27 febbraio 2013

"Eric Hobsbawm, tra la speranza e il buio" di Luciano Luciani



                    Storico tra i più importanti del XX secolo, l’inglese Eric J. Hobsbawm (1917 – 2012) ha studiato soprattutto le origini della rivoluzione industriale britannica e della classe lavoratrice inglese, riservando un’attenzione particolare al sorgere dei movimenti spontanei di opposizione al capitalismo agrario. Intellettuale di ferme convinzioni marxiste mai abdicate – si legga il suo recente saggio Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, 2011 – Hobsbawm, scomparso solo qualche mese fa, ultranoventenne, è stato studioso dagli interessi vasti e per niente dottrinari: merita in proposito di essere ricordata una sua Storia sociale del jazz, 1982, scritta con l’occhio del sociologo e la passione del musicofilo. 

Storico capace di coltivare nel corso della sua lunga esistenza interessi accademici ed eterodossi e di parlare tanto agli addetti ai lavori quanto al lettore comune, con Il secolo breve 1914-1991, 1994, Hobsbawm ha realizzato un’opera fondamentale della storiografia contemporanea, pur ammettendo di essersi accostato “a questo periodo senza la conoscenza della letteratura scientifica che lo riguarda e solo con qualche infarinatura delle fonti archivistiche che i numerosissimi storici del ventesimo secolo hanno accumulato” (Prefazione e Ringraziamenti). Il libro, non propone solo un’originale periodizzazione del secolo scorso, ma, l’Autore, con la partecipazione del testimone, ne rilegge le più importanti macromanifestazioni (crisi economiche, guerre totali, velocissime trasformazioni, manifestazioni artistiche, cultura di massa e conquiste scientifiche) e oggi, a vent’anni dalla sua pubblicazione, si pone come elemento imprescindibile in ogni ragionamento sulla contemporaneità e sul nostro passato recente. 

La Grande Guerra e il crollo dei regimi del “socialismo reale” segnano i confini del Secolo breve, la cui struttura, per usare le parole dell’autore, “appare come quella di un trittico o di un sandwich storico. A una Età della catastrofe, che va dal 1914 sino ai postumi della seconda guerra mondiale, hanno fatto seguito una trentina d’anni di straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità.” Hobsbawm definisce questo tempo mediano l’Età dell’oro, a cui sarebbe seguita “un’epoca di decomposizione, di incertezza e di crisi.. 

“Dal favorevole punto di osservazione degli anni ‘90”, scrive lo storico inglese, “sembra che il Secolo breve sia passato attraverso una breve Età dell’oro, nel suo cammino da un’epoca di crisi a un’altra epoca di crisi, verso un futuro sconosciuto e problematico, ma non necessariamente apocalittico.” “Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi”, ammonisce lo studioso anglosassone “non potrà averlo prolungando il passato e il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società mutata, è il buio”.


24 febbraio 2013

"Dall’esilio" di Iosif Brodskij






di Davide Pugnana

“Scrivo ancora versi, non ne ho perso il gusto. La passione
di scavare lungamente in una breve linea di scrittura -
colosso dall’apparenza molto tenue - rivela uno sregolato
attaccamento a tutto (conoscenza, amore, vita, mondo, Dio)
ma il risultato non è buono se non si misura subito, nel verso
compiuto. Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che
aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi,
indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura? 
Mi succede sovente si pensare che sia così.”
(Guido Ceronetti, Poesia chiara poesia oscura)


I discorsi scritti dai poeti in occasione del conferimento del Premio Nobel racchiudono folgoranti bilanci di poetica. E nonostante questa meditazione sull’arte racchiuda quasi tutto il senso di una vita ciò non è ancora abbastanza. Su quella decina di pagine, vergate in una bellissima luce dilatata tra vissuto e presente, così lucidissima e postuma nel piovere sugli oggetti interni, così impastata nella memoria di lontananze siderali e di struggente disincanto, proprio in quel giro di otto, novecento parole si fissa, una volta per sempre, l’idea totale che della letteratura, della sua natura e della sua ragion d’essere, un artista ha inseguito ed elaborato lungo tutta una vita, spesso a prezzi altissimi. In testi di questo tipo non si tratta di stilare un consuntivo di poetica o una definitiva planimetria delle proprie pubblicazioni. C’è in essi un tale spessore evocativo, unito ad una potente luce d’intelligenza e ad una visiona postuma di sé, che li avvicina al valore di un testamento spirituale. Davanti a questa confessione preziosa, che l’ufficialità dell’evento e della lettura in pubblico trasformano in “documento”, si ha quasi l’impressione che il premio Nobel per la letteratura - e Brodskij lo dirà apertamente - sia una sorta di invenzione, di passepartout creato a bella posta da coloro che, tagliati fuori dai segreti della creazione artistica, desiderano carpire strenuamente il fondo oscuro dell’arte, come instancabili segugi. Allora quale esca migliore per catturare i segreti più intimi di un poeta che tendergli un premio capace di innalzarlo allo statuto di “classico” in vita?

Iosif Brodskij si trovò a tracciare queste pagine nell’autunno del 1987. Scrisse tre discorsi memorabili e definitivi,  raccolti in uno smilzo ma densissimo volume. Dall’esilio (Adelphi, 1988, pp. 68, euro 7,65) è il titolo che funziona come una cerniera che tiene unito il trittico formato da una pala centrale e da due ante laterali. “Un volto non comune” è il discorso per il premio Nobel. Partiremo da qui per avvicinarci al cuore pulsante di questo poeta russo dall’esistenza difficile. Brodskij fu anche uomo oltre che poeta. Non è un paradosso. Egli non ricevette in sorte un’agiata esistenza borghese. Nelle pieghe dei suoi versi di marmorea bellezza classica sono passati i mestieri più disparati: il fresatore in una fabbrica di Leningrado; l’addetto alle caldaie in un bagno pubblico; l’assistente in un anfiteatro di anatomia; l’operaio avventizio per una missione di geologi in Siberia; e tra queste navigazioni possiamo inserire anche il nomadismo, a piedi tra Russia e Asia Centrale o arrampicandosi sui ghiacciai del Pamir senza provviste e senza attrezzatura alpinistica. In tanto dinamismo Brodskij riuscì a trovare il tempo di istruirsi, imparando numerosissime lingue e giungendo a conoscere alla perfezione l’inglese e il polacco; e ad impegnarsi nella militanza politica, aderendo al realismo socialista del suo tempo. L’uomo esplorò la sua condizione fino in fondo: lavorò, studiò, militò, coltivò gli ideali buoni della sua generazione, e fece in tempo a farsi arrestare con l’accusa di “parassitismo”, quindi ad essere spedito in un ospedale psichiatrico e poi al confino in una lontana regione del Nord, per scontare cinque anni di lavori forzati. Nella sua vita Brodskij provò quell’esperienza della persecuzione tout court che lo rese un autentico personaggio kafkiano. Occorrerà aspettare il 1989 per vederne la “riabilitazione”. Questo è l’uomo che miracolosamente è riuscito a sopravvivere. Il poeta continuò ininterrottamente il suo lavoro di scavo dentro grandi temi metafisici ed esistenziali. Ed è singolare che di tanta variata e inaudita materia biografica non ritroviamo che un pulviscolo di  vicende sparse in versi di classica perfezione. Al Brodskij poeta interessava la tenuta e la purezza della difficile e calibrata arte della versificazione. Egli sapeva bene che il testo poetico sarebbe stata la vera forma con la quale la Storia l’avrebbe ricordato. Se la vita quotidiana trasvolava tra bordi sfrangiati e precipizi spalancati sull’assurdo, all’opposto la ’vita in versi’ andava costruendo un abito di bronzo imperituro, inciso di assimilazioni classiche; di dialogo con la tradizione; di recupero di un senso arcaicizzante, lavorando a innovare strutture metriche come odi, ballate, elegie; e di segreto nutrimento nella pratica di lettura e traduzione di poeti metafisici inglesi del XVII secolo, quei John Donne e Andrew Marwell dai quali Brodskij imparerà a trasformare il suo pensiero in materia da poemi. Non stupisce che proprio la fama di Brodskij abbia ricevuto il sacro battesimo di W.H. Auden, all’epoca vero e proprio classico vivente della letteratura inglese.

“Per una persona dedita alla vita privata, per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico e che nell’esercizio di questa preferenza si è spinto piuttosto lontano - lontano dalla sua madrepatria, per non dire altro, giacché è meglio essere l’ultimo dei falliti in una democrazia che un martire o la crème de la crème in una tirannia - per un individuo simile trovarsi all’improvviso su questa tribuna è un’esperienza un poco imbarazzante e non poco impegnativa.”. Con questo disarmante pudore esordisce Brodskij, davanti a quel premio che gli chiede la confessione più difficile della sua vita. Il suo primo pensiero è verso “coloro cui questo onore non è toccato, cui non è data la possibilità di parlare  urbi et orbi, come si dice, da questa tribuna.” E chi sono questi spiriti magni tagliati fuori dalla tribuna del Nobel? Sono i grandi poeti contemporanei morti da tempo, i nomi dei quali Brodskij scandisce con commosso tenore dantesco: “Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Robert Frost, Anna Achmatova o Wystan Auden”: ombre che lo circondano con la loro grandezza e lo turbano perché “essere migliore di loro sulla pagina non è possibile infatti; né è possibile essere meglio di loro nella vita reale.[…] se l’altro mondo esiste, spero che essi mi perdoneranno, me e la qualità di quello che sto per dire: in fin dei conti, non è dal modo di comportarsi su un podio che si misura la dignità della nostra professione.” Con queste parole d’esordio, Brodskij ci ha lasciata la più alta prova di (auto-)coscienza letteraria, di confessione dei propri debiti artistici, e, soprattutto, il raro esempio di un elogio del valore artistico dei propri contemporanei. Tre livelli la cui statura e qualità etica valgono bene un premio Nobel. Quali sono le osservazioni messe in campo da Brodskij? Quali sono le idee che ha maturato sulla “natura” del mestiere di scrivere? Come si fa a squadernarle glissando il pericolo di ridurle a “sistema”?
La prima funzione dell’arte è quella di insegnarci qualcosa sulla “dimensione privata della condizione umana”. L’impulso primario alla creazione artistica nasce dall’atto di un “Io individuale” che il poeta non desidera condividere con la società, e anzi sottrae allo sguardo dell’altro; ma che, almeno in un primo momento, intende come ricerca sacra (ossia separata e nascosta) di una costruzione di orizzonti di senso; come pulizia nell’interiore materia di “immondizia” (il sostantivo è dell’Achmatova) che lo abita e che chiede un baricentro. “Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tete-à-tete, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.” Rientra nel quadro di questa riflessione sulla gestazione poetica l’origine del titolo scelto da Brodskij per il suo discorso: il poeta Baratynskij attribuiva alla propria Musa “un volto non comune” ed è questo il profilo sfuggente su cui il poeta russo ha orientato il suo scavo al fondo dell’esistenza umana. Per noi che viviamo nella privilegiata prospettiva storica dei posteri, il Novecento è stato un secolo generoso di personalità altissime. Mentre nel Trecento, nel Cinquecento e ancora nell’Ottocento, i poeti di genio si contavano a mala pena sulla punta delle dita, di fronte alla sterminata fucina di poeti del XIX secolo ogni tentativo di mappatura delle poetiche lascia fatalmente dietro di sé odiose lacune e voci fuori dal coro. Brodskij, come Pasolini e Paul Celan, è caduto dentro un secolo terribile, nel quale più volte la poesia è stata messa in crisi e data per morta, come recitava lapidaria la sentenza di Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto possibile scrivere poesie.” Malgrado il pessimismo del filosofo, poeti come Brodskij, Mandel’stam, o Ungaretti e Quasimodo da noi, non hanno mai perduto il senso di resistenza etica. Nessuna concezione della poesia può essere messa sotto accusa: i grandi autori non sono mai stati tanto poeti quanto in tempo di precarietà, di crollo dei paradigmi umanistici e di perdita delle certezze storiche. Questo dato di fatto è talmente ficcante da diventare il cuore geometrico del discorso di Brodskij: “Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica - per non dire la sua estetica - sono sempre ’ieri’. La lingua e la letteratura sono sempre ‘oggi’ e spesso (specialmente nel caso in cui un sistema politico sia ortodosso) possono addirittura costituire il ’domani’. Nessun poeta, messo davanti alla necropoli del “secolo breve”, si è piegato alla tentazione di fregiarsi “del titolo onorifico di ’vittima della storia’; la sua ricerca anzi si è sempre orientata verso la costituzione di un senso capace di restaurare quegli strappi feroci che la mano della Storia aveva lasciato sul corpo dell’uomo. La poesia del Novecento non ha mai giudicato gli oppressori secondo criteri di semplice moralità: tenendosi in uno spazio premorale ha cercato con lucidità di metterne a nudo le ragioni oscure di violenza e di distruzione. Ne è un esempio l’intera produzione scritta di Primo Levi. Dalle sue pagine Brodskij ce lo spiega così: “Possedendo una genealogia propria, una sua dinamica, una sua logica, un suo futuro, l’arte non è sinonimo di storia, ma nel migliore dei casi corre parallela alla storia; e può esistere solo creando continuamente una nuova realtà estetica. Ecco perché si scopre spesso che l’arte è ’in anticipo sul progresso’ - non dovremmo correggere Marx una volta di più? - è esattamente un cliché.” Se apriamo la raccolta di poesia di Trotskij e andiamo a leggere ciò che scriveva durante gli anni delle persecuzioni e del processo del 1964 del quale fu ingiusta vittima, troviamo versi innervati di una linfa vitale meravigliosa, come questo squarcio notturno che ha la luce di una ronda di Rembrandt: “L’uomo riflette sulla propria vita,/ come la notte sulla lampada. A un momento dato/ oltrepassa i confini di uno dei due emisferi/ del cervello il pensiero, scivola come una coltre, / denudando qualcosa, forse un gomito; la notte/ è ingombrante, questo è vero,/ ma non così smisurata da pensare che ricopra/entrambi gli emisferi. E l’asia e l’europa/ del cervello, e le altre gocce di terra in mare, e l’africa/ a poco a poco scricchiolano sull’asse secca, ruotano,/ esibendo la loro vizza  gota,/ verso l’airone elettrico.” (Ninnananna di Cape Code). Perfino in quegli anni terribili, Brodskij fu capace di una resistenza in versi di questa levatura: “Metti in serbo per le stagioni fredde/ queste parole, per le stagioni dell’ansia!/ Come il pesce sulla sabbia, l’uomo sopravvive:/ se si strascina agli arbusti e s’alza/ su gambe incerte e storte va, come un rigo di penna, / nelle viscere stesse della terra.// Esistono leoni alati, sfingi col seno/ di donna, angeli in bianco e ninfe del mare:/ a colui che sostiene sulle spalle il peso/ di buio, caldo e - oso dirlo - dolore, / sono più cari gli zeri concentrici nati/ da parole gettate.” Il premio Nobel vinto da Iosif Brodskij non è un trionfo individuale, ma collettivo, diremo di una genia benedetta ed eroica. È  il Nobel guadagnato da tutta la generazione di poeti del XIX secolo, e dei poeti russi in particolare, che egli ricordava ad apertura di discorso e che torna a richiamare nella chiusa, tracciando le linee portanti di un’autobiografia umana e intellettuale: “Questa generazione - la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano in pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino, così assoluto da sembrare avvallato da Madre Natura in persona - questa generazione è venuta al mondo, si direbbe, per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto - almeno in Russia - è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle.”

A lato di questo abbagliante pannello centrale troviamo La condizione che chiamiamo esilio, una manciata di pagine nelle quali Brodskij deposita un ulteriore, e se vogliamo più impalpabile, elemento della sua ricerca esistenziale condotta per via di ostinato e severo scavo poetico. Questo anello è la permanente condizione di esilio. Esilio non tanto fisico e biografico, storicamente determinato da un cambio di geografia e da una perdita della terra d’origine. Esiste un sentimento dell’esilio che difficilmente le parole possono raccontare, raggiungere e sagomare in un senso rotondo. Spesso ne troviamo traccia nelle liriche di Brodskij: “Mettiti in una nicchia vuota e, rovesciando/ gli occhi, guarda svanire dietro l’angolo/ i secoli, e il muschio ricoprire il ventre/ e le spalle la polvere, tinta del tempo.” (Torso); “Là, oltre il nulla, oltre il confine estremo,/ - nero, incolore, ma chissà, forse bianco - / c’è qualcosa, un oggetto./ Un corpo forse. Nell’èra dell’innesto a frizione/ la luce viaggia alla velocità della visione,/ persino quando a noi risulta spenta.” (Laguna). È l’esilio costitutivo dei temperamenti poetici, le cui propaggini si perdono in una profondità interna e ontologica che la rendono categoria metafisica e scenario malinconico. Dall’esilio è tuttavia un titolo parlante e rivelatore: la scelta strategica di un complemento di luogo in forza di uno di specificazione (Dell’esilio) evita la trattazione distaccata di un tema per mettere letteralmente in moto una voce animata dal desiderio di giungere a noi come portata da una folaga narrativa che, per quanto obliqua e difficile, non si avverte impossibile. Che cosa ci porta la voce di Brodskij dall’esilio? Un imperativo etico ed estetico, nel cui fuoco l’uomo e il poeta diventano un’entità senza possibilità di fratture: parlare. È questo il verbo magico che ricorre a definire questa sfuggente “condizione”, psichica e metafisica, cui diamo il nome di “esilio.” Di questo “interno paese straniero”, come lo definì Freud, parlano gli scritti in prosa di Iosif Brodskij.

Tra i tanti passaggi sottolineati a matita in questa serata di fiaba e di neve nell’ultimo scorcio di febbraio, vorrei trascriverne uno che si manifesta con la cifra di un exemplum e di un attualissimo monito: “Eppure dobbiamo parlare; e non solo perché la letteratura, come i poveri, è notoriamente portata a prendersi cura dei propri figli, ma più ancora per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo la quale se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia l’antidoto permanente alla legge della jungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa […] Dobbiamo parlare perché dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto. Se questo significa che dobbiamo parlare di noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura.”                               

Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988, pp. 68, euro 7,65

22 febbraio 2013

"La classe" di François Bégaudeau



di Gianni Quilici

“La classe”  è un romanzo di François Bégaudeau, da cui è stato realizzato, successivamente, il film omonimo di Laurent Cantet, vincitore a Cannes della Palma d’Oro nel 2008.

L’ho letto lasciando che mi scorresse veloce negli occhi e mai mi sono fermato a pensare, sottolineare, indugiare, memorizzare i personaggi. 

Sono troppi i nomi di studenti e insegnanti che si incontrano nel romanzo e sembra quasi, nella loro fugacità, che non siano importanti in quanto personaggi, ma per delineare una situazione, in cui i dialoghi sono preponderanti e fulminanti e spesso non si capisce chi sia a parlare.

Il romanzo, infatti, è costruito per brevi episodi, che hanno come luogo la scuola: la classe soprattutto, la sala insegnanti, la presidenza, i corridoi. Ciò che rimane è la situazione, che diventa accumulo di situazioni, che diventano quella particolare scuola. Una scuola che vive come crocevia di razze, di nazionalità, di culture: francesi, arabi, africani, asiatici, che vivono condizioni familiari difficili o una conoscenza linguistica del francese precaria.
Una scuola, quindi, dove gli insegnanti sono continuamente chiamati a dover far fronte a problemi disciplinari, o di scarso interesse; dove insegnare è ansia, fatica, frustrazione, prostrazione.
L’originalità del romanzo e il suo valore documentale e letterario si trovano soprattutto nel protagonista: un io narrante, che accetta la sfida  e assume atteggiamenti variegati nei confronti degli alunni: provocatorio quasi sempre, a volte con ironia, sarcasmo e perfino violenza verbale; molto mobile didatticamente, attento alla lingua nei suoi aspetti grammaticali, lessicali, concettuali e anche filosofici. Con un metodo aperto: più che dare risposte pone domande, con gli occhi  del romanziere attento ai dettagli, a ciò che indica una tipologia, una moda, un modo di essere.
Linguaggio veloce, vivo, a volte surreale, implicito, fitto di dialoghi di botta e risposta, secco, molto giocato sul visibile, su ciò che si vede o si intravede, divertente. Due esempi esemplari:

«Come si chiama quando si dice il contrario di quello che si pensa facendo capire che si pensa il contrario di quello che si dice?»
«Prof la sua domanda mi fa venire il mal di testa».
«Qual è la domanda, prof?»
«Forse ironia?»
«Be', sí, è esattamente questo. Provate a fare una frase ironica».
«Lei è bello».
«Grazie, ma la frase ironica?»
«Lei è bello».
«Ok, perfetto, grazie tante».

«Prof fa troppo caldo, facciamo lezione fuori».
«Certo, vuoi anche una coca?»
«Lei esagera, prof».

Insomma una fotografia ironica e impietosa, che non scava a fondo per scelta, sulla difficoltà di essere insegnanti oggi, ma anche adolescenti, in un mondo che vive una transizione a cui non siamo preparati.
  
François Bégaudeau – La classe. Entre le murs. Traduzione di Tiziana Lo Porto, Lorenza Pieri. 223 pag., Edizioni Einaudi.


21 febbraio 2013

"Cime tempestose" di Emily Brontë.

di Gianni Quilici

Ciò che affascina in Cime Tempestose
è l'estremizzazione dei sentimenti:
un sentimento di vendetta  spietato
in una personalità velenosa,
segnata da una ferita d'amore,
che ha la  radice in una discriminazione sociale;
e questo sentimento d'amore,
che va oltre la  morte,
diventa quasi mostruosamente metasifisico.
Tutto narrato a distanza,
  attraverso due personaggi  del  romanzo,
  in un paesaggio di venti, di nuvole basse...



   Caro Gianni,


    da questa tua acuta e profonda riflessione vengo a sapere che condividiamo anche questa passione per la narrativa della Bronte. "Cime tempestose" è un romanzo che ho amato molto e molto odiato, come tutti gli oggetti d'amore investiti di una passione estreme e totalizzante, e, proprio in forza di questa assolutezza e totalità, trasformati in idoli inaccessibili. L'odio nasceva, nel caso di una creatura di carta, dall'abbagliante perfezione della sua forma e dalla sostanza sfuggente dei suoi personaggi. Il mondo ctonio in cui Emily immerge Heathcliff e Catherine, legandoli ad un filo destinale terribile e autodistruttivo, è qualcosa di talmente tentacolare e complesso che a mala pena cede parte del suo segreto.



 Odiosa e parziale controfigura è il tentativo di visualizzare questo magma in una pellicola cinematografica. "Cime tempestose" fa parte di quel manipolo di romanzi irriproducibili in forme visive; il loro dominio non è lo sguardo, ma l'introspezione. Penso a opere come la "Recherche" di Proust o "Viaggio al termine della notte" di Céline. E non li cito a caso, perché l'unico frutto creativo di Emily è una purissima secrezione dell'inconscio, un cordone ombelicale i cui meandri e meccanismi sono divenuti, dentro quegli attimi creativi miracolosi e mai più raggiunti, entità testuale.


 Per questo suo fondo moltiplicato e franto in vincoli oscuri e vertigini, "Cime tempestose" è un romanzo le cui laceranti polarità diventano campo di tensione nel lettore: non esiste disinfettante critico contro l'impasto di amore e odio, luce e tenebra, creazione e distruzione, perfezione e notturno smarrimento che trasudano da ogni pagina. Ancora oggi, stupisce e atterrisce quel mistico tocco che in un giorno del 1847 è sceso a baciare la mente di Emily Bronte, questa semplice e oscura fanciulla di provincia ferita e stuprata per mesi dal genio che è stato dei tragici greci e di Shakespeare e che sarà di Dostoevskij e di Freud: ossia quella facoltà di leggere al fondo dell'insondabile natura umana, traendone una visione universale, impermeabile allo sciamare del tempo storico e delle generazioni; racchiusa e incisa come un rebus di pietra in un geroglifico.

Questo è "Cime tempestose": un morbo chiuso in un marmo bellissimo, con i suoi due personaggi più vivi delle persone reali, pronti ad urtarci, a sfidarci e a fissarsi sulla nostra pelle come cicatrici di una dissociazione folle, simile a quella che dilania il Jekyll di Stevenson. Heathcliff e Catherine non esistono l'uno senza l'altro, sperimentano una condizione fusiva della cui terribilità siamo subito avvertiti. Sono un'entità unica. La loro reciprocità ci appare insieme familiare e straniera, perché sembra abitarci dentro da sempre. Essi si muovono e ragionano con la stessa logica dell'inconscio che proprio quando ci sembra di aver capito e abbracciato dobbiamo ricominciare daccapo a inseguire.

A metà Ottocento e con un'opera sola, Emily Bronte è riuscita a dare corpo a questo scenario fantasmatico plurale e vacillante che ci abita come un nemico. Malgrado siano passati anni dalla prima lettura e gli strumenti si siano affinati, l'amore e l'odio che mi assalgono davanti a questa meravigliosa macchina è rimasto intatto, sebbene si sia temperato nella disciplina e nell'educazione di altre letture.

 Il meglio che sia stato scritto sopra questo misterioso romanzo è scaturito dalle penne di Mario Praz e di Georges Bataille. Entrambi contribuiscono a rischiarare, con nostro sollievo, alcuni lembi di questo continente frustato da passioni e mali terribili. Nella sua "Letteratura inglese dai romantici al Novecento" (Sansoni, 1967) Praz ci avverte che "ai personaggi della Bronte non è applicabile l'ordinaria antitesi tra bene e male." Le loro passioni devastatrici hanno il libero passo selvaggio (cioè eccentrico rispetto alle convenzioni e alle leggi stipulate dal vivere civile) dei cieli che li sovrastano e dalle lande che li circondano. Essi "non si pentono mai dei loro atti di distruzione", e, malgrado ciò, non ci sentiamo di definirli "cattivi", né possiamo dire che siano al di qua, o al di là, del bene e del male. "Il punto di vista di Emily Bronte non è immorale, è premorale", scrive sempre Praz. Così come "premorale" (ce lo insegna la psicoanalisi) è il primo tempo dell'amore: l'odio, questa molla originaria che scavalca qualsiasi maschera di civiltà e qualsiasi forma di educazione delle pulsioni. Emily arriva al midollo del sottosuolo. Non solo: a questo magnetismo del binomio Heathcliff/Catherine soggiaciono tutti gli altri personaggi del romanzo e la loro maledizione si riverbera sulle spalle della successiva generazione, in una catena oscura e pausata di ire e odi che sembra non doversi spezzare mai. Il genio di Emily è stato quello di saper trattare una materia tanto incandescente e pericolosa con mano da chirurgo e mente ordinatrice; questa maestria la si coglie soprattutto dall'intelaiatura del romanzo "logico come il profilo d'una fuga musicale", figlio nel suo dna della tragedia e del poema epico più che del romanzo ottocentesco.

Un ulteriore chiarimento viene da Bataille, che apre "La letteratura e il male" (SE, 2006) proprio analizzando il romanzo della Bronte come vertice di una piramide che comprende Baudelaire, Michelet, Blake, Sade, Proust,, Kafka e Genet. Ne viene fuori un capitolo in cui non una parola si deposita superflua e dove ogni passaggio concettuale è serrato e pulito. Georges Bataille, il sublime e maledetto Georges, si ficca sottopelle: vuole capire perché Emily abbia avuto in sorte il dono di capire così in profondità il Male, come toccherà ad un'altra Emily della letteratura, la Dickinson.

L'anagrafe e la sparuta cronaca biografica è disarmante: Emily Bronte ha vissuto trent'anni appena e non è mai andata oltre la canonica dello Yorkshire; il suo campo visivo ha spaziato nel limitato recinto del luogo, tra la campagna e le lande, privato della dolcezza materna e focalizzato sull'unico polo paterno, incarnato da un rude pastore irlandese. "Visse in una specie di silenzio, rotto soltanto esteriormente dalla letteratura." Emily ignorava "in modo assoluto l'amore". Bisogna allora seguire Bataille e scavare nell'infanzia, nella ragione, nella trasgressione, nel misticismo senza consolazione; occorre appuntire passaggi analitici come pugnali spinti al cuore dell'infanzia e nella maturità di Heathcliff e di Catherine, e poi seguire gli effetti della loro separazione nella morte per portarne alla luce tutte le oscurità inconsce, tutta la contaminazione, tutto il destino feroce. E questo lo ha saputo fare solo Bataille. Ferisce ancora oggi guardare dentro questo nodo. Ferisce perché la sua visceralità è attualissima. Emily, l'inesperta dell'amore, seduta nella penombra di una canonica rotta dai bagliori del suo genio, ci ha lasciato il groviglio più inconfessabile di questa condizione: "quella conoscenza che connette l'amore non soltanto con la chiarezza, ma anche alla violenza e alla morte - perché palesemente la morte è la verità dell'amore. Come l'amore è la verità della morte." Il risvolto oscuro e violento dell'amore unito e nutrito dal Male tornerà a scandire una celebre strofa della "Ballata del carcere di Reading" di Oscar Wilde: "eppure ogni uomo uccide ciò che ama. C'è la carne, la morte e i diavolo in ogni riga del romanzo: c'è dolore, erotismo e oscurità lacerante, premuti dentro e inespressi, quasi impossibili a tradursi in azione, nei cuori sconvolti dei due personaggi. C'è una lotta di inconsci che ingloba, o investe, anche il paesaggio del romanzo, e ogni lettore avverte quest'assenza di baricentro psichico nei personaggi; ma non si riesce a dargli un senso fino in fondo e tutto lo sviluppo rimane per lo più innominabile. Innominabile eppure in bilico sul filo delle labbra, pronto a slanciarsi all'esterno. Almeno fino a quando non leggi Bataille; allora molti versanti - non tutti, perché il romanzo non cede i suoi segreti che in minima parte - si ricompongono sotto una luce cartesiana, mirabilmente gettata su di una materia tanto difficile (perché spesso preda della retorica) come il Male. Come il Male, aggiungerei, quando non si vuol vedere intrecciato all'Amore.
                                                                          Davide Pugnana


Emily Brontë.  Cime tempestose. Garzanti 





 

20 febbraio 2013

"Alle origini del successo del romanzo poliziesco" di Luciano Luciani




Un fenomeno recente che accomuna tutte le letterature occidentali e non solo? La progressiva e sempre più larga affermazione tra il pubblico dei lettori del romanzo poliziesco, in tutte le sue accezioni. E ai trionfi in libreria e nelle classifiche dei best seller, ribaditi dall’apparizione di nuove collane e nuovi autori, si accompagna - e questo è il dato di maggiore novità - il definitivo venir meno di quelle diffidenze, resistenze e veti della critica che hanno sempre accompagnato, fin dalla sua nascita, questa forma di letteratura popolare.

Certo, oggi l’atteggiamento di critici e recensori è completamente mutato, da quando nel 1924, Richard Austin Freeman, popolare autore anglosassone di romanzi/enigma, era costretto sconsolatamente a constatare: “I critici e i letterati di professione tendono a bandire con disprezzo il romanzo poliziesco […] come qualcosa che si colloca al di fuori del dominio della letteratura e a considerarlo un prodotto di scrittori rozzi e assolutamente incompetenti, destinato a fattorini, commesse e, insomma, ad un pubblico privo di cultura e di gusto letterario”.

Eppure, durante tutta la prima metà del XX secolo, non erano mancate voci autorevoli che avevano spezzato più di una lancia in favore di questo genere di letteratura e che avevano contribuito ad emanciparla da ogni considerazione negativa e subalterna.

Sono ovviamente proprio gli scrittori che dovevano la loro fama al romanzo poliziesco quelli più attivi nella riflessione sul significato del genere. Per esempio, G.K. Chesterton, celebre inventore del personaggio di padre Brown, sacerdote cattolico e investigatore: “Il valore fondamentale del poliziesco consiste nel fatto che è la prima e unica forma di letteratura popolare nella quale è espresso il senso della poesia della vita moderna […] Non può sfuggire ad alcuno che in queste storie l’eroe, ossia l’investigatore, attraversa Londra con qualcosa della solitudine e della libertà di un principe in una fiaba del paese degli elfi. Nel corso di un viaggio imprevedibile, l’occasionale autobus assume i colori originali di una nave fatata. Le luci della città brillano come innumerevoli occhi di folletti; sono i guardiani di qualche segreto, comunque brutale, che lo scrittore conosce e il lettore no. Ogni angolo di strada è un dito puntato su di lui, ogni fantastica linea di camini contro il cielo sembra, selvaggia ed ironica, indicare il significato del mistero”.

E se John Carter, studioso e difensore del poliziesco, rivendica quarti di nobiltà intellettuale al genere - “il romanzo poliziesco è la lettura preferita di uomini di stato, di professori delle nostre più antiche università: in conclusione, di tutta quella parte del pubblico intellettualmente più viva” -, con la spregiudicatezza propria del grandi T.S. Eliot non esita a spingersi ancora più in là e ad offrire legittimità addirittura alla thriller story, che correva parallela alla detective story, ne era percepita come una degradazione e la si giudicava vicina piuttosto ad un genere deprecabile come il feuilleton: “Coloro che sono vissuti prima che termini quali ‘narrativa intellettuale’, ‘thrillers’ e ‘narrativa popolare’ fossero inventati, si accorgono che il melodramma è perenne e la passione per questo deve essere soddisfatta. Se non possiamo ottenere questa soddisfazione da ciò che gli editori presentano come ‘letteratura’, allora leggeremo con sempre minor pretesa di nasconderlo, ciò che chiamiamo thrillers. Ma nell’epoca d’oro della narrativa melodrammatica non c’era tale distinzione. I migliori romanzi erano thrilling”.

Se termini come trivialliteratur, paralitérature, livre de chevet … evidenziano la percezione critica negativa o, al massimo, un’accettazione condiscendente nei confronti del poliziesco, non mnacano giudizi, se non positivi, almeno problematici sull’argomento da parte di alcuni significativi personaggi della grande cultura tedesca degli anni Venti/Trenta del Novecento. Intanto il saggio di Siegfried Kracauer, Il romanzo poliziesco Un trattato filosofico, scritto tra il 1922 e il 1925 e pubblicato postumo nel 1971. L’ironica analisi dei luoghi e delle figure ricorrenti in questa particolare convenzione narrativa - la hall d’albergo, il detective, il poliziotto, il criminale, lo scioglimento dell’intreccio - condotta da Kracauer mira ad interpretare il detektiv-roman come lo specchio deformante di una società completamente civilizzata e razionalizzata, in cui si evidenzia meglio che altrove, il carattere “intellettualistico” della società moderna e la vittoria e il dominio della ragione su di essa: “La fine del romanzo poliziesco rappresenta la vittoria incontrastata della ratio […] Non esiste alcun romanzo poliziesco in cui il detective alla fine non abbia fatto luce sull’oscurità e dedotto i fatti banali senza lasciare lacune”.

Per Bertolt Brecht il romanzo poliziesco nasce dal feuilleton, ma se ne differenzia, perché, pur essendo popolare si rivolge ad un pubblico colto, desideroso di praticare un continuo ragionamento logico, insomma è il corrispettivo di una partita a scacchi. Per il poeta e drammaturgo tedesco, il romanzo poliziesco: “per quanto primitivo (e non soltanto da un punto di vista estetico), appaga le esigenze degli uomini che vivono in un’epoca scientifica senz’altro più di quanto non facciano le opere dell’avanguardia”.

La natura schiettamente borghese di questo genere di letteratura non poteva, poi, sfuggire alla riflessione di un osservatore asistematico e curioso come Walter Benjamin. Il filosofo e saggista berlinese la percepisce come la manifestazione di una classe sociale che, dopo aver conseguito i propri scopi economici e politici, soddisfatta e consapevole della propria egemonia, aspira, nella vita privata a costruirsi uno spazio appartato, staccato dal sistema dei rapporti affaristici, una  turris eburnea dove proteggere e curare la propria rigida moralità. Benjamin notava che il romanzo poliziesco non aveva cercato i suoi personaggi negli ambienti della malavita e negli slums della città (come spesso accadeva nel feuilleton), ma aveva preferito gli scenari borghesi della media e alta borghesia dove i misfatti cruenti si consumavano senza brutalità e i corpi si abbattevano sui morbidi tappeti della biblioteca privata, dello studiolo, del salottino: “I criminali dei primi racconti polizieschi non sono gentlemenapache, ma privati borghesi”.


"Gli storici italiani e la Grande Guerra: dalla retorica nazionalistica alla guerra civile europea" di Luciano Luciani




Nel periodo che tenne immediatamente dietro al primo conflitto mondiale anche la storiografia italiana, come d’altra parte quelle francese, tedesca, inglese e statunitense, risentì delle passioni nazionalistiche che avevano agitato il confronto degli storici intorno alle responsabilità, origini e cause della Grande Guerra. Si trattava di una letteratura vasta ma monotona, da cui si distaccò il solo Benedetto Croce (1866 – 1952) con Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932. Nelle sue pagine, Croce, poco interessato sia agli aspetti politico-diplomatici di quegli avvenimenti, sia a quelli economici e sociali, si rivolse invece a indagare sullo “spirito” responsabile della conflagrazione mondiale, da individuare nelle diffusione disordinata e incontrollata di inedite e audaci concezioni dell’esistenza, da lui compendiate nel termine “attivismo”, presenti e operanti non solo nella Germania prebellica, ma in tutto il mondo.

Negli stessi anni in cui il filosofo napoletano pubblicava il suo autorevole e originale punto di vista, il fascismo aveva già iniziato a piegare gli studi storici a ricostruzioni di impianto retorico-celebrativo o a meccaniche trasposizioni di quegli avvenimenti, secondo le quali il sentimento di nazione che aveva animato gli italiani, permettendo loro di resistere al tragico esame di oltre tre anni di guerra, avrebbe trovato poi nel fascismo la sua più adeguata realizzazione. Rarissime le eccezioni. Tra queste va segnalato il libro dello storico liberale, studioso del Risorgimento, Adolfo Omodeo (1889 – 1946), Momenti della vita di guerra. (Dai diari e dalle lettere dei caduti), 1934, un lavoro importante per cogliere dalle parole stesse dei protagonisti lo stato d’animo con cui un’intera generazione di italiani, e segnatamente i giovani ufficiali di complemento, figli della piccola e media borghesia, aveva affrontato i pericoli e le fatiche di quella durissima prova.

La fine del fascismo liberò anche gli studi storici, che, affrancati dai condizionamenti del regime, poterono così dedicarsi a indagare, in autonomia e spirito critico, ambiti di ricerca sino a quel momento inesplorati come, per esempio, l’interventismo democratico. A questo proposito meritano di essere  ricordati la intensa testimonianza di Emilio Lussu, Un anno sull’Altopiano, 1945, e i lavori di Piero Pieri (1893 – 1979), combattente nella Grande Guerra, pluridecorato, professore universitario, considerato il più importane storico militare italiano del Novecento. Di questo studioso, per le sue doti di sintesi e di leggibilità, si raccomanda il libro L’Italia nella prima guerra mondiale (1915 – 1918), intriso di idealità mazziniane che, valorizzando lo stretto legame tra Risorgimento e prima guerra mondiale ne propone l’interpretazione come compimento del processo di unificazione nazionale, “quarta guerra d’indipendenza” e momento importante per la liberazione politica dei popoli europei..

Negli ultimi cinquant’anni, moltiplicatisi i campi d’indagine (movimento socialista, mondo cattolico, movimento nazionalista), gli storici appartenenti alle diverse aree politico-culturali hanno dato vita a un serrato confronto storiografico: la sinistra ha interpretato la partecipazione alla Grande Guerra come un’involuzione autoritaria per distogliere e allontanare la minaccia del conflitto di classe a tutto vantaggio delle forze della conservazione, “L’intervento fu[…] un atto di politica interna, una sorta di piccolo colpo di Stato appena rivestito di forme di legalità” scrive lo storico marxista Giuliano Procacci nella sua Storia degli italiani, 1978; la storiografia moderata si è invece concentrata sulle ragioni per cui l’Italia liberale, dopo aver vittoriosamente superato l’arduo verifica imposta dal conflitto, non abbia invece retto all’assalto fascista alla società e alle istituzioni.

Nel 1969 la pubblicazione del libro di Piero Melograni, Storia politica della grande guerra 1915 – 1918, fu unanimemente salutata come un punto di svolta nella storiografia sull’età contemporanea italiana. L’autore, professore universitario a Perugia, già noto per i suoi lavori sul periodo fascista, forniva infatti agli storici e ai lettori un’opera indiscutibilmente nuova perché, affrontando i problemi degli uomini in uniforme, più di cinque milioni di italiani, un’intera generazione di giovani, allargava la sua visuale ai “molteplici fattori politici, economici e sociali che condizionavano al tempo della guerra la vita dell’intero popolo italiano”. Certo, una storia della prima guerra mondiale, la sua, ma non tradizionalmente intesa: non più il racconto della lungimiranza maggiore o minore degli Alti Comandi, di operazioni strategiche o manovre tattiche, di battaglie vinte o perdute, ma i rapporti complessi tra le forze armate, la politica e la società civile. Insomma, come le masse popolari del nostro Paese vissero quel conflitto: nelle trincee, ma anche nelle campagne, nelle fabbriche e nelle città; negli Alti Comandi e tra gli ufficiali subalterni… Senza trascurare le condizioni materiali di vita dei soldati, il loro morale, i modi della loro fidelizzazione alla causa nazionale, le pagine oscure di Caporetto e delle decimazioni, i cappellani militari, i giornali di trincea e le distrazioni della truppa… Con il meritevole lavoro di Melograni la storia politica piegava verso la storia sociale, si arricchivano gli ambiti della ricerca storica e la rappresentazione della Grande Guerra ne veniva completamente trasformata grazie anche all’uso sistematico di materiali storici sino a questo momento trascurati come epistolari, diari, testimonianze orali, fonti letterarie. Un modo nuovo di avvicinarsi a quegli avvenimenti, come ha scritto Andrea Cortellessa (1968), storico della letteratura: “ mentre i testi ‘bassi sono usciti dall’ombra, quelli ‘alti’ sono tornati ai laboratori asettici degli specialisti (ma spesso, piuttosto, direttamente nel dimenticatoio)”.

A tutt’oggi, nell’approssimarsi del centenario dell’inizio di quegli avvenimenti gli studi propendono verso sempre più raffinate ricostruzioni dei mutamenti indotti dalla guerra, quella guerra, nelle condizioni di vita delle popolazioni civili, nella loro mentalità e nei loro comportamenti di massa. Perché quel conflitto rappresentò davvero “un evento ‘senza ritorno’, un trauma che modificò per sempre la psicologia collettiva. Se immensi furono infatti i mutamenti degli equilibri sociali e politici (si pensi alla rivoluzione in Russia, al crollo degli imperi centrali, alla fine dell’egemonia europea sul mondo), la guerra incrinò anche tutte le certezze culturali che avevano costituito il cardine della civiltà occidentale… Dopo il conflitto, niente fu più uguale a prima.” (Giovanna Procacci).

Degno di nota anche il punto di vista, assai più recente, di Enzo Traverso (1957), storico italiano dell’età contemporanea che insegna attualmente in Francia e applica agli anni compresi tra il 1914 e il 1945, il concetto, già dello storico tedesco Ernst Nolte (1923), di “guerra civile europea”.
A suo parere, espresso nel saggio A ferro e fuoco, 2008, il primo conflitto mondiale costituirebbe l’elemento divisorio tra un lungo Ottocento dominato dalle idee di pace e progresso economico e la successiva guerra civile europea, magmatico intreccio di tradizionali conflitti tra Stati, rivoluzioni, guerre civili e di liberazione, genocidi e brutalità derivate da contrasti politici, nazionali e di classe. Due gli antecedenti alla novecentesca guerra civile europea: la guerra dei Trent’anni (1618 – 1648) e la Rivoluzione francese, terminata con la caduta dell’impero napoleonico (1789 – 1815). Nato come scontro tra Stati, il primo conflitto mondiale si conclude con il crollo degli imperi continentali su uno scenario già percorso da caratteri e pratiche proprie delle guerre civili: uso di armi di sterminio di massa (chimiche, gas), cattura di ostaggi, esodi forzati e deportazioni di popolazioni civili, decimazioni.… Le dichiarazioni di guerra dell’estate 1914 - ricorda Traverso -  furono accompagnate da entusiastiche ondate di passione patriottica che travolse anche le più insigni personalità della vita intellettuale e artistica del vecchio continente. Rarissime le eccezioni di quanti nel mondo della cultura riuscirono a sfuggire alla frenesia nazionalista: Karl Kraus a Vienna, Bertrand Russel a Londra, Henri Barbusse e Romain Rolland a Parigi. Un’ubriacatura patriottica destinata a consumarsi nel corso di una guerra che, come poche altre vicende nella storia del mondo moderno, era destinata ad avere un impatto profondissimo nella cultura europea. “La Grande guerra” - scrive Traverso - “si configura come una cesura storica che spezza la continuità delle esperienze di vita e trasforma il paesaggio mentale delle società europee”. Tramontata ben presto l’ipotesi di un conflitto breve, nelle trincee e dietro al filo spinato che segnarono per anni i confini europei, si inaugurò quella terribile miscela di conflitto totale, guerre locali, genocidi e lotte brutali tra opposte visioni del mondo che doveva segnare sanguinosamente la storia di quasi tutta  la prima metà del secolo scorso.




15 febbraio 2013

"Il danno" di Josephine Hart


di Mirta Vignatti

Un'attrazione fatale che scatena passioni malsane e drammatiche e scava in quella che l'autrice definisce la cripta nel cuore (e che a me fa venire in mente La bestia nel cuore, un libro e un film non particolarmente riusciti della Comencini). 

La scrittura è tesa e indaga nelle pieghe della mente di Anne (che ha subìto un "danno" e semina danni tra gli uomini che ne subiscono il fascino) e del suo amante con analitica lucidità. Ho trovato particolarmente apprezzabile la capacità di  Josephine Hart di calarsi nella psicologia del personaggio maschile, contorta e autodistruttiva.  Un libro che può inquietare ma sicuramente da leggere.

Josephine Hart. Il danno. Tradotto da V. Mantovani. Feltrinelli











14 febbraio 2013

"Dieci proposte di lettura per ripensare il lavoro che non c’è" di Luciano Luciani



L’attività, l’impiego, il mestiere, la professione… in una parola il lavoro: un dato strategico nell’esistenza di milioni di donne e uomini perché per loro rappresenta l’unico strumento per entrare in relazione con una fonte di reddito e, quindi, ne determina sia il livello di vita, sia il progetto e l’organizzazione del futuro.
Cosa accade quando il lavoro non c’è, oppure è fragile, precario, incerto?
Quali distorsioni si determinano, sul piano personale, intimo, psichico e su quello collettivo quando l’occupazione appare inadeguata a garantire a milioni di persone, in gran parte giovani ma non solo, un sicuro rapporto con la società?
Vi proponiamo dieci libri per aiutarvi  a mettere a fuoco il problema:

Sandro Bartolini, Villaggio Mare Blu, Edizioni Il Grande Vetro, Santa Croce sull’Arno, 2003, pp.180, Euro 10,00
Non ancora trent’anni, Agostino vive tra lavori precari e un compiaciuto disordine sentimentale. Inetto ben intenzionato, individua la sua grande occasione professionale nell’apertura di un ‘villaggio vacanze’ a gestione franco/italiana, sogno di tutti i disoccupati della zona compresa tra le colline pisane e la costa tirrenica. Assunto come pizzaiolo, il nostro modesto eroe è costretto a tirare fuori il meglio di sé: non solo si  inventerà ex novo una professionalità, ma dovrà darsi anche un’etica del lavoro fatta di ordine, serietà, responsabilità.

Giorgio Falco, Pausa caffè, Sironi Editore, 2004, pp. 352, Euro 14,00
La pausa caffè: un’occasione privilegiata per osservare e raccontare nel dettaglio le vite dei lavoratori precari, a termine, a contratto, interinali… Un coro di voci dal mondo del “lavoro non lavoro”, il presente di tanti, forse il futuro di tutti.

Michela Murgia, Il mondo deve sapere, Isbn edizioni, 2006, pp. 123, Euro 10,00
Il diario tragicomico di un’impiegata nel call-center di un’azienda che vende elettrodomestici porta a porta. Un lavoraccio, reso ancora più tale dalla politica manipolatrice dell’azienda che ti fa sentire una fallita se non realizzi gli obbiettivi aziendali. Da queste pagine è tratto il fortunato film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti, 2008.

Antonio Incorvaia, Alessandro Rimassa, Generazione 1000 euro, Rizzoli, 2006, pp. 164, Euro 9,50
La precarietà professionale condanna a una troppo prolungata adolescenza? Questo sembrano volerci dire i protagonisti del romanzo, Claudio, Rossella, Alessio e Matteo alle soglie dei trent’anni, lavori incerti, sentimenti vaghi, vite confuse. Più sociologia che scrittura narrativa, Generazione 1000 euro si fa leggere e ci aiuta a capire meglio in quale mondo ci è stato dato di vivere. Nel 2009 questo libro è diventato un film con lo stesso titolo per la regia di Massimo Venier, con protagonisti Alessandro Tiberi, Valentina Lodovini, Carolina Crescentini

Simone Perotti, Adesso basta, lasciare il lavoro e cambiare vita. Filosofia e strategia di chi ce l’ha fatta, Chiarelettere, 2009, pp. 190, Euro 11,90
L’insicurezza professionale ed economica come opportunità per ripensare noi stessi e la nostra esistenza. Le conseguenze economiche, psicologiche, esistenziali del downshifting, ovvero cambiare passo, scalare marcia, rallentare il ritmo… Passare da un lavoro remunerativo, ma stressante a uno più gratificante per la qualità della vita.

Alessandro Rimassa, Berlino sono io, Sonzogno, 2010, pp. 191, Euro 14,00
Una volta i giovani scontenti della società si ribellavano, oggi no. Si deprimono e sviluppano la tendenza al “fancazzismo”, l’arte di passare le giornate senza concludere niente. Sempre in forma di romanzo, Rimassa sviluppa le tematiche di Generazione 1000 euro su uno scenario europeo.

Donatella Bersani, Indignate – Il tempo delle donne, Newton Compton Editori, 2011, pp. 384, Euro 6,90
Se i precari sono soggetti socialmente fragili e svantaggiati, le precarie lo sono di più. Un’inchiesta su donne, lavoro precariato: dati e testimonianze delle trasformazioni del mondo femminile in atto in Italia e in occidente.

Gabriele Gabrielli, Post-it per ripensare il lavoro, Franco Angeli, 2012, pp. 176, Euro 22,00
Promemoria sul lavoro che c’è e su quello che manca, sulle preoccupazioni che l’accompagnano e le responsabilità che richiama.

Giorgetti Fumel M., Chicchi F. (a cura di), Il tempo della precarietà. Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità, Mimesis editore, 2012, pp. 236, Euro 22,00
Oggi il lavoro appare ormai incapace di fornire un solido ancoraggio sociale: tempo della precarietà, quindi, il nostro, una condizione inedita che suscita preoccupazione e sofferenza. Questo libro interroga il tema attraverso le categorie della psicanalisi e della sociologia, per aiutare a riconoscerne inquietudini e disagi.

Bruno Rossi, Il lavoro felice, La Scuola Editrice, 2012, pp. 256, Euro 17,50
È possibile un lavoro che metta d’accordo traguardi aziendali e benessere dei lavoratori? Un ripensamento umanistico dell’intera questione.