29 ottobre 2009

“Fuga senza fine” di Joseph Roth


di Gianni Quilici


“Nelle pagine seguenti racconterò la storia del mio amico, compagno d'armi e di idee, Franz Tunda”
così scrive nella premessa Joseph Roth.
In realtà questo stratagemma consente allo scrittore di distanziarsi dalla materia trattata, di dialogare con il suo personaggio e con la sua storia. Personaggio e storia che lo stesso Roth avrebbe riconosciuto riflettere “in gran parte” la sua stessa esistenza di nomade e l'implacabile destino del “disperso”, che sintetizza nel bellissimo titolo “Fuga senza fine”.

Franz Tunda, infatti, percorre la vita senza mai arrestarsi, in una fuga continua. Tenente dell'esercito austriaco nella grande guerra, fatto prigioniero dai russi nell'agosto del 1916, riesce a fuggire e si rifugia in un solitario, triste casolare in Siberia, ai margini di una foresta, fino al 1919. Quando scopre che la guerra è finita, parte, attraversa la Siberia, arriva in Ucraina, nei pressi di Kiev, viene preso dapprima come spia bolscevica, diventa poi rivoluzionario, crede di innamorarsi, finisce sul Mar Nero a Baku, fino a ritornare nell'impero che non c'è più, in una città sul Reno, poi a Berlino e infine a Parigi...

E' un romanzo veloce, che attraversa un'epoca turbinosa come un fulmine: dalla rivoluzione russa, vista con gli occhi della lontananza, alla crisi non solo dell'impero asburgico, ma dell'antica cultura europea. Nel dialogo con il fratello, direttore d'orchestra di successo, sacerdote dell'arte, come egli lo definisce, Tunda mostra i mille buchi che sostituiscono nella vita quotidiana una cultura borghese ammuffita: i Buddha, i cuscini, i larghi e profondi divani, i tappetti orientali, le danze negre...

Joseph Roth ha una scrittura sintetica e asciutta, riflessiva e, a volte, potentemente satirica. I personaggi preferisce generalmente descriverli, non farli nascere attraverso i fatti. Si veda il bellissimo ritratto fisico-psicologico della rivoluzionaria ucraina, Natasa. La descrizione dettagliata che Roth fa del volto della ragazza rivela pure l'ideologia, di cui è, incosapevolmente, imbevuta: ella nega, infatti, la sua bellezza, sfida i maschi con il suo coraggio, deride i valori borghesi, ma sceglie Tunda, perché borghese, senza accorgersi neppure dell'amore degli altri uomini che, invece, la venerano: marinai, operai, contadini senza istruzione e innocenti come animali.

E' un romanzo intenso. Un'intensità tenuta a distanza e quasi nascosta dal succedersi vorticoso dei fatti, che poi, delusione dopo delusione, si fa intima, disperata “in una storia”, come scrive Alfredo Giuliani, “di una progressiva spoliazione”. Franz Tunda vive, infatti, senza mai scegliere, lasciandosi trasportare dai fatti e dagli incontri: la fidanzata, la guerra, la fuga e la perdita di identità, la rivoluzione che diventa prassi burocratica, “disciplina senza sentimento”, le donne con le quali non scatta mai una scintilla vera e profonda, l'alta borghesia intellettuale e aristocratica reazionaria, senza sapere di esserlo, piena di pregiudizi e di certezze, che vive senza sapere di essere morta. “A volte apparivano a Tunda come dei vermi, il mondo era la loro bara, ma nella bara non c'era nessuno”.

E' qui, nel finale, che “Fuga senza fine” diventa affascinante, il fascino di una indifesa, dolente nudità. Franz Tunda, uomo libero e dalle esperienze estreme (le notti rosse, il bianco intenso infinito del ghiaccio siberiano, il silenzio minaccioso delle foreste, la fame lancinante) viene trovato da Joseph Roth “sano e vivace, un uomo giovane e forte, dai molti talenti, nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo”.
Non ci sono speranze, non c'è accettazione. Rimane solo la nudità dell'essere tuttavia libero, non gregario di qualcuno.


Joseph Roth. Fuga senza fine. (Die Flucht ohne Ende). Traduzione di Maria Grazia Manucci. Pag. 151. gli Adelphi. Euro 6.50.

"Racconti col fiato corto" di Giuliano Parenti


di Luciano Luciani


La nostra editoria non ama il racconto e lo considera quasi un genere minore, al più un esercizio di apprendistato letterario rispetto al ‘padre nobile’ della narrativa, il romanzo. Non c’è direttore di collana che non storca la bocca davanti a una raccolta di racconti, che non aggrotti pensosamente la fronte quando l’Autore, chiunque sia, alle prime armi o già famoso, gli propone un’antologia di narrazioni più o meno lunghe.

Eppure, il racconto, legato strettamente alle tradizioni orali, ai miti e alle leggende, ha radici antichissime che affondano in profondità nella notte dei tempi delle letterature e del genere umano. Esso costituisce quasi un organo vitale del nostro essere biologico: il narrare è strettamente connaturato all’esistenza stessa dell’uomo.

Una tesi dimostrata in base a un’ampia facoltà di prova da questi trentuno Racconti col fiato corto di Giuliano Parenti, valido rappresentante di quella creatività diffusa che, tra pagina scritta e mostre d’arte, teatro e poesia, microeditoria di qualità e laboratori di scrittura, in maniera tanto discreta quanto tenace, contribuisce, da quasi mezzo secolo, a umanizzare una Storia altrimenti spigolosa e tagliente.

Estrose le sue storie, talora stravaganti, non di rado bizzarre, sempre comunque orientate nella direzione di una critica lucida e corrosiva nei confronti delle manie dell’uomo nostro contemporaneo, insieme vittima e carnefice delle proprie fissazioni, delle complicatezze di un quotidiano di cui sembra aver smarrito il senso e la chiave. E in questa opera di demolizione dei miti di una modernità supinamente accettata, lo aiuta una scrittura essenziale, incisiva, graffiante, capace di ottenere il massimo di effetti narrativi coll’apparente minimo sforzo.
Uno stile sapiente quello di Parenti, di impianto teatrale per la sintassi secca, scabra, il gusto della battuta fulminante, l’originale invenzione delle situazioni al tempo stesso realistiche e paradossali.

Ora (Okay dall’alto dei cieli) una famiglia benestante in viaggio di piacere verso New York rammenta all’improvviso di aver lasciato solo e chiuso in casa un anziano genitore. Come soccorrerlo dall’altro capo dell’oceano? Ed è poi così importante aiutarlo?

Di aiuto, che non arriva, avrebbe poi urgente bisogno anche il protagonista di Bagliori di cenere, la cui storia, tragica e comica insieme, risolta brillantemente nel giro di tre pagine, vale più di un saggio sociologico sui devastanti effetti della dipendenza dalla ‘telecrazia’.

Oppure un Babbo Natale scambiato per un rapinatore dagli utenti in fila dell’ufficio postale di San Lazzaro Resuscitato (Babbo letale)…

E non manca una delicata, struggente storia d’amore tra un vedovo di mezza età e una postina belloccia e incerta, stroncata sul nascere (la storia d’amore, non la postina!) da legami familiari eccessivi e ingombranti (Frutti di bosco).

Per avere un saggio significativo delle qualità narrative dell’Autore si legga, poi, Un uomo dietro la porta: qui, un sans papier, ovvero un ‘barbone’ per di più nero di pelle, ricorre a tutte le proprie abilità dialettiche per farsi assumere come cane da guardia nella villa in Val d’Orcia della matura, bella, ricca e francese Brigitte Decauville…

Giuliano Parenti, deformandolo appena appena un po’, ci racconta un mondo privo di pietas, frustrato, deprimente: il nostro, senza possibilità d’errore.


Giuliano Parenti, Racconti col fiato corto, prefazione di Mario Artioli, Tre Lune Edizioni, Mantova, pp. 230, Euro 22,00

L'adottato" di Mario Del Plato


di Luciano Luciani


Raccontare storie. Ovvero intraprendere un cammino verso un territorio suggestivo e condiviso, dove si incontrano le conoscenze, le emozioni, i valori, che forniscono senso all’esistenza tanto di chi racconta quanto di chi ascolta. Fin dalla notte dei tempi è narrando che gli uomini sono sempre entrati in comunicazione tra loro e hanno imparato a conoscere più e meglio se stessi e il mondo circostante.

Concetti, immaginiamo, ben presenti alla coscienza di Mario Del Plato, che ha già felicemente praticato tale antica, umanissima modalità con il suo sorprendente L’ultimo treno per Kyoto (Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2005), un vivace reportage dai luoghi esotici dell’Oriente estremo e, insieme, dagli anfratti riposti della memoria privata.

E il ritorno col pensiero all’interno di sé, tramite la ’tenerezza feroce del ricordo’, è il canone che sovrintende anche a questo L’adottato, un’antologia di racconti proposta all’attenzione del pubblico solo nel momento in cui l’Autore si è reso pienamente consapevole e padrone dei propri mezzi espressivi.

Così, alla narrazione iniziale che dà il titolo alla raccolta, proposta in prima persona e da un originale punto di vista ‘dal basso’ che non potrà non spiazzare e stupire più di un lettore, si alterna una storia in terza persona, intrisa di autobiografismo, La soffitta. Il racconto di un tempo apparentemente remoto, ma che, se ci pensiamo bene, corrisponde al nostro comune sentire di appena ieri: quel mondo contadino fatto di famiglie allargate, di povertà materiali, di affetti forti e di grande pudore dei sentimenti, di un rapporto intenso e profondo col mondo della natura, le sue manifestazioni e i suoi più antichi abitatori, gli animali.

Alla esposizione della propria vicenda personale Mario Del Plato ritorna senza mediazioni narrative, in forma diretta, esplicita nei Frammenti di memoria: in questa terza e ultima parte della raccolta, nella maniera disordinata tipica dell’incalzare delle reminiscenze più personali, si affollano sulla pagina memorie recenti, meno recenti, oppure lontane nel tempo, familiari, professionali, private e privatissime, senza trascurare neppure l’esperienza dolorosa della propria progressiva disabilità. Ora il ricordo, ancora vivido nella memoria e nella penna, di un innocente scherzo tra colleghi, ora una notizia di cronaca che riporta alla coscienza l’encomio solenne ricevuto per aver salvato una giovane donna che stava per essere travolta da un convoglio ferroviario. Privo di costrizioni il pensiero torna ad accarezzare gli anni giovanili: figure e personaggi disegnate con veloce abilità in punta di lapis, ma anche odori, colori, sapori della propria infanzia e adolescenza in quel di Eboli, luogo paradigmatico del nostro e di tutti i Sud del mondo. Oppure, parentesi di svago con gli amici, con la famiglia, senza mai dimenticare l’imprescindibile macchina fotografica che tante soddisfazioni ha regalato all’Autore di questo libro. Momenti felici complicati, amareggiati da altri ricordi: quelli relativi alla malattia, raccontata sempre con grande discrezione, quasi sottovoce.

Emblematico in questo senso Canarini, non più di mezza pagina, venti righe intensissime: nella triste vicenda dell’uccellino in gabbia irrimediabilmente malato e confortato dalla istintiva vicinanza della compagna alata, l’Autore racconta se stesso e la sua attuale condizione di fragilità. Ma anche la solidarietà, calda, affettuosa che gli è nata spontaneamente tutt’attorno a partire dalla moglie e dalla famiglia.



Mario Del Plato, L’adottato, Maria Pacini Fazzi editore Lucca 2008, pp. 98, Euro 10,00


Mario Del Plato è nato a Eboli (Sa) nel 1943. Ha compiuto gli studi presso l’Istituto Magistrale di Campagna (Sa). Assunto a Milano nelle Ferrovie dello Stato nel 1968, è rimasto per quattro anni nel capoluogo lombardo per trasferirsi definitivamente a Lucca nel 1972 dove vive tuttora. Per molti anni in qualità di Presidente del Circolo Fotografico del Dopolavoro Ferroviario di Lucca si è interessato di fotografia, ottenendo anche importanti riconoscimenti. Ha realizzato due mostre fotografiche e ha partecipato ad alcune collettive.
Nel 2005, sempre per la Collana Via Lattea della Maria Pacini Fazzi editore, ha pubblicato L’ultimo treno per Kyoto Un sogno nato a Eboli.

27 ottobre 2009

“Il quaderno” di José Saramago


di Gianni Quilici

Scrive sull'Unità Francesco Piccolo, scrittore interessante anche sociologicamente, che la raccolta di testi dell'ultimo libro di Saramago “Il quaderno” “è irrazionale, sciatta, superficiale”, contrariamente al solito, essendo Saramago “uno scrittore raffinato e di grande qualità”

Non so se la parola “sciatta” sia giusta, ma certamente Saramago non sempre è qui raffinato. Questo, tuttavia, non l'ho avvertito come un limite. Perché?
Questo libro, come è noto, è il prodotto di articoli scritti sul blog. Ora che cos'è un blog? Uno strumento che richiede o perlomeno consente una scrittura immediata, in cui l'umoralità dei sentimenti può esprimersi nel suo presente, senza il distacco del tempo. Saramago ha scelto di pubblicare la zona di se stesso più istintiva, più vibrante, più semplificatrice forse, ma anche per questo forse più comprensibile, forse più vicina alla fervida passione delle viscere.

Per esempio i giudizi netti e taglienti su Bush e Berlusconi, su Ratzinger e su Guantànamo, su crisi finanziaria e su Israele hanno la forza dell'indignazione e della moralità e, oltre all'acutezza delle osservazioni, non sono propaganda, né contengono punte di irrazionalità. Semmai se c'è un limite nel Quaderno è un certo quotidiano legato alla sua vita pratica, che può assumere in Saramago, nell'immediatezza di quel presente, una necessità espressiva, ma che dice poco al comune lettore.

Tuttavia il modo di leggerlo che a me è parso più utile è sottolineare a futura memoria quei passaggi in cui la descrizione e la riflessione mi sono parsi utili da tesaurizzare o eventualmente da articolare e approfondire.

Ne evidenzio soltanto alcuni nella loro più estrema concisione.
* Se fosse già esistito il cinema, se le mille e una trasformazione che la città subì lungo questo otto secoli fossero registrate, potremmo vedere Lisbona crescere e muoversi come un essere vivente (...) Gli eredi di questa città sono figli di cristiani e di mori, di neri e di giudei, di indi e di gialli, di tutte le razze e fedi che sono definite buone e cattive, un magnifico meticciato non solo di sangue, ma di culture...

* Bush sa di mentire, sa che noi sappiamo che sta mentendo, ma, appartenendo al tipo di bugiardo compulsivo, continuerà a mentire anche se avrà negli occhi la più nuda della verità, continuerà a mentire anche dopo che la verità gli sarà esplosa in faccia...

* A ben poco potrà servirci una democrazia se non sarà costituita come radice di una effettiva e concreta democrazia economica e di una non meno concreta ed effettiva democrazia culturale...

* In una conferenza stampa lancio lì la prima parola, e la seconda, e la terza, come uccelli ai quali sia stato aperto lo sportellino della gabbia, senza sapere bene, o non sapendo affatto, dove mi porteranno. Parlare allora diventa un'avventura, comunicare si trasforma di una ricerca metodica di un cammino che porti verso chi sta ascoltando ...

* Marcos parlò, nominò tutte le etnie del Chapas, e per ciascuna fu come se le ceneri di milioni di indios si fossero liberate dai tumoli e di nuovo reincarnate. Non sto facendo della facile letteratura, tento, maldestramente, di mettere in parole ciò che nessuna parola può esprimere: l'istante in cui l'umano diviene sovrumano e, allo stesso passo, torna alla sua più genuina umanità.

* Ratzinger non ha mai riscossole mie simpatie intellettuali. Lo vedo come uno che si sforza di mascherare e occultare ciò che effettivamente pensa.

* Il pianeta sarebbe molto più pacifico se tutti fossimo atei.

* La sinistra non pensa, non agisce, non arrischia un passo (...) Per questo, non stupisca l'insolente domanda del titolo: “Dove sta la sinistra?” Non faccio sconti, ho già pagato troppo care le mie illusioni.

* Lo potessi, chiuderei tutti i giardini zoologici del mondo. Lo potessi, proibirei l'uso di animali negli spettacoli del circo.

José Saramago. Il Quaderno. Prefazione di Umberto Eco. Traduzione di Giulia Lanciani. Pag. 171. Bollati Boringhieri. Euro 15.00.

"Bertha von Suttner, la strega della pace" di Luciano Luciani



Quando Bertha filava le trame della pace

Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’idea di una pace diffusa e generalizzata sembrò acquistare particolare vigore; l’interprete più appassionata di questa antichissima speranza, che si faceva tanto più forte quanto più si esasperavano i contrasti tra le potenze imperialiste del tempo, in Europa e fuori d’Europa, unica donna in un mondo di uomini sempre più impegnati ad odiarsi, fu Bertha von Suttner.
Nata a Praga nel 1843, si chiamava Berta Sophia Felicita Grafin Kinsky von Chinik und Tattau; figlia – ironia della sorte – di un feldmaresciallo, appartenente a una famiglia della grande nobiltà austriaca, come scrive Friedrich Herr, “cresce viziata, vanitosa, superficiale. Le guerre del 1859, 1866, e 1870 non le fanno alcuna impressione, non la toccano. Il grande cambiamento si verifica quando deve lottare per sposare il barone Arthur Gundaccar von Suttner, di sette anni più giovane di lei e in questa unione ideale elle sente “il matrimonio come educazione all’obbligo della solidarietà umana…”

Giornalista e scrittrice, autrice di alcuni libri di successo (Es Lowos,1883; Inventario di un’anima, 1883; Una cattiva persona, 1885) raggiunse una più ampia notorietà con due romanzi che suscitarono vivaci discussioni negli ambienti politico – culturali europei: il primo, L’era delle macchine, per le sue aspre critiche contro gli eccessi del militarismo e la sfrenata corsa gli armamenti determinò polemiche così roventi da essere addirittura oggetto di una discussione al Parlamento austriaco; il secondo, Giù le armi!, si ispirava alle vicende dei recenti conflitti europei e raccontava come la protagonista finisse per conoscere di persona e subire tutti gli orrori della guerra.

Fin dal suo apparire questo libro ottenne un successo straordinario: solo in Germania ebbe trentuno edizioni e fu tradotto in molte lingue arrivando persino nella retriva Russia zarista e nel militarista Giappone. E pensare che il manoscritto di Giù le armi! era stato respinto da più di una casa editrice, preoccupata per le reazioni che un testo del genere poteva provocare nei circoli politici e militari. Il trionfo del romanzo fu anche sancito dai lusinghieri giudizi di illustri personaggi del tempo come Alfred Nobel, Peter Rosegger, Bjornstjerne Bjorson, Friedrich von Bodenstedt, Leone Tolstoj che così espresse a Berta tutto il suo entusiasmo per le sue pagine: “La pubblicazione del vostro libro è per me un buon segno. Il libro La capanna dello zio Tom ha contribuito all’abolizione della schiavitù. Dio faccia sì che il vostro libro serva allo stesso scopo per l’abolizione della guerra”. L’accoglienza entusiastica che l’opinione pubblica internazionale riservò a Giù le armi! conferì nuovo slancio al movimento pacifista europeo e segnò una svolta nella vita di Berta: “il mondo ed io ci apparteniamo l’un l’altro e questo mondo ha bisogno di me e del mio amore”.

Sull’altro fronte, invece, quello degli ambienti bellicisti e sciovinisti e del sistema militare – industriale si moltiplicano gli insulti, gli attacchi, i tentativi di delegittimare la coraggiosa scrittrice. Per i commentatori più benevoli le conclusioni tratte dalla von Suttner nel suo libro “possono essere solo considerate con un sorriso da qualsiasi serio uomo politico”. Per il professor Felix Dahn, i veri uomini vogliono battersi; combattere è intanto un lavoro, poi un dovere. Tutte questioni che le donne non possono capire, quindi non debbono occuparsene e lasciare agli uomini le responsabilità della guerra e della pace. Con avversari ed argomenti siffatti, Bertha ha buon gioco a rispondere: “ Le donne non staranno zitte, professor Dahn. Noi scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la società e loro stesse”. Un impegno destinato a diventare una scelta di vita: nel 1891, infatti, Bertha fonda la Società austriaca per la Pace, di cui resterà presidente fino alla morte. Sempre nello stesso anno interviene alla Conferenza per la Pace svoltasi a Roma, in Campidoglio: era la prima volta che una donna parlava in quel luogo così carico di storia e la prima volta che Bertha interveniva in un’occasione ufficiale di fronte a un pubblico vasto ed esigente. Se la cavò benissimo, al punto che l’attività di conferenziere sostituì a poco a poco quella di scrittrice: anche i malevoli giornalisti romani, che non avevano risparmiato velenose ironie alla donna che osava parlare a una platea di uomini in una sede tanto solenne, furono costretti ad ammettere la fondatezza dei suoi argomenti e la passione che li sosteneva.

Un impegno imperterrito e indefesso

A partire dal 1892 Bertha lavora al mensile “Giù le armi!”, che riprende il titolo e lo spirito del suo libro più famoso. La aiuta in questa impresa giornalistica un giovane editore, Alfred Hermann Fried, futuro premio Nobel per la pace nel 1911. Su questa testata - e su “La vedetta della pace” che dal 1899 la sostituirà – la von Suttner pubblica le sue famose “glosse alla storia del tempo”, una polemica rubrica, che aveva il potere di mandare in bestia gli ambienti nazionalisti e imperialisti di tutta Europa. Attaccata e derisa dai signori della guerra, che sono ormai abituati e definirla “la strega della pace”, imperterrita, insieme al suo collaboratore A. H. Fried, fonda a Berlino la Società tedesca per la pace (1892).

Già segretaria e poi amica di Alfred Nobel, ricchissimo industriale che doveva la sua fortuna economica all’invenzione della dinamite. lo convince a donare una cospicua parte del suo patrimonio per istituire un premio per la pace da assegnare a quanti operino per il disarmo e la fratellanza tra gli uomini. Nel corso di venti anni cruciali e durissimi interviene in migliaia di assemblee pubbliche, conferenze, congressi iniziative di segno pacifista.

Scrive e parla con accenti non di rado profetici: al quarto Congresso mondiale della Pace tenutosi a Berna nel 1892 la von Suttner, unico delegato donna, presenta una relazione per tanti versi anticipatrice intorno a un progetto di Confederazione degli Stati d’Europa; nella Conferenza per la Pace tenutasi all’Aja nel 1899, la prima a cui partecipavano finalmente uomini di stato e di governo di diversi paesi del mondo, afferma che “il ventesimo secolo non finirà senza che la società abbia abolito come istituzione legale il più grande dei flagelli, la guerra”.
La sua fama si allarga anche oltre Atlantico: nel 1904, nonostante avesse subito due anni prima la perdita dell’amatissimo consorte, tiene oltre cento conferenze negli Stati Uniti e viene ricevuta dal presidente Theodore Roosvelt, persuadendolo a promuovere la II Conferenza per la Pace dell’Aja (1907), da cui nasce la Corte permanente di arbitrato. Premio Nobel per la pace nel 1905, infaticabile convince A. Carnegie, uno degli esponenti di punta del capitalismo illuminato nordamericano, a istituire una fondazione per la pace. Ma il suo è un impegno disperato: l’opinione pubblica di tutti i paesi europei è percorsa da una volontà bellicista sempre più decisa e in tutto il mondo sembra dilagare una voglia diffusa di morte e sangue.
Questa donna dallo sguardo lucidamente utopico in un suo saggio, L’imbarbarimento dell’aria (1912), intuisce e denuncia con largo anticipo quelli che saranno i modi radicalmente nuovi e atroci di intendere e praticare la guerra. E, purtroppo, i terribili bombardamenti di trent’anni dopo daranno ragione ai cupi presagi di Bertha, a cui la sorte riserverà di non assistere agli orrori del primo conflitto mondiale. La von Suttner, infatti, muore, sfinita dalla sua dedizione totale alla causa della pace, una settimana prima che l’attentato di Sarajevo fornisca la scintilla adeguata a far esplodere la polveriera europea e mentre fervevano i preparativi per il Congresso mondiale per la Pace da tenersi a Vienna, l’ennesima iniziativa pacifista ispirata da questa donna indomabile.

Una personalità eccezionale ingiustamente dimenticata

L’eccezionale personalità di Bertha von Suttner segnò di sé e della propria attività gran parte della vita letteraria, culturale, politica tra i due secoli: il limite più evidente della generosa iniziativa che questa straordinaria figura riuscì a dispiegare sulle due sponde dell’Atlantico fu di fermarsi a un pacifismo democratico e “giuridico” che riponeva tutta la sua fiducia nell’opera illuminata dei governi e degli uomini “grandi”, piuttosto che nella lotta delle masse e dei popoli. Così, per esempio, la sua opera veniva percepita dal più agguerrito gruppo disarmista e pacifista italiano, quello di Ezio Bartalini e del giornale “La Pace”: nel 1906, in occasione del quindicesimo Congresso universale della Pace tenutosi a Milano, un editoriale della rivista rimproverava ironicamente a Bertha un eccesso di “cortesia femminile” e alla sua azione veniva contrapposta “la bussola della lotta di classe” e “la guerra di partito antagonistico”.

Basta una critica del genere a giustificare l’oblio e la smemoratezza che hanno avvolto la figura e l’opera di questa donna fuori dal comune? Ursula Jorfeld, la sua principale biografa, racconta che a Oslo, all’Istituto Nobel, fanno bella mostra di sé tre busti, tutti di uomini. Manca proprio quello di Bertha, che del premio Nobel fu ideatrice, sostenitrice, vera e propria “madre spirituale”.
Eppure, oggi, istituzioni come l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la prassi degli accordi e dei trattati per il disarmo, la polemica contro la cultura delle violenza e della guerra e l’idea di una educazione alla pace sembrano confermare la bontà di molte sue intuizioni. Al punto da renderla meritevole di attenzione, riconsiderazione e rispetto da parte delle donne e degli uomini affacciati sul precario balcone di questo nostro terzo millennio.

25 ottobre 2009

"Il basilisco" di Renzia D'Incà

foto di Gianni Quilici
di Gianni Quilici

Renzia D'Incà ha pubblicato quattro raccolte di poesia e due saggi di teatro, ha vinto nel 1995 il Premio Poesia inedita Montepulciano ed il premio Fabbri nel 1997. Nata a Belluno nel 1966, risiede a Pisa dove lavora nella formazione e ricerca teatrale e universitaria.

Ho tra le mani il suo ultimo libro “Il Basilisco”. Leggo l'inizio, la prima strofa.
Ho incontrato il tuo occhio
sulla soglia e sono morta
morta di paura morta di voglia.

Si colgono già in questi primi versi alcune peculiarità della raccolta.
La prima: la musicalità travolgente di chi si lascia andare, sentendosi libera in un duplice senso: libera (meglio: non condizionata) dalle regole codificate del linguaggio poetico; libera di trasmettere tumultuosamente ciò che si potrebbe chiamare pre-conscio, ossia quei pensieri, impulsi, di cui si ha una conoscenza spuria, perché compressi da una resistenza interna e che richiedono uno slancio creativo, che è anche sofferenza, per essere liberati e riportati alla luce.
Ne nasce una sorta di danza (poetica) con una struttura strofica fluente, senza alcuna punteggiatura e mobilissima, dove a danzare è solo l'io (poetico) della protagonista, mentre l'Altro rimane sullo sfondo, immobile e silenzioso, ma continuamente cangiante.

La seconda peculiarità: il desiderio e la paura, due sentimenti che incontrandosi-scontrandosi producono un lungo martellante grido d'amore insaziabile, inappagato, vorace, deriso e derisorio eccetera, eccetera. Questo grido è flusso della coscienza che nella pagina diventa flusso della poesia (viene in mente Patrizia Valduga di Medicamenta o certi versi dialogici della Achmatova), che ha, nel continuo andirivieni, il suo codice più segreto e sottile. Perchè in questo flusso, che, apparentemente almeno, è incoerente e irrazionale, c'è lo zampillare, devastante e disarticolato, onirico e regressivo, mutevole e teatrale, della creazione continua. L'interlocutore, a cui l'io protagonista si rivolge, può essere tutto: Dio-Padre-Mito-Poveraccio; in ultima analisi, può essere la proiezione dello stesso io nella sua voracità di ricerca della simbiosi.

Per questo è indovinata la scelta della strofa-frammento, perché è come un ricominciare sempre da capo, perché inesauribile è la forza delle pulsioni, che vengono da lontano.
Ed anche efficace lo scorrere fluido dei versi, che si fanno ora invocazione ora maledizione, ora adorazione ora fuga.
La poesia è spesso diretta, chiara; colpisce frontalmente con il suo erotismo incensurato, ma spesso è anche simbolica, metaforica. Metafore o similitudini ardite, colte, originali.
“Il basilisco” è inoltre una storia, meglio frammenti di storia, che si offrono -se si vuole- ad una interpretazione psicoanalitica, che sia però libera e aperta al mistero.

Da ultimo (riporto) una strofa tra le tante, che dia il senso dello spessore poetico di Renzia D'Incà:
di te m'accingo a scrivere ancora
di te mi nutro mio pasto crudo
Prima ti lecco ti mordo ti rosicchio
ai bordi, dopo ti ingoio intero
infine ti sputo, oh mio rifiuto.
Quanto ci sarebbe da dire sullo spessore psicologico ed esistenziale di questi versi nel loro incontro con un linguaggio poetico ricchissimo di implicazioni formali!

da Arcipelago, periodico dell'Arci di Lucca

Renzia D'Incà. Il basilisco. Edizioni del Leone, 2006. Pag. 45. € 7,00.
Arcipelago 2008

24 ottobre 2009

"Aldo Capitini e la colonna sonora della prima marcia per la pace Perugia - Assisi" di Luciano Luciani


VERSI POLEMICI, MA PIENI DI PASSIONE CIVILE

La prima Marcia per la pace da Perugia ad Assisi
La bandiera della pace, quella con i colori dell’arcobaleno, ebbe il suo battesimo italiano in occasione della prima marcia Perugia – Assisi per la pace e la fratellanza tra i popoli. Era il 24 settembre 1961 e la promuoveva Aldo Capitini (Perugia, 1899 – ivi, 1968), straordinaria figura di filosofo, studioso di San Francesco, Gesù Cristo, Buddha, Gandhi, educatore, teorico della non violenza. L’iniziativa cadeva in un momento in cui la politica internazionale sembrava avvitarsi nella spirale della ennesima, preoccupante crisi: la guerra fredda, infatti, ovvero il contrasto globale sviluppatosi dopo la II guerra mondiale tra mondo comunista e mondo liberaldemocratico, dopo le speranze legate alla destalinizzazione e alla conseguente politica di distensione, conosceva, ancora una volta, inquietanti ritorni alla tensione degli anni precedenti. Si cronicizzavano le guerre locali nel Medio Oriente e in Africa, iniziava la guerra del Vietnam e non venivano meno politiche di riarmo e la corsa agli armamenti sia convenzionali sia nucleari. C’era ancora di che essere preoccupati per le sorti del mondo e l’iniziativa di Capitini intendeva dare voce a questo turbamento diffuso delle coscienze.

“Quando, nella primavera del ‘60”, ricorda Capitini in Opposizione e liberazione, “feci a Perugia un bilancio delle iniziative prese e di quelle possibili, vidi che l’idea della marcia, soprattutto popolare e regionale, piacque. Ma solo nell’estate essa prese un corpo preciso in riunioni apposite, che portarono alla fondazione di un comitato d’iniziativa… Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia?”

Camminare e cantare
Marciare, ovvero camminare in gruppo e nella stessa direzione: un atto semplice, elementare, eppure carico di fortissime valenze simboliche. Perché compiuto nella terra che fu di San Francesco, culla di una proposta cristiana sostanziata di povertà, mitezza e rifiuto di ogni logica di potere; perché non si rimane inattivi di fronte all’ingiustizia, non si sta fermi, ma si cammina. E soprattutto, non da soli, ma insieme, credenti e non credenti, affratellati dai colori dell’iride della bandiera della pace, rappresentazione di perdono e riconciliazione unanimemente accettata presso tutte le culture. Così come, fin dagli anni di Aristotele, è acquisita l’idea che camminare in compagnia, favorisca lo scambio delle idee, la discussione… e il canto, assecondato proprio dalla cadenza propria del passo della marcia. Ed è in questo contesto che nasce quella che è generalmente conosciuta come la più bella, combattiva, beffarda canzone di protesta antimilitarista del movimento per la pace, ancora oggi conosciuta e intonata in occasione di meeting e iniziative pacifiste. Si tratta di un breve testo con due padre nobili, che, si racconta improvvisassero, appunto camminando, lungo tutti i 24 chilometri del percorso: Franco Fortini (Firenze 1917 – Milano 1994), poeta, letterato, critico militante per le parole e per la musica Fausto Amodei (Torino,1934), cantautore civilmente impegnato, fondatore del “Cantacronache” e autore con Per i morti di Reggio Emilia della più bella canzone politica di quegli anni.

Canzone della marcia della pace.

E se Berlino chiama
ditele che s’impicchi
crepare per i ricchi
no! non ci garba più.


E se la Nato chiama
ditele che ripassi
lo sanno pure i sassi
non ci si crede più.

Se la ragazza chiama
non fatela aspettare
servizio militare
solo con lei farò.

E se la patria chiama
lasciatela chiamare:
oltre le Alpi e il mare
un’altra patria c’è.

E se la patria chiede
di offrirgli la tua vita
rispondi che la vita
per ora serve a te.

La canzone piacque
La canzone piacque e circolò, circolò, circolò… fino a raggiungere le sensibili orecchie del dott. Pasquale Carcasio, magistrato in servizio presso la procura della Repubblica di Milano che il 29 dicembre 1965 “Esaminato il disco in questione e constatato che nelle parole della canzone ‘La marcia della pace’ è insita una pubblica istigazione rivolta ai militari per disobbedire alle leggi;…ordina il sequestro, ovunque si trovi in deposito, in distribuzione, in vendita del disco…”
Si noti che appena pochi mesi prima la Canzone della marcia della pace aveva ricevuto attenzioni che erano arrivate sino ai più alti vertici istituzionali: un senatore del Movimento sociale italiano, infatti, aveva pensato bene di rivolgere un’interrogazione al Ministro della Difesa del tempo, Giulio Andreotti “per sapere se conosca che è in libera vendita un microsolco di cinico incitamento a disprezzare in pace e in guerra il dovere militare; se non intende stroncare con il sequestro tale propaganda”. Detto, fatto.
Sì, proprio questo è il buio che abbiamo attraversato!

Aldo Capitini, un intellettuale solitario

Ilare e irriverente, la Canzone della marcia della pace esprime bene l’entusiasmo che caratterizzò questa prima edizione di una manifestazione che ebbe, allora, un grande successo (oltre 30.000 presenze) e che era destinata a un futuro che arriva sino ai giorni nostri. Non mancarono, però, dubbi e distinguo anche tra le stesse fila della sinistra che pure aveva aderito all’iniziativa. Il pacifismo del Partito comunista, per esempio, non andava oltre la concezione togliattiana di un equilibrio tra potenze e il mantenimento dello status quo: e Capitini, che “parlava di nonviolenza quando la lotta armata sembrava essere l’unica via di ribellione, evidenziava i contrasti fra il nord e il sud del mondo quando tutti si fermavano alla contrapposizione fra i blocchi dell’est e dell’ovest e lottava contemporaneamente contro l’assoluto del potere (l’Unione Sovietica) e l’assoluto del benessere (gli Stati Uniti d’America) quando ognuno cercava di assimilarsi ai feticci proposti dalle ideologie dello Stato o del consumo” (Albesano), rimane, come confesserà dalla pagine dell’”Unità” a quasi vent’anni dalla sua morte il filosofo marxista Aldo Zanardo, “un uomo che non sapemmo capire abbastanza”.

Sopportato e/o utilizzato tatticamente dalla sinistra marxista, Capitini non trovò interlocutori neppure tra i laici di sinistra, pochi e per di più “arroccati al loro perbenismo piuttosto classista” (Fofi). Né maggior conforto poteva venirgli dalla Chiesa e dal mondo cattolico ufficiale e istituzionale: nel 1955 la Sacra Congregazione del Santo Uffizio aveva condannato “in indicem librorum prohibitorum” il testo più noto di Capitini, Religione aperta, e la Democrazia cristiana, saldamente al potere in Italia dal ’48 in poi, non perdonava al filosofo perugino la sua contiguità alla sinistra. Rimanevano i cattolici irregolari, quelli ‘di periferia’, ma capaci di intuizioni ed esperienze profetiche: La Pira, don Mazzolari, Nomadelfia, don Milani, le cui Esperienze pastorali, uscite nel 1958, furono definite da Capitini “il più bel libro che un cattolico italiano ci abbia dato in questo secolo”. Ammirazione, rispetto, qualche lotta in comune anche con questi interlocutori contro lo strapotere clericale della chiesa di Pio XII, ma Capitini rimase un pensatore isolato: uno spirito religioso senza chiesa, un organizzatore senza organizzazioni di partito, un profeta disarmato. Gli si attaglia alla perfezione l’epigrafe, dettata da Walter Binni, perugino come lui, storico e critico della letteratura, che compare sulla lapide della sua tomba nel cimitero di Perugia.”Libero religioso e rivoluzionario non violento”.

"O Gorizia, tu sei maledetta: versi semplici e terribili contro la Grande Guerra" di Luciano Luciani




Estate 1916
Lo scenario è quello della Grande Guerra: estate del 1916, settore orientale. L’esercito italiano è schierato davanti a Gorizia presidiata dagli austriaci saldamente insediati lungo un sistema difensivo che fa perno sulla città e sul fiume Isonzo, articolandosi sulla destra verso il Sabotino e il Podgora e appoggiandosi sulla sinistra alle alture del Monte Santo, del San Gabriele, del San Daniele e San Michele. Posizioni militarmente forti, su cui, nei primi 16 mesi di guerra, si sono infrante ben quattro offensive italiane che sono costate perdite gravi e già migliaia di fanti sono caduti in reiterati attacchi frontali. Inferiori ai sacrifici di vite umane i risultati ottenuti: appena un po’ di terreno davanti alla città e qualche lembo di terra sul margine occidentale del Carso.

Assai più determinata l’offensiva condotta nello stesso settore di fronte nell’agosto 1916. Affidato alla III Armata il compito di conquistare la testa di ponte austriaca sulla destra dell’Isonzo davanti a Gorizia, l’attacco italiano, preceduto da una sistematica, battente azione di artiglierie iniziò il 6 agosto 1916 ed ebbe il suo momento culminante nella conquista del monte Sabotino. Nello stesso giorno è conquistato il Podgora, mentre gli austriaci resistono nella zona di Oslavia. L’8 agosto abbandonano la testa di ponte e, a questo punto, il gen. Capello, comandante del VI Corpo d’armata, decise di passare il fiume e di conquistare di slancio Gorizia e le ben difese posizioni del San Gabriele e del San Michele a est della città. A Gorizia gli italiani entrano il 9 agosto e iniziano l’attacco alle restanti linee di difesa austriache che resistono strenuamente. “17 agosto: dopo quattro giorni di sforzi vani e sanguinosi contro la nuova linea di difesa austriaca, l’offensiva italiana è sospesa.”(A. Tosti, Cronologia della guerra mondiale 1914 – 1918). Il gen. Cadorna ordina la fine dell’offensiva: era terminata la sesta battaglia dell’Isonzo.

Raccontata così, col linguaggio degli storici, la guerra presenta solo il lucido nitore geometrico di una partita a scacchi, ma la sua vera natura è un’ altra. E’ fatica, sudore, paura, sofferenza, lutti. E’ il fango delle trincee e il sangue dei feriti e dei caduti che impasta la terra… Sono i poveri corpi falciati a migliaia sui fili spinati, fatti a pezzi dalle schegge dell’artiglieria, abbandonati insepolti al caldo impietoso di quella estate.

All’esaltazione nazionalistica per una tanto faticata vittoria subentrò in breve un sentimento di orrore per i tragici costi umani di quella vicenda bellica: circa 50.000 soldati e 1759 ufficiali caduti di parte italiana, 40.000 e 862 ufficiali per gli austriaci. Una carneficina, che favorì la nascita e la circolazione di un largo e condiviso stato d’animo di ripugnanza per la guerra, testimoniato da alcuni canti di protesta. Tra i più belli, diffusi e significativi dell’intero conflitto 1915 – 18 il testo che segue, intitolato O Gorizia, tu sei maledetta, nelle cui strofe, come osserva Sergio Boldini, apprezzato studioso della espressività popolare, si ritrovano “ la violenza, l’inutilità e il dolore della guerra, gli affetti che si perdono, la discriminazione di classe fra soldati e ufficiali, i morti che non ritornano”.

1
La mattina del cinque di agosto
si muovevano le truppe italiane
per Gorizia e le terre lontane
e dolente ognun si partì.

2
Sotto l’acqua che cadeva a rovesci
grandinavano le palle nemiche;
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

3
“O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza!”
Dolorosa ci fu la partenza
che ritorno per molti non fu.

4
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir.


5
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando “Assassini!”
maledetti sarete un dì.

6
Cara moglie, che tu non mi senti,
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col tuo nome nel cuor.

Versi semplici, come si può leggere, ma dolenti e terribili nella loro capacità di dare anche espressione estetica a una dolorosa consapevolezza antimilitarista e di classe. Un canto di protesta che avrebbe inquietato ancora per almeno mezzo secolo la cattiva coscienza di graduati e Stati maggiori. Infatti, riproposto quasi mezzo secolo più tardi, nel 1964, al teatro Caio Melisso di Spoleto in occasione del Festival dei Due Mondi da un agguerrito gruppo di musicologi e folksingers ( Roberto Leydi, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, Michele L. Straniero) innescò una vivace polemica: alcuni ufficiali presenti in sala si ritennero offesi dai duri giudizi presenti nel testo, si alzarono rumorosamente e uscirono al grido di ‘viva gli ufficiali!’ Applausi, fischi, brusio in sala: lo spettacolo viene interrotto e le repliche dei giorni successivi vedranno addirittura un tentativo di ‘marcia su Spoleto’ da parte di un gruppo di estremisti di destra autoproclamatisi difensori del buon nome dell’esercito e delle sue tradizioni. “Qualche sera dopo gli spettatori dovevano subire una seconda chiassata di giovinastri, venuti con appositi camion da tutte le province vicine. Ma questa era una cosa che non interessava i poliziotti in servizio. Vietato cantare Gorizia, ma non Giovinezza, le cui lugubri note hanno riecheggiato per le strade della cittadina umbra” (“Vie nuove”, n. 27, luglio 1964). E siccome siamo in Italia, patria del diritto e dei contenziosi giudiziari, non mancò la solita denuncia alla magistratura contro gli organizzatori e l’intero cast dello spettacolo per oltraggio alle forze armate. Ma “L’episodio di Spoleto” scrive Stefano Pivato, storico del costume dell’Italia contemporanea “è, senza dubbio, quello che con più scalpore mette in rilievo i legami ormai profondi tra il mondo della musica popolare e la realtà della protesta pacifista che, in quella metà degli anni Sessanta, monta negli ambienti studenteschi, anche in Italia” (S. Pivato, Bella ciao Canto e politica nella storia d’Italia, 2005).

20 ottobre 2009

"L'esperienza di 'Fuori binario' " di Luciano Luciani


SENZA DIMORA, MA COL GIORNALE

A Parigi una volta li chiamavano clochard, oggi sans papiers, a New York homeless; a Managua sono i cartoneros, a Rio de Janeiros e a San Paolo del Brasile sufridores de rua, che in Italia, nella nostra lingua, diventano i senza fissa dimora… Sono il popolo dei poveri tra i poveri, coloro per i quali non sono più sufficienti le definizioni sociologico/burocratiche di “povertà relativa” o “povertà assoluta”.

Sono quelli che non hanno nulla: nessun lavoro, nessuna risorsa, casa niente e scarsa salute… Vivono in mezzo a noi nelle città, ma sempre e solo sulla strada. Di giorno dimorano in certe piazze malfamate e ad orari fissi abitano le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie.

Cacciati, trovano rifugio nei rari centri d’accoglienza e assistenza. Di notte la loro vita è tutta dentro una scatola di cartone. Figure erratiche, quando li incontriamo, cambiamo strada, li scansiamo, li scavalchiamo. Rappresentano il lato oscuro del nostro modello sociale in cui pochi vincenti arricchiscono senza misura; molti sono duramente impegnati a garantirsi almeno decorosi livelli di vita, continuamente erosi e insidiati; alcuni non ce la fanno.

Loro, i senza fissa dimora sono questi alcuni: uomini e donne che nel corso della loro esistenza hanno dovuto fare i conti con ogni tipo di dipendenza, dall’alcol alla droga; ex detenuti, immigrati, disadattati dalle storie più diverse, rappresentano la prova vivente, in carne e sangue, che, come scrive il poeta e saggista statunitense Paul Auster nell’Arte della fame, qui e ora “ è un momento difficile per i poveri. Siamo entrati in un periodo di grandissima prosperità. Ma mentre scorrazziamo su una superstrada di profitti sempre più vertiginosi, ci scordiamo che un numero inaudito di esseri umani precipita lungo la carreggiata. La ricchezza produce povertà. E’ l’equazione occulta dell’economia di mercato. Non amiamo parlarne ma, a mano a mano che i ricchi diventano più ricchi e si trovano somme più ingenti da spendere, aumentano anche i prezzi… Per molti altri gli aumenti hanno segnato la differenza tra avere un posto dove vivere e non averlo. Per alcuni hanno segnato la differenza fra la vita e la morte”.

A Firenze, questi “poveri invisibili” hanno una “voce” che ne esprime problemi e difficoltà, rabbie ed entusiasmi, aspirazioni e progetti. Un periodico mensile tutto loro, autogestito e autofinanziato che esce a Firenze da oltre dieci anni: si chiama Fuori binario, dodici pagine, formato 30 per 45 centimetri, piene di disegni, poesie, pensieri, racconti, argomentate polemiche contro quelle istituzioni che non fanno fino in fondo il proprio dovere nei confronti dei più deboli.

Lo promuove, con testarda sensibilità, la fiorentina Associazione Periferie al Centro. Intelligente la formula: i “senza dimora” non sono solo redattori di “Fuori binario”, ma anche distributori. Può capitare, infatti, a chi tra un treno e l’altro si trovi a trascorrere mezz’ora negli ambienti della Stazione di Firenze Santa Maria Novella di sentirsi interpellare con timidezza da uomini e donne non più giovanissimi, vestiti modestamente ma decorosamente, sul viso i segni profondi lasciati da esistenze difficili: “Vuoi acquistare “Fuori binario?” Se non sai di cosa si tratta, te lo spiegano con garbo. “Quanto costa?” Offerta libera: una parte va a coprire le spese del giornale, il resto rimane al nostro diffusore, che, mentre guadagna dignitosamente, pubblicizza la “sua” testata.

Vuoi diventare anche tu un “fuori binario”?
L’abbonamento costa 25 euro, sostenitore 50, da versare sul c.c. bancario n. 9691/00 Cassa di Risparmio di Firenze Agenzia 40; oppure c.c.p. n. 20267506 intestato a “Periferie al Centro onlus”, via del Leone, 76 50124 Firenze, telefono e fax 055/2286348; email: redazione@fuoribinario.org; sito www.fuoribinario.org
Direttore responsabile Roberto Pelozzi. Il coordinamento e la responsabilità editoriale sono di Maria Pia Passigli, la grafica e l’impaginazione di Sondra Latini.

18 ottobre 2009

“La metà di una vita” di V. S. Naipaul



di Gianni Quilici

Leggendo questo romanzo una sensazione:
veder emergere il protagonista Willie come da una nebulosa: senza corpo e con poca psicologia all'inizio; e lentamente formarsi, diventare corpo e psicologicamente a noi più chiaro nelle sue incertezze e contrasti.
Scelta di Naipaul, che corrisponde ad una condizione di Willie, che attraverso esperienze di luoghi e culture molto diverse trova, in qualche misura, se stesso.

Una delle forze del romanzo sono, infatti, gli ambienti che il protagonista esplora:
dapprima l'India delle caste, vista soprattutto attraverso il racconto del padre, asceta che ha fatto voto di silenzio per ribellarsi ai privilegi della propria casta, compromettendosi con una donna appartenente al gruppo sociale degli “sfavoriti”, la mamma, appunto, di Willie;
poi Londra, dove il ragazzo si trasferisce: la Londra universitaria e un po' bohémienne, la Londra dei primi tumulti razziali e dei primi (suoi) incontri letterari e femminili;
infine l'Africa colonizzata dalla dominazione portoghese feroce e paternalistica ed in cui si allarga la guerriglia anticolonialista sempre più cruda, spietata, manovrata.

Nel romanzo ci sono parti in prima persona: all'inizio quando il padre racconta al figlio ed alla fine quando Willie raggiungerà la sorella in Germania e le racconterà buona parte dell'esperienza africana.

Ed è appunto il protagonista, Willie, l'altro elemento rilevante del romanzo, che attraversa esistenze e tradizioni quasi opposte tra loro, senza trovare un approdo, una condivisione profonda, una patria. Non è l'India, che lo soffoca con le sue gerarchie ancestrali, con la repressione (ai più) inconscia della libido; non è Londra, con la sua dispersione e solitudine; non è l'Africa, con la sua istintualità liberatoria e l'introiezione della dominazione. Il romanzo finisce senza finire: sospeso con un bilancio per il protagonista assolutamente negativo. Dice: “Ma la parte migliore della vita è ormai alle mie spalle e io non ho fatto niente”.

E' anche questa dolente spietatezza antinarcisistica insieme all'apertura all'esperienza del mondo una delle ragioni del fascino del romanzo e dello stesso autore.

V. S. Naipaul. La metà di una vita. (“Half a Life”). Traduzione di Franca Cavagnoli. Pag. 232. Adelphi edizioni.

17 ottobre 2009

"Il fegato di Cristo" di Salvatore Nino Gallo


di Luciano Luciani

Un romanzo storico racconta i giorni di ‘Mani pulite’

Secondo gli storici, gli anni Ottanta terminarono due anni più tardi, tra l’estate e l’autunno 1992, quando, grazie ad un ‘Paese reale’ che testardamente continuava a difendere e praticare moralità e legalità, prese il via quella inchiesta giudiziaria passata alle cronache e alla storia col nome di ‘Mani pulite’. Nel giro di poche settimane, un intero ceto politico- affaristico - malavitoso fu costretto, ignominiosamente, alla rotta. I protagonisti di quella stagione, ricordata ancora oggi col nome di ‘Tangentopoli’, finirono in galera oppure all’estero e chi evitò l’una e l’altro fu astiosamente segnato a dito per strada. Molti si occultarono nell’ombra, in attesa di tempi migliori tra le infinite pieghe delle amministrazioni pubbliche, dei giornali, delle televisioni impegnati in faticose opere di imbellettamento trasformistico. Su parecchi calò l’oblio della damnatio memoriae e, forse, questa è stata davvero per loro la punizione più severa.

Quella vicenda, che ben merita l’aggettivo di epocale, ce la racconta Salvatore Nino Gallo, originario di Salerno e per oltre trent’anni giornalista del “Tirreno” di Lucca e Livorno, buone frequentazioni letterarie e una grande passione per il teatro che trapela dai dialoghi intensi, sostenuti, brillanti che punteggiano il suo primo romanzo, Il fegato di Cristo.

Un romanzo storico di grande impegno narrativo, popolato da decine di personaggi, che rivisita un periodo cruciale della nostra storia nazionale recente, ripercorrendolo da un originale punto di vista: non quello degli eroi positivi, i magistrati; neppure quello degli eroi negativi; invece quello, particolarissimo, delle loro famiglie e, soprattutto, dei figli. Gemma, Roberto, Franca, Christian, Nadia, rampolli dell’Italia potente, figli degli italiani che contavano (ministri, sottosegretari, diplomatici, faccendieri di rango…) e che in maniera del tutto inusuale, repentinamente, furono costretti dagli eventi a fare i conti con una situazione affatto nuova e per tanti versi incomprensibile: la stima, il consenso, il rispetto che sempre avevano circondato le loro famiglie si rovesciarono nel loro opposto. E questi giovani, tra rabbia e stupore, si trovarono a essere oggetto degli umori e dei malumori della piazza mentre assistevano ai convulsi, un po’ ridicoli e un po’ patetici, tentativi dei genitori di limitare i danni politici, giudiziari e salvare le apparenze.

Le complesse dinamiche del romanzo si sviluppano e si complicano attorno al sentimento che lega due ragazzi, Marco, povero, meridionale, laureato ma costretto per vivere a lavorare come bagnino in uno stabilimento balneare e Gemma figlia di un onnipotente ministro della Prima Repubblica. E non sarà la condizione sociale a perderli, come spesso accade in tanta narrativa al sapore d’appendice; piuttosto un acutissimo senso di colpa, personale e sociale, che troverà soluzione soltanto in un estremo, radicale atto di redenzione individuale e collettivo insieme. I giovani, ancora una volta, sono chiamati a pagare il prezzo degli errori dei padri, gli adulti, tutti, nel romanzo di Gallo, presentati come complici tra loro, moralmente e umanamente inadeguati.

E, sullo sfondo, sempre serena e imperturbabile quella vetrina dell’Occidente benestante e benpensante che è Forte dei Marmi, i suoi stabilimenti balneari, le piazzette, i celebri caffé dove continuano, imperterriti, a consumarsi i riti tipici delle vacanze estive. Ed è su questo scenario, sempre luminoso e misurato quasi per statuto, che si realizza il disvelamento della natura vera del potere di tanti ospiti illustri, che, uno dopo l’altro, quasi per un ‘effetto domino’, precipitano rovinosamente dagli altari alla polvere.

Salvatore Nino Gallo, Il fegato di Cristo, Edizioni dell’Erba, Fucecchio, pp. 316, E. 13,00

14 ottobre 2009

“Il pazzo di Bergerac” di Georges Simenon



di Gianni Quilici
Ho letto soltanto una decina di romanzi dei centinaia scritti da Georges Simenon e leggendoli ho pensato: “Sarebbe bello scrivere di ognuno di questi una nota-recensione senza tanti fronzoli, che andasse al cuore di ogni scrittura per valutarla, al di là della storia e del piacere che (essa) può procurare. Perchè ho pensato che Simenon ha scritto moltissimo e, a libri pieni e densi (“Il treno", "I Pitard" tra quelli da me letti), si alternano altri che ho l'impressione che nascano dal mestiere e da una inesauribile osservazione e immaginazione.

Questo, “Il mostro di Bergerac”, è, per buona parte, “attraente”.
Nel primo capitolo si potrebbe pensare ad un film con Harrison Ford nei panni di Maigret. Un treno, le cuccette, l'aria calda e soffocante, un uomo che non sta fermo un momento, che respira in modo irregolare, Maigret che non riesce a dormire e si innervosisce, l'uomo che scende dalla cuccetta, si lancia nel corridoio, apre uno sportello... il treno che rallenta, l'uomo che salta giù, poi, un attimo di riflessione ed anche Maigret, il treno ha rallentato ancora, si getta nel vuoto...
Ferito gravemente ad una spalla lo troviamo poi disteso in un albergo di Bergerac nel Perigord e lì diventa un po' il James Stewart della “Finestra sul cortile”, perché, anche dalla finestra che dà sulla piazza principale, osserva protagonisti e non dei fatti terribili, che stanno accadendo a Bergerac: un pazzo ha ucciso due ragazze: una bella donna di 30 anni e una ragazzina di 16 anni, strangolandole; una terza è riuscita a scappare.

E' forse questo l'aspetto più originale del “giallo”: non il movimento (di Maigret), ma la stasi. Una stasi in cui a muoversi è l'occhio, una sorta di campo lungo sulla piazza, che crea, per un verso, uno sfondo, una comunità della provincia francese impaurita ed eccitata; per un altro, la possibilità per il commissario di immaginare oltre. Una stasi, che mette naturalmente in moto, anche, la riflessione su quella concatenazione di indizi attraverso cui Maigret risolverà il caso.

Qui c'è forse il limite del romanzo. Alla fine tutto deve tornare, tutto deve essere capito e risolto. Non si vivono dei processi psicologici, si assiste soprattutto ad una spiegazione. Certamente ci sono situazioni esistenziali: solitudini e ambizioni, amori e orrori, ma rappresentati più dall'esterno che dall'interno; come pure ci sono personaggi caratterizzati, ma in figure già incontrate nei romanzi.

Georges Simenon. Il pazzo di Bergerac (Le fou de Bergerac). Traduzione di Laura Frausin Guarino. Adelphi. Pag. 142. Euro 7,00.

04 ottobre 2009

"Harriet Beecher-Stowe" di Luciano Luciani





Uno strano destino
Strano destino quello toccato ad Harriet Beecher-Stowe e al suo romanzo più famoso, La capanna dello zio Tom: poco più di un secolo e mezzo fa godettero di un’immensa popolarità che travalicò i confini degli Stati Uniti e oggi, invece quel libro e la sua autrice sono dimenticati dai lettori e irrisi dai critici. Addirittura la cultura afroamericana ha assunto il protagonista di quelle pagine come la figura emblematica del nero integrato e imbelle, incapace di concepire e praticare qualsiasi progetto di effettiva liberazione. Eppure, un presidente degli Stati Uniti severo come Abramo Lincoln riconobbe la funzione storica di quel libro nel promuovere la causa dell’ abolizione della schiavitù…

Infanzia, giovinezza e prime esperienze giornalistiche
Harriet Beecher-Stowe nacque il 14 giugno 1811 a Litchfield nel Connecticut. Suo padre Lyman era un religioso, pastore della Chiesa Congregazionalista: un rigido calvinista, piuttosto arcigno in famiglia ma di convinzioni antischiaviste e, in palese contraddizione con tutti i propri modelli di vita, fervente ammiratore del dissoluto lord Byron. La madre Roxana Foote avrebbe forse potuto compensare l’anaffettività paterna, ma disgraziatamente morì quando Harriet, che era la sesta figlia, non aveva ancora quattro anni.
Tutto preso dalle cure del suo ufficio, Lyman non trovava il tempo per dedicarsi all’educazione dei figlioli e così, dopo due anni di vedovanza, tornò a sposarsi: fortunatamente la giovane matrigna si rivelò un’ottima madre per Harriet, dimostrandosi capace dell’affetto e del calore richiesti dalla straordinaria sensibilità della bambina.
Delicata e impressionabile, Harriet trovò nella lettura un formidabile moltiplicatore alle proprie fantasie. Leggeva di tutto: testi religiosi, biografie, racconti storici. Le erano vietati i romanzi, considerati secondo la rigida morale del tempo non adatti a una fanciulla. Gli unici consentiti dall’intransigente genitore erano i romanzi storici di Walter Scott, mentre la futura autrice di best seller si entusiasmava di nascosto alla lettura delle Mille e una notte, scoperto per caso in una soffitta.
Frequentò le scuole di Litchfield, distinguendosi per i rapidi progressi. La stessa Harriet racconta che seduta ben composta nel proprio banco fingeva di svolgere i compiti: invece seguiva interessata le lezioni di storia e retorica che gli insegnanti rivolgevano ai ragazzi più grandi. A soli dodici anni ottenne un riconoscimento pubblico per aver scritto una relazione su un tema indicativo di una grande precocità intellettuale: Si possono ricavare dalla natura le prove dell’immortalità dell’anima?
Incoraggiata da questo primo successo, la ragazza si buttò nello studio. Appena un anno più tardi traduceva Ovidio in versi inglesi e sempre in versi scrisse un dramma, il Cleone del quale abbiamo scarsissime notizie perché non è stato conservato. Sappiamo che doveva trattarsi della storia di un nobile greco alla corte di Nerone, Cleone appunto, che, tra continui scrupoli morali e contraddizioni religiose, finiva naturalmente per convertirsi al cristianesimo.
Ne 1832 Lyman Beecher fu chiamato a Cincinnati per dirigere un seminario e la famiglia lo seguì. In questa città di frontiera Harriet realizzò le sue prime esperienze giornalistiche e letterarie collaborando al “Western Monthly Magazine” e al “Mayflower”.

Un matrimonio senza amore e la scoperta della vocazione letteraria
Nel 1836 Harriet sposò Calvin Ellis Stowe che insegnava letteratura biblica al Lane Theological Seminary, fondato e diretto da Lyman Beecher. Il marito era senz’altro un uomo molto colto e preparato ma a giudicare da quanto Harriet scriveva a un’amica solo poche ore prima delle nozze non può proprio dirsi che si trattasse di un matrimonio d’amore: “Dapprima provai un’apprensione indicibile, e la settimana scorsa non sono mai riuscita a chiudere occhio; non sapevo come avrei subìto questa enorme trasformazione della mia vita. Ora che il momento è giunto, non provo più nulla…” Si può supporre che Harriet acconsentisse a quel matrimonio per non pesare più sulla propria famiglia, numerosa e continuamente alle prese con non facili problemi economici.
I primi anni di matrimonio furono tutt’altro che tranquilli ed Harriet e il marito conobbero povertà e malattie. Fragile, poi, lo stato psicologico di Calvin Stowe.
Ci furono dei giorni in cui i due giovani coniugi non sapevano cosa avrebbero mangiato l’indomani. In frangenti così duri, Harriet dette prova di grandi capacità umane e, mentre la famiglia cresceva fino ad annoverare ben sette figli, seppe anche compiere quelle scelte che decideranno della sua vocazione di scrittrice.
Da tempo era alla ricerca di un modo per accrescere le magre rendite familiari e spesso aveva pensato di utilizzare a questo scopo quella attitudine alla scrittura che tutti le riconoscevano. Così, spinta, dalla necessità e su sollecitazione di alcuni editori amici di famiglia, cominciò a scrivere novelle che ebbero una buona accoglienza. Nonostante le continue preoccupazioni e il poco tempo disponibile, riuscì a produrre anche articoli di costume e racconti che le permisero di guadagnare discretamente e raggiungere una modesta fama letteraria.
Questa fase della vita di Herriet Beecher-Stowe si chiuse tragicamente nel 1849 a causa della morte di un figlio avvenuta nel corso di un’epidemia di colera. Un evento doloroso che venne compensato dal miglioramento della situazione economica della famiglia: infatti, nel 1850 il prof. Stowe fi chiamato a ricoprire la cattedra di teologia presso il Bowdoin College a Brunswick nel Maine.
La raggiunta tranquillità permise ad Harriet una più piena partecipazione alla vita politico-culturale della società americana del suo tempo divisa sulla questione della schiavitù tra abolizionisti e antiabolizionisti.

“Sì, se Dio mi dà vita scriverò un libro”
Proprio alla fine del 1850 il problema si era riacceso a causa della famigerata Fugitive slaw law: nessuno schiavo fuggiasco poteva trovare asilo negli Stati dell’Unione e tutti i cittadini americani erano obbligati a restituire al proprietario ogni schiavo nero fuggito al Nord. Per rendere più malleabili gli eventuali scrupoli morali degli ufficiali pubblici cui competeva la decisione circa il destino dello schiavo era previsto un premio in denaro. Ma, soprattutto negli Stati settentrionali erano in molti a fare obiezione, rifiutandosi non solo di catturare gli schiavi fuggiaschi, ma aiutandoli a raggiungere la libertà in Canada, appoggiandosi alla underground railroad, la “ferrovia sotterranea”, un’organizzazione semiclandestina che favoriva concretamente gli schiavi in fuga.
La Fugitive slave road era una disposizione odiosa che rappresentò un segnale delle persecuzioni crudeli in atto contro la popolazione di colore e commosse fortemente l’opinione pubblica americana… Segnatamente Harriet che già nel 1836 era stata costretta ad assistere a scene che l’avevano turbata e indignata: per esempio, quando la plebaglia eccitata da alcuni ricchi proprietari di schiavi aveva saccheggiato gli uffici e la redazione del “Philantrope”, giornale abolizionista diretto da un amico della famiglia Stowe.
L’appoggio prestato di nascosto dal sindaco della città ai teppisti aveva sollevato la sua indignazione espressa pubblicamente ed energicamente. Quando poi si rese conto che alcuni esponenti del clero non avevano remore a dichiararsi a favore della schiavitù, allora Harriet non esitò e si schierò apertamente dalla parte del partito abolizionista.
La famiglia condivideva e sosteneva le sue idee: Lyman Beecher era un “conduttore” della underground railroad e aveva già messo a repentaglio lapropria vita per favorire la fuga di una donna di colore, vecchia e malata. Poco tempo dopo Harriet riceveva una lettera da sua cognata: “Se avessi una penna eloquente come la tua, scriverei un libro per mostrare alla nazione quale abominio sia la schiavitù”. Raccontano che a questa lettura la giovane donna si alzasse inpiedi ed esclamasse con accento ispirato: “Sì! Se Dio mi dà vita, scriverò un libro”.

La capanna dello zio Tom, un best seller mondiale
Si mise immediatamente al lavoro, raccogliendo informazioni dai documenti e testimonianze orali,inviando ai suoi corrispondenti negli Stati del sud questionari con cui raccolse in breve tempo tutte le notizie occorrenti. Le mancava ancora la scena madre del racconto, la morte di Tom. L’ispirazione le venne una domenica nella chiesa di Brunswick: la vide svolgersi nella sua mente fin nei più minuti particolari e a quella visione fu presa da un’emozione così intensa che represse a stento i singhiozzi. Tornata a casa si mise immediatamente a tavolino e quando ebbe terminato di scrivere quel brano chiamò i suoi e lo lesse loro ad alta voce. L’effetto di quella lettura furono l’evidente dolore e il pianto delle due figlie minori, una di dodici, l’altra di dieci anni.
E non poteva essere diversamente perché, pur con tutti i suoi difetti anche vistosi – un eccessivo sentimentalismo, troppi elementi melodrammatici non sempre ben risolti, personaggi, compreso il protagonista, a volte ridotti a macchiette – La capanna dello zio Tom funziona ancora e rimane un grande romanzo popolare capace di parlare al cuore e alla ragione: “il libro giusto al momento giusto… tutto iscritto nella temperie politica e morale, nella tensione acutissima e nelle lacerazioni profonde che scossero gli Stati Uniti prima e dopo lo scoppio della guerra civile… uno dei capisaldi di tutta la storia letteraria americana… un passaggio obbligato, in ogni ricostruzione che non avvenga meramente per vertici estetici” (Vito Amoroso).
La capanna dello zio Tom è il primo lavoro di una certa mole scritto dalla Beecher- Stowe ed è anche il primo volume in cui la scrittrice abbia fatto insieme opera di romanziere e polemista. Il romanzo uscì a puntate, secondo le abitudini editoriali di allora, tra il giugno 1851 e l’aprile 1852 sulle pagine della rivista abolizionista “National Era”, che si pubblicava a Washington. In origine doveva svilupparsi nell’arco di dodici puntate, ma, strada facendo l’autrice trovava continuamente nuovi spunti in favore della sua causa e così la stesura definitiva superò ampiamente i limiti fissati.
Prima ancora che la pubblicazione fosse pronta la scrittrice aveva ricevuto offerte da parecchi editori che desideravano pubblicare il romanzo in volume. Finì per impegnarsi con John P. Jewet di Boston che le garantì il 10% sul ricavato delle vendite.
20 marzo 1852: furono più di tremila le copie vendute il primo giorno in cui La capanna dello zio Tom apparve nelle librerie e si arrivò subito a esaurire le diecimila previste per la prima edizione. il 1 aprile si cominciava già a tirare la seconda edizione. I torchi tipografici lavorarono ininterrottamente e alla fine dell’anno le copie stampate erano oltre 300.000. Il successo del libro non si arrestò agli Stati Uniti, ma valicò l’Atlantico: nel 1852 erano 40 le edizioni pubblicate in vari formati in Inghilterra e traduzioni apparvero in Francia e Prussia. Ancora pochi mesi e il romanzo veniva tradotto in oltre venti lingue tra cui l’araba, l’armena, la cinese, la malese… Intanto, all’insaputa dell’autrice, dal romanzo veniva tratta una piece teatrale rappresentata con successo negli Stati Uniti e nelle principali città d’Europa.

Non si era mai visto un tale evento editoriale, letterario, culturale e il nome di Harriet Beecher-Stowe era ormai celebre in tutto il mondo.
Anche la critica, pur sollevando alcune riserve sullo stile, accolse il libro con simpatia e attenzione. Tutti negativi, ovviamente i giudizi sul romanzo negli stati del sud. Il partito contrario all’abolizione della schiavitù avviò una campagna di diffamazione e di ingiurie nei confronti della scrittrice., “un sudista dichiarò che Uncle Tom’s cabin non dimostrava alcuna conoscenza dei negri, non più di quanta se ne potesse trovare nell’almanacco nautico” (M. Cunliffe).
Una certa signora Eastmann volle contrapporre addirittura romanzo a romanzo e pubblicò un libro intitolato La capanna della zia Philis, ovvero la vita nel Sud com’è realmente riuscendo solo a coprirsi di ridicolo. Ma anche a New York il più diffuso giornale religioso della città non esitò a definire anticristian le pagine della Beecher-Stowe.
Imperterrita la scrittrice continuava a ricevere lodi e complimenti dai più importanti letterati e uomini politici d’Europa e d’America. Lord Carlisle in una lettera si felicitava con lei per aver scritto “la vera epopea del mondo moderno”; Gladstone si commosse fino alle lagrime sulle sue pagine e Palmerston affermò di aver letto La capanna dello zio Tom almeno tre volte. Osannata Harriet, ma anche criticata. Infatti, a parere di non pochi lettori e recensori la romanziera aveva esagerato gli orrori della schiavitù per portare acqua al mulino della causa abolizionista. La scrittrice rispose allora con un altro libro, La chiave della capanna dello zio Tom, assai documentato, in cui rispondeva punto per punto alle critiche che le erano state rivolte, provando con la forza dei dati l’esattezza delle proprie asserzioni e reclamando con ancora maggior forza una riforma nella condizione degli schiavi.

La piccola signora che ha fatto scoppiare una grande guerra
Intanto l’agitazione antischiavista suscitata e tenuta desta da Harriet e dai suoi compagni di fede stava per dare i suoi frutti: la guerra tra gli stati del nord e quelli del sud scoppiò nel 1860 per durare ben cinque anni. La Stowe accolse con soddisfazione la dichiarazione di guerra, un conflitto che ai suoi occhi assumeva i connotati di una lotta tra Bene e Male.
I suoi convincimenti in favore della guerra non le facevano dimenticare gli orrori che rappresentano il necessario corollario di ogni evento bellico, ma Harriet interpretava il sangue americano che stava per essere versato in quella circostanza come la doverosa espiazione del sangue africano fatto scorrere per secoli dagli schiavisti nel suo paese.
Al termine del conflitto Abramo Lincoln volle conoscerla e la definì “la piccola signora che ha vinto la guerra”. Intensa ed ininterrotta, nel frattempo, al ritmo di un libro l’anno la sua produzione letteraria: nel 1862 pubblicò The Pearl of Orr’s Island; nel 1869 Oldtown Folks, nel 1878 Poganuc People; romanzi e storie legate alla propria infanzia e alla giovinezza rivissute con acuta e intima partecipazione.
Altri problemi diversi da quelli squisitamente letterari videro in prima fila Harriet. La Stowe, infatti, non rimase indifferente alle grandi miserie materiali e morali che la guerra civile aveva lasciato dietro di sé. Decise, allora, di dedicare il resto della sua vita a istruire ed educare quel popolo nero al cui affrancamento aveva così potentemente contribuito. A questo scopo acquistò a Mandarin in Florida una magnifica tenuta e i momenti più sereni della sua vita furono quelli trascorsi sotto la veranda della sua villa impegnata a rispondere alle innumerevoli lettere che continuavano ad arrivarle da ogni parte del mondo.
In occasione del suo settantesimo compleanno i suoi editori organizzarono una grande festa: quel giorno più di duecento tra scrittori e giornalisti americani le indirizzarono un saluto augurale espresso intermini entusiastici. Ma ad Harriet queste manifestazioni di stima e affetto non davano – sono le sue parole - tanta gioia quanto il sorriso di felicità di un negro liberato che finalmente era nelle condizioni di poter affermare “Ho venti capi di bestiame, quattro cavalli, quaranta polli e dieci figli. E tutto ciò e mio, proprio mio!”.
Morì a Mandarin il 1 luglio 1896