20 febbraio 2018

“Versi in viaggio” di Gianni Quilici.



                  foto di Caterina Donatelli


di Virginio Giovanni Bertini


Oltre 300 poesie, più di trenta fotografie, un lavoro immenso , stratificato nel tempo e nello spazio, difficile da cogliere nel suo valore complessivo, per le mille scintille che produce.

Città, isole, paesi, territori, ma anche musica, cultura, società, linguaggi, storia, relazioni, amore, erotismo, senso della vita: sono questi i viaggi materiali e immateriali del poeta. Sono viaggi in versi, giocando con il titolo, in cui si colgono impressioni, scatti fotografici, frammenti, attimi di emozioni e riflessioni. Con uno stile originale prendono corpo tantissimi e diversissimi affreschi, con una eccezionale attenzione alla parte più che all’insieme, alla trasfigurazione soggettiva più che all’oggettivazione di ciò che si descrive. Così da un lato i territori sono umanizzati e dall’altro l’umano diventa terra, fiume, storia, infinito.

Una poesia impressionista, ma anche esistenzialista ed ermetica, dove si avverte la fatica dell’uomo a dare un senso compiuto alla sua vita, in continua lotta tra l’essere e il nulla, tra la vita e la morte, la felicità e l’infelicità, tra la straordinaria infinita potenzialità della sua mente e della sua anima e la finitezza dei vincoli e dei limiti meccanici in cui il suo corpo è costretto.

Poesia che diventa però, spesso, anche introspezione e autoanalisi, a volte ricca di speranza, a volte incerta o pessimista, in ogni caso senza sconti, e riflessione che critica l’ipocrisia, il falso moralismo, la cultura della morte, la cementificazione che distrugge l’antico paesaggio fatto di “campi vangati e segati…..amati” e “corti di sempre”.

Un libro autobiografico, una sorta di diario di bordo di qualità elevata, dove si cerca di fermare i ricordi di una vita, perché la vita stessa come il cinema è un viaggio, tra l’essere e il nulla, e il cinema “è ricco di strade”.
A volte le poesie dei luoghi, Bretagna, Loira , Galizia e anche di città, Siena, Venezia, sono pennellate originali capaci di cogliere scene nascoste o seducenti marginalità ma subito lo scrittore sembra avvertire la necessità di umanizzare quella geografia, quasi a sottolineare che “il cinema-immagine non è la realtà”.

Sono tanti i fili che costituiscono la trama di questa tela predisposta da Gianni Quilici con grande cura. A me preme sottolinearne uno per tutti, esplicitato in una delle ultime poesie intitolata “Possibilità”: il perenne contrasto tra mille desideri da realizzare e la sobrietà della solitudine interna, un tavolo pieno ed un altro quasi vuoto, la ricchezza della vita da inventare e la povertà degli strumenti utilizzabili. Quando questo tema diventa viaggio nella società dolente l’io si sente “inadeguato alla coscienza terrestre” e chiede , quasi implora “Che niente si perda”, “che si prendano le mani nelle mani”, “che si scenda nelle strade con pensieri più lunghi e più larghi”.

Quando l’io ritorna su se stesso a volte subentra la “Paura cosmica”, ….” di intravedere l’infinito tempo e io nulla”. E’ lo smarrimento dell’uomo quando prende coscienza dei suoi limiti esistenziali. In questo contesto prende forza una via di fuga, o meglio un’uscita di sicurezza: “immergere il corpo nella luce”, vivere appieno la vita viaggiando, portando la conoscenza oltre il già visto e tracciando queste esperienze in fotografie e poesie per non dimenticare, per lasciare un’impronta, una memoria.

Così l’avidità di sapere, di conoscere, di pensare e trasformare, l’avidità di amare e di essere amati, trova una sua rappresentazione, non rimane isolata, esplode “ osservando scrivendo scattando fino all’ultimo respiro”. Allora la poesia e la fotografia diventano modo di vivere, di pensare, di lottare, in una ricerca perenne e ardua di superare, anche per un attimo, quel terribile confine del tempo che fugge.
E se questo sarà impossibile, che almeno ci sia traccia degli umani tentativi!

Gianni Quilici. Versi in viaggio. Tra le righe libri. Euro 12,00

19 febbraio 2018

"Il pane" di Angelica D'Agliano






Non faccio il pane perché ne abbia bisogno. 
Ogni giorno sul banco ne trovo di ogni forma. 
Il sapore di questi molti pani è buono
 e il prezzo ancora ragionevole. 
Potrei ogni giorno far crepitare il coltello 
oppure spezzare con le mani un pane diverso, tradizionale 
oppure tipico di posti molto lontani. 
Ma la sera passo il sapone sulle scodelle sporche della cena, 
poi mi bagno le mani di farina e comincio. 
Prima una fontanella vaporosa, 
poi col dito la sento sciogliersi nel bianco dell'acqua 
e so che prenderà la forza viva della pasta. 
Lo faccio perché sono costretta a immaginare veloce,
 e ogni giorno la mia conoscenza è sempre più vicina a una nuvola.
 Ma il corpo questo ancora non l'ha capito, 
e io così gli uso gentilezza.
 Lo so, gli dico mentre mi sbilancio dolcemente in avanti,
 mentre la pelle si profuma nel tuffo nel grano.
 Lo so è passato troppo poco tempo 
e voi mani ancora ricordate tutto,
 anche se voi proprio in carne e ossa non l'avete mai vissuto. 
Ma non importa. 
Stiamo qui. 
E facciamo pace.

15 febbraio 2018

“Come in preghiera” di Dario Mitidieri



di Gianni Quilici

Da una selva di elmetti
fantasmatici
senza volto ne’ anima
puri strumenti di forza
sbuca bimbo
come contrasto limpido
le mani in alto
come in preghiera assorto.
Foto realistica
Foto simbolica
di ciò che accadrà.

Le truppe arrivano
nella grande piazza
la piazza Tiananmen
e sarà  di studenti e operai
massacro.

Era il 3 luglio 1989
e questa foto di Dario Mitidieri
ci consegna uno scatto
che scolpisce la memoria civile
con la poesia del bimbo
in preghiera assorto

Dario Mitidieri. Pechino, 1989


"Un nuovo corpo mi attende" di Rita Notte


                                                              Man Ray

Disciplinare la nuova evoluzione.
Capire la nuova carne nella sua metamorfosi .
Guardarsi allo specchio come se tu fossi un ragno, poi un coniglio e poi ancora un sorcio.
Gli anni rientrano nell'evoluzione, il capire del sangue che ormai ha fine nel suo stesso ciclo.
Organizzare quel viaggio rimandato da troppo tempo, farne una mappa e andare nel luogo dove ogni cosa non sia bagnata da giorni non vissuti.
Mi guardo la mia nuova pelle, il mio nuovo cuore.
Le mani sono veloci nell'afferrare il pensiero che corre veloce nel suo nuovo immenso labirinto. Si cambia per non morire , si cambia perché bisogna vivere questi ultimi anni nella sua stessa gloria presunta. Non chiedo, non riesco a farlo. Mi siedo e aspetto le fasi che mi spettano come se io fossi dall'altra parte e guardassi me stessa in un modo che il tutto mi appartenga senza domanda e risposta. So che la risposta arriverà nel suo stesso delirio, nella visione, dell'immagine sfuocata e poi messa a fuoco. Un battito di ciglia e andare oltre con piedi nudi senza cadere o oscillare mai. Mi divido in due parti, mi piego nella mia stessa schiena, mi ribalto nella mia anima stessa. Guardo fuori dalla finestra e il tutto non mi somiglia e cercare forse non mi interessa più. Un nuovo corpo mi attende, nasce dove nascita di vita non fu mai e le lacrime che siano orfane o di padre poco importa. La schiera del sapere, l'oltre ... so già cos'è e non mi basta più. Sono giorni vissuti con estrema nausea, con estrema ribellione, da mani legate e mai sciolte. Devo fare , devo andare, devo capacitarmi...
devo
devo
devo e non so da quale parte recidere per sentirmi un po' meglio.


14 febbraio 2018

“La vedova allegra” operetta di Victor Léon e Leo Stein



di Silvia Chessa

Il paradigma di Hanna Glawari e di Danilo Danilowitsch  - che dissimulava il suo innamoramento come lei il suo - è talmente affascinante che ci potrebbe fare cadere nel favoloso tranello, illudere che tutto sia possibile e risolvibile, in fondo, mentre cadiamo nelle lusinghe acustiche di voci, strumenti, di danza canto, costumi e scene incantevoli e dinamiche. E mentre ci inerpichiamo nelle complicazioni della trama, fra intrighi internazionali, tradimenti, riscatti sociali e una serie di schermaglie amorose che andranno, però, a buon fine.

L’operetta, nella sua irresistibile varietà e vivacità espressiva è così: inganna e insegna al contempo. In verità non è così la storia, penso, gli equilibri sociali sono instabili e l’amore è come la tosse, che non la puoi reprimere, non a lungo, se non soffocandoti.
E il lieto fine, il coronamento del sogno, quando tutto sembrava compromesso, poi, non a tutti è dato: i treni persi, si sa, restano persi.

Infatti, fra i treni persi ascrivo, e mi duole, il non avere una profonda e specifica conoscenza di storia della musica, e non avere abbastanza tempo davanti per recuperare le gravi lacune del mio sapere zoppo, che non riesce a discernere, a colpo sicuro, note, passaggi e stilemi in un ascolto a teatro. Ma la Fenice compensa accattivandosi lo sguardo prima degli altri sensi, e così basta semplicemente lasciarsi andare e sentirsi parte di un meccanismo avviato perfettamente verso la bellezza.


Per pregustare alcune piccole perle ermeneutiche della Vedova allegra che si tiene stasera alla Fenice di Venezia, mi è valso ascoltare le risposte del Direttore artistico Stefano Montanari, intervistato in precedenza dello spettacolo, in radio, pensiero chiaro e sostanzioso: mi ha stregata il suo modo di gestire onestamente questo classico e di ravvivarlo senza snaturarlo.
Ha voce composta, da persona spiritosa e vivace, il suo registro è di un serio tendente al sorriso.
Ho apprezzato molto che dicesse, dell'operetta, che è complessa da affrontare in quanto è lieve solo in apparenza, e che le parti che lo hanno attratto e commosso di più, e verso le quali lo stile della sua direzione ha inteso orientare la sensibilità del pubblico, non sono quelle leggere - simil effimere- ma quelle più malinconiche. Per esempio dove il canto si può dispiegare in modo più libero ed esteso.

Mi ci ritrovo, in questo orientare l'opera  artistica verso il “fuori contesto”, in questo caso il momento pacato e lento, rispetto al genere apparentemente lieve e spensierato.

C’è dinamismo anche nel rallentare. Nel collocarsi, originalmente, sul registro della malinconia, della quale la lettura, per me, più calzante e fascinosa ascoltata di recente (in televisione, dalla voce di Carla Bruni) è la seguente:
La malinconia si distingue dalla tristezza, (perentoria, da subirsi e basta) e la si potrebbe definire come quel sottile piacere di stare tristi. Quasi una scelta. Quasi una vedovanza. Ma molto rock.


Venezia, Teatro La Fenice
DIE LUSTIGE WITWE
(LA VEDOVA ALLEGRA)
Operetta in 3 atti di Victor Léon e Leo Stein
Musica di Franz Lehár
Direttore: Stefano Montanari
Regia: Damiano Michieletto
Scene: Paolo Fantin
Costumi: Carla Teti
Light designer: Alessandro Carletti
Coreografia: Chiara Vecchi

Hanna Glawari, Nadja Mchantaf
Conte Danilo Danilowitsch, Christoph Pohl
Valencienne, Adriana Ferfecka
Kromow, Willam Corrò
Baron Mirko Zeta, Franz Hawlata
Visconte Cascada, Simon Schnorr
Camille de Rossillon, Konstantin Lee
Raoul de St Brioche, Marcello Nardis
Bogdanowitsch, Roberto Maietta
Sylviane, Martina Bortolotti
Olga, Zdislava Boková
Pritschitsch, Nicola Ziccardi
Praskowia, Daniela Baasová
Niegus (ruolo parlato), Karl-Heinz Macek
Lolo, Alessandra Calamassi
Dodo, Mariateresa Notarangelo
Jou-Jou, Rossella Contu
Frou-Frou, Alessandra Gregori
Clo-Clo, Chiara Lucia Graziano
Margot, Krizia Picci


Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
direttore, Stefano Montanari
regia Damiano Michieletto
maestro del Coro, Claudio Marino Moretti
scene, Paolo Fantin
costumi, Carla Teti

11 febbraio 2018

"Le avventure di Numero Primo" di Marco Paolini



di Cosima di Tommaso
Esser partecipi di uno spettacolo di Marco Paolini è un’esperienza quasi mistica, se non fosse per il fatto che egli affonda le mani con naturalezza inusitata nella granitica essenza umana.
Così è stato lo spettacolo messo in scena al Teatro Verdi di Padova: “Le avventure di Numero”Primo” (tratto dall’omonimo romanzo): un’apnea di 115 minuti dalla quale è impossibile non uscirne  “trasformati”.
Apparentemente è una fiaba-reportage che racconta le avventure di un bambino,  che chiamano "Numero Primo".  
Uscendo dal teatro, ho definito lo spettacolo “perforante” come è nello stile di Marco Paolini.
Ecco, lo stile è  asciutto e privo di orpelli ed è ciò che  ho trovato particolarmente maturato   negli anni: non un respiro è fine a se stesso.
La  messa in scena è minima, essenziale, tanto da poter dire, di ascendenza shaekspeariana, in cui è la parola che effigia luoghi sensoriali ed immaginativi:  non una parola in più, non una in meno. La sua prosa poetica è oggettiva, lapidaria  e, si realizza nell’ “hic et nunc”.
Ha piegato l’arte, attraversandola in largo e, servendosene  giudiziosamente (persino  in un barocco ‘recitar cantando’),  recuperando via via,  i semi della cultura classica.
E’ una sorta di  ‘tragedia’ moderna, che affonda nell’animo umano, scoprendo quanto sia sottile la linea che separa il bene dal male, quanto incomba sull’uomo il ‘destino’ a cui nessuno può sottrarsi. L’uomo del 2000 è tutto immerso nel ‘fato’ prodotto da una ineluttabilità virtuale ed artificiale.
 C’è l’incombere sull’uomo di un’indistinta “catastrofe” (talora speranza velata?) di un evento incontrollabile per l’uomo,  che fa precipitare la vicenda narrata nella morte- non morte violenta ed espiatoria del protagonista, che è stato preda-testimone di una sorta di Batracomiomachia del nostro tempo (lotta fino all’ultimo sangue tra gabbiani e topi).
 Numero Primo è un “debrutalizzatore”, non un  bambino  comune, introdotto nel nostro futuro, che a suo modo  mette in atto una sorta di palingenesi umana, nella misura in cui  l’uomo rimembra ciò che realmente è, ovvero (anche) un “poeta”, capace di “fare”, “creare”, “realizzare”.
A Ettore, il vero eroe, umanissimo (terrestre, forse un veneto del bellunese, fotografo free lance) non resta che accettare il proprio destino e, in questo atto dolorosissimo di umiltà e consapevole accettazione, risiede la vera grandezza umana.
Non è cosa immediatamente facile che un monologo di 115 minuti carpisca lo spettatore e lo tenga avvinto sino alla fine.
Paolini  è  stato capace di generare, in  qualcuno di loro, un vero e proprio ‘transfert’: l’arte ha assolto pienamente alla sua funzione sociale.

Marco Paolini, “Le avventure di Numero Primo”, Einaudi, 2017

(spettacolo teatrale del 25.11.20017 Teatro Verdi)












09 febbraio 2018

"Una nuova parola: resilienza" di Silvia Chessa




Ai seguaci e non della Crusca, agli Accademici e a coloro che, semplicemente, ma con buon senso, vigilanza, ironia e sagacia, riflettono e studiano i lemmi, amano le parole, detestando i luoghi comuni, e a chi non concorda con le nuove espressioni e trova superflui certi neologismi.( E taluni, davvero, penso anch'io che lo siano).
 
Resilienza.
Ha senso dirla, averla inventata? O le si dovrebbe, forse, Resistere ?

Ben vengano i neologismi. Prima di tutto. Ma solo quelli sensati nonché indispensabili.
E, per me, resilienza ha un senso nuovo. Plurimo. Che prima non c'era. Per questioni appunto temporali e cronologiche. Un significato che racchiude gli anni...tutti gli anni in cui abbiamo resistito da dopo che è nata la parola Resistenza.
 

Resilienza non può esserci in passato, direi, appunto in relazione al suo nuovo e contemporaneo significato: al senso, decadente ma anche eroico, di strenuo resistere che vuole esprimere e che trascina con sé.. dunque non è una puntuale e semplice resistenza (se mi attacchi, posso resistere ovvero oppongo resistenza) e neppure opposizione, bensì viene a comunicare una lunga e difficile storia di resistenza, l'essersi opposti, sì, ma da illo tempore; l'aver, da sempre, resistito. A lungo. E negli anni. Aver superato la sconfitta e la caduta. Essere sfiniti, esausti, ma non mollare. Malgrado tutto e tutti ... Aver sopportato l'indifferenza ed altresì l'insulto. Ed esserci ancora. Oggi. Non ieri né ai tempi degli antichi e dei nostri avi. Ma il tentativo attuale, radioso e resiliente, appunto, di non rassegnarsi. Di riprovarci ancora. E ancora. E ancora.



04 febbraio 2018

"Scritti sull'arte figurativa" di Konrad Fiedler



di Davide Pugnana

Nessuno quanto Konrad Fiedler ha saputo descrivere dal di dentro, come una gigantesca lente ad altissima definizione, la radice conoscitiva dell'artista figurativo, isolandola da ogni altra forma conoscitiva e mostrandola nella sua specificità costitutiva. Le sue pagine dovrebbero anticipare, o affiancare, lo studio diretto degli oggetti d'arte. Prima di qualsiasi manuale di storia dell'arte, Fiedler analizza le "cause" profonde che sottendono il "fare" arte. I suoi saggi sono scritti dando voce a ciò che gli artisti sperimentano lungo il loro percorso di ricerca dell' "espressione", dalla mente alla mano. Quella fiedleriana è una gnoseologia sospesa tra la gestazione della forma e la sua prossimità nella materia. Proprio su questa soglia tra spirito e materia egli scava con ostinazione.

Secondo Fiedler, all'origine siamo tutti ugualmente in possesso di un "materiale sensibile" costituito dal progressivo stratificarsi di depositi di percezioni e stimoli che riceviamo dal mondo esterno e che costituiscono l'insieme vitale e dinamico, ma anche vago e caotico, del nostro mondo interiore. La differenza tra chi è artista e chi non lo è non è solo in un innato potenziamento delle percezioni; ma nel modo in cui l'artista riesce a dargli "forma espressiva" attraverso il suo "fare" artistico, cioè il processo creativo. 

Se l'uomo comune tende passivamente ad abbandonarsi a suggestioni e stati d'animo, quasi subendoli o lasciandoli morire nel loro stesso farsi, l'artista, al contrario, sviluppa la "facoltà" di controllare e possedere questo magma di sensazioni e di immagini, dandogli un asseto razionale - cioè conoscitivo - attraverso l'attività artistica, cioè i movimenti fisici della mano - quella cinetica della "mano" che Focillon definirà stupendamente "poesia in azione". Se non ci fosse l'azione della mano, questo processo conoscitivo non avrebbe possibilità di realizzarsi all'esterno. 
Per questo Fiedler definisce il fare creativo un processo a un tempo spirituale e corporeo, perché i segni espressivi traducono e danno compiutezza a ciò che si sta svolgendo nell'interiorità. Lo studio è solo una continuazione e un "mezzo" di questo processo senza limiti, che si svolge prima di tutto a livello conoscitivo e il cui silenzio ha fine solo in virtù della finitezza biologica dell'artista.
 

Un estratto:
"L'artista non si distingue per una speciale attitudine visiva, per il fatto che egli possa vedere di più, o più intensamente, degli altri, oppure perché possieda nei suoi organi visivi una speciale facoltà di scelta, di concentrazione, di trasformazione, di nobilitazione, di trasfigurazione, in modo da rivelare nei suoi prodotti le conquiste del suo vedere; egli si distingue invece per il fatto che una particolare attitudine della sua natura lo pone in grado di passare immediatamente dalla percezione all'espressione visiva: il suo rapporto nei riguardi della natura non è un rapporto visivo, ma un rapporto espressivo. Il miracolo dell'arte consiste propriamente in questo. [...] Solamente chi possa immaginare l'effettivo processo che ha luogo perché possa avvenire questo passaggio da una pura rappresentazione interna all'attività espressiva vera e propria, si potrà convincere che nell'intero processo dell'attività figurativa il puro vedere e la facoltà di rappresentarsi interiormente le cose vedute sono soltanto un inizio, un punto di partenza, mentre il vero sviluppo ed il compimento di quel processo è legato all'attività figurativa esterna."
(Konrad Fiedler, "Sull'origine dell'attività artistica")

01 febbraio 2018

"Tre giorni e un bambino" di Abraham B. Yehoshua



di Gianni Quilici

Leggo un racconto di Yehoshua e rimango sorpreso dalla sua crudeltà. Una crudeltà sottile e ambigua, che rimane incombente e può far star male  chi leggendo partecipi troppo emotivamente.


Siamo a Gerusalemme, una Gerusalemme dura, a volte molto dura, una città vuota, morta, dove la gente è tesa, ha sempre paura, come se, da un momento all’altro, dovesse succedere l’irreparabile Qui, uno studente fuori corso, che insegna tuttavia matematica a due classi, accetta di ospitare per tre giorni il figlio della donna, di cui è stato innamorato e lo è ancora, per tre giorni.

Cosa succede? Che nel protagonista, che racconta  in prima persona, nascono due sentimenti verso il bambino tra loro contraddittori: un affetto istintivo con tutto l’amore che irrompe, perché somiglia straordinariamente alla madre e infatti lo stringe al cuore e lo bacia negli occhi; ma più forte affiora e si espande il desiderio della sua morte. Così lascia che corra su un muretto senza protezione, che si sporga dal balcone appoggiato alla sedia, lo porta in piscina con la febbre, lo sfinisce, non lo cura, mentre la febbre sale. In altri termini vorrebbe la sua morte, senza fare niente, lasciandolo a se stesso. Ora questo comportamento è l’aspetto originale e profondo del racconto: rappresenta implicitamente un amore  ossessivo e nello stesso tempo impotente, che diventa desiderio di vendetta contro di lei e non sperando più nell’amore di lei, desidera in un sogno di essere adottato, in sostituzione del bambino morto, come figlio.   



Questa (possibile) tragedia Yehoshua la scolpisce

dentro l’autunno asfissiante di venti di scirocco caldi e pesanti, una tempesta di calore che viene dai colli e che ammorba il corpo di sudore, e la luna piena   come una pietra gialla che inonda il cielo su una Gerusalemme buia e addormentata;

 e  in due personaggi, che fanno parte di un’associazione “amici della natura” e che hanno un rapporto misticheggiante con essa fino all’autolesionismo, alla perdita di un naturale buon senso. 



Abraham B. Yehoshua. Tre giorni e un bambino. Einaudi. Euro 9.00