28 ottobre 2014

"1915 – 1945" di Luciano Luciani



Trent’anni travagliati e contraddittori
Le radici della nostra contemporaneità

Nel breve periodo del secolo scorso che va dall’inizio della prima guerra mondiale, quel 1915 di cui ci accingiamo a breve a celebrare il centenario, alla fine della seconda accade tutto e il contrario di tutto: due devastanti conflitti di dimensioni planetarie; crolli di imperi; sviluppo e sfacelo di feroci dittature e crudeli regimi autoritari; durissime crisi economiche… Non è un caso che molti storici contemporanei, ripensando quel segmento di storia recente lo abbiano ribattezzato “la guerra dei trent’anni” del Novecento.

Lo sviluppo industriale affolla le periferie e spopola le campagne. Con lentezza, con fatica, attraverso mille sussulti, si passa dalla ribellione anarchica, ancora sconnessa, illogica, all’organizzazione sindacale e di partito. Le masse scelgono di irreggimentarsi. Se migliorano, comunque, le condizioni di vita delle classi subalterne si restringe, però, l’area dei diritti e si allargano i consumi. Il primo dopoguerra libera le donne: l’emancipazione femminile cresce perché l’industria ha necessità del lavoro delle donne e le donne servono come consumatrici.

Oh, la felicità!
La felicità sembra divenire un dovere e la si identifica soprattutto con la comunione amorosa che si trasforma facilmente in desiderio, eccitazione, sensualità. E all’erotismo riportano tanto lo slow, il ballo lento, languido tutto giocato nell’esiguo spazio di un mattone, quanto le intemperanti sfrenatezze del charleston, danza di derivazione jazzistica, dal ritmo mosso, gaio, vivace.

Le icone della bellezza femminile si chiamano Greta Garbo, ascetica, ambigua, romantica, oppure donne che rappresentano un esplicito richiamo sessuale: Jean Harlow, la bionda platinata che dà corpo al sogno maschile del ‘ghiaccio bollente’; Marlene Dietrich, l’immagine della donna dominatrice e regina dell’amore fisico; Mae West, sensuale, dalle forme fiorenti e flessuose.

Anche i modelli maschili subiscono un’evoluzione che va di pari passo con le trasformazioni della società. Non più gli eroi dissipati portati sullo schermo da Rodolfo Valentino o gli eleganti, stanchi vitaioli interpretati da Adolphe Menjou: piuttosto gli uomini venuti su dal nulla e rudi ingegneri dai lineamenti tagliati con l’accetta come quelli del giovane Spencer Tracy.

Ballando, ballando
Tra gli anni Venti e i Quaranta il mondo cambia e profondamente. Ce lo testimoniano anche le piccole cose, le modeste abitudini quotidiane che entrano però nel concreto della vita della gente. Per esempio, sempre per rimanere nell’ambito del ballo non si può non notare che l’ebbrezza travolgente e un po’ affannata del charleston viene sostituita da ritmi sempre più sincopati: l’esotica rumba sudamericana; oppure lo swing, ovvero il ‘dondolio’, suggerito da una tensione ritmica, dal gioco delle accentuazioni, degli anticipi e dei ritardi che ha come maestro indiscusso Luis Armstrong e New Orleans come luogo d’elezione.

La moda ricerca l’evasione, la stranezza: le giacche maschili rinunciano al bavero e le donne vestono giacche a sacchetto, con spalle ampie e imbottite, enfatizzando a dismisura il gioco delle scarpe ortopediche, altissime e instabili.

La radio, insieme al cinema la grande passione degli italiani degli anni Trenta, porta nelle case di un milione e mezzo di famiglie canzonette come “Non ti scordar di me”, 1935; “Reginella campagnola”, 1938; “Maramao… Perché sei morto”, 1939; “Firenze sogna”, 1939…

Bombe, fame e canzoni
Il 1 settembre 1939 le truppe di Hitler passano il confine con la Polonia. Il 3 settembre l’Inghilterra e la Francia dichiarano guerra alla Germania. L’anno dell’Italia è il 1940: la sua entrata nel calvario di un conflitto che si sarebbe rivelato disastroso risale alla notte tra il 10 e l’11 giugno quando aerei italiani scaricano il primo carico di bombe su Malta. Passeranno cinque anni prima di uscire malconci dall’atroce inganno della guerra e i giovani, ancora una volta, saranno quelli più violati nel loro diritto alla pace e depredati della gioventù se non della vita.
Ed è su uno scenario già guastato dal conflitto e da due dolorose novità, l’incubo dei bombardamenti e la fame, che si collocano due altri grandi successi della canzone di quegli anni: “Mattinata fiorentina”, 1941, e “Ma l’amore no”, 1942.
Ed è proprio quest’ultimo il motivo destinato a diventare la colonna sonora di eventi che segneranno e muteranno nel profondo la storia del nostro Paese: lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la caduta del fascismo, l’armistizio, l’8 settembre, la lotta per la riconquista della dignità nazionale sono vicende destinate a rimanere nella memoria dei meno giovani legate alla voce, triste e sensuale, di una giovanissima e bellissima Alida Valli.


“Lilì Marlèn”
 Un’altra canzone percorre tutta l’Europa straziata dalla guerra: è “Lilì Marlèn”, che sola, presso il suo fanale, tra un bombardamento e l’altro, tenta di fermare l’attimo, di cogliere un istante d’amore per reagire, nella maniera più umana che si conosca, alla disperazione per tanto odio e tanto inutile dolore.

Dovrà passare ancora qualche anno prima che alla tristezza di ‘Lili Marlèn’, si sovrapponga il festoso baccano di “Rosamunda”, l’ironica ricerca di Zazà, i ritmi veloci e assillanti del boogiewoogie… La guerra calda è terminata, se ne prepara una nuova, quella fredda: massicci eserciti armati fino ai denti si guarderanno in cagnesco per altri quarant’anni. Per spaventare, spaventarsi, per paura, per farsi paura, cercando così di evitare un’altra guerra. La storia ci ha detto che, in fondo (ma molto in fondo!) questa minaccia ha funzionato. Il mondo e gli uomini, però, non sono certo diventati migliori.


27 ottobre 2014

Tiziano in Mostra” ovvero “Murales or not Murales”



di Mira Giromini

Dal 24 ottobre al 31 ottobre 2014 presso il negozio “Vezzi D’Arte”, Via Chiesa a Carrara (MS) sarà possibile vedere le opere in tecnica mista (acrilico e olio) dell’artista Tiziano Maffei con il seguente orario del negozio dalle 9 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19:00.

Tiziano Maffei inizia a disegnare già da bambino ma è in particolare frequentando l’Istituto d’Arte di Firenze che approfondisce il disegno. Stimolato dal fratello maggiore, già maestro d’arte e pittore apprende quelli che sono i segreti del mestiere, quella stessa preziosa tecnica che è poi incarnata dalla figura del padre disegnatore e doratore. Per anni Tiziano è attratto dai pittori del ‘600 e grazie a loro ne fa il suo mestiere come copista per la Galleria di Palazzo Pitti a Firenze mentre contemporaneamente porta avanti il suo estro e la sua vera arte.

In mostra è possibile ammirare il suo talento in un ritratto, nell’interpretazione del David di Michelangelo (omaggio al padre) e nel componimento della figura umana. Tiziano ama soprattutto il nudo, quello femminile che inserisce in un particolare sfondo, una grafica che lui stesso definisce “surreale” ma dalla quale emerge il vero talento artistico e la sua vera natura. 

Dal 1970 diventa un professionista lascia la città di origine e si trasferisce nella fantastica isola Elba dove ha trascorso ben 25 anni. 
Nella sala espositiva possiamo ammirare i paesaggi toscani: la distesa di girasoli, un campo di ulivi e poi i delfini, il mare, i pesci e “sorella acqua”.

Tornando all’artista, la Florida segna sicuramente la sua crescita personale e professionale e gli dà la svolta nel campo artistico che da pittore tradizionale su tela lo lancia nella più importante tecnica contemporanea: il murales. Ciò che lo affascina e lo diverte sono soprattutto le grandi dimensioni, la sfida a creare nei grandi spazi quasi delle gigantografie. Tiziano stesso mi confessa il piacere che ha provato nel vedere il bel murales di piazza delle Erbe a Carrara, firmato dal gruppo Orticanoodles e dedicato a Francesca Rolla (1915-2010), una delle donne simbolo della Resistenza carrarese del 1944.
In America Tiziano ha avuto la possibilità di conoscere i murales realizzati su interi grattacieli e ha apprezzato il murales statunitense più grande del mondo.

Rientrato in Italia dunque non smette più di immaginare e creare murales il primo dei quali è del 1999, da allora ne ha realizzati più di 500, molti dei quali nella Val di Non e nella Val di Sole in Trentino (paesaggi e figure sulle testate dei letti degli alberghi, sulle facciate delle case.)

Dunque Tiziano è un pittore che realizza molte opere di una profondità straordinaria toccando il tema della dualità femminile-maschile e della creazione ma lavora soprattutto su commissione.  

Dalle fotografie trova la sua ispirazione dalla quale ne nasce una rivisitazione e una sua reinterpretazione. Ritrattista, parte dallo sguardo per ricercare l’anima delle sue figure e guardandoli si riesce a percepirne le emozioni più intime.

Corpi e volti che tendono alla naturalezza ma caratterizzati da sfondi che portano fuori dalla realtà. “La realtà è soggettiva” afferma Tiziano “ognuno di noi vede quello che gli piace in ogni soggetto, le donne che ho dipinto ho deciso di inserirle in una parte surreale dove chiunque può immaginare quello che gli interessa ovvero tirare fuori da se stesso quello che vuole. Evocare l’immaginazione in chi guarda le mie opere è per me importante”.

Chiunque di noi abbia il desiderio di lasciarsi immergere dall’emozione e dall’immaginazione può andare a trovare il pittore Tiziano Maffei ad Aulla, nella bella Lunigiana dove lavora e ha scelto di vivere trovando un compromesso tra scelta del mare e della montagna.



17 ottobre 2014

“La tomba e la donna” foto di James Nachtwey





di Gianni Quilici

Una foto può essere costruita, cioè preparata, confezionata, recitata.
La bellezza e forse la più autentica specificità della fotografia è essere là dove c’è il fatto, l’evento e coglierlo. Come racconto o come scatto che meglio lo simbolizzi…

James Nachtwey è il più famoso e forse più significativo fotografo di guerra e dintorni. Alcune delle sue foto sono così terribili, che sono (per me) inguardabili e forse discutibili.
E tuttavia, oltre ad essere un fotoreporter che ha rischiato la vita tante volte, è uno di quei fotografi, che meglio ha rappresentato la seconda metà del ‘900 del nostro Pianeta.

Prendiamo questa foto.
E’ una foto poetica, di una poesia minimalista.
Poteva farla chiunque?

Intanto bisognava esserci, come scrivevo prima.
In secondo luogo cogliere, come Nachtwey ha colto, la donna inginocchiata e raccolta proprio nel momento in cui ha poggiato la mano sulla tomba, una nuda pietra.   
Infine non dare, come Nachtwey non ha dato, altro orizzonte all’immagine, se non le tombe, perché non ci fosse altro elemento che potesse deconcentrare lo sguardo da questo.

Perché la poesia, il punctum barthesiano, nasce da questo rapporto: la donna con il burka di una paradossale bellezza quasi classica, che la manifesta tuttavia senza volto, anonima, a sottolineare una condizione di schiavitù; e la tomba che racchiude questo dolore con la nuda desolazione del luogo di povere pietre, rendendo ancora più diretto e forse più vero, senza fronzoli, il rapporto tra il corpo vivente della donna ( e di noi che guardiamo) e la materia… la pietra nuda, la terra secca.

James Nachtwey. Donna piange una vittima di un attacco missilistico. Kabul 1996.

15 ottobre 2014

“Selezione di modelle” di Carl De Keyzer




di Gianni Quilici

Uno scatto assolutamente riuscito.
Carl De Keyser, infatti, coglie due elementi, in rapporto tra loro, essenziali; ne nasconde (giustamente) un terzo.
Gli sguardi degli esaminatori su di lei; le cosce accavallate e scoperte della ragazza. Ne nasconde il volto, lasciandolo al possibile desiderio dell’immaginario.

Il nostro occhio rimbalza, quindi, da lei a loro; da loro a lei, ma sono le cosce inguainate e lucide da collant, accavallate a formare quasi un triangolo, le scarpe nere coi tacchi  e gonna corta ancora nera il centro su cui si posa immediatamente lo sguardo, non solo perché  in primo piano, ma anche per la loro naturale sfrontatezza.

E tuttavia, ad uno sguardo più attento, si coglie negli sguardi dei giovani esaminatori un sorriso divertito più che un desiderio. Quasi sicuramente lei sta parlando, forse è divertente.

La foto poi, del 1994, credo che abbia già una sua storicità: per le panche e i tavolini autentici, ma poveri, consumati dal tempo come la parete scrostata, che si intravede a fare da cornice, per il luogo disadorno, in cui si compie la selezione di modelle, certamente lontana dall’eleganza tecnologica dei giorni nostri.

Carl de Keyser. Selezione di modelle. Cracovia, Polonia. 1994

13 ottobre 2014

"Gli strani incontri Antologia fantascientifica" a cura di Luciano Luciani



I domani che ci attendono


L’inquinamento e la sovrappopolazione, l’imperialismo e il razzismo, la portata morale dei fatti scientifici e le relazioni tra scienza e spiritualità, il contrasto tra le generazioni e il conflitto tra i sessi… Da un secolo ai nostri giorni, non c’è nodo problematico intorno al quale la fantascienza non abbia, con maggiore o minore acutezza e profondità, indagato, svolto riflessioni tutt’altro che banali, inventato narrazioni idonee a straordinarie e durature suggestioni.

Appena appena delibata dai Grandi Scrittori (Alvaro e Flaiano, Bigiaretti e Soldati, Calvino e Levi) che, come da un frutto proibito se ne sono subito ritratti, questa letteratura, a parte una breve stagione di gloria negli anni sessanta e poco più, ha sempre conosciuto una condizione d’esistenza marginale. Considerata ora letteratura popolare, ora vezzo di pochi, la science fiction rappresenta oggi un’area ristretta ma corposa di appassionati, vittima di una maledizione di cui sarebbe interessante individuare le cause socio-culturali oltre che i responsabili. Insomma, almeno e soprattutto nel Bel Paese, la fantascienza sconta, ancora oggi, una collocazione percepita da molti, moltissimi, come eretica: dalle sue storie promana, anche attualmente, un vago sentore di zolfo, insopportabile per gli olfatti delicati sia dell’accademia scientifica, sia dell’establishment letterario.

Tant’è… E chissà cosa si nasconde dietro questa incapacità - una prerogativa solo ed esclusivamente italica - di prefigurare i domani che ci attendono.

Una posizione nobilmente minoritaria quella della letteratura di fantascienza. Non ignota anche a “Naturalmente”, rivista di “Fatti e trame delle Scienze”, che certo non per caso, fin dalle sue origini, ha scelto di valorizzare questo particolare tipo di scrittura creativa, offrendo spazi ai suoi Autori e alle sue storie, sempre in bilico tra apocalisse e rivoluzione, sempre nutrite di un originale mix di contenuti compresi in una particolarissima terra di nessuno tra filosofia, poesia e scienza.

E non è senza significato se, in un tempo per tanti versi buio e insoddisfacente, “Naturalmente” nella sua collana editoriale Finestre abbia deciso di riproporre a un pubblico più ampio di quello dei Lettori e degli Abbonati, la science fiction già apparsa nei suoi fascicoli fin dal 1992. Nasce così questo Gli strani incontri (autori antologizzati Maurizio Antonetti, Roberto Barale, Sauro Donati, Carlo Flamigni; Andrea Milani, Roberto Sirtori, Vincenzo Terreni), pagine che alle sicurezze scientifiche sostituiscono i timori, le speranze, le perplessità dell’uomo contemporaneo affacciato sul precario balcone del terzo millennio. Perché, per dirla con Bacone, “se un uomo parte da certezze, terminerà con i dubbi; ma se si contenta di cominciare con dubbi, terminerà con certezze”.
                                                                                                                     (dalla Introduzione)



Luciano Luciani (a cura di), Gli strani incontri Antologia fantascientifica, collana Finestre/5 I libri di Naturalmente Scienza , ETS Pisa, 2014, pp. 140, Euro 12,00

11 ottobre 2014

"Intervista a Laura De Cesare" di Mira Giromini




A Pisa esiste una piccola bottega artigiana di una tessitrice che a partire dal 2007 con abilità e coraggio ha aperto il suo laboratorio in senso classico: “una bottega dove si lavora, si insegna, si fa arte”. L’ho intervistata e lei gentilmente mi ha accompagnato nel suo percorso di lavoro e di vita.

Come è nata la tua passione per la tessitura? È stato un approccio graduale o un colpo di fulmine e una folgorazione?
Si è stata una folgorazione. La tessitura fa parte di un mio percorso personale. Mi sono trasferita da Milano in Toscana, giovanissima, in particolare per motivi di studio, mi ero infatti iscritta al corso di pedagogia a Firenze. Dopo un anno dove avevo fatto un solo esame, dopo essermi trasferita da Milano a Pisa e non aver concluso bene l’anno accademico; ho chiesto un periodo sabbatico ai miei genitori perché inevitabilmente il mio destino sarebbe stato quello di rientrare a Milano ed io non volevo. I miei genitori hanno accordato di mantenermi senza un obiettivo, se non capire cosa volevo fare nella vita.
Dunque la domanda era: ora cosa faccio? cosa voglio fare nella vita?. Un giorno camminando per Pisa mi sono data la risposta poiché mi sono sempre piaciuti i travestimenti, i vestiti, gli sfarzi, la musica, io volevo fare la cantante, anzi avevo studiato da cantante ero un soprano di lirica. Comunque tornando alla mia risposta, il processo per arrivare ai vestiti è stato chiedersi e capire come si costruiscono i tessuti, mi sono quindi adoperata per cercare nella mia zona un posto dove si vedesse il processo di costruzione, spinta da non so quale istinto. Nella mia vita ho incontrato molte maestre tessitrici: la prima a Lucca, Lucia Nesi che ancora adesso è mia amica, è colei che mi ha accolta a casa sua, con il suo telaio e mia ha dato le prime lezioni. Il problema, purtroppo è che io cercavo altro; la tessitura è molto noiosa se non conosci il disegno, così mi sono messa a cercare altro. Avevo tre indirizzi uno dei quali mi indicava il nome di Graziella Guidotti. Quando ho visto il suo laboratorio mi sono detta “qui devo stare”.
Ho lasciato così l’università e ho detto ai miei genitori che avrei iniziato a studiare tessitura. Dopo un’iniziale reazione negativa questi hanno acconsentito e mia mamma mi ha regalato questo telaio con il quale sto lavorando. Da lì poi non ho più smesso! Ho continuato sempre a tessere. Per mantenermi gli studi ho cominciato a scrivere, sono diventata giornalista e per un periodo facevo solo la giornalista, sempre tenendo il telaio in casa e tessendo cose per me.
Ho sempre seguito la tessitura come se fosse la mia passione mentre lo scrivere era il mio primo lavoro. Non dimentichiamo che testo viene dal participio passato del verbo tessere (dal lat. textus, testo) e scrivere è come tessere, tessere è come scrivere, così come comporre un componimento musicale quindi sono tutte forme di linguaggio. Lo scrivere è stato per me il passo precedente al tessere.

Quando hai avviato la tua attività?
Ho avviato l’attività nel 2007 dopo essermi assestata sentimentalmente. Io che ero sempre con la valigia in mano, inqueta. Ho trovato dopo molto tempo il mio equilibrio, la mia famiglia e dopo i miei due figli mi sono sentita pronta per il mio sogno iniziale: aprire una bottega alla luce di quello che avevo imparato, dalle maestre tessitrici varie e non solo, dal giornalismo e dalla Vita-Maestra. Dunque una bottega dove produrre. Dopo il secondo figlio ho deciso di avviare questa attività che è stato come partorire un terzo figlio, nottate, difficoltà, inizialmente nessuno mi credeva ma alla fine ce l’ho fatta, eccomi qua al lavoro.
Dico sempre che il mio laboratorio l’ho avviato secondo un’impostazione classica, quella vasariana, cioè si produce, si insegna e si fa arte, perché l’artigiano è questo. Non c’è artista che non sia prima artigiano, il talento è retto dalla tecnica e viceversa.
Dopo l’apertura della bottega sono anche diventata socia fondatrice dell’ Associazione Coordinamento Tessitori Italiani (www.tessereamano.it) che raccoglie più di trecento iscritti. Dal 2009 sono presidente dell’Unione per l’Artigianato Artistico della C.N.A. di Pisa. E poi lavoro molto con Artex, ente che promuove l’artigianato artistico della Toscana (www.artex.firenze.it).

Quali sono le qualità personali per essere un buon tessitore?
La tessitura è per ognuno qual’ cosa di diverso. Per me è un codice di comunicazione. Per me è uno strumento con il quale esprimermi. Non voglio diventare una brava designer, io voglio esprimermi, perché la tessitura è anche dialogo. Per me la tessitura è un veicolo per conoscermi e conoscere gli altri. In quanto insegnante, da come uno si avvicina al telaio e tesse io riesco a capire o intuisco delle cose. Una grande qualità educativa della tessitura è che ti costringe ad essere presente nel momento, devi essere presente perché devi coordinare il pensiero con l’azione. Se non sei presente rischi di sbagliare e ricominciare d’accapo. Per quanto riguarda la tessitura il lavoro è diversificato c’è l’idea, il progetto e poi c’è la fase esecutiva dunque più fasi: una parte creativa, una parte tecnica, la parte di espressione e la parte dell’abilità artigiana. E’ un lavoro fantastico che ti permette di incontrare tanta gente ma quello che mi da maggior soddisfazione è l’insegnamento. Tra i miei progetti c’è “l’artigianato a scuola” svolto nelle scuole di Pisa. E poi devi sapere che quando ho avviato l’attività cercavano un insegnante di tessitura presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, in quanto cultrice della materia ho insegnato tecnica tessile e disegno tessile presso l’Università, un’esperienza fantastica per tre anni. La scoperta dell’insegnamento è stata per me inaspettata, bellissima e non l’ho più abbandonata.

Quali sono i materiali che adoperi?
Uso materiali che hanno un significato: materiali pregiati come la seta, il caschmire, l’alpaca, oppure il lino, tanto lino e poi anche materiale appunto con un significato ovvero la lana garfagnina che riguarda un percorso di filiera corta. Un materiale che abbia un significato perché è difficile competere nel mercato, così mi distinguo per il materiale, per le cose su misura oppure su creazione mia.

Puoi parlare della tua ultima creazione e su cosa stai lavorando?
Sto lavorando a campionature di tende. In questo momento poi si produce anche per il Natale, sto lavorando su dei cestini di lana garfagnina e delle stole, accessori moda e qualche runner per la tavola. Oggetti che devono essere pezzi unici, che non trovi nel mercato seriale.
In quanto artigiana, mi devo distinguere e devo fare cose che nessuno ha e soprattutto con un significato. Dopo il Natale ci sarà la produzione primaverile/estiva perché per preparare un lavoro ci vuole molto tempo. Con l’arrivo dell’autunno si attivano poi i corsi si programma l’anno; come per la primavera anche l’autunno è una stagione molto impegnativa.

Progetti per il futuro: eventi, mostre, fiere?
Con le fiere per il momento mi astengo poiché negli ultimi anni ho lavorato molto nelle fiere. Ora mi sto dedicando al commercio estero, non più Europa ma Stati Uniti.
Una novità di quest’anno è mettere a disposizione il mio lavoro per coloro che hanno dei disagi psichici. L’arte della tessitura come forma di riabilitazione psichica.

Come si riesce a coniugare uno strumento del passato con le esigenze del mondo d’oggi?
La tessitura è in realtà un linguaggio modernissimo; da qui arriva il linguaggio del computer!. La tessitura è attuale nel momento in cui io la utilizzo come un mio codice di comunicazione e poi anche la pittura è un mezzo antico. Sta nell’artigiano rinnovarsi, l’artigiano deve imparare ad utilizzare mezzi di comunicazione quali la Rete (l’uso del sito e dell’e-mail) soprattutto a partire dai mezzi tecnologici. Io ora con il mio telefono ho la possibilità di vedere subito l’e-mail senza accendere il computer e poi scannerizzo i miei disegni, li spedisco e li catalogo.
Il problema è alleggerire gli archivi e velocizzarli. Sto cercando di indirizzarmi verso una maggior tecnologia e portare gli artigiani, come me, verso questa direzione per imparare a comunicare e gestire la propria attività. L’artigiano non è un manager ma al giorno d’oggi ti si chiede di esserlo. L’impresa artigiana deve essere “bottega-azienda” e non più solo “bottega”. Risulta prioritaria la necessità coltivare una cultura imprenditoriale: la promozione on line, e-commerce dunque il sito, l’artigiano ha necessità di gestire tutto e può arrivare ovunque attraverso il canale informatico e tecnologico. L’artigiano da solo deve incarnare la creazione la comunicazione, l’amministrazione e non è facile.

Prima di concludere vorrei condividere una riflessione: nel recupero del lavoro artigianale della tessitura c’è un aspetto etico del lavoro?
Assolutamente si, innanzi tutto verso me stessa: mi preservo. E poi quando tu dici qualcosa di vero e passi un’esperienza “vera” i giovani lo sentano. Il futuro ha bisogno di verità e contenuti. Qualsiasi contenuto che tu dai che sia la tessitura, il caseificio, la scrittura, se passi qualcosa di autentico, con professionalità e lo sai fare, con umiltà perché non esiste il Maestro, quello che sa tutto, tu ti cerchi i maestri tuoi. Qualsiasi cosa che abbia contenuto è portatore di futuro. Io credo che il mio lavoro sia attualissimo l’unica cosa è importante che l’artigiano si rinnovi. Io continuo sempre a studiare e anch’io dopo essere stata per molto tempo allieva ora comincio ad avere un mio metodo e un mio stile.

Ora concludo io con una riflessione “la chiave è trovare quello che ti piace e farlo perché da li che l’energia sgorga senza fine”.

Per saperne di più: www.lauradecesare.it

08 ottobre 2014

“Marinella Lazzarini: un’amica” di Gianni Quilici





                 foto di Gianni Quilici
Marinella Lazzarini era un’amica.
Un’amica più pubblica che privata.
Ci si vedeva soprattutto nei cortei, nei momenti di discussione all’interno dei vari movimenti che hanno attraversato Lucca dalla fine degli anni ’60 ad oggi. Ci siamo frequentati molto in “Luna Nuova”, forse il più significativo giornale che la sinistra abbia realizzato a Lucca. E ci siamo incontrati per caso, nelle vie e nelle piazze della città,  abbiamo parlato di Mozart e di letteratura, del comunismo e di adolescenza, di scuola e del dover essere.

Marinella ha lasciato una traccia profonda nei molti che l’hanno conosciuta.
Perché?
Primo: stava dalla parte degli umili, degli offesi, dei più deboli e da lì valutava il mondo. Perché aveva un fortissimo senso della giustizia. Era visceralmente contro ogni forma di violenza, di sopraffazione, di ineguaglianza. Da lì la sua presenza, a partire dal ’68, nel movimento studentesco e operaio, nel movimento delle donne ( credo sia stata la “femminista” per antonomasia a Lucca), nel movimento pacifista e per i diritti, nelle manifestazioni in difesa della Costituzione e della democrazia.

Secondo: questo senso della giustizia era legato ad un desiderio fortissimo di libertà personale e collettiva. Ricordo una delle ultime volte in cui l’ho incontrata, un dibattito sul ’68, ai miei occhi un’occasione mancata, in cui mi piacque molto la sua testimonianza. Raccontò il suo rapporto con il ’68 come rivolta anche verso la famiglia; una famiglia, che tuttavia adorava e ha continuato ad adorare,  Nella Rugani, la mamma,  Marino Lazzarini, il padre, che tanto bene hanno “seminato”  per la società lucchese.

Terzo: questa scelta di libertà la esprimeva anche con un senso teatrale della vita. La vita per Marinella era incontro,  espansione di sé con gli altri, possibilmente gioiosa. Stare con lei era piacevole. Sapeva raccontare e ascoltare, interagire e divertire anche.

Quarto: Marinella era poi un’intellettuale. Una donna che leggeva, si informava, elaborava, scriveva. Ha pubblicato un libro importante 2420: Nuska Hoffman” (EDL) in cui ricostruisce la vita di Nuska, un’ebrea polacca, che era riuscita a sopravvivere ai campi di concentramento. Ed è nell’esperienza di  Luna Nuova, durata alcuni anni, che ho potuto verificare la radicalità del suo pensiero insieme ad un’attitudine pedagogica, le capacità espressive e quelle di suscitare consenso, la responsabilità verso gli impegni che si prendeva insieme ad una grande generosità, che chi le è stato vicino avrà avuto modo di vivere più di quanto abbia potuto il sottoscritto.

Infine:  c’è poi quello che non ho vissuto con lei. Le zone più intime, più segrete. Quelle che richiamano il mistero dell’essere e dell’esistenza.    

    



"Il bacio" di Eva Scatena


Eva Scatena


Il bacio, quell’intrusione morbida ed elettrizzante nella vita altrui.
Adoro baciare, e non solo con passione.
 
Mi piacciono i bacini affettuosi, quelli con cui cospargi le guance dei bambini, la testa delle amiche, le spalle dei compagni di gioco e lavoro.
 
I baci veloci, pieni di briciole, quelli un po’ sbaciucchiati, quelli umidicci e quelli stampati con forza sulle guance fino a sentire le ossa degli zigomi.
 
Baciare è un’arte che non richiede fatica, è un’attrazione istantanea verso il desiderio, l’espressione primordiale di un coinvolgimento. Ti porto alla bocca, è il mio primo istinto, come succhiare il latte della mamma, come mangiare.
 
Baciare è sopravvivere più che respirare.
 
Non è un caso che la letteratura e la cinematografia neghino i baci alle prostitute: puoi donare o vendere il tuo corpo, ma la bocca rimane un territorio sacro, puro, incontaminato. Se ti bacio ti amo ben di più che se finiamo tra le lenzuola.
 
E quanto orrore per quei baci al vento, senza contatto, tra le signore, quando la finzione si manifesta in un gesto così autentico.
 
Niente ti smaschera più di un bacio.
 
Amo il tanto, odio il limite.

06 ottobre 2014

“L’entrata in guerra” “La giornata di uno scrutatore” di Italo Calvino




di Gianni Quilici

Leggendo questi due brevi romanzi di Italo Calvino ho immaginato, soltanto immaginato…. “come sarebbe bello fare una storia d’Italia attraverso migliaia e migliaia di romanzi e di racconti!....”. Una storia dove ci siano i fatti certamente, ma anche e forse soprattutto le condizioni sociali e psicologiche e quindi storico-antropologiche del potere e delle classi sociali, dei loro contrasti e connubi nelle varie realtà di una geografia italiana, che ha avuto ed ha oggi, almeno in parte,  le sue peculiarità specifiche.

Ne “L’entrata in guerra” siamo nell’estate 1940 in Liguria e nel secondo del trittico di racconti, a Mentone, che era stata annessa allora all’Italia.
Calvino descrive bene la miseria umana (si pensi al vecchio paralitico nella cesta), la violenza della guerra o la sua desolazione nella Mentone distrutta, deserta e vandalizzata e la volgarità esibita e becera dei fascisti ed invece il dolore,  la solitudine, una rivolta senza orizzonti dell’io narrante, poco più che adolescente, che diviene a volte poesia.
“Avrei voluto smarrirmi nella notte, votarmi anima e corpo a lei, al suo buio, alla sua rivolta, ma capivo che quel che in lei attraeva era solo una sorda, disperata negazione del giorno”.

Nel secondo romanzo La giornata di uno scrutatore Calvino opera una felicissima sintesi tra il racconto e la riflessione, in cui questa si fa essa stessa narrazione.

Siamo a Torino nel giorno delle elezioni politiche del 1953,  sotto il segno della  “legge truffa”.  Amerigo Ormea, militante del PCI, esce di casa alle cinque e mezzo del mattino per fare lo scrutatore al Cottolengo. Amerigo è un intellettuale deluso dell’Italia post-resistenziale, rispetto al clima vissuto immediatamente dopo la Liberazione, in cui “la gente era partecipe e  interessata alle questioni universali più che a quelle private”, mentre ora era ritornata lentamente “l’ombra grigia dello stato burocratico, la vecchia separazione tra amministratori e amministrati”.

L’Italia che gli si presenta agli occhi al Cottolengo è nascosta e miserabile: minorati e idioti, invalidi gravi e deformi. Questa umanità viene manovrata e strumentalizzata dal partito di governo, la Democrazia cristiana, e dalla sua alleata più potente e subdola, la Chiesa, attraverso l’azione cattolica, qui rappresentata dalla Madre superiora e da quell’esercito di suore, sprovvedute e fedeli vittime di un sistema più grande di loro.
Esemplare, in questo contesto, la figura dell’onorevole in visita  al seggio, autoritario e bonario, frettoloso e distante, chiuso nel suo piccolo potere.

E questa Italia povera e indifesa, inconsapevole e malata è scolpita con grande efficacia nel momento del voto, nei lunghi dormitori delle suore –file di baldacchini con tende bianche- nel camerone lungo, dove sono depositati coloro che non potevano lasciare il letto… Racconta Calvino: “… un grido acuto animale, continuo: ghiii…ghiii…ghi… che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da un altro punto un sussultare come di risata o latrato: Gaa! Gaa! Gaa!”.

Amerigo Ormea sa che la persona più indifesa ha il diritto di non essere trattata come un oggetto. E sa che è sbagliato sia l’estremismo, fare tabula rasa, sia chiudersi a riccio e anche rifarsi una verginità cercando di vedere con gli occhi dell’avversario le cose che lo avevano sdegnato, perché pure questo atteggiamento  nasconde in fondo  “il bisogno di sentirsi superiore, capace di pensare tutto il pensabile, anche i pensieri degli avversari, capace di comporre la sintesi, di scorgere dovunque i segni della Storia”.

 E qui sorge un rimuginare quanto mai attuale: il desiderio di una sintesi tra il rivoluzionario che si identifica con il diverso e l’animo liberale che oltrepassa l’intransigenza e lo schematismo presenti nel comunismo mondiale e che acquista la ricchezza delle sfaccettature e delle iridescenze di una mente libera.

Non solo, ma Amerigo Ormea intuisce che “compito della Storia” è quello di saldare in lui –e in tanti come lui- quel fuoco al di là di loro che supera tutti gli individui con tutte le debolezze. Un fuoco che è presente –secondo il protagonista- perfino in quella sezione elettorale: non solo in lui, ma anche nell’impazienza della donna socialista, nel bisogno del giovane democristiano di credersi su un fronte di battaglia insidiato  dai nemici e così via.

E’ la qualità di questi intimi ed anche contraddittori pensieri quanto mai vivi e attuali che fanno la grandezza del romanzo. Una riflessione che di fronte a questa umanità ferita mette in discussione lui stesso e la nostra presunta normalità.
 Amerigo arriva infatti a pensare:”Forse siamo, senza rendercene conto noi deformi, minorati rispetto ad una diversa possibilità d’essere dimenticata”.

Senza mai arrivare a conclusioni certe, neppure provvisoriamente.
“Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere”.

Italo Calvino. “L’entrata in guerra”. “La giornata di uno scrutatore”. Einaudi.