30 settembre 2009

“Mele dal deserto” di Savyon Liebrecht


di Gianni Quilici

Avevo letto di Savyon Liebrecht “Prove d'amore” (edizioni e/o), una bellissima storia d'amore ambientata a Tel Aviv in uno scenario di ricordi atroci e di segreti imbarazzanti o mostruosi, e questo libro composto di sette racconti conferma il talento e la grandezza di questa scrittrice, nata in Germania nel 1948, ma vissuta già da bambina in Israele.

Sono tutti racconti necessari, che rappresentano lo stato delle cose in Israele con il dramma dell'Olocausto sempre presente, anche quando c'è la volontà disperata di liberarsene, e con la presenza del conflitto con gli arabi, che come un'ombra si disegna nelle minuzie della vita quotidiana.

Il primo di questi racconti “Una stanza sul tetto” è forse il più bello, perché è il più compiuto, quello che forse meglio raffigura cosa significhi vivere in Israele oggi. La protagonista è un bellissimo ritratto di donna, perché ha l'efficienza e la determinazione ed anche una considerevole autonomia per decidere di far costruire una stanza sulla terrazza di casa a dei lavoratori arabi, in un periodo in cui si trova senza la presenza del marito.
Il racconto ti fa vivere i pregiudizi e la diffidenza, il disagio e la paura, l'incertezza e la durezza della donna fino ad una superiorità, che porta al disprezzo; ma nel fluire di questo rapporto anche la sorpresa e la disponibilità, perfino l'attrazione quando troverà in uno di loro cultura, attenzione, delicatezza che, per esempio, non ha mai visto nel marito. Non ci sarà giustamente un lieto fine, tutt'altro; c'è però un interagire che lascia spazio ad una simpatia, ad un intenerimento, ad un avvicinarsi verso. E tuttavia il finale amaro lascia capire come sia difficile oggi un ascolto reciproco, quanto le paure, i torti, le differenze di status, i pregiudizi siano pesanti e radicati.

Luminoso è il racconto che dà il titolo alla raccolta “Mele dal deserto”. La madre ebrea ortodossa va nel deserto per riprendere e “liberarare la figlia dal peccato”. La ragazza, infatti, è scappata in un kibbutz laico e ora qui vive con un ragazzo “come marito e moglie”. La Liebrecht accompagna la donna lungo il viaggio in autobus, ne rappresenta i risentimenti verso la figlia, ma anche i timori: la paura di essere scacciata dalla ragazza, picchiata dal suo ragazzo, di non sapere dove pernottare in una zona a lei sconosciuta. Invece scopre un calore e una disponibilità immediata e sincera ed è costretta, discutendo con la figlia, a rivedere la sua vita, il rapporto mancato con un marito freddo, chiuso ed egoista. Un racconto di trasformazione veritiero e palpabile che conquista per la precisione dei (sottili) dettagli.

Nei due racconti “Il taglio dei capelli” e “La bambina delle fragole” Savyon Liebrecht riesce a trasmettere del nazismo (il primo nella memoria, il secondo nel presente storico) un quotidiano al tempo stesso reale e allucinatorio.

Savyon Liebrecht. Mele dal deserto. Traduzione dall'ebraico di Carlo Guandalini. Pag. 153. edizioni e/o. Euro 13,42.

25 settembre 2009

“Etiopia 1984” di Sebastiao Salgado


di Gianni Quilici

E' una di quelle foto quasi stupefacenti che ogni tanto è dato vedere.

E' stupefacente, perché sembra così perfetta da sembrare studiata e composta come in un film, in cui provi e ri-provi una scena fino a trovare l'attimo in cui cogli quella perfezione, che avevi immaginato, nell'inquadratura, nell'espressione dei volti, nella composizione del quadro.

Qui siamo nel Sahel, esattamente in Etiopia, in un mattino del 1984 ed è una delle tante foto che Salgado ha dedicato a questa zona del mondo martoriata dalla siccità. Questi sono profughi nel campo di Korem. Siccità, vento e freddo.

Ciò che (mi) colpisce è innanzitutto un contrasto interno (e molto sottile) alla foto: da una parte povertà, fatica, forse sofferenza, forse solitudine; dall'altra, e insieme, dignità e nobiltà dei corpi e dei volti, perfino una nuda eleganza.

Infatti la foto ha una sua bellezza scultorea con i tre corpi ripresi in primo piano, avvolti da pesanti coperte a formare un unico corpo, collocati in perfetta scansione nello scenario grigio e grandioso del deserto e delle montagne con nello sfondo la presenza di una donna esile e scalza a disegnare un'altra storia, forse un altro percorso.

E però questa bellezza non è soltanto scultorea è esistenziale. Sono gli sguardi e le espressioni, che non chiedono pietà, semmai, nella loro oggettività, comprensione. In particolare il volto del bimbo, quello, a noi, più vicino, quello che meglio individuiamo. Quegli occhi chinati, quella coperta su cui poggia, quei lineamenti armonici, quel pensiero lontano e raccolto diventano poesia, esprimono senza definire: forse una ritrosia, forse una fatica, forse un dolore. Mistero.

Qualcuno ha parlato di estetismo. Come se povertà e sofferenza non potessero avere una loro bellezza estetica, certamente quella bellezza sinonimo di espressività, che nasce da un'umanità per un verso più vicina alla radice del sentire; e per un altro dignitosa, lontana dal chiedere l'elemosina della pietà. Che non si sente, nella foto almeno, altra o inferiore, se non per chi ha una scala di valori classista e giudica secondo pericolosi e gretti pregiudizi.

Sebastiao Salgado è uno dei grandi testimoni del nostro tempo. Con le sue immagini ha rappresentato e continua a rappresentare i grandi eventi che plasmano e trasformano il mondo in cui viviamo: la vita nelle campagne e nelle miniere in America Latina, la tragedia della siccità nei paesi africani, i lavori dimenticati, il movimento incessante di grandi masse che per guerre, necessità, desiderio di vita migliore sono costrette a spostarsi. Da otto anni sta lavorando ad un progetto per ritrarre ciò che resta della natura incontaminata. “Ho chiamato questo lavoro Genesi” dice Salgado “perché il mio obiettivo è tornare alle origini del pianeta: all'aria, all'acqua, al fuoco da cui è scaturita la vita, alle specie animali che hanno resistito all'addomesticamento”. (Ian Parker da “ D, la Repubblica delle Donne, 22 ottobre 2005).

24 settembre 2009

"Face Book: rischi e piaceri" di Gianni Quilici



Quanti tra chi legge “Libere Recensioni” sono inseriti in Facebook?
E quanti sanno che cosa sia precisamente?
Brevemente lo spiego.
FB sono più pagine, di cui uno può gratuitamente disporre sul web, sulle quali può scrivere pensieri, elaborare note, inserire foto e video, scrivere e ricevere posta pubblica o privata, chattare, interagendo con altri (gli amici), da cui devi essere accettato e che deve accettare.
E' uno strumento formidabile per chi vuole conoscere persone ed anche per chi vuole informare delle sue attività sia singoli che associazioni, forze politiche, imprese culturali-commerciali ecc, ecc.

Detto questo è evidente che molto dipende da come uno lo usa o meglio ancora se ha idee, immagini, desideri, capacità di interagire a livelli non banali.
La maggioranza di ciò che intravedo indossa la maschera delle battutine, del commentino o della diffusione di materiali diversi (video, quiz, foto, giochini ecc, ecc).
C'è una minoranza, tuttavia, che ha motivati interessi (politici o letterari), che pone confronti, può consentire conoscenze profonde, scambi proficui.

Però, come in ogni fenomeno, quali sono i tratti dominanti?
Partiamo da un fatto. Leggo che il prof. Jonathan Zimmerman, della New York University, sostiene che tre adolescenti americani su quattro trascorrono ogni possibile istante incollati a facebook o MySpace... Le chat, sostiene Zimmerman, sono la nuova possente droga da cui questi giovani sono ormai dipendenti.
Se allarghiamo lo spazio virtuale ai giochini elettronici e ai video da un lato; e dall'altro ai cellulari e agli sms questo dato appare più o meno possibile anche per gli adolescenti italiani ed, in ogni modo, questo è il profilo dominante dei nostri Tempi. Viviamo in un'epoca in cui alla televisione si sta progressivamente sostituendo il computer. Perché questo consente non solo di vedere e sentire, ma anche di connettersi nel mondo. Non essendo soltanto spettatore, ma sentendosi protagonista in prima persona: attraverso scambi o facendosi conoscere (video, foto, blog....)

La domanda è: quale bisogno soddisfa?
Il bisogno di riempire un vuoto. Il vuoto, sempre difficoltoso, del rapporto di sé con sé.
Anche un libro, un film, una partita a carte, un incontro riempiono un vuoto. Qui però c'è molto di più. Puoi dialogare con altri, con molti altri, anche con chi non conoscevi, puoi dialogare senza fatica, troncando, con un pretesto, facilmente e passando ad altro, senza dover uscire, dover ascoltare, incontrare i soliti visi. C'è infine l'attrazione del mistero: la possibilità di trovare l'ideale immaginativo.

I rischi sono enormi.
Immaginiamo di togliere l'accesso ad internet e di sequestrare il cellulare a milioni di individui (non solo adolescenti), che vivono in simbiosi con questi. Potrebbero continuare tranquillamente a vivere?

Il primo rischio è noto: alla vita reale, alla fatica di costruire rapporti dinamici con chi ti sta d'intorno, si sostituisce una vita virtuale, che senti più appagante, perché più facile, più imprevedibile.

Il secondo: si rinuncia alla solitudine. Ossia a quella condizione che ti consente di concentrarti, percepire il tuo io, raccogliere intuizioni, elaborarle, creare, che solo può dare senso alla comunicazione.

Il terzo rischio: si vive frammentariamente, pensieri brevi, desideri brevi, memoria breve inseguendo stimoli, non elaborandoli, continuamente insoddisfatti, perché nulla o poco diventa davvero nostro.

E tutto questo non riguarda soltanto gli adolescenti, ma tutti coloro che vivono la modernità. Si può utilizzarla da padroni, si può utilizzarla da schiavi. Il problema non è soltanto individuale è pure sociale, cioè politico.

da Arcipelago, rivista dell'Arci di Lucca

"Con una ninna nanna Trilussa si schierò contro la guerra" di Luciano Luciani




Ottobre 1914
A partire dalla scintilla di Sarajevo, il primo conflitto mondiale si era già rovinosamente allargato a quasi tutto il continente europeo. Fa eccezione l’Italia, che pur facendo parte della Triplice Alleanza, aveva dichiarato di volersi mantenere neutrale, non essendosi verificato il casus foederis, esclusivamente difensivo, previsto dal trattato. Dietro questa posizione c’era non solo l’eredità risorgimentale di un sentimento antiaustriaco condiviso dalla maggioranza dell’opinione pubblica italiana, ma le generalizzate e diffuse convinzioni pacifiste e neutraliste delle masse socialiste e cattoliche del nostro Paese. Lo stesso papa Benedetto XV, salito al soglio pontificio nell’estate 1914, proprio nei giorni più drammatici dell’accelerazione in senso bellicista della crisi europea, non faceva mistero delle sue idealità orientate in senso ostile alla guerra. Le rendevano ancora più nette le notizie degli orrori che già si consumavano sui vari fronti teatro delle operazioni militari: il Belgio, il nord-est della Francia, la Marna, la Prussia orientale erano gli scenari di una carneficina mai vista prima nella pur lunga storia delle guerre che avevano opposto, l’un contro l’altro armati, i popoli europei. Nei soli primi quattro mesi di guerra sul fronte occidentale si erano contati 400mila morti e quasi un milione di feriti.
Nonostante questi terribili esempi, l’iniziale opzione neutralista dell’Italia entra ben presto in crisi. Liberal–conservatori, e socialriformisti, associazioni irridentiste e sindacalisti rivoluzionari, repubblicani e radicali, in minoranza nel Paese e nel Parlamento, cominciano rumorosamente ad agitarsi in favore di un intervento contro l’Austria per portare a conclusione il processo di unità nazionale iniziato nel Risorgimento. Non manca neppure il clamoroso voltafaccia di Benito Mussolini, allora direttore dell’”Avanti”, che dalle colonne del quotidiano socialista forza la situazione del suo partito e del Paese perché si passi dalla “neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Pochissimi lo seguono, il Partito socialista lo sconfessa e Mussolini abbandona la direzione del giornale per finire espulso dal partito.
In termini di forza parlamentare e di peso nella società i neutralisti erano in netta prevalenza, ma gli interventisti esprimevano una notevole capacità di mobilitazione nelle piazze, sui giornali, nelle università tentando di far passare l’immagine di un “paese reale” voglioso di guerra che si contrapponeva a quello legale con alla testa il parlamento giolittiano debole, screditato e corrotto.
Decisiva ai fini dell’entrata in guerra fu la mobilitazione degli intellettuali da Luigi Albertini a Giuseppe Prezzolini, da Giovanni Gentile a Gaetano Salvemini, a Luigi Einaudi.
Gabriele D’Annunzio non esita a mettere al servizio della causa interventista tutto il suo carisma di letterato, poeta, uomo di teatro, improvvisandosi capopopolo, demagogo, agitatore di masse e piazze secondo modalità più tardi apprezzate e riprese dal fascismo.

In questo scontro pace-guerra che divise l’Italia e che vide gli intellettuali giocare un ruolo determinante, non va dimenticata una voce pacifista, certo più mite e sommessa di quella dell’eclettico e sonoro poeta pescarese, nutrita però di valori di pace e tolleranza e di un’angosciosa umanità di fronte agli indicibili orrori del conflitto: quella di Trilussa.

Nel 1914 il poeta romano, poco più che trentenne, era all’apice della sua fama. Quasi un’istituzione, amato e apprezzato tanto dal popolo quanto dalla borghesia e dall’aristocrazia della capitale, blandito – e temuto – dai politici, benvoluto dagli intellettuali. Moderno Esopo, la sua arguzia, la sua ironia, la sua popolaresca sincerità, corrispondevano agli umori profondi del senso comune romano e nazionale: alla sua vena moraleggiante e priva di particolari audacie ideologiche attingevano a piene mani comici, intrattenitori, artisti di varietà da Ettore Petrolini a Nicola Maldacea. Insomma, Trilussa apprezzato cantore di un buon senso vernacolo lontano da ogni sdegno e furore, faceva opinione. E a lui si deve una poco nota ma durissima testimonianza contro la guerra:

1
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vo’ la zinna,
dormi dormi, cocco bello,
se no chiamo Farfarello,
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Cecco Peppe
che s’aregge co’ le zeppe…

2
…co’ le zeppe de un impero
mezzo giallo e mezzo nero;
ninna nanna, pija sonno
che se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedono ner monno,
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.

3
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che comanda,
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio de una fede
per un Dio che nun se vede…

4
…ma che serve da riparo
ar sovrano macellaro:
che quer covo d’assassini
che c’insanguina la tera
sa benone che la guera
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le Borse.

5
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura ‘sto macello,
fa la ninna, che domani
rivedremo li sovrani
che se scambiano la stima,
boni amichi come prima;
so’ cuggini, e fra parenti
nun se fanno complimenti!

6
Torneranno più cordiali
li rapporti personali
e, riuniti infra de loro,
senza l’ombra de un rimorso
ce faranno un ber discorso
sulla pace e sur lavoro
per quer popolo cojone
risparmiato dar cannone.

Questo testo conobbe una larga diffusione che secondo alcuni storici sarebbe arrivata fino alle trincee, resa ancor più ampia e penetrante dalla partitura di un musicista rimasto anonimo.
E non fu l’unica presa di posizione in favore della pace del poeta romano. Trilussa tornava sulla questione ancora nel Natale del 1915 scrivendo:

…Fa’ in maniera Gesù bello,
che una scheggia de mitraja
spacchi er core a la canaja
ch’ha voluto ‘sto macello!
Fa’ ch’armeno l’impresario
der teatro de la guera
possa vede sotto tera
la calata der sipario.
Fai ch’appena liberato
dalli barbari tiranni
ogni popolo commanni
ne’ la Patria dov’è nato.

Certo, non si poteva pretendere da Trilussa rigore politico e coerenza ideologica. La stessa popolarità che lo rendeva caro a tutti lo spingeva poi ad aderire sentimentalmente ai grandi movimenti d’opinione più o meno spontanei: così nel febbraio 1917 lo troviamo non da solo a magnificare in versi vernacoli le sorti del Prestito Nazionale lanciato per finanziare quella stessa guerra che con sentimento tanto doloroso il poeta aveva contribuito a criticare.

23 settembre 2009

"Socialismo e pace in Herbert George Wells" di Luciano Luciani




Inquietudini europee e romanzo utopistico

L’Europa di un secolo fa: inquieta, agitata, invelenita. Da una parte la percorrono formidabili movimenti sociali che dal basso rivendicano uguaglianza, giustizia, una vita degna di essere vissuta per milioni e milioni di uomini e donne da sempre mantenuti negli abissi della storia; dall’altra elites egoiste e gelose dei propri privilegi orientano verso i miti irrazionalistici della razza, del sangue, della potenza settori sempre più ampi delle classi medie. In un continente che conosceva già le asprezze della lotta di classe e la perenne tensione indotta dai nazionalismi e dagli sciovinismi, si consuma la rottura con il razionale e ordinato mondo del XIX secolo, mentre il XX si preannuncia cupo, ansioso, denso di motivi di allarme e preoccupazione: quella della Belle Epoque fu una società che visse inconsapevolmente su un campo minato” (P. Morand). L’Europa, rivelatasi capace di estendere il proprio dominio su tutto il pianeta forte di un modello politico e culturale senza precedenti, culla della rivoluzione industriale e di straordinarie innovazioni tecnologiche, era la stessa che preparava in maniera sotterranea la grande carneficina della guerra. In questo inizio secolo così angosciato non furono pochi gli scrittori che tentarono di definire in direzione del futuro alcune possibili vie d’uscita dalle angustie del presente. Forse è in questa chiave che si può spiegare la straordinaria fioritura che il romanzo utopistico, ovvero la uno straordinario mix di invenzioni letterarie tra fantasy, satira politica e allegoria sociale, conobbe lungo tutto il trentennio precedente lo scoppio del primo, grande conflitto mondiale.
Jules Verne e Theodor Hertzke, T. R. Stockton e F.A. Fawkes, Paolo Mantegazza e George Gissing non si stancarono in questi anni di battere i sentieri dell’avvenire, cercando, sia pure in chiave romanzesca, di diradarne le nebbie e individuare i lineamenti di un domani possibile e umano, oppure mettere in guardia contro una sua possibile disumanità.

Wells e il socialismo

Tra tutti coloro che si cimentarono con le tematiche avveniristiche, per consapevolezza filosofica, per passione argomentativa, per forza di stile e capacità d’evocazione spicca l’inglese Herbert George Wells, il celeberrimo autore della Macchina del tempo, 1895, dell’Uomo invisibile, 1897, della Guerra dei mondi, 1898, solo per citare i suoi libri più letti e famosi…
Ma Wells non fu solo uno scrittore amato e popolare: perennemente scontento del mondo in cui viveva, per quasi mezzo secolo, tanto si prolungò la sua produzione, cercò sempre di incitare gli uomini a cambiare, mostrando loro il male sociale e individuale e suggerendo sempre le soluzioni, anche pratiche, per una ricostruzione ragionevole del consorzio umano.
Operando in tale direzione Wells non poteva che riconoscersi e incontrarsi con le ragioni della pace e del socialismo, nella profonda convinzione che fosse assolutamente necessario rifare il mondo del suo tempo in termini di giustizia sociale e solidarietà tra gli uomini.
Dunque, Wells fu pacifista e socialista in quanto scrittore di fantascienza e romanziere della storia futura proprio in quanto socialista e pacifista. Lettore in gioventù dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift , dell’Utopia di Tommaso Moro e delle teorie di Robert Owen, ancora studente era un assiduo frequentatore dei circoli della Fabian Society, ovvero quel movimento politico - culturale di orientamento socialista che era stato fondato nel 1883 da E. Pease; e dove si potevano ascoltare e incontrare economisti come Sidney e Beatrice Webb, il drammaturgo George Bernard Shaw, il poeta e pittore preraffaellita, William Morris, tra i primi a porre il problema del rapporto tra arte e industria. A sua volta autore di un romanzo utopistico, Notizie da nessun luogo, Morris criticava la prima grande globalizzazione nel segno dell’Impero britannico, il mercato mondiale e ipotizzava una Nuova Era postindustriale nei modi di un’Utopia sostanziata di lavoro onesto, buoni propositi e libero amore.
Insofferente nei confronti della monarchia, della chiesa e della morale corrente, socialista premarxista, ma non per questo meno appassionato e convinto della necessità di un profondo e radicale mutamento sociale, Wells si iscrisse alla Fabian Society nel 1903, ma, ben presto con l’ardore che sempre caratterizza i neofiti, assunse da subito un atteggiamento critico e polemico nei confronti dei vertici dell’organizzazione. Il romanziere, infatti, avrebbe voluto che i fabiani si dessero una struttura più solida, promuovendo vita a un’ampia campagna di reclutamento e aprendo sezioni in tutto il Paese: per Wells, uno scienziato prestato alla letteratura e alla politica, la Fabian Society avrebbe dovuto farsi promotrice di un socialismo di tipo nuovo, fondato sull’assimilazione delle scienze moderne e della loro applicazione alla soluzione dei problemi sociali.
Nel 1905 appare Una moderna utopia, pagine in cui Wells suppone la creazione di un ordine tra il guerresco e il religioso, i cui componenti, a metà strada tra i samurai giapponesi e sacerdoti zelantissimi, erano dediti al compito esclusivo di riorganizzare il consorzio umano e a vigilare sui suoi destini: per alcuni anni Wells tentò di ristrutturare la Fabian Society in questo senso. Le sue idee, in fondo, non erano dissimili a quelle di George Bernard Shaw e dei coniugi Webb, ma, come dichiarerà più tardi, lo scrittore si sentiva oppresso dall’idea fabiana di “socialismo amministrativo”: ovvero evitare ogni mutamento politico e, come causticamente affermava il romanziere, accostarsi furtivamente al socialismo. Contro questa prospettiva di un “socialismo che ha dimenticato cos’è il socialismo” mosse l’iniziativa di Wells contro la “vecchia cricca fabiana”, come lui la definiva, che, a suo parere, andava sostituita con nuovi dirigenti più aggressivi, più determinati. Di qui violenti contrasti, anche personali, con i “padri fondatori” della Fabian Society che favorirono il progressivo allontanamento di Wells da quella organizzazione, anche se per lui il socialismo rimase sempre il sistema sociale più giusto e razionale, la più moderna forma di umanesimo, la sola veramente conforme alle migliori qualità dell’uomo.

Wells e la pace

Altrettanto complesso e contraddittorio il rapporto dello scrittore inglese con la grande questione della pace e/o della guerra che si pose drammaticamente all’opinione pubblica europea nella terribile estate di Sarajevo. La guerra che metterà fine alla guerra, 1914, è il titolo del saggio wellsiano che verrà adottato come formula riassuntiva delle posizioni dell’interventismo democratico europeo, conferendo al conflitto un carattere antimilitarista ed emancipatorio. Ma Wells era troppo esperto della vita e delle cose per non rendersi conto che anche quella guerra, pur se combattuta con intenzioni di libertà, finiva per incoraggiare i peggiori istinti dell’uomo; ed era artista troppo sensibile per non cogliere le voci degli uomini che si levavano da entrambe gli schieramenti auspicando la cessazione di quello spaventoso massacro.
Così, nel 1915, dichiarandosi pacifista e insofferente nei confronti del militarismo, rifiutò di visitare il fronte di guerra europeo. Cosa che fece invece l’anno successivo, ricavandone un libro di impressioni e ricordi, Italia, Francia, Inghilterra durante la guerra, pubblicato nel 1917. Ma la fase del ripensamento intorno alle ragioni del conflitto è ormai avviata: nel 1916 appare Il signor Britling ci va a fondo, “il libro migliore, più coraggioso, veritiero e umano, scritto in Europa durante questa maledetta guerra” (M. Gorkij). La storia di un piccolo borghese inglese di mezza età che non lesina discorsi intrisi di patriottismo, scrive in favore delle guerra, si impegna sul ‘fronte interno’, convinto fino in fondo degli ideali che avevano portato centinaia di migliaia di giovani inglesi nel fango delle trincee di mezza Europa… Tutto questo sino a quando Hugh, il figlio del signor Britling, è richiamato, parte per il fronte e muore. Il lutto del protagonista si va così ad aggiungere a quello sempre più largo di un intero popolo, di tutti i popoli europei. Allora, le parole della propaganda si trasformano in vite umane, carne e sangue: un rilevante esempio di letteratura antimilitarista, “un libro forte, pieno di verità, commovente. Non solo il miglior libro di Wells, ma anche il miglior libro sulla guerra in generale” lo definì a caldo il “Chicago Tribune”.

Wells e la rivoluzione bolscevica

Quando nel 1917 scoppiò la rivoluzione russa, Wells l’accolse come un minaccioso brontolio di avvertimento alla classe dirigente inglese, incapace di avviare una seria politica di riforme sociali. “E’ necessario trasformare il nostro mondo prima che qualcuno possa distruggerlo”, questa la convinzione dello scrittore inglese, che, con grande onestà intellettuale, scelse di conoscere e confrontarsi col formidabile avvenimento della prima rivoluzione proletaria realizzata. Così, nel 1920 visitò l’URSS, ricavandone come al solito un saggio La Russia nelle tenebre, la cui morale era che solo il potere sovietico, prodotto da concrete ragioni storiche, poteva restituire la Russia alla civiltà. Wells non è certo un sostenitore dell’URSS, ma nelle sue pagine si ritrovano affermazioni come queste: “Quali sciocchezze non si dicono sui comunisti in Inghilterra ! Eppure sono persone uguali a noi e io, per natura ed esperienza personale, sono portato a provare nei loro confronti la più affettuosa simpatia”. Lo sguardo del romanziere inglese è sufficientemente lucido per comprendere che se gli uomini si incontrano col comunismo è perché “soffrono le ingiustizie sociali, l’ottusa insensibilità e la smisurata insolenza del nostro sistema, comprendono di essere umiliati e sacrificati e quindi cercano di abbatterlo e di liberarsi dalle sue morse. Non serve alcuna propaganda sovvertitrice per farli insorgere. Sono gli stessi vizi del sistema sociale, che li priva dell’istruzione e li rende schiavi, a generare il movimento comunista dappertutto dove sorgono fabbriche e officine”.

Poi gli anni della vecchiaia segnati dalla sempre più marcata convinzione che solo uno Stato mondiale, capace di prescindere dai confini nazionali sarebbe stato capace di unificare l’umanità contro le sfide della Natura. Visioni che sanno quasi di profezia e immaginazioni apocalittiche si alternano negli ultimi scritti di questo “libero cittadino del mondo nuovo”, che si spegne nel 1946 alla vigilia del suo ottantesimo compleanno.

21 settembre 2009

"Pianura" poesia di Letizia Pantani


di Gianni Quilici


Da due anni Letizia Pantani ci ha lasciato.
Difficilmente chi l'ha conosciuto potrà dimenticare il suo volto, combattivo e insieme ferito.
Su Arcipelago ha scritto un anno fa, in occasione dell'uscita del libro “Sei tamburo che rulla”, una penetrante recensione Igor Vazzaz
Vorrei ritornarci però “toccando” una sola poesia, perché il libro di Letizia è denso e complesso e, alle poesie soprattutto, si può finire per non dare lo spessore e l'attenzione, che esse meritano.
Scelgo “pianura”, dalla raccolta At/tese e (vi) suggerisco di leggerla a voce alta, verso per verso, lentamente, perché è una poesia in cui la voce prende suono, forza.





At/tese.14

Avevo ereditato un corpo sconfinato
in cui non esisteva barriera
ed i ponti si rincorrevano
e le finestre si affacciavano
su mari senza limite
invasione di corpi e di voci
immaginari colmi temuti
odori potenti che penetrano
untuosità che avvolgono
legami che stringono
in un'alba continua di segni
pianura

E' infatti senza segni di punteggiatura, una successione travolgente di immagini, di movimenti, di spazi, di contatti, di desideri.

Se fossi insegnante in una scuola, e dovessi con gli alunni interpretarla, chiederei: “In quanti parti la dividereste questa poesia?”.
Avrei già una mia risposta: (io) la dividerei in tre sequenze, che nel profondo corrispondono ad un solo unico soggetto.
Questo è un io-corpo sconfinato ed ereditato.
Due parole che si presterebbero ad una di quelle conversazioni che partendo dall'ovvio finiscono per allargarsi oltre l'io, oltre la poesia stessa.
“Sconfinato” senza confini, è, infatti, un aggettivo denso nel suo dirsi-sentirsi, oltre che nel suo senso; ed “ereditato”? Per “ereditato” porrei una domanda la cui risposta non può che dilatarsi oltre misura. Può essere ereditato da padre-madre-famiglia, dall'ambiente, ma anche dai sotterranei della Storia e, perché no?, dalla Specie. Già ci si inoltrerebbe, oltre il quotidiano, in spazi ed in tempi grandiosi.

Però questo io-corpo attraversa, nella “pianura” tre successioni di momenti.
Il primo (momento): è uno spazio in un movimento senza limiti prefissati (ed i ponti si rincorrevano/ e la finestre si affacciavano/ su mari senza limite...”).
Il secondo: è il rapporto-contatto che diventa osmosi (penetrano, avvolgono, stringono), anche contrastato (“untuosità”) o ambiguo (“legami che stringono”).
Il terzo, infine: tutta quanta questa successione travolgente di sguardi e di sentimenti in un continuo ri-sorgere (“in un'alba continua di segni”).

Però la poesia è linguaggio ed allora:
la forza di alcune parole prese singolarmente e soprattutto nel loro contesto: da “sconfinato” a “untuosità”, dalla scansione di “che penetrano” “che avvolgono”“che stringono”;
la forza di una musicalità che cresce verso per verso attraverso la successione martellante di visioni che si accumulano;
la forza di un senso o, se volete, di un messaggio che aspira a non avere limiti, che si dibatte tra finito-infinito desiderando una simbiosi non individualistica, collettiva.

E' una poesia, quindi, che si presta alla declamazione passionale, che si allarga nello spazio, corre nel tempo, abbraccia nella continua mutazione del tutto.

da ARCIPELAGO, bimestrale dell'Arcidi Lucca.

"Minima immoralia" diarietto di Emilio Michelotti




4 marzo 2009
Oggi mi hanno regalato questo quadernino in carta di riso e, proprio oggi, alla lezione a S.Micheletto, ho scoperto dell’erotismo nei tagli di Fontana. Potrebbe essere che l’emozione derivi dal gesto stesso che percorre la lama sulla tela (gesto che potrebbe smuovere una pulsione molto profonda, legata a un mai evidenziato sadismo?) O sono le curve che, sfumando dal bianco al nero, prospettano un mistero quasi “carnale”, un sottopelle di umori e desideri inappagati, sottaciuti, sotto una veste candida e irreprensibile? Coincidenze fortuite?

5 marzo
Riguardo con più attenzione “I cavatori” di Enzo Cei; credo di scoprirvi altri segni. Lo sforzo umano di dominio sulla “natura” è, nella sua grandiosità, ridicolo, per l’aspetto del potere. Uno sguardo attento può però cogliere le armonie che si celano nei rapporti fra uomo e cose e fra le persone. Estetica che è lezione etica. Prospettive eliocentriche, cosmocentriche. Non è inutile né vano il lavoro: unisce, re-lige, dà senso.

7 marzo
Dal convegno su Darwin (radio): contingenza (Gould) contro convergenza evolutiva. E’ proprio vero che, arrotolando il film della vita e facendolo scorrere di nuovo, l’uomo non ci sarebbe? O, invece, la vita si può sviluppare in infinite forme, però il risultato finisce per convergere in un punto unico? (esempio: l’occhio umano e l’occhio della seppia sono simili, ma la loro evoluzione è ben diversa).

14 marzo
“I migliori anni” sono sempre quelli creduti tali con la memoria. Ebbene, no! Questi, lo sono, questi che vivo ora (sembra blasfemo, con tutto quel che è successo). Ci vuole di essere molto vecchi, per capirlo.

Ancora sul darwinismo: la convergenza evolutiva è forse una trappola, un escamotage per restare aggrappati all’ultimo mito. Eppure il “determinismo necessitante” esercita su me un fascino immenso, come il comunismo (miti, appunto?)

16 marzo
Strano mondo, quello della scienza. Pieno di ideologismi, dogmi, metafisica. A una proposizione come “la materia potrebbe essere dotata di slancio vitale” il biologo reagisce così: “è finalismo”, come se un tassello di ragionamento, estrapolato dall’insieme, potesse contenere, per deduzioni a catena, tutta una weltanshaung. La più aggiornata cosmologia, invece, non trova metafisiche “teorie” come “le stringhe”, “le membrane”, gli “universi paralleli”, né la domanda “che c’era prima del big-bang?” (interrogazione forse priva di senso, se non ha una risposta). Accettare tutte le “ipotesi”, senza costruire loro intorno castelli ideologici, non sarebbe il metodo migliore?

29 marzo
Grande concerto, commozione al pezzo di Cesar Frank. Ho sentito che, se potessi ricreare un brano così, non reggerei all’emozione. Ho pensato che la violinista(1), per questa ragione, fosse così concentrata sui tecnicismi: ecco perché, mi son detto, non piange né urla. “Se vuoi vedere, chiudi gli occhi” (Joyce, Ulisse, III). Ad occhi chiusi non c’è più un’anziana signora col violino: c’è armonia, colore, immagine, suono, un mondo nuovo) - (1) la violinista era Chistiane Edinger

4 aprile
E’ tardi, è tardi, è tardi. Non ricordo per che cosa, ma è tardi. Poco fa ho incontrato persone che non vedevo da tanti anni, vecchi amici e compagni. Forse mi sono troppo trattenuto. Sono in auto, prendo il cellulare ma mi accorgo che non è il mio: penso sia quello di G. E’ un aggeggio strano, grande il triplo del normale e con modalità di funzionamento a me ignote, raggruppate per “funzioni”. Una di queste porta la scritta “meditazioni e preghiere”. Guardo l’orologio, sono le sette passate, ormai è inutile correre, da almeno un’ora è tutto cominciato. Mi prenderò un giorno di svago, dico fra me, ma mi sento un po’ colpevole. C’è molta gente in giro. Ho lasciato evidentemente la macchina, perché sto camminando. Sole, allegria. Mi accorgo che molte donne hanno una foggia strana; penso: sarà la moda del momento. Hanno il volto coperto da grandi cappelli calati fin sulle labbra. Indossano una blusa corta e un gonnellino che è “mini” verso l’alto: in pratica lascia scoperto il pube. Una di loro mi si avvicina e quando mi passa accanto si scosta con diligenza verso il basso la gonna per mostrarmi il sesso. La tocco. Intorno c’è aria di festa, gioia, sento gli sguardi addosso ma non m’imbarazzano, perché non ne traspare né disapprovazione né complicità. Si sorride, si scherza, ci si saluta cordialmente. Mi sveglio, eccitatissimo.

6 aprile
Luogo lugubre, il parco di Monte Sole, a Marzabotto. Non un fiore, alberi scheletriti. Un fango mentale si appiccica dappertutto, colla, materiale organico decomposto. Migliaia i morti, vittime delle stragi. Quanti fra i carnefici?

12 aprile. Pasqua
Enzo Bianchi alla radio (Uomini e profeti): Gesù è morto senza Dio, in solidarietà con gli atei; Gesù è morto ateo. Dio è accanto a noi come assente, nascosto, in silenzio.

17 aprile
sms: “elettricità nell’aria, voglia di cortocircuito”

Devo indagare sul perché di questa felicità euforica: c’è un nesso col benessere fisico, ma non può essere tutto lì

21 aprile
In margine a “Disputa su Dio” di Augias- Mancuso. Di solito si stabilisce un legame fra materia autocreatrice e progressismo, finalismo. E’ inevitabile, lecito? Mancuso spiega la presenza dell’essere, dell’armonia e del bene (e della libertà di compiere il male) con l’esistenza – a me pare di stampo bruniano – di un Principio ordinatore universale impersonale. Le varie forme dell’essere (mi pare di aver capito) non sarebbero che epifanie, emergenze, singolarità in cui il Principio (che è al tempo stesso origine e fine) si presenta. Egli definisce tale teoria emergentismo, ossia sintesi, visione d’insieme, convinzione che la somma delle singole particolarità sia inferiore al tutto. L’emergentismo si oppone al riduzionismo e, coerentemente, contiene un surplus di valenza
Se eliminiamo la spinta iniziale cosciente, tutto non sta in piedi lo stesso, anzi meglio? Basterebbe un aggiustamento “tecnico”: via teleologia e teodicee varie, dentro Parmenide fuori Eraclito, e ancora Hegel (dal basso verso l’alto, tutto dentro la Storia), ma condito con un vago panteismo spinoziano e la materia, non più l’idea, come madre di tutto (mater=materia), spirito compreso.

24 aprile
Citazione: “Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità” (Niels Bohr)

Citazione: “La libertà di cui godiamo è una singolare condizione della nostra esistenza, che ci fa emergere, e come distanziarci, dal mondo. Al cessare della libertà, nel momento della morte, il mondo tornerà a prendere completamente possesso di noi, e noi saremo solo mondo (Vito Mancuso)

25 aprile
Bela Bartok attrae e turba. Lo sgomento è il sentimento che prevale. Lego questa musica ai personaggi di Roth o Musil, coscienti della loro inadeguatezza o superfluità. Armonie di un silenzio di fondo nichilista, aperte a potenzialità ambivalenti, weimariane, inquietanti.


VERSO SERA (sciogli-erre)

D’argento trottole
sui rami rosa,
spinte da borea
che mai riposa.

Nel Serchio rantola
mercurio nero
danzando rotola
il mondo intero


27 aprile
Domenico Maselli a “Uomini e Profeti/radio tre” di Gabriella Caramore, stabilisce delle ardite identità, per un credente: fede=libertà, religioni=assolutismo. Secondo me, l’esercizio delle libertà non può condurre che a ritenere i propri principi come credenze, mai come verità universali. Con Levinas: la mia libertà non finisce dove comincia la tua, come ritengono i liberali, comincia dove comincia la tua. La tua libertà di credere vero l’opposto della mia verità è il vero esercizio della mia libertà.

Si può eliminare ogni teodicea? Forse si deve, per consentire di pensare (giustificare) l’esistenza del male. Hans Jonas suggerì di ritenere una balla l’onnipotenza di Dio. Mi permetto di concordare con chi crede a una coscienza del bene e del male evoluta “spontaneamente”e di aggiungere che tale coscienza sia stata – e sia – la vera forza degli umani, il coagulo della loro socialità. Può darsi che un surplus di “neuroni specchio” ci abbia avvantaggiato sugli ominidi concorrenti. Se così fosse non sarebbe il branco a salvare dall’estinzione, ma compassione e compartecipazione.

30 aprile
“Questo ventaccio dà fastidio”. Una bestemmia. Non sarò io a dar fastidio al vento, con questa enorme casa che lo devia e lo trattiene? Su questo cambio di paradigma – indispensabile – nessuna parola di Paolo Rossi alla conferenza di ieri al Gabinetto Viesseux. Giustificare il consumismo sulla base dei progressi materiali ottenuti, irridere al “catastrofismo”, mi è parsa una prosecuzione acritica di quel soggettivismo (razionalista) dal quale Rossi stesso talvolta prende le distanze. A me non basta il buon senso! (Echi majakoskiani: sputavamo furibondi sul loro buonsenso).

6 maggio
Chi pensa davvero che siamo noi a dar fastidio al vento, è ancora troppo heideggeriano. Mi sto accorgendo che spesso non sono d’accordo con la maggior parte dei miei amici
a)- Non sono convinto che il pensiero logico “debba” tendere all’etica, almeno come apertura a corrette scelte personali ; b)- credo vi siano altri metodi che, più dello storicismo, sono in grado di superare l’illusione delle acquisizioni progressive e dello sviluppo senza limite; c)- penso che tutti i temi, compresi quelli etici, della posizione dell’uomo nel mondo e nei confronti del sacro, della tecnica come scambio fra essere ed ente, siano da sempre presenti, in forme diverse, nel pensiero umano; d)- andrei adagio ad elogiare ordine, simmetria e armonie cosmiche. Potremmo essere noi a immettere nelle cose geometrizzazione e matematizzazione, e poi esaltarci ravvisandocele; e)- non riesco a considerare “ordine” il baroccume affastellato di tipo dannunziano, che porta il segno, piuttosto, della reazione antifuturista e di un’ agarofobia mortifera.

Secondo me anche i filosofi sono narratori, producono letteratura con un diverso linguaggio - al pari degli storici, dei matematici, dei fisici, eccetera – ognuno col suo frammento di verità (sempre fondamentalmente autoreferente). La prova: tutto è confutabile, e l’aporia è nascosta dietro ogni parola. Ed è perciò che ogni filosofia segna, in qualche modo, da sempre, un nuovo inizio.

7 maggio
Passare il tempo”? Si connette al “si dice, si fa”! Espressione odiosa: ognuno ha il compito di fare della propria vita il suo capolavoro (anche quando si rinunci all’idea dell’obbligo di cambiare il mondo…)

Citazione cubo-futurista: “L’italiano è la più dadaista delle lingue romanze: infantile, labiale, fuori dai denti.. b, bacio, babbo, come dotati di proboscidi. Suoni danteschi quasi da balbuzienti” (Osip Mandel-Stam, Conversazione su Dante)

20 settembre 2009

“Nemici pubblici” di Michel Houellebecq e Bernard-Henri Levy


di Gianni Quilici

Appunti veloci su un libro, che meriterebbe un approfondimento ed una conoscenza degli autori e di ciò che sta intorno alle questioni trattate che il sottoscritto non sempre possiede.

Sono lettere che si scambiano per farne deliberatamente un libro due figure di primissimo piano dell'intelligentia francese: lo scrittore Michel Houellebecq, autore di romanzi che gli hanno dato una notorietà internazionale (Le particelle elementari, Estensione del dominio, Piattaforma, La possibilità di un'isola) e il filosofo, romanziere, saggista Bernard-Henri Lévy, altrettanto noto come “Noveaux philosoph” che per i suoi libri su Baudelaire, Sartre ecc.

“Tutto come dicono, ci separa” scrive nella prima lettera il 26 gennaio 2008 Houellebecq “ad eccezione di un punto fondamentale: siamo entrambi individui piuttosto disprezzabili”.
Non è così, non tutto li separa ed il libro è interessante, in certi momenti, travolgente, anche per questo.

Primo: è un confronto vero. Un confronto che non nasconde le divergenze, che le evidenzia, senza il desiderio ostinato, dell'uno o dell'altro, di avere ragione, ma lasciandole perdere, cioè aperte alla riflessione del lettore. Soprattutto è la visione politica del mondo ed il modo di approcciarsi ad esso che è molto diverso. Houellebecq ha desiderato e desidera isolarsi dal mondo, non considerarsi affatto un cittadino. Ha scelto di vivere in Irlanda, dove paga pochissime tasse ed in cui il governo locale mai gli ha dato impressione che dovesse partecipare. Gli piace la Russia di Putin. Levy ha orrore, invece, della Russia di Putin, che considera peggiore perfino del comunismo di Breznev, ma soprattutto a lui non è indifferente la sorte del genere umano e si sente un po' responsabile delle guerre dimenticate in Africa e dei massacri di Sarajevo, delle madrase pakistane, in cui si insegna la jihad, della Cecenia devastata. Per questo -dice- gira “per il vasto mondo alla ricerca di torti da raddrizzare e da cause da difendere, invece di scrivere i miei romanzi e veri trattati di filosofia”.

Secondo: è un confronto che non si nasconde, che non nasconde l'autobiografia, che racconta-confessa in modo qualche volta spietato, andando oltre la maschera, che nella vita pubblica i due autori vogliono o sono costretti ad utilizzare. Autobiografia, che serve per far capire, in molti casi, le loro idee politiche o estetiche o i comportamenti pubblici o semplicemente il loro io profondo. Qui ci sono pagine splendide: il ritratto dei rispettivi padri, l'incontro inaspettato di Lévy giovane e sconosciuto con Louis Aragon in una Parigi oggi scomparsa

Terzo: è un confronto in cui scatta tra i due affetto, complicità. Houellebecq è fragile, pessimista, rassegnato, sente il peso della “muta”, ossia di tutti quei critici e giornalisti che l'hanno preso come bersaglio, che non gli risparmiano accuse pesanti, cattiverie gratuite. C'è soprattutto un momento di cupa tristezza: quando, tramite i giornali, gli giunge “una carrettata di insulti e di minacce” dalla madre stessa, una donna che in vita sua ha “visto di rado, una quindicina di volte al massimo”. La risposta di Levy è notevole per lucidità e intensità. La muta ha paura... La muta è debole... La muta è stupida... scrive Levy e motiva ognuna di queste affermazioni con notevole capacità di penetrazione analitica.

Quarto: è un confronto che rivela lo stile. Negli attacchi e nei tagli-montaggi. Nella scelta di un vocabolario preciso e tagliente. Soprattutto Bernard-Henri Lévy ha uno stile al tempo stesso matematico e martellante, sorretto dalla forza delle argomentazioni e da una cultura letteraria-filosofica considerevole e da un'arte retorica, che varrebbe la pena analizzare nei dettagli.

Quinto ed infine: ci sono idee, spunti di vario genere da assorbire e con cui confrontarsi.
Ecco alcune “pillole” di questi “spunti”:
1)“...c'è in me una forma di sincerità perversa: ricerco con ostinazione, con accanimento ciò che di peggio può esserci in me per deporlo, tutto scodinzolante ai piedi del pubblico (...) Non desidero essere amato malgrado ciò che ho di peggio, ma in considerazione di ciò che ho di peggio, arrivando persino a desiderare che ciò che ho di peggio sia ciò che preferiscono in me” (M.H.)
2) “Ho il gusto di viaggiare, di muovermi, di spostarmi in sistemi di riferimento che hanno parametri diversi rispetto a quelli della mia vita comune. Mi piace sentire il mio motore vitale che gira secondo un altro regime, con sensazioni diverse, emozioni diverse, una diversa forma di rapporto con gli altri e con se stesso, unarealazione diversa con la morte dunque con la vita, con la paura quindi con la coscienza di esistere”. (B.H.L.)

Michel Houellebecq, Bernard-Henri Lévy. Nemici pubblici (Ennemis publics). Traduzione di Fabrizio Ascari. Pag. 314. Bompiani. Euro 19,00.

18 settembre 2009

“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo


di Gianni Quilici

Ha senso parlare de “La coscienza di Zeno”, considerato, secondo una non recente indagine demoscopica, il maggior romanzo italiano del Novecento, su cui i più noti e grandi tra i critici italiani ( e non solo) hanno speso intelligenza, fatica ed acume?

La risposta istintiva sarebbe “non ha senso”, se non ci fossero “due spinte propulsive”, che mi fanno pensare che forse lo ha.

La prima: un classico, come è divenuto Svevo, rimane quasi sempre “imbalsamato” dal suo essere o tale. C'è sì un valore dato, ma questo, ogni volta, deve essere, dal lettore, conquistato.

Tanto più questo accade, seconda ragione, con quei classici che assurgono anche a pietre miliari scolastiche. La scuola spesso fa odiare i classici con il contributo di insegnanti che non li sanno trasmettere e, in certi casi, dei classici stessi, che hanno una vitalità troppo complessa o nascosta o datata.

Soprattutto molti autori vengono “insegnati” attraverso la critica della loro opera e letti, comprensibilmente, molto parzialmente. Svevo probabilmente è uno di questi. Quanti studenti hanno letto interamente “La coscienza di Zeno” ed, in ogni caso, qual è in quel momento la loro capacità di afferrarne i molteplici sensi?

Lo confesso: a me era successo di leggere, da auodidatta, a poco più di 20anni tutta (o quasi) l'opera di Svevo: i romanzi e i racconti, tranne “La coscienza di Zeno”, che avevo lasciato perdere, non mi ricordo le ragioni, nel momento in cui Zeno, respinto da Ada e da Alberta, decide di sposare Augusta.
L'ho ripreso con qualche scetticismo: “Ce la farò ad arrivare in fondo a queste 400 pagine con i tempi che corrono?”

Il primo aspetto che mi ha colpito: la felicità narrativa.
Contrariamente a ciò che pensavo, “La coscienza di Zeno” mi ha portato con sé, mi ha tolto il sonno, mi ha divertito, elettrizzato, mettendomi in corpo la voglia di continuare.
Mi sono chiesto perché. Mi sono dato due risposte: mobilità ed introspezione, che rimuginandoci sono diventate una sola. Una mobilità introspettiva.
Infatti i fatti sono una mescolanza tra i comportamenti e i pensieri di Zeno. Mobili, creativi, sorprendenti, divertenti. La sorpresa nasce dalla qualità dei pensieri di Zeno, che spesso smaschera il comportamento, sdoppiandosi.

Ecco che nasce una secondo aspetto, una parola: il teatro. La vita come teatro. Un teatro a due dimensioni. Quello che si recita all'aperto, che si vede; quello che si vive dentro, che non si vede, ma di cui Zeno è, almeno in parte, consapevole. Non un teatro ideologizzato come quello di Pirandello, dove il protagonista spesso incarna una filosofia dell'esistere: uno nessuno e centomila, così è se vi pare, il gioco delle parti. Un teatro che nasce di per sé, dal flusso della narrazione, senza volontarismi.

Ci sarebbe qui un terzo aspetto, un concetto abusato fin troppo per insisterci più di tanto: una sottile ironia, che spesso fa sorridere, ma anche fa ridere sonoramente. Ed è l'ironia che consente a Svevo di prendere le distanze da Zeno, di sorridere con lui e oltre lui. Di essere, cioè, più vasto del personaggio (memorabile), che ha creato.

Ci sarebbero poi altri temi, che da tempo circolano nella critica sveviana e di cui i testi scolastici sono pieni: Svevo come interprete della crisi della borghesia ( ma, nota Luigi Baldacci, rimane “un borghese che si libera”) come distruttore del romanzo tradizionale (e, senza essere un avanguardista, è certamente vero, perché è gioiosamente libero dalle strutture formali del romanzo ottocentesco).

Ciò che fa di Svevo un grande narratore è però forse un'altra parola: personaggi. La profondità, l'articolazione, la padronanza che dimostra nel trattare i personaggi. Sia quelli più significativi nell'economia del romanzo, sia i marginali e marginalissimi. Pensate a Guido: dolce, buono, talentuoso, infantile, sprovveduto, egocentrico, irresponsabile, vittimista, donnaiolo, compagnone; ed anche a come questa immagine di Guido cambi, agli occhi di Zeno, con il succedersi dei fatti. Oppure, del tutto marginale, il ritratto vivissimo della zia Rosina, con il suo faccione grinzoso di vecchia signora, che prende per affronto, riscaldandosi subito, quello che per Zeno voleva essere un complimento.

C'è infine un'ultimo aspetto, riassunta da un a parola utilizzata da quel critico-scrittore vorace che è Franco Cordelli: fraternità. Svevo è uno scrittore fraterno, perché ha compreso chi siamo noi uomini e donne su questa terra, ne ha rappresentato la precarietà-malattia e l'irriducibilità ad una possibile ed interminabile comprensione-guarigione. In più con una geniale conclusione ha aperto una panoramica sul male più grande che gli uomini associati potevano temere ieri, e possono temere oggi di più, sempre di più: la guerra. Con dolore, ma senza moralismi, perché Zeno dalla guerra in corso ci sta guadagnando. Con una geniale conclusione, infatti, Zeno diventa Svevo ed è nella statura del personaggio che lo può diventare. Lo diventa con una diagnosi-profezia delle più amare, lucide e devastanti. Ed è ciò che la scienza e la politica, quella che ha a cuore l'umanità, oggi ti dicono: inquinamento, sovraffollamento, impossibilità di controllare gli ordigni di distruzione di massa, catastrofe inaudita di questo Pianeta, la Terra ritornata una nebulosa priva di parassiti e di malattie.
Esattamente questo oggi è all'ordine del giorno. Zeno-Svevo come uomo tra gli uomini lancia il suo grido all'umanità, un'umanità che vede lucidamente lanciata verso l'autodistruzione. Per amore, per fraternità.

Italo Svevo. La coscienza di Zeno. "I corvi", Dall'Oglio.

13 settembre 2009

"Lucca che vive" di Gianni Quilici


di Maila Grazzini

“Lucca che vive” è un libro in cui 50 fotografie che ritraggono scorci della città di Lucca vengono interpretate da 50 donne e uomini che vivono, in genere, nella città e di cui anch’essi sono e si sentono parte, come gli animali, le persone, gli oggetti che le fotografie fissano in un attimo della loro esistenza.
Gianni Quilici è l’autore delle foto, coloro che le interpretano vengono definiti, nell’indice biografico, “i suggestionati”, perché a ciascuno di loro si chiede di esprimere la suggestione che scaturisce dall’osservare l’immagine fissata dallo scatto.

Quasi sempre le foto colgono corpi che si muovono senza la consapevolezza di essere ritratti, dandoci il senso del fluire quotidiano del tempo e delle sue esistenze, e quei corpi si stagliano sui selciati e tra le viuzze e gli angoli di pietra di questa città, o ne inseguono le stagioni e il decomporsi dei colori: pedine e attori della sua storia, testimoni involontari ma autentici del suo divenire, documenti interni ad un'immagine dinamica e narrativa.

Trattandosi di un libro, prima di tutto, fotografico, va anche sottolineata la capacità di indagare, attraverso le tecniche proprie del mezzo, gli spazi e gli elementi della rappresentazione. Una mutevolezza di prospettive, di tagli e toni cromatici, nel susseguirsi mai statico dei riquadri, rende con proprietà e bellezza il significato di quel connubio, che è anche del libro: il senso del vivere che storicamente si determina nell'incontro tra i corpi e i luoghi che li accolgono.

L’autore delle foto è anche colui che ha concepito l’idea del libro, e che ci propone di guardare lo spazio urbano lucchese, nelle sue diverse presenze e manifestazioni, filtrandolo con i suoi strumenti visivi, anzi proprio a partire dai suoi personali e non sempre consueti punti di osservazione.

Gli autori dei commenti sono stati al gioco e hanno trasformato il proprio sguardo in una pausa lenta di visione, quella solo con cui le cose ci parlano, acquistano un’aggiunta di senso, inducono al ricordo, producono echi sensoriali che si possono ascoltare, decifrare, traslitterare. E la gamma delle reazioni possibili, di fronte allo stimolo di un’immagine, è ampia ed eterogenea.

Come dimostra la pluralità degli scritti che affiancano le fotografie, uno per ciascuna di esse, alcuni in prosa, altri in forma poetica, alcuni più attinenti all’immagine cui si riferiscono, molti per i quali gli elementi fotografici sono la materia che innesca il ricordo che si allarga o che guida a recuperare momenti sfuocati della propria vita, magari scoprendola frettolosa e distratta.

Si sente sempre un’attenzione all’immagine e a ciò che essa è capace di proiettare dentro, ma ciascun autore si fa rapire da qualche elemento in particolare, a testimoniare un'inevitabile implicazione soggettiva nel guardare quello che apparentemente rappresenta un angolo di realtà con sue evidenti connotazioni.

L'operazione interessante, in questo libro a prima vista semplice, lineare nella sua ordinata duplicità di piani, è proprio il saper sottolineare quanto l'emozione visiva si presti ad attivare la verbalità del proprio vissuto, e come da una codificazione tutta soggettiva si possa arrivare ad una lettura plurale in cui si sovrappongono e si alternano gli aspetti compositi di una stesso spazio di reale.

Sono pagine da sfogliare, lasciandosi sorprendere dalla circolarità del taglio iconico, che introduce peraltro ai diversi capitoli in cui il libro si articola – campo lungo, corpi, quotidiano, lavorare, fare, utopie – e insieme un assemblaggio di testi da meditare, immedesimandosi nelle proiezioni interiori di ciascun autore, trovandovi spunti per confrontarsi o riconoscersi.

Insomma, tanti modi per leggere una città attraverso gli occhi e le menti di tante persone che la osservano e la pensano e diversamente la riflettono, altrettanti momenti per riflettersi negli spazi che esternamente ci accolgono e intimamente ci trasformano, o ci deformano.

Gianni Quilici. Lucca che vive. maria pacini fazzi editore. Pag. 120. Euro 9.00.

"Poveri di parole e perciò sconfitti" di Luciano Luciani


FIGLI DELLA PERIFERIA DELL’IMPERO

Sempre meno numerosi, sempre più silenziosi.
Un futuro da disoccupati davanti, un immaginario da figli della periferia dell’impero dentro, ampiamente colonizzato dalle sensibilità, dalle tendenze, dai gusti che nascono oltreoceano.
Se oggi la maggioranza silenziosa degli adolescenti impazzisce per i palestrati decerebrati dei reality show, le minoranze arrabbiate, alternative e creative non trovano di meglio che rifarsi all’Hip-Hop (musica rap, break dance e graffiti metropolitani), un movimento nato in altre latitudini, in contesti diversi dal nostro, sotto altri soli: in un caso e nell’altro un’estrema povertà culturale, un provincialismo angusto, carente di idee originali, bassamente imitativo.
Cresciuti ad overdose di televisione, sala giochi e football, carne da discoteca o da curva sud, gli adolescenti ci appaiono ristretti in una sofferenza e solitudine quali non si erano mai date.

“Oggi il ragazzo è sempre più solo – ha scritto Ernesto Caffo, neuropsichiatra, responsabile del Telefono Azzurro, uno dei pochi esperti del misterioso pianeta adolescenziale – ha tanti aiuti e vantaggi economici, ma resta comunque solo. L’unica possibilità che ha di comunicare è con il gruppo attraverso la musica e la TV. E così facendo viene regolarmente sfruttato in maniera competente e strutturata”. E quando se ne rende conto – perché presto o tardi accade – il suo disinganno verso la famiglia sociale, che l’ha prima illuso e poi deluso, è imprevedibile e devastante.
Appena raggiunta la maggiore età, se vota lo fa a destra; non si scandalizza a tingere i propri comportamenti di razzismo; pratica spesso e volentieri la violenza. Contro tutti e, sempre più di frequente, contro se stesso, tragicamente, quando si accorge che il suo faticoso processo di formazione non coincide con nessuno dei futuri promessi o fatti intuire.
Gli adolescenti non si indignano più, non protestano come i loro padri. Accettano la disillusione e si parcheggiano ai margini del mondo produttivo. Non si rivoltano, ma la società dovrà pagare caro in seguito, nei tempi medio-lunghi, l’inverno del loro scontento e non potrà mai più chiedere a queste generazioni un impegno alto, una scelta forte, un sacrificio, la partecipazione ad un progetto collettivo.

PERDITA DI SENSO E MALE DI VIVERE

Perdita di senso e male di vivere sembrano costituire oggi – sia pure con corpose eccezioni – la ‘cifra’ per interpretare la condizione comune diffusa tra gli “under venti”.
Eppure, non di rado, in questi ultimi due secoli, proprio i giovani hanno contribuito in maniera significativa e a volte decisiva alla storia e al progresso della società civile e politica di questo nostro Paese.
Si pensi alla generazione giacobina e napoleonica, a quella risorgimentale, ai “ragazzi del ‘99’ ”, alla partecipazione dei giovani alla Resistenza. Non si smemori neppure il ’68’ e i suoi dintorni, quel ‘bagliore di democrazia’ che ha fornito e continua a dare significato alla vita di tanti oggi appartenenti alla generazione dei padri maturi.
Poi, da allora, un silenzio compatto, livido proprio mentre si accentuavano, si perfezionavano e si facevano totalizzanti le forme del dominio e dello sfruttamento.
Non è questa la sede per un’analisi storica, politica, sociologica, antropologica intorno alla caduta delle tensioni ideali e morali degli ’under venti’ e circa il grave deficit di buone ragioni, di ragioni giuste – solidarietà, socialità, impegno – che segnano i giovani di questo cupo inizio secolo e millennio: degni figli, voluti e pianificati, di quel ‘nuovo Rinascimento’ vantato fino a pochissimi anni or sono da alcuni fin troppo noti tuttologi. Rampolli ‘replicanti’ di uno sviluppo distorto che è riuscito a perdere per strada perfino l’alfabeto, la scrittura, la parola, umiliando la scuola di massa – una delle conquiste sociali più importanti degli anni ’70 – e riducendola a luogo della sola riproduzione di un semianalfabetismo generalizzato.
Per loro, per gli adolescenti di questa società si può al più prevedere un futuro di poco “panem”, molti “circenses”, nessun potere.

POCHE O PUNTE PAROLE PER DIRLO
Crediamo di non essere troppo lontano dalla verità quando affermiamo che la marginalità, il disagio, la esclusione, la droga, la disoccupazione, che contraddistinguono tanta parte della condizione giovanile contemporanea trovano alimento anche nella mancanza dell’alfabeto, della scrittura, delle ‘parole per dirlo’, intese come strumento della relazione, dello scambio, della crescita civile e culturale, della partecipazione.
Non sono solo le cifre e i riscontri di ricerche ancora parziali, ma comunque tali da prefigurare inquietanti scenari possibili, a preoccupare: sono piuttosto le storie di ordinaria violenza metropolitana che punteggiano le nostre cronache, i segnali di una nuova barbarie diffusa e ‘normale’ che trovano sempre nella deprivazione culturale il loro ‘brodo di coltura’.
Non riusciamo ancora a quantificarlo in dati precisi. Eppure sentiamo, sappiamo che quando viene meno la capacità di leggere, di scrivere, la straordinaria carica liberatrice ed emancipatrice del libro, del giornale, dell’alfabeto, della scrittura, della parola allora si preparano davvero tempi bui.

Sempre meno numerosi – abbiamo scritto all’inizio di queste riflessioni – sempre più silenziosi. Sempre più sconfitti perché progressivamente più poveri di alfabeto e di parole. E le parole sono importanti, addirittura decisive nell’inedita temperie storico/culturale di questo inizio di millennio.
L’aveva capito un autore come Stefano Benni, uno dei pochi ancora in grado di entrare in sintonia con settori importanti delle giovani generazioni quando nel suo romanzo più bello, Comici spaventati guerrieri, scriveva: “ Nostro compito Lucia è impedire che ci rubino le parole e magari nutrire le nuove. A nessuno verrà mai rubato il tesoro delle parole, della scrittura. Una delle poche libertà, si ricordi”.

E, ALLORA, CHE FARE?

Che fare, allora, per restituire le parole agli adolescenti e gli adolescenti alla parole? Come recuperare i giovani e giovanissimi, oggi più che mai a rischio di un vero e proprio genocidio culturale, a un vero protagonismo e a una sensata partecipazione alla vita della loro comunità? Come contrastare il potere pervasivo della videocrazia imperante, della cultura consumistica o di quella sedicente alternativa? Quali le possibili buone pratiche in decisa controtendenza rispetto all’attuale idoleggiamento massivo della televisione? Quali le iniziative ‘virtuose’ che istituzioni e soggetti della società civile, scuola e associazionismo culturale potrebbero ragionevolmente proporre a questi cittadini in formazione?
Ampio il terreno della riflessione e, soprattutto, quello del fare. Un compito educativo importante spetterebbe naturalmente alla scuola, se questa istituzione, ancora oggi la più importante agenzia formativa presente nella nostra società, non apparisse ormai estenuata dalle disquisizioni cervellotiche di psicologi e pedagogisti, sfinita dalle chiacchiere teoriche e presuntuose di tanti sperimentatori improvvisati, appesantita dalla presenza di tanti, troppi docenti privi di qualsivoglia passione educativa.
Intanto, si potrebbe tornare a leggere e soprattutto a scrivere. Proprio a partire dalla scuola, ma non solo, favorire la moltiplicazione delle occasioni di scrittura. In prosa e/o in poesia; riflessioni esistenziali e racconti; versi e recensioni di libri, film, dischi e proposte sulla scuola, la famiglia, la città, il mondo che i giovani vorrebbero e come fare per realizzarli… Mettere i giovani nelle condizioni di imparare a raccontare e raccontarsi: la narrazione, infatti, partecipa sempre agli altri qualcosa di proprio, stabilisce una relazione di scambio importante tra chi espone e chi legge. Nel raccontare si realizza continuamente una condivisione piccola o grande di sentimenti, emozioni, storie, un coinvolgimento reciproco. Ed è proprio nel narrare che si vince la solitudine e l’incomprensione, i grandi mali di chi oggi non arriva a vent’anni.
Non si può rimanere neutrali davanti a una storia ed è inevitabile un’identificazione con un personaggio o un evento. Un atteggiamento che si esprime di frequente in decisioni di vita, in accettazione o rifiuto di un certo ruolo, di un certo modello di comportamento: un atto che contrasta proprio quella passività che rappresenta un altro grande disagio diffuso tra i giovani dei nostri anni. A loro sarà poi necessario offrire la possibilità di divulgare i propri lavori, pubblicarli, confrontarli, discuterli in sedi adeguate, attente e critiche. In questo senso esistono già tante esperienze importanti e significative a livello locale e nazionale: iniziative talora modeste ma intelligenti e spesso capaci di realizzare l’ importante obbiettivo di inserire il cuneo della contraddizione rappresentato dalla scrittura, dal verso, dalla ‘parola giovane’ tra spot e sport.
Nel caotico, colorato, rumoroso scenario, metà mercato e metà azienda, cui i nuovi padroni vogliono oggi costringere il nostro Paese, il moltiplicarsi delle ‘penne under venti’ potrebbe rappresentare un motivo di speranza in più.

12 settembre 2009

"I delitti dell'angelo" di Filippo Gemignani


di Luciano Luciani

Cosa lega un maestro zen giapponese con la passione per il vetro fuso, il buffo gestore di un sexy shop aspirante cronista di ‘nera’ e un homeless, padrone di un’enigmatica scacchiera capace di profetare il futuro?

Solo il fatto che tutti vivono in una sonnacchiosa cittadina della provincia toscana, che, d’improvviso, si anima tragicamente, trasformandosi nello scenario di una sconvolgente catena di delitti, uno più inspiegabile ed efferato del precedente.
Come da copione, la polizia brancola nel buio, l’opinione pubblica è impaurita, i media locali e nazionali pretendono un colpevole a tutti i costi… E il modesto, ma tenace commissario Tamburi non sa più dove sbattere la testa per assicurare alla giustizia un killer seriale che sembra agire con un’assoluta, inquietante, granguignolesca licenza di uccidere… Fino all’ultima notte, quando i personaggi di questa storia estrema si ritroveranno, fatalmente, in una chiesa diroccata di fronte al Responsabile di ciò che ha sconvolto le loro vite.

Un romanzo nerissimo questo I delitti dell’angelo, specchio solo appena appena deformante del male e dell’orrore ormai così diffusi nel nostro presente. Con una scrittura sempre in bilico tra ironia e terrore, tra suggestioni misteriose e descrizioni realistiche di un quotidiano grigio e mediocre, Filippo Gemignani conferma tutte le positive impressioni suscitate a suo tempo dal primo romanzo. Di rara terribilità il suo Giustiziere della Notte che con i suoi orrendi crimini svela doppiezze, porta alla luce i vizi privati ben nascosti dietro le pubbliche virtù, fa emergere l’ipocrisia di chi non ti aspetteresti mai; umanissimi, simpatici e ciancicati quel tanto che non guasta i suoi investigatori; location assai più plausibile di tante e tante megametropoli statunitensi l’immaginaria città toscana di Focenza, summa di tutte le convenzioni, i conformismi, i vezzi della vita provinciale contro cui l’Autore sa ben appuntare non pochi acuminati strali polemici.

Morale finale? Forse questa: “Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità.” (Joseph Conrad)

Filippo Gemignani, I delitti dell'angelo, collana Il buio fuori, edizioni Quarup, Pescara 2009, pp. 302, Euro 16,00
Filippo Gemignani, lucchese, medico chirurgo con la passione per la scrittura, cultore appassionato di filosofia esoterica e di fenomenologia paranormale, oltre che lettore accanito di noir, continua con I delitti dell’angelo la saga dei misteriosi delitti a Focenza, inaugurata dal suo precedente e fortunato Delitti rituali" (“Premio Città di Fucecchio” 2005 per il miglior inedito). Persuaso che anche nella troppo spesso idealizzata ‘provincia’ la realtà quotidiana sia, appena sotto la superficie, percorsa da paure e cattiverie molto più numerose e insondabili di quanto siamo disposti razionalmente ad ammettere.

09 settembre 2009

"La musica sveglia il tempo" di Daniel Barenboim


di Maddalena Ferrari

Il libro contiene il saggio che gli dà il titolo, più un'appendice con scritti su Bach, Mozart, Furtwaengler, Boulez, un ricordo dell'intellettuale palestinese Edward Said, amico e collaboratore di Barenboim, morto nel 2003, un testo dal titolo “ I have a dream” e il discorso pronunciato dall'autore alla Knesset in occasione del conferimento del Wolf Prize nel magio 2004. Le ultime pagine del volume contengono gli spartiti dei pezzi più significativi citati.

Barenboim parla di musica, nella convinzione che sia impossibile farlo, ma affermando che l'impossibile lo “ha sempre attratto più del difficile”, in quanto “tentare l'impossibile è, per definizione, un'avventura” e gli trasmette una piacevole sensazione di energia. Ma parlare di musica equivale a parlare della vita, non in termini generali, ma nei suoi addentellati con la realtà storica, politica e sociale. Proprio per questo il libro, che non si rivolge a un pubblico di specialisti, ma a tutti, è particolarmente coinvolgente: la passione per la musica si intreccia continuamente con gli ideali e le aspirazioni dell'esistenza.

Il titolo è una frase bellissima, luminosa, ripresa da una riflessione del filosofo Settembrini ne “La montagna incantata” di Thomas Mann; solo che, mentre il personaggio del romanzo, nel prosieguo del discorso, attribuisce alla musica, oltre a un significato positivo, “morale”, anche un valore negativo, collocandola nella categoria dell'ambiguità, Barenboim sposta l'accento sull'uso che se ne fa, sul modo con cui se ne fruisce: fare esperienza musicale non è ascolto passivo, non è distrarsi “sentendo” musica; è “sentire” accompagnato dal pensiero. Naturalmente questo presuppone l'educazione musicale, che a sua volta presuppone dare rilevanza, nella crescita e formazione di un individuo, alle sensazioni uditive. Il piacere, la felicità che procura la musica sono insieme emotività e intelletto; creano una libertà che è consapevolezza dei propri desideri, un pensiero liberato.

Barenboim si confronta con il pensiero sull'essenza della musica di diversi filosofi e musicisti, da Aristotele a Locke, da Wagner a Busoni, ed è nell' “Etica” di Spinoza che trova i fondamenti di una radicale libertà di pensiero, su cui basa la sua idea esistenziale ed estetica della musica. Libertà contro dogmatismi e fondamentalismi, ma anche contro le infinite opporunità che la moderna civiltà occidentale mette a disposizione dell'individuo, impossibilitato a far fronte alle proprie idee e ai propri atti. E la musica, ragione di vita, è in questa dimensione etica, oltre che estetica. Il suo linguaggio universale e metafisico esige equilibrio fra intelletto ed emozione e sempre un atteggiamento appassionato.

Esaminando la fenomenologia del suono, Barenboim pone la musica in relazione con il tempo. In primo luogo con la sua durata nel tempo. L'inizio e la fine. Ed ecco, fondamentale, il rapporto con il silenzio, che, iniziando, la musica può interrompere ( ad es. l'attacco della Patetica di Beethoven ), o da cui può svilupparsi ( come il preludio di “Tristan und Isolde” di Wagner, o l'inizio della sonata op. 109 di Beethoven, dove si ha l'impressione che la musica sia già cominciata ), oppure che, alla fine, può essere preparato dopo che si è raggiunto il massimo di intensità e volume, o avvicinato con la graduale diminuzione del suono.

In secondo luogo, la musica è messa in rapporto con il suo muoversi nel tempo e qui soprattutto si evidenziano i parallelismi con la vita, la storia, la politica. Nella musica, come nella vita, “c'è un collegamento fra velocità e sostanza”, fra tempo e contenuto; se questo collegamento è sbagliato, salta tutto. Barenboim è dell'opinione che, per es., proprio per questo rapporto sbagliato non abbia funzionato il processo di pace di Oslo.

Il grande direttore argentino-israeliano individua altre affinità fra la musica e la politica: il fatto che l'interprete di un pezzo musicale debba avere una strategia ( “una personale realizzazione fisica dello spartito”, come lui la chiama ), in cui la spontaneità e la flessibilità non equivalgano appunto a mancanza di pensiero strategico ( ma ciò si può applicare anche al lavoro del compositore ) è come l'attività del politico, che deve anch'egli ricorrere alla strategia per modificare lo stato delle cose, senza rinunciare a spontaneità e flessibilità. Inoltre, come in un 'orchestra o in un gruppo musicale ognuno deve esprimersi, ma anche ascoltare, così dovrebbe essere, e sembra banale, ma è tremendamente difficile, tra individui, popoli e nazioni.

Barenboim è un sincero democratico, che vive la musica come scuola di democrazia e di pace. E' assillato dal conflitto israeliano-palestinese. Il suo sogno, di cui parla nel libro, sono due Stati, con addirittura una capitale comune, Gerusalemme. Nel suo ideale utopico di fratellanza tra i due popoli, ha fondato con Edward Said l'orchestra West-Eastern Divan, nata nel 1999 come progetto di work-shop, con l'intento di unire musicisti provenienti da Israele, dalla Palestina e da diversi Paesi arabi. Il libro, dedicato ai musicisti di questa orchestra, racconta in gran parte questa esperienza, con le sue contraddittorie vicissitudini, come la difficile scelta di realizzare un concerto a Ramallah nel 2005.

E racconta la storia di due musicisti palestinesi, Ramzi Aburedwan e Saleem Abboud Ashkar, l'uno nato a Betlemme e cresciuto a Ramallah, in un campo profughi, e l'altro nato a Nazareth, in una famiglia che decise di non andarsene, quando, nel '48, la città diventò parte dello Stato d'Israele. A entrambi, esponenti di una minoranza oppressa, è stata negata, dice Barenboim, la continuazione di una storia propria. L'autore segue il loro percorso di avvicinamento alla musica, per cui arrivano a scoprire quella occidentale, per approdare infine alla West-Eastern Divan Orchestra. Per entrambi l'esperienza musicale è stata fondamentale, non solo, come è ovvio, dal lato strettamente individuale, culturale e sociale, ma anche per la maturazione di una coscienza politica, intesa nel senso che Barenboim attribuisce a questa espressione: la comprensione che va oltre l'interesse personale e il contingente, che è capace di ascoltare e di prefigurare il futuro.

La musica è quindi intesa come stile, ritmo e metodo di vita. E poiché essa si esprime solo attraverso il suono e si svolge in un tempo preciso, è per sua stessa natura effimera.Le registrazioni discografiche preservano artificialmente l'effimero, riproducono intuizioni avute in passato. Ma il dovere del musicista è quello di trovare in un'opera sempre nuove verità. L'uomo deve sempre rileggere le esperienze, farne tesoro, ripercorrerle. E per questo vive, è nel tempo. La musica sveglia il tempo.

Daniel Barenboim. La musica sveglia il tempo. Acura di Elena Cheah. Traduzione di Laura Noulian. Pagg. 185. Feltrinelli. Euro 15.00.


03 settembre 2009

"Tour Eiffel" foto di Marc Riboud


di Gianni Quilici



Mi ha sempre colpito questa foto di Marc Riboud, scattata nel 1953, tanto che ho fatto in modo di averla sempre sotto occhio. Per una serie di ragioni, che sottilmente convergono.

Innanzitutto l'aspetto plastico, con naturalezza, estetico. Il protagonista, infatti, si presenta, così sospeso, quasi come angelo terrestre, un danzatore più che un imbianchino, una mano che dipinge, l'altra che si appoggia e si tende, un piede rialzato, il volto imperturbabile con la sigaretta in bocca “non chalance”e il cappello elegante, a metà tra un Humphrey Bogart (l'atteggiamento) e un Buster Keaton (il corpo).

C'è poi il contesto geometrico che lo rinchiude: il triangolo della struttura di ferro della Tour, a sua volta formata da tanti triangolini e, a voler essere pignoli, perfino i triangoli dei bordi della foto ed anche, bellissimo, per la leggerezza che dà alla composizione, il triangolo che si forma con il piede rialzato all'indietro.

C'è infine la profondità vertiginosa: l'essere cioè l'uomo sospeso sul campo lunghissimo della metropoli nel contrasto vibrante tra il nero scuro-vicino ed il bianco sfumato lontano-lontanissimo dell'immagine.

Ecco che vengono a convergere straordinariamente incontrandosi imperturbabilità e vertigine, lavoro manuale ed estetica, leggerezza e solidità, geometria e profondità in una delle foto più indimenticabili di questo trascorso '900.

Marc Riboud. Painter Tour Eiffel, 1973.

“Incidenti” di Roland Barthes .

di Gianni Quilici

“Incidenti”, tre testi di Roland Barthes, che hanno in comune una scrittura immediata: non teorica ma narrativa; non (per certi versi) oggettiva, ma (per certi versi) soggettiva, autobiografica. C'è un corpo dietro le parole che percepiamo, che sentiamo. A volte, leggero, soltanto gli occhi; altre invece l'intera presenza con il suo carico.

E' l'ultimo Barthes, quello per intenderci dei “Frammenti di un discorso amoroso”, di “Barthes di Roland Barthes”, de “La camera chiara”. Quello su cui lo stesso Barthes impareggiabilmente ragiona in alcune delle bellissime interviste “La grana della voce”, tutte edite da Einaudi.

Il primo testo è poco più di un articolo La luce del Sud-Ovest.
L'inizio: “Oggi, 17 luglio, il tempo è splendido. Seduto su una panchina, strizzando l'occhio, per gioco,come fanno i bambini, vedo una margherita del giardino, sovvertita ogni proporzione, appiattirsi sul prato di fronte, dall'altro lato della strada.”. C'è il tempo presente, c'è l'io dello scrittore, il suo sguardo dettagliato-ironico-affettuoso, che poi si allarga alla strada-paese per diventare una riflessione storico-geografica-ambientale sul (suo) Sud-Ovest francese con al centro un elemento che diventa poetico: la luce.
Per dare soltanto un'idea, scrive Barthes: “Inizia allora la gran luce del Sud-Ovest, tutt'insieme nobile e sottile; mai grigia, mai bassa, è una luce-spazio definita non tanto dai colori di cui riveste le cose quanto dalla qualità eminentemente abitabile che conferisce alla terra. (...) Occorre vederla, quella luce (direi quasi: ascoltarla, tanto è musicale)...”

Ad un certo momento Barthes immagina l'obiezione possibile: “Lei parla soltanto del tempo che fa, d'impressioni vagamente estetiche, comunque puramente soggettive. E gli uomini, i rapporti, le industrie, i commerci, i problemi?”
La risposta è, per così dire, politica, anche se non ne ha l'apparenza ed è, a mio parere, un'intuizione, da approfondire e ampliare. Risponde Barthes: “ Poiché “leggere” una terra, è anzitutto percepirla secondo il corpo e la memoria, secondo la memoria del corpo”.
C'è qui un segno “saltato” dalla politica ed anche dall'analisi sociologica: la percezione del corpo e della memoria del corpo, che richiama parole come “la storia e la cultura di un territorio”, “i sentimenti visibili ed invisibili” “il rapporto tra gli uomini e la Terra”.

Leggo questi giorni, su l'Unità, un'intervista di Pietro Spataro al poeta Andrea Zanzotto, che attualizza queste riflessioni sul territorio italiano oggi.
Dice Zanzotto: “Il tragico scempio della natura commesso in quest'ultimo quarantennio costituisce un vero e proprio monumento ad una più generale tendenza autodistruttiva della psiche umana. Che non viene più percepita come tale ma avvertita invece come benessere”.
In altri termini non si è più percepita la terra secondo la memoria del corpo, ma secondo il presente dei consumi. Alla bellezza dell'antichissima realtà naturale dipinta da Giorgione e Tiziano si è sostituito un paesaggio ibrido, anonimo, artificiale, sentito però come moderno.

Nel secondo testo Incidenti Barthes fotografa istantanee in Marocco.
Ritratti fulminei (“Un ragazzino dal sorriso, dagli occhi smaglianti, imperiosi, dotati di assoluta amichevolezza, manifesta nella sua gloria, al di là di qualsiasi cultura, l'essenza stessa della carità(....).
L'inizio di possibili storie (“Dal treno da cui era sceso ad una stazione deserta, lo vivi correre sullostradone, solo, sotto la pioggia, stringendo la scatola di sigari vuota che mi aveva chiesto 'per metterci i documenti' ”);
sottolineature sociologiche (“Due autostoppisti hippies. Ideologia: uno mi parla del “flusso di coscienza”. Economia: vanno a comprare a Marrakech delle camicie indiane che rivenderanno carissime in Olanda. Rito: appena accomodati in fondo alla macchina si fanno una sigaretta, si tuffano nell'assenza come a volontà, meccanicamente (da cui si risvegliano appena gli viene offerto un caffè”)) ed altre descrittive, cioè che non hanno risonanza.

Leggendo questi “incidenti” si può immaginare un romanzo fatto di immagini, dove la narrazione non vive nella concatenazione di una qualsiasi storia, ma nella qualità di queste immagini ed in un loro raccordo introspettivo.

Il terzo testo Serate di Parigi sono una trentina di pagine, scritte in una ventina di giorni dal 24 agosto al 17 settembre 1979.
E' (per intenderci) un diario sulle serate parigine di Barthes ed è il più completo e intenso dei testi qui presenti, perché rappresenta bene due cose: un personaggio ed una situazione. Il personaggio è lui, Roland Barthes, o meglio e inevitabilmente, una approssimazione: lo sguardo preciso e selettivo, la noia e la distanza, i piccoli piaceri e sopratutto la solitudine, un corpo stanco, che si percepisce non più desiderabile. La situazione è l'atmosfera parigina: i giovani e le marchette, il metro e i taxi, i pranzi e le cene, i vestiti e le donne, i caffè e il conversare, le passeggiate e le serate, la radio e i libri della notte.

Roland Barthes. Incidenti. (Incidents). Pag. 92. Traduzione di Carlo Cignetti. Einaudi