassi, La storia naturale dei cieli, in L’atelier di Monet. Arte e natura: il paesaggio nell’Ottocento e nel Novecento, Garzanti, 1989, pp. 35-40

(8) F.Arcangeli, Opere di Alberto Burri, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973,

19 marzo 2013

“Quintetto di Buenos Aires" di Manuel Vàsquez Montalbàn

di Mirta Vignatti

Direi subito che lo spunto della ricerca del cugino argentino desaparecido incaricata dallo “zio d'America” di Pepe Carvalho (il plot del romanzo) credo vada inteso come un pretesto, un buon espediente perché il bravo detective (e Montalbàn attraverso lui) possa regalarci una sua visione di Buenos Aires e di tutti i nodi della complessa, recente storia argentina. E la percezione che ci viene offerta di Buenos Aires, -con tutti i suoi contrasti, le sue zone d'ombra, i fervori delle notti di tango (lontano da ogni luogo comune), le trame occulte e i giochi di potere- è davvero strabiliante. 
Il mai troppo rimpianto V. Montalbàn è riuscito proprio là dove altri sarebbero naufragati nello stereotipo e nel simil-turistico. Credo che a lui interessasse catturare l'anima di una città senza eguali al mondo, fatta di miseria e nobiltà, dove umiliati e offesi vivono gomito a gomito con ricchi privilegiati, delinquenti, intellettuali, mestatori, artisti, truffatori, spacconi e gradassi. Dove i nervi scoperti di un passato che fa ancora male sono lì, e c'è chi fa finta di niente. E ci riesce perfettamente, inventandosi una trama che cattura dall'inizio alla fine, con grande perizia e con stile.
 La scrittura di Montalbàn è come sempre fulminante, portata naturalmente sui registri del cinismo e del sarcastico, ma sa arricchirsi con virate poetiche: “Una mattina mia madre mi diede un pezzo di pane che sembrava appena sfornato, o forse sono io che me lo immagino appena sfornato, e un pugno di olive nere, molto saporite, di quelle olive rugose che chiamano aragonesi. Ricordo quei sapori, la gioia della mia libertà in strada, lo sguardo protettivo di mia madre. Se potessi tornare a quella mattina. Quella sarebbe la mia vera patria. La mia Rosebud. Ricordate il film Quarto potere?” Per poi riprendere subito il tono a lui più congeniale, quando l'ispettore Pascuali irrompe nell'appartamento di Pepe Carvalho: “Mandato di perquisizione” chiede Carvalho senza troppa voglia. “Ce l'ho qui appeso” dice Pascuali toccandosi la patta.
Così procede il romanzo. Tra colpi di scena, battute fulminanti, personaggi indimenticabili, ricette che a saperle eseguire ci sarebbe da leccarsi i baffi. E come scenario Buenos Aires, con il suo karma da scontare, tra santità e lussuria, tra violenza e giochi sporchi di corpi separati, relitti ancora non a perdere di uno dei peggiori regimi militari che il mondo possa ricordare. Ma la naturale leggerezza cui è portata la scrittura di Montalbàn non si perde nei drammi dei desaparecidos, e sul finire ci regala una scoppiettante scena che sembra presa di peso da un film di Almodòvar, con un'agnizione finale in un ristorante di estremo lusso (e ce ne sono a Buenos Aires, magari a poche centinaia di metri da baracche fatte di pancali e lamiere), che non ci risparmia camerieri tramortiti a padellate e appesi ai ganci della ghiacciaia e lì lasciati a congelare. E in quei passi qualcuno potrebbe anche ricordare alcune scene de “La grande abbuffata” di Ferreri. Così come potrebbe pensare a una telenovela proprio lì dove, nel finale, la vicenda scivola volutamente nel melodramma, quasi nel feuilleton. (Non a caso Almodòvar).
E' questo un libro che mi sento di consigliare a tutti: si sovrappongono ai fatti narrati (naturalmente avvincenti essendo la trama di genere poliziesco) fatti assolutamente veritieri della storia argentina degli anni tragici 70-80 che magari non tutti conoscono a fondo. C'è una commistione tra fiction e storia reale veramente ammirevole; c'è l'immagine di una grande maledetta splendida e misera città quale è Buenos Aires, splendidamente descritta (viene voglia di pensare a un bel viaggio...) e c'è il concetto reiterato da Montalbàn che l'Argentina non è solo “tango, Maradona e desaparecidos” (e non è neanche Leonel Messi, Belén Rodriguez e papa Bergoglio, aggiungerei io).
Manuel Vàsquez Montalbàn, “Quintetto di Buenos Aires”, Feltrinelli 2010.

11 marzo 2013

"Certi Bambini" di Diego De Silva

di Mirta Vignatti

Ho finito di leggere "Certi bambini" di Diego De Silva. Un'esperienza dura, scioccante. Un pugno nello stomaco, ma anche -a tratti- poesia.

 Lettura imprescindibile, così come lo era "Gomorra" (libro e film). Certo, De Silva mostra al meglio il suo grande talento narrativo e la capacità di cogliere certe pieghe della deriva sociale e morale di aree urbane ben note. Dovrò leggere altro di questo autore.

Diego De Silva. Certi bambini.  Einaudi. Pag. 148. 10,00€. 

10 marzo 2013

“Il saluto. Mini-antropologia del quotidiano” di Gianni Quilici e Patrizia Manganaro



FOTO di GIANNI QUILICI
Vivere individualmente dentro compartimenti chiusi ti rinchiude oggettivamente e crea una corazza che progressivamente diventa naturale, diventa parte del tuo volto o, detto in altri termini, della tua maschera.

 Tu non saluti, non perché non vuoi o non puoi salutare, ma per una coazione a ripetere, che nasce da una catena sociale che consolida quell’individualismo, quel volto, quella corazza. E questa catena nasce e si consolida nel sistema in cui la società si è organizzata: l’anonimato della città e delle strade, l’individualismo delle abitazioni, la crescita di quei “non luoghi”, che ha analizzato l’antropologo francese Marc Auge’ (autostrade, treni, stazioni, supermercati, multisale, grandi catene alberghiere ecc), che si allargano a macchia di leopardo nei piccoli centri e nei paesi. I bar da luogo di incontro stanno diventando luoghi di passaggio, molti piccoli negozi stanno scomparendo inghiottiti da centri commerciali e supermercati.

     Rivoluzionare l’individuo che diventi soggetto sociale presuppone quindi un rivoluzionamento dei (non) luoghi, rivoluzionare i (non) luoghi presuppone infine un rivoluzionamento della strutturazione sociale.

     La questione, tempo fa di moda, se si debba rivoluzionare prima se stessi o la società è un falso problema. Nel momento in cui si rivoluziona l’individuo, anche ciò che gli sta intorno si rivoluziona. Insomma, non un movimento meccanico, ma un incessante andirivieni.

     In questo contesto il saluto è soltanto un micro comportamento, ma non per questo insignificante, perché succede, può succedere molte volte in un giorno.

     Salutare una persona significa ri-conoscerla. Salutarla con piacere vuol dire trasmettere il piacere di salutarla. La mia esperienza mi dice che, quando si vive a lungo in “non luoghi”, diventa difficile salutare, anche una persona che conosciamo.

     I non luoghi portano, infatti, ad una spersonalizzazione, che nasce dal rapporto individuo-folla. La folla ti spersonalizza e tu spersonalizzato tendi a spersonalizzare gli individui nella folla.

Da qui sorge un imperativo banale da assumere come codice civile: salutare oltre le convenzioni. Come? Guardando negli occhi.   


di Patrizia Manganaro

Questo per me che lavoro in un bar di una cittadina di provincia è pane quotidiano. Da diversi anni studio, attraverso il lavoro, le manie comportamentali dell'individuo e dalla mia piccola esperienza posso attestare che il saluto, da me acquisito come segno di riconoscimento per eccellenza, nella stragrande maggioranza dei casi è un disturbo alla più comoda spersonalizzazione dell'essere. 

Sì, ripeto, comoda...perché vedo svogliatezza nel saluto, gli individui sono restii a rispondere al saluto squillante di chi non vuole farsi inghiottire dalla voragine dei non luoghi, preferiscono precipitarvi dentro pur di non essere coinvolti nel lavorio del desiderio dell'essere, come a trovarsi a passare lì per caso catapultati da chissà quale altra galassia.

 Ancora peggio quando gli individui si trovano al mio cospetto più volte al giorno (per il caffè,una bibita,uno spuntino), e al mio saluto personalizzato ( buongiorno Mario! buongiorno Anna! ),ripetuto con diverso tono di cordialità ogni volta, guardando Mario e Anna diritto negli occhi, senza equivoci, senza ombre, con trasparenza totale e sorriso gentile anche se stanco, si sentono frastornati ,non più avvezzi alla cortesia e alla buona creanza. Si vede che si sentono spaesati, perché i non luoghi ormai per paradosso sono diventati i piccoli negozi e negozietti,dove ancora si usa riconoscere e riconoscersi ,dove ancora i gestori si ostinano a salutare tutti quelli che di passaggio o per caso o per altro, varcano l'uscio del proprio esercizio commerciale, dove ancora si prova ad esercitare una discreta, ma accogliente intimità quasi familiare. 

A molti piace il saluto, pur avendo da tempo perduto la bella abitudine mi corrispondono con visibile piacere; altri assumono l'espressione infastidita di chi viene richiamato come a scuola all'appello e si sentono in obbligo di rispondere al mio saluto; altri ancora vorrebbero rispondere, ma è come se si trovassero in imbarazzo,rispondono a mezza bocca guardando altrove per non incrociare il mio sguardo aperto che li invita. 

Difficilmente gli individui salutano per primi all'ingresso nel bar, il saluto rappresenta per i più una faccenda faticosa e inutile, alcuni mi guardano straniti e con una certa sufficienza rispondono un ......orno smozzicato e infelice per il sacrificio speso, e questi individui sono quelli già inghiottiti dai centri commerciali, dove il barista non si guarda nemmeno se c'è. Sono i casi più gravi e irrecuperabili ormai, sono quei soggetti che entrano magari parlando con l'auricolare, facendo strani gesti per ordinare un caffè, indicando la macchina dell'espresso, pagando mentre ancora parlano per i fatti loro ed escono dal bar senza guardarmi in faccia e senza, credo, ricordare che sapore avesse il caffè bevuto. Quelli sono la maggioranza purtroppo ,già assorbiti dai sistemi societari formicai degli ultimi decenni.

 A salutare guardando dritto negli occhi brandendo nello spazio un sorriso e la propria voce come fossero spade estratte dall'elsa con vigore e personalità, siamo rimasti veramente in pochi. E a chiamare per nome salutandomi ce ne sono ancora meno. Tutti proiettati nell'immagine di vasti spazi, dove i volti sono tutti uguali e nessuno riconoscibile. 









"Petali e piume" di Carmela Maggiorini,



di Luciano Luciani

In natura ogni cosa è in funzione di un’altra. Ne dipende e, a sua volta, produce differenti effetti, processi diversi, moti apparentemente lontani e separati, ma, a guardare bene, tra loro collegati, connessi, intrecciati …

Così accade per la poesia: se esiste è perché c’è ancora qualcuno disposto a coltivarla con umiltà e pazienza, tenacia e discrezione. Come fa, da anni, Carmela Ferro Maggiorini giunta, in punta di piedi, alla sua terza raccolta poetica: testimonianza esemplare di un’indefessa fedeltà al canto lirico e libero, privo di costrizioni, colto e riportato sulla pagina così come erompe dal cuore, dalle emozioni, dai sensi.

Petali e piume si intitola la sua nuova silloge, trasparente allegoria di una poesia fatta di versi e testi che si nutrono di levità, di leggerezza: simili ai petali dei fiori e alle  piume dei giovani uccelli sono capaci di vincere le leggi delle gravità e, con un  miracoloso movimento ascensionale, riescono a salire, salire, salire verso l’alto. Impalpabili messaggi agli dei per ottenere la loro protezione e impetrare modeste e insieme straordinarie, grazie per gli uomini: un cuore semplice e occhi attenti; memorie lunghe e ancora un po’ di futuro; un giardino pieno di fiori e l’allegria del pane e del vino condivisi, buoni sogni …

Questi i temi lungo i quali si dipana l’ispirazione di Carmela, poetessa per vocazione che, d’istinto, dimostra di sapersi appropriare della complessa organizzazione della parola poetica, modulandone, con spontanea maestria, suggestioni e seduzioni, incanti e prodigi.

Non inganni, però, la apparente grazia alessandrina dei versi di Carmela, la fresca delicatezza di molti suoi testi concepiti e realizzati con tenera misura: non di rado la sua vena poetica è percorsa da rapide accensioni di rabbia, bagliori polemici, pulsioni sensuali e languori erotici, accenti d’ironia che si fanno sarcasmo appuntito, mordace, graffiante.

Quando accade, e per fortuna succede spesso, ne derivano componimenti morbidi e insieme feroci, taglienti e delicati. Diseguali, autentici, portatori di un umanissimo attrito tra la realtà e la poesia sono proprio questi i petali più profumati, le piume più colorate dell’intera raccolta.


Carmela Maggiorini, Petali e piume, Daris libri e stampe, Lucca 2013, pp.100, Euro 15,00.

"Il teatro amatoriale in provincia di Lucca. Le compagnie, le terre" di Igor Vazzaz




 di    Liliana di Ponte

Per amore solo per amore: si potrebbe racchiudere nel titolo del libro di Pasquale Festa Campanile il senso ultimo e primigenio dell’indagine sul teatro amatoriale nella provincia di Lucca, svolta da Igor Vazzaz, dottore di ricerca in Storia del teatro presso l’Università di Pisa, autore di numerosi saggi e critico teatrale. È infatti solo l’amore, gratuito e irragionevole come tutti i sentimenti forti, a spingere tanti sulla scena teatrale, per dedicarle il proprio tempo libero, energie fisiche e intellettuali, risorse finanziarie. In cambio, sperano solo di riuscire ad incontrare il loro pubblico, quegli spettatori con cui condividere il testo che li ha fatti innamorare, l’impegno nel rappresentarlo e l’emozione che, per la durata di un applauso, li fa sentire vicini. 

Il libro è frutto di un capillare percorso di documentazione e di incontri con i gruppi amatoriali della Lucchesia, della Mediavalle/Garfagnana e della Versilia, da cui sono emerse ben 54 compagnie attive che movimentano circa 4000 persone, fra attori, tecnici, registi e organizzatori. Ad ognuna è riservata una scheda con la storia del gruppo, gli spettacoli realizzati, i nomi degli attori e un ricco apparato fotografico. Una realtà vivace e variegata costituita sia da esperienze dal carattere più estemporaneo che da figure semi-professioniste, promotrici spesso di laboratori e scuole di recitazione. Gli spazi scenici non mancano, così come i piccoli teatri ricchi di storia, ma il tutto andrebbe rivitalizzato in una prospettiva di intervento pubblico e privato.

Il teatro amatoriale, secondo l’autore, ha tutte le carte in regola per cimentarsi in una ulteriore ardua sfida, che ponga al centro la costante ricerca della qualità, a partire proprio da quella amatorialità che ne costituisce la cifra distintiva. Fare teatro solo per amore, in assoluta libertà e al di fuori dei meccanismi di produzione e consumo imposti dal mercato a chi il teatro lo fa per lavoro è un ottimo punto di partenza per sperimentare percorsi diversi. Quanto più le compagnie riusciranno ad allontanarsi dalla rassicurante riproposizione di modelli scenici noti e asfittici, tanto più potranno innovare col coraggio e l’entusiasmo che solo la passione può dare, arricchendo di linfa vitale anche il gusto del loro pubblico. Sfida difficile ma da cogliere, perché alla fine, professionistico o amatoriale che sia, ricorda Igor Vazzaz, esiste “solo il teatro fatto bene (e quindi dotato d’una propria autenticità, estetica e quindi morale) e quello fatto male”.

Igor Vazzaz, Il teatro amatoriale in provincia di Lucca. Le compagnie, le terre, 2012, pp. 240, € 18.00.






Architetture del desiderio. A cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré




                       di Liliana di Ponte

È possibile pensare una città che non sia stretta fra l’urgenza di riparare i guasti inferti all’ambiente e la difficoltà di porre dei limiti al consumo che un inarrestabile sviluppo tecnologico vuole illimitato?

Se lo sono chiesto le donne promotrici del convegno Microarchitetture del quotidiano: sapere femminile e cura della città (Milano, 2008) e, grazie anche all’accurato lavoro preparatorio svolto, hanno indicato alcune possibili linee d’intervento. La ricchezza delle collaborazioni e del dibattito sviluppati, è confluita nel libro Architetture del desiderio (a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo e Ida Faré), che scrive una pagina fresca e nuova su un tema così complesso, con il contributo di architette, ricercatrici, urbaniste, sociologhe, artiste, associazioni, insegnanti, comitati di base (non mancano gli uomini), provenienti da diverse realtà urbane italiane.

La constatazione di quanto si siano impoverite, per benessere, bellezza e funzionalità,  le nostre città,  ha fatto emergere il ruolo fondamentale svolto dalle donne, nel farsi promotrici di azioni di contrasto ad una politica del territorio sempre più lontana dalla vita dei cittadini. Gli interventi contenuti nel libro dimostrano che sono possibili nuovi modelli interpretativi dello spazio urbano, ispirati proprio da quella particolare sensibilità femminile che sa tenere insieme e rafforzare, attraverso la pratica costante delle relazioni, le esigenze della comunità con il benessere e la felicità dei singoli.

Nel primo capitolo, Vivere e abitare la città, ci si interroga su come tutelare la bellezza e la salute dei centri abitati. Il secondo, Pratiche che fanno la città, documenta alcune iniziative di base intraprese per denunciare incurie, per fermare progetti dannosi e indicare, con azioni concrete, le strade percorribili di una riqualificazione partecipata dell’ambiente. In L’arte ci prende per mano, la bellezza e la creatività hanno ispirato sperimentazioni volte a ridisegnare lo spazio urbano. Il quarto capitolo, Progetti e buone intenzioni, mette l’accento sulla riprogettazione degli spazi. Nel quinto, Microarchitetture del quotidiano – sapere femminile e cura della città, vengono rilanciate operativamente le varie ramificazioni in cui il tema si è sviluppato.

Fra i molti meriti di questo interessante libro, c’è l’emergere di un’Italia in cui tante città e paesi, dal nord al sud, si raccontano e si confrontano, attraverso le voci di chi s’impegna per renderle accoglienti e attente alla crescita di tutti i cittadini.



Architetture del desiderio. A cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré. Napoli, Liguori, 2011. pp. 157. € 19.90.



08 marzo 2013

"Non luogo" mostra fotografica di Luca Tesconi



di Mira Giromini
 
Nella redazione di YoungRadio (www.yradio.it ) i ragazzi del Servizio Civile Regionale presso il Museo dei Bozzetti di Pietrasanta, hanno intervistato il fotografo e sportivo Luca Tesconi in occasione della sua prima mostra dal titolo “NON LUOGO”. L’evento si svolgerà a Palazzo Panichi, sede che si affaccia sul bel duomo di Pietrasanta, dal 9 al 31 marzo 2013.

Luca Tesconi è conosciuto per la medaglia d’argento nel tiro a segno ai mondiali di Londra 2012 ma la sua altra passione è la fotografia che impugna con forza e coraggio attraversando quelli che chiama i “non-luoghi”. Il suo percorso fotografico tratta dei manicomi, “ospedali dei matti” che dal 1978 la legge Basaglia chiuse e che dall’ora sono spesso luoghi abbandonati in cui si percepiscono tracce di disperazione, solitudine e dolore enfatizzate dall’atmosfera decadente avvolta da scritte, disegni e persino graffi e sangue sui muri delle strutture.

Luca, quando è nata la tua passione per la fotografia?
La passione della fotografia è nata ancora prima della passione per lo sport, mentre ancora seguivo l’Istituto d’Arte di Pietrasanta e studiavo nei laboratori scolastici; mio padre mi regalò la mia prima macchina fotografica, una Minolta analogica con qualche obbiettivo. Da lì mi sono appassionato ho cominciato a fotografare molto, a seguire laboratori e corsi e poi corsi di Photoshop.
Ora ovviamente uso una macchina fotografica digitale.

Molti di noi ti conoscono per la medaglia d’argento al tiro a segno ma tu coltivi anche la passione della fotografia; come coniughi due discipline così distanti tra loro?
In realtà non sono neanche così distanti, mentre fotografi sei da solo e quando sei in pedana a gareggiare sei da solo; in fotografia scatti un soggetto, nel tiro a segno punti un bersagli dunque due discipline che non sono poi così tanto distanti; sei sempre da solo. La cosa bella della fotografia è che riesco bene a coniugarla con lo sport; la fotografia mi permette di non pensare alle gare, all’agonismo e agli impegni nazionali, quindi è un momento di relax dove quando torno a casa posso prendere la mia macchina fotografica e posso “staccare la spina” e pensare solo alla fotografia, riesco a staccare da tutto e ricaricarmi. Per ora è stato utile e spero sia così anche in futuro.

Quali sono i tuoi soggetti principali?
Inizialmente fotografavo tutto per imparare la tecnica e variare i soggetti tra paesaggi, panorami, ritratti e primi piani, sia in bianco e nero che a colori. Tengo a dire però che sento mia la ricerca di reportage reali; mi piacerebbe nel tempo fare anche dei reportage di guerra. Non mi vedo come fotografo da cavalletto a fotografare i panorami.

Hai avuto dei modelli; dei fotografi che ti hanno ispirato oppure hai scelto dei soggetti da trattare?
In linea di massima devono essere i soggetti che mi colpiscono di più, devono darmi qualcosa, un’emozione, sia bella che brutta. Come fotografo mi è sempre piaciuto il grande Adams, anche se poi lui coglieva soprattutto paesaggi in bianco e nero. Comunque non mi ispiro a un particolare fotografo, sono i soggetti che mi ispirano.

Nella scelta della mostra cosa ti ha ispirato?
Mio padre era un rappresentante farmaceutico, portava i medicinali a Lucca, a Maggiano. Da bambino mi raccontava di questi ambienti dei matti che c’erano dentro e credo che nel mio subconscio sia rimasto questo ricordo. Nel tempo ho scoperto i libri di Tobino, direttore del reparto femminile di Maggiano e da lì mi sono appassionato ed è nata la curiosità di proseguire.

A proposito della mostra, questa è la tua prima mostra, hai delle emozioni da esprimere?
Sinceramente è un altro piccolo sogno che si realizza, essendo appassionato di fotografia ho sempre desiderato un giorno di fare una mostra, ho fatto delle collettive alla fine dei corsi di fotografia ma questa è la mia prima mostra personale dedicata ad un tema scelto da me, ne sono fiero ed emozionato.

Quando scegli un soggetto o un tema da trattare hai bene in mente cosa fare o ti lasci trasportare dal momento?
Inizialmente parto sempre con un idea ben precisa, ho già in mente che cosa farò, se uscirà in bianco e nero o a colori, poi effettivamente sul capo mi lascio trascinare dall’emozione. Quindi parto con un idea ben precisa poi mi lascio trascinare dall’istinto. In realtà è come se il soggetto mi dicesse come farsi fotografare, mi lascio andare.

Hai trattato la figura umana nella tua fotografia?
In questa mostra gli ambienti abbandonati non avevano senso con le persone. A parte i ritratti non ho mai trattato la figura umana, mi piacciono gli ambienti.

Cosa pensi della chiusura dei manicomi?
Non ho un’idea ben precisa. Quando entri dentro a queste strutture ti rendi conto che erano dei lager non solo fisici ma anche mentali. E’ successo che entravano tante persone non malate e uscivano se uscivano malate e poi c’è da dire anche che dopo la chiusura dei manicomi alcune persone sono diventate dei reietti della società e tanti si sono suicidati. E’ un pensiero contrastante. Non ho un idea ben precisa certo è da dire che ormai non ci sono più.

A proposito delle fotografie si può sapere dove sono state realizzate?
Sono stati due anni di ricerca e di lavoro. I posti preferisco tenerli segreti e mi piace non rivelarli; comunque in Italia, soprattutto in Toscana ma anche Lombardia e Lazio, la cosa che comunque che mi sono reso conto è che dovunque mi trovavo mi sentivo sempre nello stesso posto perché veramente queste strutture erano tutte uguali. Entrando in un ex-ospedale sapevi che a destra si trovavano le celle per i matti più pericolosi e a sinistra le camere per i dottori. Ma dovunque eri, era lo stesso.

Ti è mai venuto in mente di documentare insieme alle fotografie anche quello che rimane oggi di quelle persone?
Si, avrei voluto e comunque potrebbe essere un’idea per un prossimo lavoro, documentare le persone che erano state dentro ai manicomi magari fotografarle. Potrebbe essere un’idea anche se ancora non ho ben definito bene la cosa. Me lo tengo per il futuro.

Come nasce la mostra e come si è arrivato alla realizzazione?
Come tante cose è nata per caso; mi trovavo nella giuria per Miss Carnevale insieme ad Annalisa Bugliatti e gli ho parlato della mia passione per la fotografia; lei mi ha fatto conoscer Claudio Francesconi di GestalGallery di Pietrasanta (www.gestalgallery.it ) e mi ha dato soddisfazione sentire che il gallerista era stato convinto a fare la mostra guardando le mie sole fotografie senza conoscermi.
Poi il sindaco Lombardi, in quanto medico è stato sensibile all’argomento e ci ha messo a disposizione Palazzo Panichi, sede per le mostre dell’arte contemporanea.
Il titolo della mostra “NON LUOGO” sembra quasi scontato ma l’idea nasce proprio dal fatto che se mi trovavo a Roma piuttosto che Torino o Milano mi trovavo comunque nello stesso luogo.
La mostra è poi divisa in sezioni, per esempio il tema delle scritte, i soggetti delle attese per un totale di più di trenta foto in diversi formati e colori. Per il resto poi è il caso di venire a vederla.


07 marzo 2013

di Mirta Vignatti

Della grande triade del post-modernismo nordamericano (Pynchon, Wallace, De Lillo), credo che D.F. Wallace sia colui che nelle sue opere estremizza più degli altri la destrutturazione della materia narrativa enfatizzando la parola come unità dotata di possibilità combinatorie pressoché infinite. 
 
Penso sia questo l'assunto concettuale che sta a monte di quasi tutta la produzione letteraria di D.F.W. e non mi pare che -almeno in questo godibilissimo romanzo- tale impostazione teorica vada a cozzare con la leggibilità e la positiva fruizione da parte del lettore.
 
 Il talento dell'autore qui si dimostra talmente grande, i registri scelti e il trattamento della trama sono talmente raffinati che credo di poter affermare che “La scopa del sistema” sia uno dei romanzi dell'autore più riuscito. Dal concetto astratto del mondo moderno come caos che l'autore interfaccia con una bulimia linguistica e verborragica impressionante, emerge sì una trama sconquassata, demenziale, assurda, ma è pur sempre trama avvincente, coerente e coesa fino alla fine. E questa credo sia la sfida che DFW cerca sempre di raccogliere e vincere contro le complessità del sistema: l'autore sviluppa un puzzle di personaggi più o meno plausibili infilati in storie che s'intrecciano, elaborate sul registro del comico, del grottesco, del surreale, a volte del non-sense. Dietro c'è -come dicevo- la sfida di poter raccontare il mondo (così assurdo, destrutturato, insopportabile nella sua banalità) combinando storie altrettanto assurde e paradossali con un numero n all'infinito di parole che creano un effetto di marea crescente tale da disorientare il lettore. (Dato che questo è l'obiettivo: non gratificare, rassicurare, confortare il lettore -leggi anestetizzare- ma disorientarlo, visto che è il caos ciò che lo circonda)
 
. Se “La scopa del sistema” conserva ancora un grado di leggibilità e di piacevolezza, il vero gap Wallace lo otterrà anni dopo con Infinite Just, vero totem del post-modernismo, dove il lettore è chiamato ad uno sforzo inane di concentrazione e applicazione, con una trama stavolta al massimo grado di destrutturazione.
 
 Ma in questo romanzo, scritto da un giovane, geniale e talentuoso Wallace ai suoi esordi (nel 1987 aveva soltanto 25 anni), la giustapposizione di storie, di frammenti di esiti linguistici da varie fonti, di elementi di pura surrealità, è ancora condotta con spirito giocoso e cattura il lettore che riesce a seguire senza problemi la volutamente costruita dispersione del testo. Certamente la disperazione interiore di D.F.W. , che imploderà a pieno nelle sue ultime fatiche letterarie, non riuscirà più a dominare il caos con la scrittura, nonostante tutti i suoi sforzi titanici. Fino ad arrivare agli ultimi drammatici esiti del percorso personale dell'autore.
 
 Considero questo romanzo un valido strumento per approssimarsi al post-modernismo nordamericano, ed è il caso di segnalare anche l'ottima prefazione di Stefano Bartezzaghi (mai scelta del prefattore fu più saggia) e l'eccezionale traduzione di Sergio Claudio Perroni, che qui dà il meglio di sé in maniera encomiabile.
 
David F. Wallace, “La scopa del sistema”, Einaudi 2012.

06 marzo 2013

"La vita che vorrei" di Nichi Vendola e Lidia Ravera



di Gianni Quilici

Nelle librerie che frequento non lo vedo esposto. Vedo molti libri inutili. I libri para-televisivi o libri sulla contingenza. Libri che possono durare un mese e poi morire. Non hanno più presente.
Non è così per “La vita che vorrei”, un lungo incontro tra un politico sui generis, Nichi Vendola, ed una scrittrice sui generis, Lidia Ravera.  Ed è un peccato che non abbia la diffusione necessaria, perché come recita il risvolto di copertina è davvero “un confronto sul vissuto, la politica, il paese che è stato e quello che dovrebbe essere”. C’è anche qui la contingenza, il presente, ciò che è già diventato passato, ma il nocciolo del libro va oltre.

In primo luogo non è solo o tanto un’intervista, come in genere succede, ma un confronto, un confronto di alto livello. Lidia Ravera è a volte l’intervistatrice, che chiede, ma soprattutto l’interlocutrice, che interagisce ampliando, suggerendo e rimandando ed anche la scrittrice che osserva… Osserva, con brevi note in corsivo, Nichi Vendola e il luogo, se stessa e la situazione.

In secondo luogo questo confronto porta ad approfondimenti su una miriade di questioni, che si offrono al lettore come suggestioni, come ipotesi da analizzare, da approfondire analiticamente. Insomma un centinaio di pagine da saccheggiare.
Per rendere più visivo questo possibile saccheggio trascrivo alcune voci che questo confronto suggerisce:
la lingua della politica, l’individualismo proprietario, le grandi narrazioni del passato, la grande e le piccole storie, la vecchiaia, il mito dell’eterna giovinezza, la vita come simulazione, il liberismo, la sinistra funerea, i giornalisti, il diritto al suicidio, il rispetto della vita umana, vivere nel presente e nutrirsi del passato, il mondo è due, la competizione e la cooperazione, la comunità e la rete, la fraternità, San Francesco d’Assisi e Giacomo Leopardi, i parchi, la Puglia, la storia di Clelia, il fidanzamento di Luca, i disabili e i normodotati, la modernizzazione e la modernità, la fame di futuro.

Come si intuisce, è un confronto che mescola analisi e racconto, politica ed esistenza e può essere letto come uno di quei romanzi, che non vuole soltanto comunicare, ma iniettare energie in movimento, indicare un percorso complesso, collettivo e aperto.
Molto viva e acuta l’introduzione di Lidia Ravera, che del libro è regista.

Alcune frasi da meditare:
  • Abbiamo perso confidenza con le grandi narrazioni. Abbiamo smesso di porci domande fondamentali
  • L’immortalità è un’aspirazione alta. Il mito tipicamente berlusconiano dell’eterna giovinezza, al contrario, è un mito nevrotico, ridicolo.
  • … soltanto partendo dalla nostra storia possiamo mettere in campo una visione del futuro.
  • Invece di parlare si ascolta la simulazione del parlare. I talk-show.
  • Abbiamo bisogno di raccontare ciò che è accaduto in un’epoca lunga. Non ieri e ieri l’altro. Almeno negli ultimi cent’anni.   
  • Il mondo è due, il mondo è maschile e femminile.
  • Stiamo correndo verso l’abisso. Stiamo devastando patrimoni.
  • Noi dobbiamo pensare ad una sinistra francescana (la profezia ecologica) e leopardiana.
  • Il titanismo di Leopardi è, nella sua capacità di ergersi, lui, solo e disperato, solo e malformato, solo e diverso, contro il caos della natura, di contrapporre al caos della natura la cultura, che è vincolo di civilizzazione.
  • Una vera rivoluzione culturale sarebbe la scoperta che siamo tutti disabili…
  • Liberté, egalité, fraternité. Ripartiamo da lì. E’ questa, forse, l’opportunità che la crisi ci offre.    

Nichi Vendola, Lidia Ravera. La vita che vorrei. Dino Audino Editore. Pag. 110. Euro 10,00.