29 dicembre 2012

La notte alle mie spalle di Giampaolo Simi



 di Luciano Luciani

Dopo il romanzo Rosa elettrica, ritratto inquietante e ambiguo di un giovanissimo boss della camorra diventato collaboratore di giustizia, visto con gli occhi di Rosa, poliziotta poco più adulta di lui, assegnata alla sua protezione e ben determinata a compiere fino in fondo il proprio dovere – proteggere a ogni costo quel ragazzo delinquente -. Giampaolo Simi torna alla scrittura narrativa ed è ancora una storia ‘a cielo chiuso’. 

Quella di Furio Guerri, marito esemplare, padre premuroso e inappuntabile rappresentante di un’importante azienda grafica. Un uomo realizzato, tutto lavoro e famiglia, famiglia e lavoro. Un uomo fortunato che ha saputo conquistarsi l’agiato benessere economico di cui gode e il confortante calore dell’ambiente domestico. Sul lavoro nessuno è tenace come lui nel battere la Toscana e strappare buoni contratti per la sua ditta. Oddio, talora i suoi metodi non sono del tutto ortodossi dal punto di vista professionale, come possono confermare i colleghi di lavoro ai quali il Nostro non esita a fare le scarpe appena se ne creano le condizioni, e discutibili anche i modi con cui Furio è riuscito a sposare la più bella della classe e per di più benestante. Ma sul lavoro succede come in amore e in guerra, e in famiglia, si sa, ognuno è padrone a casa sua. Tutto giusto, in fondo… Ma come mai ritroviamo lo stesso Furio impegnato a spiare di nascosto le ragazzine di una scuola superiore? È un pedofilo, un guardone o cosa? E perché tra tutte sceglie la più difficile, la più incasinata, quella che a scuola sta sulle scatole a tutti, compagni e professori? Da dove gli viene quella maniacale pazienza, che, dopo una spregiudicata strategia di avvicinamento, lo porta a incontrare proprio quella adolescente su un sito di webcam erotiche? Un manipolatore; Furio? Un mostro? Un malato? Un caso da manuale di sdoppiamento della personalità? 

Forse, il protagonista di La notte alle mie spalle è tutto questo nello stesso tempo e molto altro ancora.

È un eroe dei nostri anni malmostosi, rancorosi, avvelenati. La negazione totale di ogni tensione ideale e solidale. Un amorale assoluto, il prodotto esemplare degli ultimi trent’anni di storia nazionale: ci fa paura perché ci assomiglia.

Musica dura, durissima quella di Giampaolo Simi, scrittore viareggino alla sua prova letteraria più riuscita, figlia di una scrittura sempre tesa, incalzante, ricca di colpi di scena che illuminano a poco a poco le ragioni di un male che non è una patologia individuale, ma sociale: un’aberrazione che ci è assai più contigua di quanto tutti noi siamo disposti a credere, accettare, confessare.

Giampaolo Simi, La notte alle mie spalle, edidioni E/O, pp. 253, Euro 18,00

28 dicembre 2012

"La Casa-Atelier di Ugo Guidi" di Mira Giromini




Un esempio di Casa-Museo: 
Casa-Atelier di Ugo Guidi a Vittoria Apuana

La casa è lo specchio dell’anima, è il prolungamento della nostra personalità e non è solo lo spazio dell’abitare ma l’universo privato che riflette la vita psichica, le ideologie, la cultura dell’uomo e ad una più ampia visione le mode e la società del tempo. In quest’ottica la Casa-Museo è l’immagine del vivere individuale aperto alla sfera pubblica. Tra gli esempi più suggestivi di Casa-Museo vi sono le case d’artista, le case-atelier di artisti che amano circondarsi delle proprie opere e quelle degli amici artisti costituendo così una prima collezione che anticipa un vero e proprio museo d’arte. Per conoscere meglio la personalità degli artisti la casa diventa uno strumento privilegiato anche migliore rispetto alla lettura delle loro opere; in quanto l’artista sceglie la casa e ne diventa committente di sé stesso.

A Vittoria Apuana, Forte dei Marmi, vi è la casa museo di Ugo Guidi che dal 2005 viene inserita dalla Regione Toscana all’interno del programma “Case della memoria” aggiungendosi alle numerose case di importanti personaggi toscani quali Dante, Boccaccio, Giotto, Piero della Francesca, Michelangelo e Leonardo.

 Ugo Guidi (1912-1977) nasce a Querceta e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Carrara, diventando allievo e assistente dello sculture Arturo Dazzi. Diventa dunque insegnante di scultura all’Accademia di Belle Arti, attività che riesce ad affiancare alla sua vivacità artistica, svincolata da costrizioni e piacevolmente libera di esprimersi. Inizialmente utilizza per le sue opere il marmo bianco di Carrara poi dalla fine degli anni ’40 è alla ricerca di materiali poveri dalle superfici scabre come il tufo (della Cava di Porta a Querceta), l’argilla e il gesso che donano alle opere uno stile “arcaico” e “primitivo” in linea con le ricerche delle coeve avanguardie. Certe opere scultoree sono morbide e fluide altre hanno una sintesi formale priva di riferimenti anatomici che quasi approdano ad un linguaggio astratto. Anche nella pittura e nei numerosi disegni è evidente una frenetica ricerca creativa dimostrata dal fatto che utilizza qualsiasi foglio che gli capita (retro di manifesti e carte e cartoni) e grazie alla testimonianza del pittore Gabriele Rovai conosciamo anche la tecnica dei suoi disegni: non una semplice penna a china ma un bastoncino appuntito. 

Ugo Guidi scelse di vivere a Vittoria Apuana con la sua famiglia, era particolarmente legato al territorio e nonostante le occasioni che gli si presentarono non si allontanò mai dalla sua amata Versilia; la sua casa-atelier era infatti ritrovo e luogo d’incontro di molti artisti e intellettuali del tempo tra i quali Carrà, Rosai, Soffici, Papini, Greco. Attualmente nella casa-museo, in occasione del centenario della nascita di Ugo Guidi è in corso la mostra “Omaggio a Ugo Guidi di Enzo Marco” (Fino al 3 gennaio; www.ugoguidi.it).

Per la stessa occasione sono state inaugurate i primi di dicembre 2012 altre due mostre: “Ugo Guidi a Pietrasanta” a Palazzo Panichi in cui viene sottolineato il forte legame tra lo scultore e i laboratori e le fonderie di Pietrasanta, in esposizione assieme ad alcuni disegni vi sono sculture divise in poche tematiche quali i calciatori, il cavallo, la donna (Fino al 6 gennaio). 

A Forte dei Marmi, a Villa Bertelli è stata allestita “Ugo Guidi Centenario della Nascita 1912-1912, una mostra che vuole essere l’antologica più completa degli ultimi anni con oltre cento opere divise in un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo dove viene mostrata l’evoluzione artistica di Ugo Guidi che parte da una figurazione accademica e giunge ad una libertà d’espressione unica nel suo tempo (Fino al 14 luglio 2013).

"Nonostante la rosa" di Marisa Cecchetti




 di Luciano Luciani


Da molti anni, e a pieno titolo, cittadina emerita, della Repubblica delle Lettere, Marisa Cecchetti si è ritagliata un spazio di tutto rispetto in virtù di una cifra stilistica personalissima, quella del racconto lirico, modulato con abilità, sensibilità e competenza in prosa e in versi. Come accade per Nonostante la rosa, il suo ultimo lavoro poetico: 31 testi in versi liberi, organizzati in strofe di lunghezza diversa terzine, quartine, sestine, ottave, tutti governati da un io narrante che più spesso in prima, a volte in terza persona, incontra luci, colori, rumori, suoni, melodie, sensazioni olfattive...

Poesie dei sensi, dunque, gestita con misura, con sapiente discrezione: il tono è meditativo, sostenuto, ma senza mai eccedere nel sermone, nella predica didascalica anche quando i contenuti sfiorano, toccano il tema del non facile rapporto con l’Altro, a cui si deve sempre umanissima solidarietà, accogliente condivisione, mitezza.

L’arredo dei testi di Marisa, in questa raccolta come in altre, è fatto di vita quotidiana: occasioni, situazioni, circostanze, oggetti dell’esistenza di ogni giorno e di tutti noi trasfigurati liricamente e organizzati, non di rado, secondo il modo del contrasto. La contrapposizione che vede i dati naturali – le piante, i fiori, gli insetti, i piccoli animali – resistere alla contemporaneità – espressa di solito con elementi urbani – l’aeroporto, le antenne TV, il traffico automobilistico... – adeguarsi, adattarsi e, se del caso, anche prendersi significative rivincite.

Per Marisa, per sua ammissione esplicita, tutto è poesia: però la modernità, con i suoi rituali insensati e fine a se stessi, rischia di disumanizzarci. Ci può riscattare, allora, solo un tenero, istintivo gesto d’amore familiare e restituirci uno “zig zag” di luce, oppure un odore caldo di cibo cucinato: elementi vitali che aiutano ad allontanare l’immagine e il pensiero della morte... Che, pure, si insinua, nella parte finale della raccolta attraverso la memoria di un fratello scomparso o dei genitori che non ci sono più.

Una vicenda, quella dei fine dei propri cari, rielaborata poeticamente da Marisa in chiave elegiaca: nessun eccesso tragico; ogni tensione drammatica nei versi è rivolta a cogliere e valorizzare quanto c’è ancora di vitale in quel ricordo. Parole, sorrisi, una pianta d’olivo che dà ancora frutti: un padre/vento odoroso… È piena, densa, intrisa di vita la poesia di Marisa Cecchetti: una vita modesta ma tenace; semplice ma resistente; fragile e insidiata continuamente, ma proprio per questo preziosa, da difendere, da tutelare, da soccorrere.

La poesia e le sue armi, fatte di parole e versi, proprio a questo servono; e Marisa le sa usare con proprietà, competenza poetica, sensibilità letteraria e un’umanità piena, calda, intensa.


Marisa Cecchetti. Nonostante la rosa. LietoColle. 2009.



23 dicembre 2012

“Io e te” di Niccolò Ammaniti




di Gianni Quilici

“Io e te” tra romanzo breve e racconto lungo in un equilibrio esemplare.
Pochi personaggi, ma concentrati, messi bene a confronto e sviluppati. Una conclusione imprevedibile. Doppia, in un certo senso. Molto cinematografico, non a caso il film di Bertolucci.

Protagonisti: un quattordicenne e la sorellastra. Lorenzo, un adolescente nella fase più difficile della sua evoluzione psicologica, stretto tra un amore (forse) edipico con una madre iperprotettiva ed un’identità così incerta, che nel confronto con i coetanei vuole annullarsi, stare solo, diventare invisibile.  
Olivia, ventitreenne,  “incredibilmente bella.. alta due tette grandi e larghe… tantissimi capelli ricci e biondi”, però, come il fratello scoprirà, tossico-dipendente.

La cantina, in cui Lorenzo si è rifugiato per una settimana, la settimana bianca che aveva balordamente inventato, diventa il luogo simbolo, il bunker, la tana dell’incontro-scontro con Oliva. Un incontro che attraversa diverse fasi narrative e psicologiche sottili e veritiere, per raggiungere l’acme nel momento in cui Olivia è colta da una crisi grave di astinenza. Dopo attimi di disperazione, Lorenzo diventa, in rapida successione, disponibile  e attivo, fino al momento "poetico" della danza e dell’abbraccio, della catarsi e delle promesse. Potrebbe finire lì. L’epilogo sarà tanto nudo di parole quanto tragico. Non per ciò che si dice, per ciò che si lascia immaginare.  
Con in più un interrogativo:  Olivia è una finzione letteraria oppure, in qualche misura, è davvero esistita?

Dentro questo rapporto: la famiglia. La madre molto protettiva e amata, ma che è fuori dai processi psico-sociali del ragazzo. Il padre affettuoso, ma distaccato e assente soprattutto da Olivia, che sente questa mancanza in modo conflittualmente lacerante.

E ci sono, appena abbozzati, brandelli di società. C’è la scuola con i compagni di classe sadici e competitivi nel loro inconsapevole individualismo. Ci sono alcuni ritratti secondari tra cui, scolpito benissimo l’ergumeno dalla “dentatura equina e l’abbronzatura color cacao…con una voce rauca e profonda, come se parlasse attraverso un tubo di plastica”, che va a sbattere contro la Bmw della madre, che viene apostrofata come “stronza…troia”, mentre Lorenzo rimane in macchina pietrificato. Un episodio soltanto, raccontato efficacemente, che lascia trapelare l’intolleranza e la violenza, oggi vive nella pancia sociale italiana.

Spezzoni sociali appena abbozzati. Sufficienti, perché il lettore possa stabilire un nesso tra crisi adolescenziale e società. Un rapporto di causa-effetto molto implicito e, per questo, per niente meccanico.

Il linguaggio di Niccolò Ammaniti è veloce e essenziale e tutto interno alla storia, i dialoghi affilati e veritieri. L’unico punto interrogativo: il racconto che Lorenzo fa alla nonna mi pare troppo lungo. 
Forse, però, sottolinea le qualità immaginative e narrative del ragazzo. Come se sotto le poche parole  di tutto il romanzo si celasse uno scrittore in erba, che in quella situazione si può finalmente liberare.

Niccolò Ammaniti. Io e te. Einaudi, Stile Libero. Pag. 117. Euro 10,00.            

"Gli innamoramenti" diJavier Marìas



di Mirta Vignatti

Chiudo in questo momento il libro dopo una seconda e più ponderata lettura e devo proprio scriverlo a chiare lettere: il romanzo è notevolissimo, oserei dire per certi versi superiore a “Domani nella battaglia pensa a me”. Non è un caso che sia stato premiato con un importante, autorevole riconoscimento in Spagna (e il relativo assegno è stato dignitosamente rifiutato dall'autore).

 Lo stile è quello tipico di Marìas: una scrittura magnetica, densa di significati, che avvolge il lettore con il suo periodare lungo e a volte digressivo; i dialoghi sono quasi sempre ipotizzati, le battute spesso precedute da ciò che il personaggio pensa di poter rispondere a ciò che l'interlocutore potrebbe dire in determinate situazioni. Insomma, la narrazione si muove tra ipotesi e realtà, tra pensieri e parole, poggiandosi su fatti che dietro la loro apparente realtà nascondono forse altre verità o altre possibilità combinatorie.

E' un romanzo di cui indovineremmo subito l'autore, se ce lo facessero leggere celandone il nome: corrisponde infatti in pieno alla poetica di Marìas, alla sua scrittura psicologico-filosofica, incentrata in questo caso sulle opposizioni verità/menzogna, vita/morte, egoismo/rispetto.

La trama, pur nella complessità e profondità delle riflessioni che induce, è di una semplicità ed essenzialità disarmanti: una giovane editor di una casa editrice di Madrid osserva ogni mattina, nel bar dove fa colazione, una coppia -presumibilmente coniugi- che ritrova sempre allo stesso tavolino intenti anch'essi alla loro consumazione; la coppia offre di sé un'immagine che lascia pensare a serenità ed affetti consolidati, e la giovane donna si lega a questa presenza quotidiana, senza tuttavia scambiare nessuna parola né accennare a sorrisi, fantasticando su quella che potrebbe essere la loro vita: una bella casa, gli affetti, i figli, un certo benessere denunciato dal loro aspetto e dal loro abbigliamento. Ma la realtà non è quella che sembra, e la vicenda prenderà una direzione imprevista, assumendo le caratteristiche di un “anti-noir” psicologico. Non mi dilungo oltre perché molto è già stato scritto, e meglio, da Concita De Gregorio in una recensione-intervista a Javier Marìas segnalata da una attenta amica lettrice e davvero imperdibile: ubi maior, minor cessat.

 Aggiungo soltanto che il romanzo è impreziosito da due importanti rimandi metaletterari, da non considerarsi come digressioni ma perfettamente coerenti con la narrazione e funzionali alla sua completa interpretazione. Si tratta della citazione e di continue riprese da una novella di Balzac e da un passo de “I tre moschettieri” di Dumas.

E a proposito del citazionismo e del periodare per flussi di pensiero mi rifaccio (perdonate l'autocitazione) a quanto già scritto nella recensione di “Domani nella battaglia pensa a me”; quanto già detto in quella sede trova qui ampia conferma, oltre che nell'ambito più generale del post-modernismo, anche a livello di prossimità di contesti e contaminazione di generi: le ultime 30 pagine de “Gli innamoramenti” potrebbero essere le scene di un film di Almodòvar, tali e quali.

 Lasciatemi però concludere con un omaggio e una riflessione sulla traduzione. Questo libro è stato tradotto da Glauco Felici, venuto improvvisamente a mancare poco dopo aver terminato la sua ultima, sontuosa opera. L'editore ha avuto appena il tempo di apporre in epigrafe un “in memoriam”, essenziale pur nella sua freddezza. Penso tuttavia che sarebbe stato il caso di prevedere almeno una fascetta in cui ricordare con maggior enfasi il lavoro di Glauco Felici, che proprio con questo romanzo trova compimento per sempre. Da ora in poi sarà un altro Marìas quello che leggeremo in traduzione italiana, essendo venuto a mancare quello “scrittore dietro lo scrittore” che fino ad ora ci aveva fatto conoscere -con le sue competenze, le sue scelte linguistiche, la sua cultura- il grande autore spagnolo. E credo che noi che leggiamo ora, coscienti della tragica morte di Glauco, percepiamo in maniera più complessa il tessuto linguistico non facile di Marìas, reso peraltro splendidamente dalle scelte e dalle parole del traduttore. Credo che non si possano non provare sensazioni particolari nel leggere riflessioni sulla morte, su quali memorie rimangono e si elaborano nel lutto, su come sopravvivono i congiunti del defunto, pensando che queste riflessioni ci sono state veicolate dalle parole pensate e scelte da Glauco Felici e che probabilmente saranno state anche le sue ultime premonitrici riflessioni.

Non conosco quali reazioni abbia avuto Javier Marìas nell'apprendere la notizia della morte del suo traduttore appena dopo aver terminato il lavoro con “Gli innamoramenti”. Marìas e Felici si conoscevano e l'autore aveva scherzosamente nominato il suo traduttore “visconte” di un regno immaginario di menti elette. Sono sicura che Marìas, oltre alla perdita incolmabile, avrà colto nel fatto drammatico una ulteriore conferma degli intrecci di letteratura e vita, una conferma della foresta intricata di coincidenze e casualità che è la vita, nella quale ci muoviamo componendo le nostre esistenze tassello dopo tassello, ma anche ferendoci e sanguinando ad ogni piè sospinto.

Javier Marìas, “Gli innamoramenti”, Einaudi 2012.




   

"La prostituzione tra il Concilio di Trento e l'Inquisizione"" di Luciano Luciani




Accadeva mezzo millennio fa

"Donne d'amore tra Roma e Venezia


Già in età rinascimentale, e in maniera più sistematica nel successivo periodo che muove verso i rigori del Concilio di Trento e dell’Inquisizione, a Roma non mancarono iniziative tese a limitare la prostituzione e a salvaguardare la compagine morale della Cttà eterna.
Si trattò, certo, di decisioni, che i pontefici non presero a cuor leggero considerato che le casse dello Stato della Chiesa si alimentavano anche con i proventi della tassazione sulle attività delle cortigiane. È noto che Leone X realizzò e lastricò tutta via di Ripetta grazie alle tasse sui lupanari e che Pio IV (1559 – 1565), il papa che convocò il Concilio di Trento, zio di San Carlo Borromeo, non si peritò di edificare Borgo Pio cum impensis ex turpi quaestu acquisitis et acquirendis. Ma la spensierata libertà dei costumi propria dei primi tre decenni del secolo XVI si andava esaurendo e un nuovo rigore morale sembrava segnare le scelte dei pontefici e degli amministratori romani: ora l’Urbe cattolica doveva diventare un luogo esemplare sia per l’ intransigenza verso ogni forma di indecenza e scostumatezza, atteggiamento che si allargava anche a tutte le manifestazioni dell’ ingegno considerate pericolose, sia nell’applicazione e rispetto di norme e leggi. Il lungo carnevale rinascimentale era finito per sempre e lo testimoniava la triste vicenda della cortigiana, oriunda spagnola, Isabella de Luna che per una contravvenzione alla legge venne condannata a essere frustata sulla pubblica piazza. La nuova morale incalzava e le cortigiane ’oneste’ o meno  non godevano più dei privilegi di cui avevano usufruito nel periodo precedente. 

In questa nuova temperie religiosa, culturale e politica l’alta società romana, la stessa che si era compiaciuta di trasgressioni e ardite forme di tolleranza, faceva a gara in manifestazioni di pentimento e purificazione, conversioni e conformismo verso il nuovo corso. Così, nel 1566, Pio V (1565 – 1572), il papa di Lepanto, prima di intraprendere la crociata contro i Turchi ne iniziò un’altra, nella quale però sarebbe risultato duramente sconfitto. Impose alle cortigiane “più scandalose” di lasciare la città e alle altre di trasferirsi a Trastevere: un’ingiunzione che scatenò un putiferio di polemiche e non poche resistenze. Non solo l’ostilità, ovvia, dei trasteverini, ma anche quella dei proprietari di case che videro calare i livelli degli affitti e scemare una fonte di reddito, dei mercanti che avevano fatto credito alle cortigiane e rischiavano di perderlo, perfino quella degli appaltatori delle dogane… Alla fine, Pio V capitolò e alle prostitute fu assegnato un quartiere, l’Ortaccio, nei pressi di Ripetta con la proibizione di uscirne: un vero e proprio ghetto, delimitato da muri e rare porte. 
Se l’obbiettivo era tenere le cortigiane lontane dalle vie del centro, dalle piazze trafficate e dalle chiese esso non fu raggiunto: vent’anni più tardi, infatti, il terribile Sisto V (1585 – 1590), dopo aver preso atto che queste donne continuavano a esercitare in tutta la città e che se ne contavano perfino in Borgo a due passi da San Pietro, era costretto a lanciare l’ennesima offensiva contro le prostitute. Tentò, papa Peretti, di restringerle di nuovo nell’Ortaccio ma senza riuscirci, perché, anche in questo caso, emerse che le cortigiane muovevano un, chiamiamolo così, ‘indotto’ che toccava gli interessi di oltre 15.000 persone e numerose, importanti categorie economiche della città: commercianti, osti, albergatori, affittuari… Anche Sisto V fu costretto a venire a più miti consigli e ad accontentarsi di ribadire o accentuare proibizioni già in vigore: l’accesso alle strade principali, le gite in carrozza e le passeggiata per le strade dopo l’Ave Maria. Ma, forse, proprio in seguito a questo smacco, la battaglia per la purezza dei costumi, la cupa ossessione di questo papa, avrebbe assunto l’ aspetto di una vera e propria persecuzione. “Nel giugno 1586 colpì l’immaginazione dei romani lo spettacolo di una figlia costretta ad assistere al supplizio della madre, che l’aveva prostituita: la ragazza venne ornata dei gioielli che le aveva donato l’uomo cui era stata venduta… Nello stesso mese di giugno il papa condannò al rogo – secondo l’antica usanza – un prete e un ragazzo, rei confessi di sodomia. Poi venne la volta, nell’agosto, di una giovane vedova, nobile e ricca, che aveva trescato con due giovani e che fu con essi condannata alla pena capitale. Rimase incerto in base a quale legge fosse stata eseguita una sentenza tanto crudele, ma nessuno osava contrastare gli ordini del papa”
Ma nel 1592 il cardinal Rusticucci, governatore di Roma, in un suo bando era costretto a notificare che “Poiché l’esperienza ha mostrato che li luoghi assegnati in Roma per tollerarvi le meretrici et donne disoneste non sono capaci, si dispone di aumentarne lo spazio…”
Anche papa Clemente VIII Aldobrandini (1592 – 1605) si adoperò per restringere le prostitute nell’‘hortaccio’e anche questa volta l’ennesima prova di forza si concluse con un nulla di fatto: le venditrici d’amore accettarono di evitare di rendersi visibili nelle principali strade dell’Urbe in cambio dell’ampliamento della zona di tolleranza. Non più solo l’ ‘hortaccio, ma l’intero, vasto quartiere che era cresciuto tutt’attorno a quest’area malfamata.

Le Vergini miserabili

A Roma risultati migliori rispetto alla deterrenza e alla repressione furono senz’altro ottenuti da iniziative di tipo sociale e assistenziale, nate, in genere, sulla spinta dello zelo e dell’entusiasmo del giovane Ordine dei Gesuiti e dell’altro altrettanto zelante degli Oratoriani: per esempio, monasteri come la Casa Pia per le cortigiane pentite; oppure l’ospizio delle Vergini Miserabili a Santa Caterina dei Funai che accoglieva bambine figlie di prostitute sottratte anche con la forza alle loro madri, educate per sette anni, poi fornite di dote e maritate. A sostenere l’opera di redenzione per le cortigiane pentite si adoperavano la Compagnia della Grazia oppure la Confraternita di Santa Marta dedita alle donne ‘perdute’ che intendevano redimersi senza l’obbligo del chiostro.

Anche a Venezia il fenomeno della prostituzione minacciava di finire fuori controllo e, visto che le misure normativo - repressive sembravano non essere sufficienti, le autorità si mossero per supportarle con interventi di tipo assistenziale. Così, accanto all’ospedale degli Incurabili, fondato nel 1522 e destinato ai malati di sifilide, ma che accoglieva anche numerose prostitute, nel 1530 fu istituita la Casa delle Convertite, con lo scopo di riportare a un’esistenza onesta e morale le peccatrici pentite che venivano avviate verso un destino di mogli e suore. Se, poi, avevi almeno nove anni, eri sana, di bella presenza e rischiavi davvero di finire a esercitare il mestiere, allora, la Repubblica Serenissima ti prendeva sotto la sua protezione nella Casa delle Zitelle nata per proteggere bambine e adolescenti dal rischio di essere adescate e avviate alla prostituzione. Ultimo esempio di ‘Stato sociale’ veneziano la Casa del Soccorso per le mogli sfortunate che volevano sfuggire a situazioni famigliari insostenibili senza finire nel bordello per sopravvivere.

Alla fine del secolo, comunque, il fenomeno della prostituzione a Venezia e Roma era tutt’altro che in via di estinzione, anche se le cortigiane romane avevano ormai perduto il trattamento di favore e il ruolo di rilevanza sociale, goduto all’inizio del Cinquecento e durato almeno sino al Sacco di Roma (1527). Il loro numero - si calcola una media di 17 prostitute ogni 1000 donne - restava più elevato rispetto ad altre città italiane ed europee e si caratterizzava ancora per una certa aggressività.


21 dicembre 2012

"Simone De Beauvoir" di Irving Penn


Paris, 1957

di Gianni Quilici
 
Foto non immediata come potrebbe apparire a prima vista, ma studiata. Lo studio, però, non impedisce mai ciò che potremmo chiamare “poesia”. E’ come il pittore che  dipinge un oggetto. Non copia, insegue una propria visione, a volte trasfigurando ciò che naturalmente si vede.

Così Irving Penn: predispone uno scenario e una luce. Per la verità molto semplici. Una poltrona ( che nello scatto si intravede appena) ed una luce con l’ombra che via via sfuma...

Su questo quadro viene collocata e si colloca  Simone De Beauvoir. L’obbiettivo la coglie frontalmente in primo piano. Per raggiungere questa posizione, come vediamo, ha dovuto far ruotare la testa. Se proviamo a eseguire quel movimento ci accorgiamo che ciò provoca una contrazione di muscoli, che se, per un verso, indica una volontà, per un altro può favorire quello sguardo. E comunque, a parte ciò, è quello sguardo volitivo e fermo, ma insieme leggero, privo, cioè, di ostentazione e di forzature, in un volto chiaro-scuro severo, ma limpido e pulito, che colpisce e dà “unicità” alla foto.

In più le ombre come elemento dialettico. L’ombra che dalla guancia sfiora l’occhio, le ombre sullo sfondo. Sottolineature appena contrastanti,  che danno maggiore impronta espressiva allo scatto.  

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di David Pugnana

Wikipedia dà una definzione sottile di 'fotogenìa': "La fotogenia è la capacità di maggiorazione estetica della realtà". Per quanto il termine fotogenia sia acquisito nel linguaggio corrente, tanto che nessun avanzerebbe più dubbi semantici, non sapevo che essa fosse (anche) quest'altra cosa. Nella definizione dell'enciclopedia, tutto si rovescia. Fotogenia non è più, quindi, la bellezza innata che possiedono alcuni soggetti e altri no; non è più quella miscela di linee e volumi (in)scritti in un viso con particolare maestria e che, stando nell'obbiettivo come in un habitat naturale, sviluppano senza sforzo potenza iconica. Su questo statuto della fotogenìa, da sempre, siamo tutti d'accordo: ogni album di famiglia ha i suoi soggetti che vengono particolarmente bene, persino quando a scattare non sia un Irving Penn, ma uno degli innumerevoli fotografi di provincia dai quali le famiglie o i singoli, all'inizio del XX secolo, andavano per contemplarsi in fotografia, e, talvolta, senza sapienti dosaggi delle luci e delle ombre. Zie, nonne, cugine, amiche, padri e madri di un tempo lontano attraversano il tempo e le trasformazioni storiche della bellezza secondo le epoche, mantendendo intatta la loro fama di 'belle' e 'belli', impreziosendo l'araldica del casato con la loro fotogenia.

Ma la fotogenia come risultato di una 'maggiorazione estetica' prodotta da una "capacità" è un altro paio di maniche. Significa che in mezzo è avvenuta una "costruzione": uno "studio" finalizzato alla ricerca di un valore aggiunto di bellezza, qualcosa che 'maggiori' il Vero di natura, incrementandolo, accrescendolo, dilatandolo. Con che cosa? Con " l'estetica", come vuole la definizione.

E' un tasto che ha già toccato Gianni Quilici,scomponendo l'immagine di Simone de Beauvoir nelle sue chiavi formali: il disporsi delle zone di luce; la curvatura dei capelli che prosegue nella lama d'ombra della guancia e si scioglie sul bavero del cappotto; la tramatura fittissima del bavero, e quello schiaffo di luce che dallo schienale della poltrona rampolla sulla spalla e si fa puntolino nell'iride. Un gioco di rispondenze perfetto su cui la riflessione di Gianni ha portato l'accento e che la definizione di Wikipedia definisce "capacità". E' il dominio sull'immagine che possiedono grandi fotografi come Penn.

 Nel caso specifico della 'fotogenia' della scrittrice francese, il risultato non è scaturito dalla sua fama; né è schiavo della cronaca e dell'affettività, ma ha subito una 'maggiorazione estetica": si è svincolata dalla base di realtà, cioè dal pericolo del 'documento', per dotarsi di un abito estetico e psicologico più ampio, quello di uno sguardo fermo e screziato che aveva già fissato la prosa del "Secondo sesso" e de "I mandarini" e che, di lì a poco, sarebbe rifluito negli oggetti interiorizzati della sua memoria e nella luce, atroce e bellissima, dell'infanzia con "Memorie di una ragazza perbene".

Sullo sfondo, passa tutta una fotogenia degli scrittori francesi ancora da scrivere. Una fotogenia spesso feroce nel registrare i mutamenti spaventosi dei visi degli scrittori. Tre casi-limite su tutti: il Baudelaire di Nadar, prima e dopo aver scritto "I fiori del male"; il Rimbaud di Carjat dopo "La stagione all'Inferno", sul limitare dei diciannove anni, prima dell'abbandono della letteratura per l'Africa; e quella corrosione, crudele e prosciugante, della bellezza del viso di Artaud, la cui fotogenia si rovescia nel suo opposto: dallo splendore del primo piano in "Giovanna d'Arco" allo scavo degli ultimi anni, dove la sigaretta sembra pendere non più da una bocca, ma da una ferita. 
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20 dicembre 2012

"Katzelmacher" di Rainer Werner Fassbinder




di Gianni Quilici

Katzelmacher  è un nomignolo dispregiativo usato in Germania per indicare uno straniero immigrato ed è anche un testo teatrale di Fassbinder rappresentato nell’aprile del 1968 e diventato film un anno dopo.
La storia è questa: un gruppo di amici, si fa per dire, chiusi in un guscio di invidie, di paure e di odi, trova la sua apparente saldatura su un capro espiatorio, lo straniero venuto in Baviera per lavoro, su cui riversare risentimenti inconsapevoli e profonde frustrazioni. Lo straniero viene dalla Grecia, ma per loro all’inizio non può essere che italiano. Su di lui si scarica una violenza, che si alimenta non dai fatti, ma semplicemente dai loro discorsi.

C’è qui un elemento sociologico che Fassbinder rappresenta acutamente: il bisogno che il gruppo ha di caricarsi, attraverso accuse campate in aria per motivare l’aggressione fisica, il pestaggio. Non a caso i loro rapporti nascondono latenti insoddisfazioni e  malumori, asti e gelosie. Soltanto una ragazza, Marie, che con il lavoratore greco ha dei rapporti erotici-sentimentali, si sottrae, senza però avere una visione ideologica altra.  

Il testo cresce attraverso scene brevissime, in cui si accumula una progressiva tensione nevrotica, sceneggiatura ideale per una trasposizione cinematografica, come poi avverrà. Un mondo chiuso, senza speranze. Nessuno dei personaggi lascia trapelare orizzonti diversi, fossero pure essi impotenti o nichilisti. Un testo che rappresenta bene ciò che vuole rappresentare. Forse il limite è nel non allargare il tessuto concettuale  con personaggi problematici.   

Katzelmacher da “Teatro 1”. Rainer Werner Fassbinder. Testi teatrali. La casa USHER. 







14 dicembre 2012

"Mini-diario genovese: Mirò" di Gianni Quilici







Mi sveglio nella notte caldo
con gli occhi aperti
come se avessi esaurito Tutto
Mi alzo e ad occhi chiusi piscio
Mi ficco di nuovo
dentro le coperte
- è freddo -
e lentamente di me
perdo coscienza

2.
 La luce chiara inonda gli occhi
dentro un paesaggio urbano caotico e grandioso
la linea di fuga dei binari
e la città che sovrapposta sale
e laggiù verso un mare incolore
tra grattacieli piccoli e ingombranti
la lanterna e la sagoma del porto

3.
Vado da Mirò con occhi innamorati
e vedo tela con linee ad olio
che sfugge a un senso chiaro
ma diversi ne richiama
Vive il gioco d’infanzia
come fumetto che lascia risonanze
 e segni di battaglia nella notte
tra realtà e sogno
E mani tante mani sospese e aperte

4.
Penso io penso come direbbe Bertinotti
che tanti schizzi  disegni
hanno il valore non in sé
ma di un processo in corso
Tanto che viene a me che son negato
di dare poi spazio a una visione
e disegnarne il senso
in linee colori ed anche parole
Ma ecco il quadro che mette insieme
un contrasto in modo netto
il bianco e il nero e su questi
alcune linee di sembianze umane
Un pensiero un mondo

5.
Se  poi mi metto a pensare al senso dei dettagli
a quel cerchio, a quelle linee
casuali intercambiabili tirate via
è nell’insieme dell’opera mi dico
che può trapelare
non il senso ma i sensi

6.
Ossessioni che ritornano
come esplorazioni di sé che ci sfiniscono
E mi chiedo se ci sia una logica irrazionale
che ispira quella serie di linee, quei colori
e sorridendo tra me e me mi chiedo
Ma cosa penserebbe Caravaggio?


"Divagazioni sulla saggistica di Mario Vargas Llosa e José Ortega y Gasset" di Davide Pugnana

“Il tempo lotta al buio col tuo sogno
boscaglia verde e bianca
quercia fanciulla quercia millenaria
il vento ti sradica e trascina e rade al suolo
apre il tuo pensiero e lo disperde”
(Octavio Paz, Temporale)









Mario Vargas Llosa, o la letteratura come orgia perpetua



Per molto tempo Mario Vargas Llosa fu per me l’autore de L’orgia perpetua Flaubert e Madame Bovary (Rizzoli, Milano 1986, pp.256). Questo saggio magistrale cadde in un periodo di intensa e ingenua scoperta del romanzo. Dopo il primo amore per Dostoevskij e Tolstoj; per Padre e figli di Turgenev, con la sua meravigliosa elegia finale sulle meste figure dei genitori, degna di un dipinto di Millet; e dopo qualche racconto di Pietroburgo di Gogol, letto male e abbandonato a metà per un tentativo di goffo arrembaggio all’Ulysses, fu la volta dell’opera di Flaubert. Non che il suo mondo narrativo fosse particolarmente accessibile rispetto ad altri classici; ma quella manciata di personaggi entrarono a segnare la mia adolescenza in modo durevole, fin quasi a prevalere sulla realtà quotidiana, che, per un magico rovesciamento, stingeva i suoi contorni contro i caratteri e le voci di Frédéric Moreau, della signora Arnoux, di Salomé, di Felicita la domestica dal cuore semplice, del farmacista Homais. E in questa persistenza dei personaggi flaubertiani entrava in gioco il bovarismo del viveur de romans, espressione coniata da Albert Thibaudet per indicare il lettore che, sospesa la credulità terrestre di Sancho per sposare la causa di Don Chisciotte, si slancia in un volo ideale, fino all’abbandono, nelle iridescenti, evocative e spregiudicate menzogne del romanzo. Ed è proprio in questo ratto del cuore e della mente che i miti irrompono come torme moresche di venti, e spargono la loro malia potentissima nelle mente dei lettori adolescenti. Una sera faticavo persino ad addormentarmi, perché non sapevo di aver chiuso il libro su uno dei vertici della letteratura europea e brancolavo stordito nel buio. Era precisamente la scena in cui Léon, dall’interno del fiacre nel cui ventre sta viaggiando con Emma, grida al cocchiere di continuare la corsa, di spronare i cavalli sempre più forte. Léon che, per un’intera sequenza, diventa urlo sferzante proveniente da una capsula ermeticamente chiusa: “Continui!”; “Vada avanti!”; “No, sempre diritto!”, in un delirante climax erotico sempre più concitato; mentre il pover’uomo “dall’alto del suo sedile, lanciava alle osterie sguardi disperati. Non capiva quale furore della locomozione spingesse quegli individui a non volersi fermare.”; e chi, nelle strade o sul porto, vedeva passare quella vettura indemoniata, con i ronzini sudati e il cocchiere “quasi piangente di sete”, sbarrava gli occhi davanti a quella “carrozza con le tendine abbassate, che ricompariva di continuo, più chiusa di una tomba e sballottata come una nave.”; fino a quando - termina Flaubert - in aperta campagna, “una mano nuda passò sotto le tendine di tela gialla.”

I lettori tra i sedici e i diciotto anni subiscono l’attrazione oscura e seducente dell’eros. In questo territorio innominabile, amica e sorella mi divenne la penna del sedicenne Flaubert il cui immaginario di metafore, il cui fraseggio gonfio di parole erotizzate ebbe l’effetto di spiovere sugli oggetti inaccessibili della mia psiche, accendendoli di luce nuova. Memorie di un pazzo e Novembre erano pur sempre mondi partoriti dall’esperienza di un mio coetaneo, il quale andava scoprendomi la natura umana adolescente, la passionalità incontrollata, la lingua mistica dell’amore-passione stando immerso nell’ombelico sotterraneo della scrittura come “orgia perpetua”. Così, portato dalla parola saggistica di Mario Vargas Llosa, scoprivo l’inesauribile tastiera dell’umanità flaubertiana: un campionario di individui calati in perfette macchine narrative. E nonostante siano passati due lustri, ho ancora chiaro il ricordo della sensazione di stupore e ammirazione che provai di fronte al trittico finale, a quei Trois contes concepiti da Flaubert nel 1876, a quattro anni appena dalla morte e dopo aver perduta la sua musa epistolare, Louise Colet. Tre racconti: scritti senza tremito e con la perfezione di un maestro orologiaio.

Suona vero che ogni adolescenza gira dentro il suo personalissimo zodiaco di miti eterni. Il mio, almeno sul terreno della letteratura, era quel Flaubert sempre così lontano dal confessare agli amici il suo ritiro dalla scrittura. Era l’ostinato anacoreta che compulsava centinaia di libri in vista del grandioso progetto di Bouvard et Pécuchet. Per lui, fedele ad una vocazione demoniaca che gli rubava tutto il tempo della vita per convertirlo in scrittura, l’allontanamento dallo scrittorio di Croisset sarebbe stato un suicidio. Flaubert non era più solo un ‘classico’, divenne presto il mito per eccellenza di resistenza alla vita nel fuoco della creazione artistica. Mi riempiva di coraggio il destino di questo scrittore: messo precocemente sulla via della scrittura e cosciente, fin dall’adolescenza, di esser nato per far parte del novero degli scrittori che muoiono con la penna in mano. Flaubert incarnava il tipo di scrittore per il quale il pur minimo cedimento della volontà creativa avrebbe, da un lato, trascinato al fallimento un intero sistema esistenziale e, dall’altro, avrebbe sancito il tradimento di una fede nella scrittura vissuta come mistica irrinunciabile. Ma come ogni fede autentica, anche quella flaubertiana era profondamente venata. Numerose crepe correvano sulla superficie della sua vocazione: l’Epistolario è tutto tramato di crisi sboccate in feroci invettive contro la vita; in minacce di gesti estremi; in martiri di ore e di giorni, folli scoperte espressive; in separazioni e divorzi dalla musa. Come quella di Baudelaire, muse malade dalle iridi colme di visioni notturne e paurose malinconie, anche la musa flaubertiana era frequentemente maltrattata: bestemmie, imprecazioni, rifiuti, odi, rancori, nostalgia di un desiderio di normalità, fughe memorabili e ritorni struggenti di padre, di figlio, di amante - era questo il romanzo che quotidianamente si svolgeva nell’officina creativa di Croisset.

In questo quadro di impressioni e sensazioni adolescenziali, Mario Vargas Llosa irruppe a suggerirmi la parola giusta: la letteratura, per scrittori viscerali come Flaubert, era “un’orgia perpetua”. Lo provavano vertici come Madame Bovary e l’Educàtion sentimentale; oppure, eterni ritorni su opere della giovinezza, come la ripresa del possente cartone preparatorio delle giovanili Tentation de Saint-Antoine; e lo registrava, in medias res, il lavico corso delle idee, delle intuizioni, delle grida verbali, delle confessioni strazianti, delle malinconie e degli scatti di innovazione stilistica che senza posa continuavano a levigare il grande letto della Correspondances.

Al grande castello flaubertiano giustapponevo la letteratura critica. Dopo l’opera di Mario Vargas Llosa, fu la volta della storica monografia di Victor Brombert; alla quale seguirono stralci dell’incompiuta cattedrale saggistica di Sartre e le pagine finemente ricamate di Pietro Citati sugli scintillanti occhi di Emma. Nei corsi di letteratura francese, a Pisa, la voce di un maestro come Francesco Orlando mi avrebbe rivelato l’esistenza di Mimesis di Erich Auerbach, uno dei saggi più belli scritti sotto il cielo dell’Occidente. Lì, attraverso l’analisi del realismo dantesco, rabelaisiano, stendhaliano, zoliano avrei trovato molti punti fermi sulla natura del realismo di Flaubert. E sempre nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in un torno d’anni particolarmente fecondi - sarebbe arrivato l’anno del secondo incontro più importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui stile e pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni, 2012), studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo; attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di discipline ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia, le pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo, gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come un romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un giorno seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già incamminato, non l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere di scrivere esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo senso dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su Baudelaire e Proust.

Intanto, sullo sfondo, campeggiava sempre il profilo de L’orgia perpetua di Mario Vargas Llosa. Pochi altri testi, per quanto profondamente intelligenti, continuavano a portarsi addosso quella lucidità di pensiero, quella penetrazione nella natura del romanzo e quel viaggio nelle viscere espressive del personaggio che conteneva questo saggio su Flaubert. Era chiaro che in quelle pagine era filtrata molta sostanza delle lezioni di letteratura di un maestro come Miguel de Unamuno. Ma nell’allievo il contenuto e la prassi del grande padre intellettuale erano trasformati e arricchiti nelle maglie di uno splendido metodo analitico sorretto da una non comune finezza di pensiero e libertà di movimento. Quante volte Vargas Llosa  avrà letto e riletto le pagine di Miguel del Unamuno sulla natura della forma-romanzo e sul Don Chisciotte, per poi tornarvi sopra con i propri occhiali di lettore sapiente? Anzi, questo suo dialogo, dimostra quanto sia vero l’adagio che dice “non ci si libera mai dei grandi maestri intellettuali”; nemmeno con la maturità, nemmeno con la scoperta di un proprio stile; possiamo tutt’al più fingere di dimenticarli, far finta di ucciderli allontanandoci dal loro verbo, criticando alcuni limiti del loro lavoro; contestandone l’autorità generazionale sgusciando schivi di spalle lungo opposti sentieri. Ma tutto questo meccanismo raffinato di paziente erosione si ingolferà quando scopriremo che la nostra parola scritta non ha mai realmente abbandonato i suoi idoli; e che, in modi diversi e invisibili, essa continuerà a trattenerli vicino a sé, anche quando li farà tacere, discosti su qualche riva lontana. La nostra parola li aveva accolti nel suo grembo arcaico, in un giorno di orfanità, con la promessa di non restituirli più al passato. E forse la scrittura giocherà ad illudersi che ogni pagina possa andare adulta per il mondo, mentre continuerà sottopelle a tessere struggenti lettere al padre.

***

Ortega y Gasset, o della bellezza delle argomentazioni



Per molti anni ancora, anche il nome di Ortega y Gasset sarebbe rimasto legato a un unico libro e ad un unico personaggio: quello delle meditazioni sul Don Chisciotte, scritte nel 1914. Almeno fino a quando avrei scoperto che questo pensatore e intellettuale, classe 1883, allievo di Miguel de Unamuno, diviso tra la docenza universitaria a Madrid, inarcata su psicologia, metafisica e letteratura, e la militanza in riviste e gruppi, nel 1984 aveva dato alle stampe una delle raccolte di saggi più belle del secolo: Lo spettatore (Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro 13,94).

Bisogna essere dotati di una singolare bravura nel riuscire a tenere insieme, senza dissonanze e con variate soluzioni di continuità, una piccola estetica portatile del tranvai e l’iconografia bacchica in Tiziano, Poussin e Velàzquez; una meditazione sulla democrazia e una disquisizione sulla funzione della cornice nell’opera d’arte; così come occorre un gusto infinitamente sottile per la variazione di registro stilistico nel saper affiancare, senza stridore, incipit folgoranti come: “Nella morfologia dell’essere femminile forse non ci sono figure più strane di quelle di Giuditta e di Salomé, le due donne cha hanno ciascuna due teste: la loro e quella tagliata.” e  un’acuta disanima storica di ciò che è stata la dittatura fascista. E occorre, inoltre, un ampio e mobile occhio intellettuale per tessere, nel disegno di un unico ordito, campi dello scibile umano tra loro tanto lontani nel tempo e nello spazio, come il meraviglioso fascio di glosse sui canti e i racconti dell’antico Egitto e certe riflessioni sulla civiltà moderna, sulla crisi della cultura, sulle masse, sul lessico contemporaneo, e sulla struttura della psiche maschile e femminile. L’aspetto sorprendente di quest’impasto magmatico non è solo la versatilità della poligrafia e la pluralità dei registri; quanto quella cifra di purissima e cartesiana linearità che non viene mai meno, anzi ci guida nelle viscere delle province e delle propaggini di un vastissimo territorio mentale. Si fiuta lo stile del pensiero di Ortega y Gasset in ogni interstizio concettuale e in ogni metafora chiarificatrice. Quando leggiamo, ad esempio: “L’incomprensione della vita infantile che ci affligge, dipende dal fatto che giudichiamo gli atti dei bambini come se questi fossero sommersi nel nostro stesso ambiente” (La psicologia del sonaglio), e, nel capitolo dopo: “la Gioconda è la donna essenziale, che conserva intatto il suo incanto. Madre e sposa, sorella e figlia sono i precipitati che dà la femminilità, le forme che la donna riveste quando cessa di essere donna e non lo è ancora. La maggior parte delle donne hanno solo un’ora nella loro vita e gli uomini sono dei don Giovanni solo per qualche momento.” (Cercando un tema). Ad unire momenti così differenti in una scia di tensione, maculata di lampi apodittici, è uno degli elementi portanti connaturati ai più bei diari intellettuali dell‘Occidente: la bellezza delle argomentazioni. Non so se questa espressione sia legittima tanto da poter fissare, oltre il campo delle suggestioni, la forza di un valore universale del pensiero; ma ci sono scrittori che possiedono in tale grado la capacità di pulire il concetto fino a conferirgli una vita adamantina che davvero non riesco ad immaginare altre formule per esprimere questo dono. Le loro pagine sono simili a paesaggi che un occhio nudo può esplorare nei primi piani, come nelle quinte più lontane, senza mai perdere il nitore dei contorni degli oggetti e dell’insieme.

Quando leggiamo opere come gli Essais di Montaigne, i Caratteri di La Bruyere, Aut-Aut di Kierkegaard, Danubio di Claudio Magris, l’affresco letterario italiano di Francesco De Sanctis o qualsiasi libro di Elias Canetti e del messicano Octavio Paz, questo tipo singolare di bellezza - la bellezza delle argomentazioni - ci viene incontro in tutta la sua concretezza, assume lo statuto inventivo di un’assoluta chiarità meridiana e si impone come indelebile marchio di fabbrica della grande tradizione della saggistica.

In questa costellazione di pleiadi, la medesima condizione privilegiata permea di sé ogni brano de Lo spettatore di Ortega y Gasset. Per coglierne la portata è sufficiente trascegliere, tra i molti possibili, due interventi legati a questioni letterarie. Ne Il Don Chisciotte nella scuola, il filosofo prende le mosse interrogandosi sulla legittimità necessaria del romanzo di Cervantes nella formazione giovanile e finisce a trattare, quasi per gemmazione, la natura della pedagogia, della macchina nella modernità, del desiderio, del mito e dell’ambiente. Mentre in Tempo, distanza e forma nell’arte di Proust, Ortega spiega la rivoluzione espressiva del romanziere francese sviluppando il concetto di “invenzione” così come la tradizione antica l’aveva modellato e così come la recherche creativa di Proust ha saputo rinnovare, grazie ad un nuovo “tempo” e ad un nuovo “spazio” della memoria e dell’inconscio ricostruiti letterariamente per poetiche intermittenze del cuore. Ancora una volta, una bellezza particolare si raccoglie nelle prima righe del saggio: “Ma c’è un altro tipo di scrittori che hanno la fortuna o la genialità di essersi imbattuti in un filone di ‘cose’. La loro situazione è molto simile a quella degli inventori scientifici. Con una semplicità e con un’evidenza stupefacenti hanno trovato che il loro piede scivolava su un nuovo campo di possibilità estetiche. Se, servendosi di una vaga parola mistica, si suole chiamare ‘creatori’ gli scrittori suddetti, bisognerà chiamare questi ‘inventori’, nel senso più latino della parola. Hanno trovato una nuova fauna occulta in paesaggi intatti; almeno hanno trovato un nuovo modo di vedere, una semplice legge ottica con un certo indice inusitato di rifrazione. La posizione di questi autori è molto più solida: anche se la loro opera è sempre identica a se stessa e non promette cose nuove, spettacoli inediti, è difficile che manchi in noi il desiderio di vedere. Quando Platone cerca una categoria sicura in cui iscrivere i filosofi si decide per la classe dei filoteamoni o amici del vedere. Forse pensava che la virtù più costante dell’uomo fosse un certo entusiasmo visuale.”  

Fluidità della conversazione; profondità di pensiero e di sentimento; solidità e naturalezza stilistica; estro e improvvisazione; abilità tessitrice nel discoprire corrispondenze tra campi lontani: sono solo alcuni arpeggi della scrittura saggistica di José Ortega y Gasset. Ma c’è un altro elemento unificatore, una sorta di tonalità di fondo che avvicina il pensiero del filosofo spagnolo e la sua prosa alla grande forma del saggio europeo. Per comprendere questa appartenenza al saggio come “genere letterario” dobbiamo rileggere ciò che dice Alfonso Berardinelli nel suo celebre La forma del saggio. Vien fatto di chiedersi: che cosa contraddistingue il bravo e rigoroso ricercatore scientifico dal saggistica di razza? Per più di duecento pagine Berardinelli ci spiega “forse il più mutevole e inafferrabile dei generi”, interrogando le pagine di Leopardi, di Nietzsche e di Ruskin, dei “saggisti in versi o anche in prosa”. E quando ci descrive lo statuto di questo organismo sfuggente e composito come qualcosa che riesce ad inglobare un’ispirazione “sussultoria, incostante, disorganica”; una scrittura porosamente dilatata sul proprio presente e “in perpetua instabilità”; un dettato imbastito da un “visionario del pensiero e un dialettico della metafora” che “scontento di se stesso, finisce per scontentare tutti, sia chi lo vorrebbe più dialettico, sia chi lo vorrebbe più visionario”, sentiamo che da questo identikit emerge una fisionomia non lontana dal temperamento di Ortega y Gasset. Ritroviamo, ad esempio, il suo spirito di osservazione delle cose in questa frase di Berardinelli: “Il saggista non inventa universi alternativi, né costruisce una ben organizzata e speculare teoria del reale. Se può sembrare che si tenga un po’ al riparo, con le sue divagazioni, dalla verità e dalla bellezza, è solo perché non osa fronteggiarle o non crede che fronteggiarle sia  possibile. Sceglie la via indiretta e momentanea, fa risuonare i concetti come voci, li fa entrare in scena come maschere.” 
Ortega y Gasset possiede tutto questo? Bisogna leggerlo per sentirlo.

Mario Vargas Llosa, L’orgia perpetua. Flaubert e Madame Bovary, Rizzoli, Milano 1986, pp.256, euro 11,36
José Ortega y Gasset, Lo spettatore, a cura di Crlo Bo, Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro 13,94