31 maggio 2013

"L'integrazione" di Luciano Bianciardi



di Gianni Quilici

Avevo letto anni fa Il lavoro culturale, gustosissimo, e soltanto ora ho ripreso il suo secondo romanzo, che ne è la continuazione L'integrazione.
Pure gustosissimo e divertente, ma con qualcosa in più. Sbaglia chi considera Bianciardi, solo o anche soprattutto, come un umorista. Bianciardi non vuole far ridere in sé, è un realista che coglie i fatti a distanza vedendone gli aspetti inconsapevolmente (per i protagonisti) comici. Non c'è deliberata forzatura, ma capacità di rappresentare le convenzioni, le manie, i modelli culturali, di quella particolare fase storica.

In questo romanzo, che  analizza con feroce divertimento il mito dell'industria culturale negli anni del cosiddetto miracolo economico a Milano, con i suoi dirigenti e impiegati, c'è un'amarezza profonda, però appena sullo sfondo.
Marcello, l'intellettuale non integrato, libero e precario, solitario e socialmente sconfitto rispetto ai valori dominanti, è l'alter ego, ma non è l'anti-eroe con cui è  facile identificarsi.

Luciano Bianciardi. L’integrazione. Bompiani.


30 maggio 2013

" Arte e bellezza" di Antonio Paolucci



di Davide Pugnana

Credo sia la prima volta che mi capiti di iniziare una recensione partendo da un piccolo aneddoto personale, quello che i francesi chiamano il petit fait vrai. A poco o nulla sono valse le più sottili strategie di resistenza all’io; o la feroce mortificazione autocritica messa in atto per temperare, frenare, debellare qualsiasi tentazione autobiografica. Uno alla volta, i numerosi tentativi di incipit ‘oggettivi’, tenuti sul filo di un approccio, come si dice in gergo, “lavorato con distacco critico” sono precipitati nel dimenticatoio. Eppure mi ero preparato a scrivere un’impeccabile, inamidata pagella del libro, puntellandola di tutti i crismi dell’analisi critica: il tuffo nel magma dei concetti e delle frasi per ridisegnarne la tessitura; l’elogio della finezza del tenore intellettuale; la corsa - come si fa davanti ad un pensiero baciato dall’originalità - ad accendere la luce nei corridoi laterali, per collegarli con stanze inesplorate e porte comunicanti. Questo è il galateo di ogni buona recensione. Ebbene, se questo metodo poteva calzare per molti libri sottoposti a recensione, questa volta l’obbedienza all’oggettività dava allo scritto un vero e proprio sapore di tema scolastico. Anche il tradizionale rimedio di lasciar sedimentare la materia, ignorandola per settimane, fingendo che non esista o non possa aver sviluppo, è apparso come un infantile gioco del nascondino. Alla fine ha vinto la prima persona. Le prime parole che mi vengono sotto la penna sono, quindi, queste note di diario, le sole capaci di restituirmi il senso di un incontro speciale, prima che con un oggetto di carta con una persona. Anzi, con una voce.

È vero che accade spesso – mi accade spesso -  di identificare uno scrittore con l’impressione che ne ebbi la prima volta. Anche se passano gli anni, e scorrono altre letture, e il palato si impreziosisce di nuove essenze, quella impressione può tornare prepotente a guidare l’ascolto. Talvolta è una tessera interna al proprio gusto, il segno di una presenza rimesta a metà tra l’intelligenza del cuore e quella della mente; altre volte può mostrarsi giusta e vera. Il che vuol dire che quel contatto aurorale con lo scrittore ha lavorato in un silenzio inavvertito, fino a condensare quella prima impronta fugace nella consistenza plastica di una figura. Una figura che finisce per appartenere all’intimo dominio della propria storia e biografia intellettuale. Ora, Antonio Paolucci è legato per me all’impressione che ne ebbi quando sentii la sua voce la prima volta. Cadde nella mia vita al di fuori dei contesti ufficiali delle conferenze e delle lezioni (dove mi sarei aspettato di scoprirla), visitandomi in un contesto di ovattata, normale, quotidianità. Non è facile isolare il punto di inizio di un rapporto. Difficile tener separata la folla di sensazioni nella loro successione narrativa. Ricordo solo che quella voce mi colpì da subito per la grana, per la consistenza timbrica, lieve e profonda. Velata e materica a un tempo. Questa voce singolare proveniva dalla stanza accanto. Ricordo che mi ero fermato per ascoltarla, preso dallo stesso piacere che si prova quando, camminando distratti per strada, da una finestra aperta un suono ci raggiunge, magari una frase musicale o un motivo che ci sono familiari, ma dei quali non ricordiamo la fonte. Non sembrava la voce cadenzata e monocorde dei messaggi televisivi: quella voce umana che, filtrata dal passaggio nell’audio meccanico e sparata nello spazio dai lati dello schermo o dalla base, giunge spogliata di colori e stravolta nella forma. La voce che arrivava dall’altra stanza era più calda ed effusiva. La sua tramatura fonetica creava una tonda geometria senza smagliature calata in un’interna, serena cavità minerale di quarzo che ne metteva in evidenza all’orecchio le trasparenze. Trasportava nell’aria un ritmo, incarnava un dettato, segnava nella mente un’idea di garbo che avevo ‘ascoltato’ sui libri o, raramente, raccolto in qualche aula universitaria come un’epifania. Eppure, non potevo dire che fosse la voce di Narciso, innamorata delle proprie risorse espressive e schiava d’una compiaciuta abilità oratoria. Di un attore non aveva la dizione educata e pulita. Forse era la voce di qualcuno che stava leggendo un testo famoso, un classico della letteratura o della storia. Ricordo bene che mi ero fermato d’improvviso, proprio come fossi stato colto da una melodia trovata per strada. Ascoltandola nelle sue vene possenti o seguendola nei suoi rivoli minuti; fermandomi nelle fessure delle pause, in quelle crepe dove i concetti sembravano fissarsi in incanti improvvisi, poi dilatati in immagini fatte metafora di un sottofondo allusivo, ecco questa voce che scherzava e giocava con le parole e divagava in bellissimi voli, era un luogo fisico meraviglioso. Una sorta di vasto tempio, antico e moderno insieme. Un grembo arcaico. E in quel preciso momento, mi ha attraversato il pensiero che non solo i nomi propri di persona sono luoghi di intensità, come ci narra Proust nel finale di Du coté de chez Swann; anche alcune voci umane hanno in sé il potere evocativo di disegnare luoghi, di allestire spazi permeati da un’atmosfera che desideriamo abitare. Potevo spingermi ad affermare che in quella voce enigmatica avveniva come “nel nome di Balbec, come nella lente d’ingrandimento di quei portapenne che si comprano al mare, scorgevo onde inarcate intorno a una chiesa di stile persiano.”? Non lo so. Di una cosa però non avevo dubbi: quella voce nell’altra stanza era figlia dei libri. Con questo non voglio dire che fosse “libresca”. Tutt’altro. Una voce nutrita dai libri è uno strumento che porta in sé una fibra umanistica inconfondibile. È come passare le mani su una stoffa per saggiarne la qualità nella sua esistenza tattile. Qualsiasi cosa dello scibile essa tocchi o abbracci acquista un palpito nuovo. Certo, non potevo negarne la fattura oratoria: le frasi, sinuosamente costruite e inanellate con cura dialettica, erano degne di un fioretto sottile ed elegante. A rivelarne però questa particolare natura non era la forma, bensì il suo andamento: ossia quella cadenza in prosa che sembrava restituirmi la grazia di stile di alcuni autori. Ad esempio, poteva essere figlia del Seneca delle Lettere a Lucilio e dei Saggi di Montaigne; della linea dei moralisti classici; del timbro narrativo delle Vite vasariane o delle pagine di Luigi Lanzi, oppure poteva essersi fatta sull’ampio respiro della lingua manzoniana. Impressioni, queste, che tanto più confermavano la presunta consanguineità umanistica della voce nella scelta felice di alcune immagini-metafora: spie che lasciavano affiorare, in filigrana, il gusto educato e prezioso di un lettore di poesia.

Questa voce incarnava alla perfezione uno stile di conversazione di cui, anni prima, avevo letto una descrizione in una raccolta di scritti di Pietro Citati e che ora vado a recuperare. Vale la pena riportarne un passo: “La scrittura è fissa: o almeno il movimento tumultuoso delle parole cerca di trovare in lei una forma definitiva, sebbene il movimento verbale vi palpiti ancora. La bellezza della conversazione sta nella sua inarrestabile fluidità.”

Non credo di aver mai ascoltato una conversazione così perfetta. Per me, la bellezza della voce nella stanza accanto era proprio l’inarrestabile fluidità della conversazione che, solo più tardi, in una seconda occasione portatami ancora una volta dalle mani del caso, avrei saputo appartenere ad Antonio Paolucci. E, cosa ancor più impressionante, questa voce singolare l’avrei riscoperta intatta e fedele a se stessa sulla pagina scritta.

Arte e bellezza (collana orso blu, Editrice La Scuola, Brescia 2011) è, forse, il testo che più di altri restituisce alla perfezione l’intuizione dell’accordo elegante, la giustezza di tono e la misura classica della voce (la voce del pensiero) di un umanista del nostro tempo. Nelle belle spirali dell’ intervista-conversazione con Carolina Drago, Paolucci attraversa episodi nodali della sua biografia umana e intellettuale, muovendo il ricordo sul doppio confine dell’educazione sentimentale e intellettuale e della vitalità culturale, esperita sul campo. Dall’infanzia riminese, tra gli oggetti preziosi della bottega antiquaria del padre, fino alle battaglie da soprintendente; dalle opinioni sull’arte contemporanea al turismo culturale; dalla gestione del “museo diffuso” alla vacua terminologia critica, dove le parole non rispecchiamo gli oggetti (“beni culturali” invece che “belle arti”; “territori” in luogo del più aderente “paesaggio”). Ampio spazio è riservato alla questione della tutela del patrimonio culturale italiano. Paolucci sottolinea il primato dell’Italia in questo ambito. L’episodio cruciale di questa storia dai marcati chiaroscuri è quello che riguarda le scelte di Leone X: “Nel 1516, un papa, Leone X, Giovanni Lorenzo de’ Medici, grande intellettuale e straordinario umanista, decise che per amministrare il patrimonio storico e culturale di Roma ci voleva un tecnico. Avrebbe potuto nominare come Soprintendente al patrimonio artistico di Roma un alto prelato, un suo parente, , un sostenitore politico e invece spiazza tutti. Nomina un tecnico e chiama il più talentuoso di tutti: Raffaello Sanzio. Con Leone X, per la prima volta, cinque secoli fa, si afferma il concetto che la potestà prescrittiva e normativa nell’ambito dei beni culturali, deve essere affidata alla competenza tecnica. Per questo quando si parla di manager dei musei, di ‘bocconiani’, che dovrebbero governare ed amministrare i musei, io cito sempre Leone X dei Medici.” Da questo punto massimo, collocato nel cuore dello spirito rinascimentale, la storia della legislazione dei beni culturali in Italia prosegue come un vettore che tocca disegni di leggi definiti, da Paolucci, “capolavori di civiltà e di sapienza giuridica”, ulteriori conferme del primato italiano e di nuove forme di cultura illuministica: l’editto Pacca del 1820, nello Stato della Chiesa; la legge Bottai, nel 1939, in pieno fascismo. Una legge, quella di Bottai, che aveva alla base “consulenti come Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, storici dell’arte, teorici del restauro, uomini d’eccellenza.”

A questo punto, vien fatto di chiedersi da dove provenga la finezza d’eloquio di questa voce? Dov’è caduta la traccia dell’eco primario e fondante, rimasto impresso per sempre nella gola? Qual è la sua lettera scarlatta? Questa scaturigine può essere individuata in un anello della formazione di Paolucci. Nel primo capitolo, L’amore per la bellezza, egli ci racconta i suoi anni universitari a Firenze: “Dopo il liceo sono andato a Firenze dove c’era la cattedra di Storia dell’arte di Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte italiani. A Firenze c’erano musei, c’era in qualche modo la bellezza istituzionale: il Bargello, gli Uffizi, Palazzo Pitti. Ho studiato lettere con indirizzo storico-artistico e mi sono laureato a 24 anni con Roberto Longhi, con una tesi sulla pittura ferrarese ed emiliano-romagnola del Quattrocento.” Roberto Longhi ha formato una scuola di studiosi straordinari, nomi che vanno da Francesco Arcangeli a Flavio Caroli. Figure di critici-scrittori che ci hanno lasciato tra le più belle pagine della prosa italiana del Novecento. Ma Longhi, per chi lo ascoltò e per chi lo lesse, per le generazioni di ieri e di oggi, fu anche un maestro di stile e di bellezza oratoria. Di arte e bellezza della parola. Di Roberto Longhi, anzi, si può dire ciò che Giorgio Caproni scrisse per Montale. Parafrasando il noto epigramma: “Ciascuno ha il suo Longhi/ ritagliato a misura./ Vale quello che vale/ secondo natura e statura.” Per il giovane Antonio Paolucci, questo maestro dal fascino stregonesco ha certo costituito la cifra fondante della sua voce, di oratore e di scrittore: “Roberto Longhi mi ha insegnato la conoscenza tecnica dell’opera d’arte e , insieme, la capacità che ha la parola di diventare mimetica della figura. Questo è un insegnamento prezioso: saper scegliere le parole che riescono a restituire a te stesso e agli altri la curiosità e la felicità che dà l’opera d’arte.”

L’insegnamento di Longhi lavora al fondo della capacità mimetica che Paolucci ha di filtrare il pulviscolo di materia biografica, umana, esperienziale e la percezione visiva dell’opera nei modi di un racconto: di una narrazione fluidamente orchestrata e calibrata su tempi narrativi, fitta di personaggi, di folle, di scenari storici, di luci e ombre, di oggetti. Come quando Paolucci proietta la sua fantasia verso l’ideale epoca storica, verso l’Heimat che il suo desiderio e il suo temperamento vorrebbero abitare: “Io tornerei a Roma nell’estate del 1508. In quell’estate succede che un papa che si chiamava Giulio II della Rovere chiama qui a Roma un ragazzo di venticinque anni, che era Raffaello di Urbino e un giovane uomo di trentatré anni che era Michelangelo Buonarroti e chiede a Raffaello di dipingere il suo appartamento privato e a Michelangelo di dipingere la volta della Cappella Sistina. Chissà com’era quell’estate del 1508? Chissà com’era Roma? Stava succedendo di tutto. Era già arrivato Lutero, si era fermato a Santa Maria del Popolo, veniva dal Nord, scendeva dalla Flaminia ed entrava dalla Porta del Popolo. Lutero si ferma nella chiesa agostiniana di Santa Maria del Popolo, i suoi confratelli lo ospitano e lui il giorno dopo comincia a girare per Roma, si fa in ginocchio la Scala Santa, visita le basiliche, si ferma davanti alle venerabili reliquie della cristianità, arriva a San Giovanni in Laterano dove c’era il governo pontificio. Arriva a San Pietro che era ancora quella di Costantino, l’antica San Pietro affrescata da Giotto. Come mi piacerebbe seguire i passi di Martin Lutero in quell’estate! Lui che comincia a pensare a Roma come alla nuova Babilonia, mentre i cardinali ricchissimi passano per la strade con la loro corte, con le loro amanti.”  E quando Paolucci ci descrive le sue fantasticherie di passeggiatore solitario, nella dorata solitudine delle gallerie vaticane, come un personaggio delle tele di Pannini, la nostra stessa fantasia non può che tornare alle passeggiate di Winckelmann e di Mengs al fianco del cardinale Albani, nelle belle serate romane in villa.

Questa dote di narratore di affreschi storici, di vite d’artista e di opere d’arte trasmutate in sostanza verbale, non permea solo la produzione saggistica di Paolucci. Certo, esempi memorabili li possiamo trovare nella Presentazione al catalogo della mostra dedicata alle botteghe fiorentine del Quattrocento, laddove ci accompagna nelle dinamiche dei rapporti maestro-allievo, “fenomeno complesso e affascinante che chiede di essere capito al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi romantici.”. Li possiamo trovare nell’attraversamento della poetica e della ritrattistica di Francesco Messina; e sono le pagine nelle quali lo sguardo di Paolucci si ferma a spiegarci la koinè plastica, le radici linguistiche della scultura italiana del Novecento: “I maestri prima citati hanno inteso la tradizione non come manuale d’uso e codice di riferimento ma come ‘lingua’; l’hanno assimilata e quindi usata con la naturalezza e con la libertà con le quali ciascuno di noi usa la lingua nativa. Questo ha permesso loro di affrontare la ‘Modernità’ senza impacci, senza piombo nelle ali. Come io che scrivo uso la lingua del Lanzi e del Vasari e non saprei, né vorrei, usarne altre, così i maestri della ‘linea italiana’ hanno usato la lingua di Arnolfo e di Donatello, del Laurana e di Desiderio essendo consapevoli, tuttavia, che con lo strumento di quella lingua, essi erano chiamati a raccontare la ‘Modernità’, a dar significato agli argomenti e ai miti del XX secolo, non già a rievocare il passato.” Lo stesso palpito quasi di stupore e il medesimo afflato che anima le pagine sulla scultura di Messina, o le altre di pregnante, partecipata intensità, dedicate alle gipsoteche delle Accademie (I gessi d’accademia, fratelli sfortunati), lo ritroviamo nel tenore e nel ritmo di conversazione di Arte e bellezza, la cui fluidità argomentativa raggiunge uno dei suoi apici nel capitolo quinto: Il museo ideale. Qui, Paolucci traccia la sua ideale collezione museale e tocca una sapiente narrazione delle immagini d’arte.” Nel descrivere Las lanzas, La ronda di notte, la Madonna di Senigallia, i Coniugi Arnolfini,  l’Olympia, Guernica, la voce di Paolucci – quella stessa voce che mi ha fasciato in un giorno di normalità quotidiana nell’altra stanza e simile ad un’elegante prosa di quarzo - diventa un perfetto, accordato, strumento di equivalenza verbale del fatto figurativo. Vibrano rinnovate in quella voce, le picche della guardia e il sedere del cavallo di Velazquez; l’anno 1642 nella vita di Rembrandt e “l’immersione dentro l’Umanità che è pensiero e azione, giovinezza gloriosa e malinconici pensieri, il mistero che incombe e la struggente bellezza del mondo dal quale è così doloroso staccarsi”; “la poesia della vita silenziosa” degli Arnolfini, il cui gesto di unione avviene negli amati “interni svelati di luce” e resi attraverso il “silenzio tutto nordico di questa camera foderata di legno”; l’Olympia sentita come idolo inaccessibile, enigmatica icona che “ci trasmette una specie di fascino ipnotico, di orrore sacro”, con “il gatto nero che si inarca sul letto come una presenza demoniaca” e “la serva negra che offre il bouquet di fiori”; il Picasso “sensuale e mediterraneo, quello dei ritratti di donne di tori, di centauri”, che riesce a fissare “lo splendore dell’eros, sulle donne, anche quando le dipinge con un occhio solo e tre nasi”; e, passando per la stupenda e spiazzante analogia tra l’Estasi di Santa Teresa di Bernini e i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, Paolucci infine, arriva a parlare dell’autore d’elezione, la ‘dichiarata passione’ per Raffaello Sanzio: “Con il suo genio è riuscito a metabolizzare e trasfigurare tutto. Ha preso forme consegnate dalla tradizione, il linguaggio degli italiani, e l’ha trasformato, l’ha fatto suo, inventando la lingua di Raffaello che è il punto apicale della nostra lingua artistica. […] Vorrei avere, di Raffaello, il ritratto di Baldassare Castiglione, che è la raffigurazione dell’intelligenza e del gusto alla stato puro.”

Mi chiedo spesso perché, di tanti autori che scopriamo e che ci raggiungono in modi inattesi, durante la nostra vita, solo nel caso di poche presenze ci assale il desiderio feroce di tornare a riascoltarne la voce. Di abitarla come un luogo senza i cui confini e humus sentiremo che l’esistenza stessa sarebbe infinitamente più povera. Sembra che nel dialogo con le opere di questi autori, si apra uno spazio immutabile, dove tutto rimane fissato al giorno e all’ora particolari del primo incontro, come le sei del pomeriggio nella scena del tè del Cappellaio Matto. Talvolta cerco di spiegarmelo riaprendo Proust, in particolare quel passaggio dove spiega che i “luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le strade, le case, i viali sono, ahimé, fugaci come gli anni.” Nel caso della voce di Antonio Paolucci, non mi è possibile ridurre l’impressione del primo contatto ad analisi razionale. Tanto la sua parola è coerente al pensiero, da cui è nutrita e strutturata, che finisce per costituire un’arte della conversazione e un abito della scrittura; un registro stilistico che appartiene al dominio tutto dell’onesto umanesimo italiano. Questa voce, figlia della lingua del Vasari e del Lanzi, accoglie gli oggetti delle belle arti, le opere e le vite degli artisti, fino ad assorbirle e metabolizzarle; per riconsegnarle infine, dopo un misterioso processo di trasformazione verbale, scomposte e rievocate in dettagli meravigliosi, animate da un palpito dello sguardo che è, prima di tutto, sentimento dello sguardo.

Antonio Paolucci, Arte e bellezza, collana orso blu, Editrice La Scuola, Brescia 2011, pp. 93, euro 10

                                           

29 maggio 2013

"San Giovanni Battista" di Caravaggio



di Gianni Quilici

Nella cripta del Duomo viene esposto fino al 18 agosto il “San Giovanni Battista” di Caravaggio, proveniente dalla Pinacoteca Capitolina di Roma. A parte la suggestione della cripta - tra affreschi (la resurrezione di Cristo), arcate e pareti di cotto e di tufo, gli stupendi libri su pergamena (con notazioni di musica e miniature) - ciò che colpisce profondamente è proprio il quadro di Caravaggio.

Quadro dipinto nel 1602, committente la famiglia Mattei, e qui non importa stabilire se il giovane ritratto sia San Giovanni Battista o il figlio maggiore dei Mattei. Ciò che stupisce è, innanzitutto, la grandezza realistica del quadro. Si provi a considerarlo nei dettagli, anche quelli più minuscoli: le unghie e le dita dei piedi, il pelo e le corna dell’ariete, le ombre e le luci e le loro sfumature.
E’ stupefacente l’esattezza, la cura, la verità del dettaglio. Come lo è, se consideriamo l’insieme, l’attimo in cui viene colto il giovane, che non è statico, ma dinamico. Caravaggio dipinge, infatti, con eccezionale veridicità il movimento dei muscoli nella torsione del dorso e nella postura delle gambe. Influenzato dal Michelangelo de “Gli ignudi”, come viene sottolineato nella mostra e in moltissimi libri di critica.

Michelangelo però trasmette una bellezza classica che ha ascendenze divine; Caravaggio scolpisce un adolescente, rifacendosi piuttosto a miti arcadici-pagani, rappresentandolo nella sua ingenua libertà. Una libertà naturale, poco consapevole, la libertà della nudità, del sorriso infantile, di puro e semplice desiderio di vivere, con quella sorta di autocompiacimento, di chi si sente oggetto di attenzione, l’attenzione del pittore.

Con in più un altro aspetto: la morbida reciprocità nell’abbraccio con l’ariete, simbolo della redenzione.

Un quadro scandaloso in tempi di controriforma, perché libero da ideologie. Lo scandalo di chi non vuole fare scandalo, ma essere se stesso fino in fondo, a costo di pagare prezzi alti, come a Caravaggio, nella sua breve vita, accadrà.


"Il San Giovanni Battista di Caravaggio"
Siena, Cripta del Duomo
17 aprile – 18 agosto 2013
Orari: tutti i giorni dalle 10,30 alle 19
Ingresso: € 8,00 esposizione temporanea e cripta sotto il Duomo
€ 5,00 ridotto per gruppi sup.15 pax
€ 3,00 scuole
€ 12,00 Opa Si Pass All Inclusive – ingresso in tutte le sedi del Complesso ed all’esposizione temporanea

articolo tratto da @LoSchermo

21 maggio 2013

"L'inviato della rete" di Alessandro Ticozzi



di Gordiano Lupi  
 www.infol.it/lupi


Un appassionato di cinema non resta indifferente di fronte alla quantità di materiale che Alessandro Ticozzi riesce a raccogliere nel suo ultimo libro. Piatto ricco mi ci ficco! Verrebbe da esclamare. 

E infatti si comincia con un’intervista inedita a Leonardo Celi e ad Andrea Pergolari che ha per tema l’attività brasiliana di Adolfo Celi e Luciano Salce, di certo non troppo nota. 

Tra le chicche del libro apprezziamo una rivalutazione del Jerry Calà regista, cineasta non molto considerato dalla critica alta, ma che resta un autore in grado di stupire. 

E poi ci sono i mostri della commedia all’italiana (e non solo): Nino Manfredi, Enrico Maria Salerno, Vittorio Caprioli, Gabriele Ferzetti, Antonio Pietrangeli (nei ricordi del figlio), Luigi Zampa, Ugo Tognazzi, Ettore Scola, Vittorio Gassmann (intervista alla figlia Paola) Bud Spencer, Steno (visto dal figlio Enrico Vanzina), Renato Pozzetto… 

Un elenco quasi interminabile. Una miniera di notizie, raccolte con passione e amore cinefilo, sistemate con cura certosina nello spazio di interviste ai protagonisti e – in mancanza del diretto interessato - a chi li ha conosciuti da vicino.

 Il libro parla anche di musica, molte interviste riguardano Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Mina e il Festivalbar. Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Milo Manara, Folco Quilici, Giovanni Spagnoletti (che riflette su Fassbinder), sono altre perle di un volume che farà la felicità degli appassionati.
 Se dobbiamo trovare un difetto a questo bel volume, sta nella mancanza di uniformità e nella estemporaneità della collazione dei singoli pezzi, disposti in sequenza senza un filo conduttore. 

Ma forse la raccolta vuol soltanto seguire il corso delle passioni di un autore che si dimostra grande esperto di cinema italiano, soprattutto commedia e pellicole d’autore, ma anche di musica popolare.
Il materiale raccolto da Ticozzi nel volume è stato tutto pubblicato in rete su riviste e media come Dedalus, News Candiani, Quarto Potere, Radiophonica, Spettacoli News e Associazione Unis@und. L’autore è laureato al Dams di Padova e va ricordato per un brillante saggio cinematografico intitolato L’Italia di Alberto Sordi (2009). Ha pubblicato anche il romanzo breve Diario di un cinemaniaco di provincia (2010). Il suo sito ufficiale è www.alessandroticozzi.it.

Alessandro Ticozzi. L’inviato dalla rete
Senso Inverso Edizioni – Euro 17 – Pag. 320

"Naturalmente" rivista culturale



di Ninuccio Aiulla

Bella e difficile 
l’avventura  di “Naturalmente”


Nonostante i corposi aumenti del prezzo della carta e dei costi tipografici, non cedono. Malgrado i consistenti, a dir poco, rincari delle tariffe postali, tengono duro. Raro esempio, insieme, di solida tempra e tenacia, testardaggine e lucida follia, le Riviste culturali, una particolarissima biodiversità intellettuale in questo Paese sempre più ignorante, illetterato e omologato, resistono. Sia pure a fatica, magari con non poche sofferenze (economiche, organizzative, di distribuzione…), non mollano, coscienti dell’importanza del proprio ruolo: essere delle vere e proprie “cassette degli attrezzi” per capire quanto ci accade intorno, posizionarci, trovare autonomamente direzione e significato. Insomma, senso.
Certo, sono sempre meno numerose. Tra le sopravvissute, spicca l’esperienza di “Naturalmente” sottotestata “Fatti e trame della scienza”: un unicum, tanto per il suo particolare campo d’interesse, una divulgazione scientifica ‘alta’, quanto per la su longevità, oltre un quarto di secolo di vita..

Appena oltrepassato l’anno canonico delle nozze d’argento con una significativa base di lettori affezionati e fidelizzati distribuiti lungo tutto l’arco della Penisola, la rivista pisana continua, con l’imperterrito coraggio della ragione, a riproporre le sue tradizionali tematiche:
la formazione e la promozione della cultura scientifica nella scuola e nella società con una particolare sensibilità per le questioni ambientali ed ecocompatibili;
un impegno intelligente contro la sua marginalità storica;
la valorizzazione dei legami tra le scienze e gli altri campi del sapere da scoprire, riscoprire e rendere visibili;
la conseguente attenzione per la didattica delle scienze e per tutto quanto possa contribuire a renderne fruibili, senza banalizzarli, i contenuti.
Obbiettivi troppo ambiziosi?
Noi pensiamo di no! E, per favorire l’ampliamento dei Lettori e degli estimatori di questa bella avventura intellettuale, forniamo il sommario del nuovo numero di “Naturalmente”, il primo del 2013, anno XXVI.

Stefania Consigliere, La costruzione di un umano. Le teorie implicite e l’ordine del mondo.
Stefania Consigliere, L’immagine della fisica. Una risposta a Elio Fabri.
Luciano Luciani, Alice Hallgarten Franchetti. La piccola Signora delle grandi cause.
Elio Fabri, La candela.
Fabrizia Gianni. Gazebo. Le mangrovie, gli anfibi del regno vegetale.
Simone Farina, I fossili, la chiave del presente per conoscere il passato: La storia recente del Monte Pisano.
Brunella Danesi, Charles Darwin razzista? Note a margine del saggio La Sacra causa di Darwin, lotta alla schiavitù e difesa dell’evoluzione.
Gianluca Gilardoni, Oli essenziali ed aromaterapia: un approccio scientifico.

15 maggio 2013

“Leggere è un rischio” di Alfonso Berardinelli



di Gianni Quilici

Alfonso Berardinelli è un critico che non si nasconde, che ha il gusto delle parole “vive” e dei concetti “sorprendenti”, che colpiscono intellettualmente e che, talvolta, illuminano per la limpidezza e finezza.

Un “vero critico”  scrive Berardinelli in un passo, “è un “lettore, uno studioso, un filosofo, uno scrittore”. Definizione che può definirlo
Berardinelli, infatti, è’ un lettore, perché si percepisce in lui il piacere della lettura; uno studioso, perché contestualizza culturalmente; è un filosofo, perché sottende una visione del mondo; uno scrittore, perché la sua critica può essere letta come una narrazione.

Si avvicina al “critico militante”, senza volerlo forse essere fino in fondo; ed è sicuramente un “critico fraterno”, riprendo una categoria adoperata da Franco Cordelli per gli scrittori, perché partecipe, vicino al lettore.

Ed è tutto questo, perché assume come metodologia critica quella apertura intellettuale, che viene da una libertà di pensiero e di sguardo. Infatti dopo aver “ripassato” criticamente le varie modalità di lettura, dal progetto strutturalistico e semiologico al modello ermeneutico e alla teoria della ricezione, Berardinelli, individuando in Montaigne uno dei primi lettori “senza metodo”, “l’inventore del saggio moderno, informale e personale”, conclude con una osservazione molto penetrante e insieme di naturale buon senso.
Per essere un iperlettore, il critico deve anche restare semplice lettore, lettore senza difese, senza pinze, forbici e bisturi, lettore ricettivo che accetta i rischi della lettura, sospende l’incredulità e crede, almeno finché legge, a quello che legge”.
Approccio verso un materiale (il libro), che vale non solo per qualsiasi altro critico di altra disciplina, ma anche per uno psicoanalista, per un educatore, per un politico, per una qualsiasi persona nel suo approccio con il pianeta.  

“Leggere è un rischio” è un libro di piccole dimensioni, che raccoglie una serie di articoli-saggi, che hanno il merito di proporre una serie di spunti innumerevoli, senza che siano (tutti) tra loro organicamente legati.
Questi spunti sono: 1) il rischio della lettura e della critica 2) il critico e fare critica; 3) la morte della poesia; 3) Giorgio Caproni.

E’ un libro; potrà diventare possibili altri libri. Un libro di “lavori in progress”. Oltre alle qualità dette, anche questo è un suo pregio: essere raccolto e aperto. Questo se vogliamo può essere anche il suo limite provvisorio.

Alfonso Berardinelli. Leggere è un rischio, Pag 66. gransasso nottetempo. Euro 6.00- 

09 maggio 2013

"A proposito del Fare l'amore e dell'Amore" conversazione su Face Book



foto di Cartier-Bresson

Da un post di Gianni Quilici, una discussione su Face Book, da cui abbiamo estrapolato alcuni interventi, lasciando la forma inalterata,che dà anche il senso dello strumento, in cui si scrive, in genere, velocemente e  curando sbrigativamente gli aspetti formali.  




  
Gianni Quilici
Mi scrisse un'amica:
"Fare l'amore è una struttura di architetture mentali"
Mi piacque "architetture mentali",
perché dà un ordine a ciò che può apparire
molto disordinato.
Aggiunsi a questo il puro desiderio fisico,
che pure presenta architetture mentali,
ma che, in un certo senso, le travolge
elucubrando su due direzioni:
l'animalesco...il desiderio più fisico che mentale;
il perverso...l'ideologia applicata al sesso...

Patrizia Manganaro
...l'animalesco e il perverso convergono nello stesso elemento, in un tutt'uno desiderio fisico e ideologia applicata al sesso...è un'alchimia complicata da scindere..sarebbe come voler decodificare un geroglifico, ma questa ultima operazione è più semplice che scavare nell'istinto umano...fare l'amore non è come costruire una palazzina...è attrazione indomita,difficile da controllare,è istinto animale, non si decide come farlo,viene da sé,mentre lo si fa,viene naturalmente, avviene nell'impeto, nella violenza, nella dolcezza della passione, nel trasporto verso l'infinito piacere,nella follia dell'abbandono più totale, non si può comandare, non si può costruire, è involontario il desiderio sessuale...non mi piacciono le architetture mentali,quantomeno voglio credere che si tratti di strutture involontarie...voglio credere che fare l'amore sia qualcosa legato all'essere animalesco e puro istinto, piuttosto che regolamentato da codici artificiosi...a meno che non lo si faccia l'amore,per necessità, per opportunismo, per lavoro, per compromesso...perché se anche si facesse per puro sfizio,come può partire il motore del desiderio se non c'è un'attrazione irrefrenabile per l'altro/a? ...non ci posso credere che ci sia una costruzione alla base del fare l'amore..questo pensiero mi atterrisce...

Isabella Eugenia Monti
...definire l'amore...è di per se restrittivo...esula dal suo senso compiuto...che fugge dalla realtà nel voler trovargli una seppur banale e logica menzione...io direi che l'amore è come una bolla di sapone...appena la sfiori scoppia...ma ti rimane l'illusione di averla vista volare...e il desiderio di rincorrerla...

Anna Comparini
Vedi comunque i commenti? Tutti di donne...sarà un caso???:-)

Isabella Eugenia Monti 
..è solo perché a gli uomini non piace parlare d'amore..loro preferiscono semplicemente ...farlo..

Patrizia Manganaro 
...su su...via tutti i codici...se ne parla, si fa eccome se si fa, è diabolico perché ci piace metterci anche l'ingegno, basta che si faccia...pensiamo da uomini...

Davide Pugnana
Isabella Eugenia Monti Patrizia Manganaro mi trovo a dover spezzare una lancia a favore del coté maschile, ridotto a mera pulsionalità elementare. Nella storia della cultura occidentale, i più grandi trattati sull'amore - parlo di contributi tali da farsi affondi svisceranti di questo complesso sentimento umano - sono stati elaborati da penne 'maschili': il "Fedro" di Platone; l' "Ars amatoria" di Ovidio; il carteggio tra Abelardo ed Eloisa; gli "Asolani" di Bembo; fino a quel capolavoro assoluto, che prefigura tutta la psicoanalisi novecentesca, che è il "De l'amour" di Stendhal, un classico del pensiero mai pienamente conosciuto, e poi certamente Freud, anticipato da alcune pagine di romanzo di Proust.
Anche a livello di finzione narrativa, tra poesia e romanzo, gli esempi di comprensione dell'amore non mancano. Faccio solo l'esempio di psicologie femminili del romanzo tra Sette e Ottocento, messe davanti all'amore (ad un amore tutt'altro che oleografico), rese memorabili da scrittori di sesso maschile: Emma Bovary di Flaubert; Anna Karenina di Tolstoj; Moll Flanders di Defoe; la stessa Nastasia Filippovna dell'Idiota di Dostoevskij; la Pamela e Clarissa di Richardson.
E sono esempi narrativi che trascelgo dimenticando il mio gusto personale; per mostrare come in ognuno di essi, in modi diversi, la polarità maschile figura come anello debole, ma non per femminismo o sadismo.
Per un'altra ragione più semplice. E' vero che l'amore è una condizione umana ribelle a qualsiasi definizione; che per nostra fortuna ne genera alcune che nutrono da secoli, dai lirici greci a Neruda, metafore poetiche di straordinario fascino; ma la vera radice dell'indefinibilità dell'amore è che l'amore non ha "genere" - non è declinabile né al maschile né al femminile. Uomini e donne si misurano con questa dimensione in egual maniera; tutt'al più a fare la differenza è la codificazione storico-sociale, che di età in età ha riscritto un 'galateo' di norme, di ruoli, di leggi, di divieti e proibizioni. Freud dirà che l'amore è un portato di civiltà, un codice che impariamo stando al mondo, mentre il primo tempo dell'amore, ciò che lo precede, è l'odio.
Ma qui non vogliamo fare dell'antropologia o della psicoanalisi in pillole. Più semplicemente. se andiamo all'etimologia della parola 'amore' possiamo coglierne il senso: amore significa "allontanamento dalla morte". La natura ci ha attrezzati anche a questo. Mi viene in mente il poeta Auden e quel suo un grido che, ancora oggi, non ha trovato risposta: la verità, vi prego, sull'amore.

Patrizia Manganaro
caro Davide Pugnana,
è sempre un gran piacere seguire le tue disquisizioni, le tue erudite argomentazioni, e ne resto sempre ammirata, quindi non vorrei mai dissentire ,ma, c'è una radice profonda di maschilismo in quel che documenti, apprezzabile peraltro poiché per fortuna gli uomini hanno scritto sull'amore...ma in epoche lontane,l'epoca di Ovidio e di Platone, quando appunto la donna non aveva la facoltà della scrittura come in tempi più recenti...quindi grazie al cavolo che hanno scritto gli uomini, di amore e di qualsiasi altro argomento...e non tutti si chiamavano Stendhal o Freud,Ovidio o Platone...c'erano,come ci sono sempre stati, in ogni epoca,uomini il cui coté maschile è sì, dobbiamo dirlo, ridotto a mera pulsionalità elementare, proprio come dici tu...perché caro, e di questo son convinta, nessuno può essere, più di una donna, sessualmente demoniaco, e se ai tempi di Ovidio avessero liberato gli strumenti nelle mani delle donne, altro che ''Ars amatoria'' e molto altro avremmo avuto da leggere, ammirare e magnificare ai giorni nostri, di scritti femminili e demoniaci del passato..solo che le donne soltanto in tempi più recenti si sono potute esprimere, e nella piena libertà, e ne hanno scritti di saggi in materia,che nulla hanno da invidiare a Ovidio e a Platone...ritornando sempre poi all'origine del post di Gianni Quilici, che tratta del fare l'amore, non dell'amore inteso nella sua espressione più platonica...e chi è più demonio di una donna,in tal caso,nel sapere fare l'amore?...se solo avessero potuto scriverne anche loro dall'antichità....pensa che tesori letterari ci saremmo potuti godere,e avresti potuto citare, ai giorni nostri...

Cristina Cri Caturegli
Se fare l'amore è una struttura di architetture mentali non è fare l'amore ma fare ginnastica o chissà cos'altro.....fare l'amore è fluire.....o non è amore.

Fortunata Romeo
Fare l'amore è aspirazione a destrutturare... noi stessi, le nostre idee, i nostri confini.. poi spesso ci ritroviamo vincolati da strutture e schemi rassicuranti.. ma si può con coraggio entrare nel caos..per un tempo breve, attraverso fluire e dividere..

Davide Pugnana
 Cara Patrizia Manganaro,
ti ringrazio per l'attenzione rivolta al mio scritto e per la risposta ampia e articolata, il cui tono increspato e quasi in falsetto mi riescono particolarmente graditi. Speravo, infatti, in un controcanto dialettico che, attraverso lo sguardo critico dell'altro, mi desse la possibilità di recuperare alcuni nodi concettuali rimasti interrati nel mio discorso. Provo a definirli meglio.
La linea degli esempi letterari canonici - la linea dei "maschioni" - è parte di una scelta che ho cercato di rendere mirata e stringente al tema della discussione, partita dalle parole di Gianni. Le "architetture mentali" dell'amore, in questo caso, sono seguite come cattedrali verbali. E' solo una possibile angolazione tra le molte possibili, che non ha la pretesa di esaurire la vastità del tema. Né voglio qui discutere circa le ragioni storico-sociali che hanno declinato questa tradizione di scrittori tutta sotto il segno maschile. Lo ha spiegato perfettamente e su tutti i livelli Simone de Beauvoir nel "Secondo sesso".
Il mio ragionamento partiva da un altro assunto: la capacità della scrittura e della speculazione sull'amore di spogliarsi dalle restrizioni di "genere"; di uscire dal circuito maschile/femminile per farsi universale meditazione. Gli scrittori che ho portato a campione - Platone, Ovidio, Orazio, Stendhal, Tolstoj, Proust ecc - sono esempi massimi di come la riflessione sull'amore si sia svolta senza discriminazioni, perché orientata a considerare una condizione in sé, che riguarda tutti - ed è quella che sa farsi meditazione profonda e viscerale, opposta a quella, parallela e bidimensionale, che associa all'uomo il ruolo di machista seduttore, schiavo della propria fisiologia, e alla donna quella di vittima, di agnello sacrificale, di femme fatale o di 'demoniaca', di biblica Eva punita nei secoli. Nulla di tutto questo passa nei libri citati e li ho scelti proprio per questa ragione.
La questione è, invece, quella di un superamento di queste 'maschere', fabbricate dalle società ad assetto maschilista (De Beauvoir docet), a opera di questi scrittori, per una comprensione più larga e profonda dei meccanismi interni dell'amore. E questo avviene a partire da uomini che hanno saputo uscire dal loro 'genere' (fatto di gusti, miti, mentalità, proiezioni ecc) per sposare entrambi gli sguardi.
 Ecco il cuore del mio discorso. Non due sguardi (sul mondo, sull'amore) l'uno contro l'altro armato; ma la loro sintesi. Nel momento in cui Stendhal scrisse il De l'amour, o Flaubert entrava nella mente di Emma, non pensavano come 'uomini', come 'maschi', ma come esseri umani, menti, denudati dalle categorie e messi davanti al fenomeno 'amore'. E se andiamo a leggere le lettere di Eloisa o ascoltiamo la parola delle poetesse del Novecento, pensi che potremo riconoscerne davvero la cifra di genere? Se togliessimo dalle copertine i nomi degli autori, credi che saremo in grado di stabilire se ciò che abbiamo sotto gli occhi sia di tono maschile o femminile? Io faccio fatica, sia per i temi che per lo stile. Nella cattiva letteratura senz'altro la scissione è più marcata e mediocre. Ci sono testi di Alda Merini, o di Amelia Rosselli, o di Antonia Pozzi che hanno un midollo virile di straordinaria forza; e all'opposto , ci sono testi di Leopardi, di Petrarca, di Garcia Lorca che hanno una visione delle cose dal palpito muliebre; ci sono composizioni e pennellate e chiaroscuri di Artemisia Gentileschi che si fatica ad attribuire a mano femminile. Forse che il tratto, lo stile, di queste donne dovrebbe essere svenevole, languido, demoniaco? E quello degli uomini saldo, falllico, aspro? Ma davvero siamo ancora a questa frattura? Ma è' questa dualità che va superata con il suo corollario di aggettivi e gradazioni (femminile, femminuccia, femminista, maschilista ecc). In quell' "interno paese straniero" che chiamiamo inconscio tutto questo salta, non esiste.
Il mio discorso era dall'interno, non dall'esterno delle costruzioni. Un amore 'al maschile' e un amore 'al femminile' è ormai una mentalità da medioevo globalizzato. E' proprio rifiutando in toto questa eredità pre-fabbricata, abolendo gli -ismi, che il pensiero può attualizzare e rinnovare una questione come l'amore.
La lancia che spezzo, quindi, non è in direzione di una celebrazione del coté maschile, ma dell'assenza di qualsiasi coté sessuale, della loro frantumazione in testi che hanno saputo far breccia nelle "architetture mentali" per aggiungere livelli di comprensioni sempre più profondi. Ogni gerarchia tra mano maschile e mano femminile non ha più ragione d'essere, in questa prospettiva di pensiero. Ogni libro - saggio, trattato, romanzo, canzoniere - sono il portato di una tradizione, maschile certo, ma che ha saputo farsi 'non-maschile' bensì a-sessuata e con la quale, volente o nolente, dobbiamo misurarci, perché sono assimilati alla nostra civiltà; sono strutture dell'immaginario che dobbiamo conoscere per distruggere in noi cliché come il demoniaco femminile e il gallismo maschile. L'errore è considerare un bacino libresco quello che invece è un patrimonio profondamente impastato con la vita.

"La clandestina" di Lars Gustafsson

di Gianni Quilici
 
Un pubblicitario di successo 59enne
si innamora della sua domestica,
una clandestina colombiana, magra e non bella,
riceve la notizia della morte della madre,
si incontra con i rappresentanti
di una repubblica  separatista...

Protagonista un cittadino del mondo,
un mondo fatto più di reti che di corpi:
aeroporti, computer, email, cellulari, powerbook
in cui le storie e i legami
hanno il pensiero dell'attimo,
ma poco fanno storia e corpo. 
 
Romanzo in cui il minimalismo delle storie
è minimalismo dei sentimenti
è fugacità e dissolvenza.
Tutto esiste, tutto sparisce.
Per il protagonista "il suo posto era lì, in quell'attimo.
In una vita non esistono altri luoghi che gli attimi"
 
Lars Gustafsson. La clandestina. Iperborea-

07 maggio 2013

"Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti" a cura di Dominique Païni.



di Gianni Quilici
La mostra di Ferrara su Michelangelo Antonioni suscita il desiderio di ri-vedere  i suoi film. Perché Antonioni è un regista dallo stile inconfondibile, che ha  contagiato, influenzato  non solo i registi italiani, ma internazionalmente. Si pensi a registi come Wenders, Jarmush, Wong Kar-wai, Tsai Ming-liang. Perché Antonioni può apparire, anche a chi lo ha studiato a lungo e a fondo, un soggetto ancora misterioso o, comunque, una miniera da cui attingere visioni, linguaggi, idee cinematografiche.
La mostra di Palazzo Diamanti queste suggestioni le può provocare sia allo studioso (anche per i materiali inediti) che al neofita. 

Innanzitutto è ben strutturata. Sono una decina di sale aperte che si susseguono una dopo l’altra, stanze raccolte con una discreta illuminazione, che favoriscono la concentrazione e una visione confortevole. Con una sorpresa: la mostra continua uscendo su un prato, dove è stato allestito un campo da tennis simile a quello di Blow up, da cui si accede alle ultime due sale, dove è esposto l’ultimo Antonioni, forse le uniche un po’ sbrigative.
La mostra è articolata in 11 percorsi: Nebbie, Deserti, Realtà, Lucia Bosè, Scomparse, Monica Vitti, I colori del mondo e dei sentimenti,  Simulazioni, La montagna incantata, Altrove, Identificazione di un Maestro, che abbracciano l’intera opera di Antonioni: da Gente del Po a Lo sguardo di Michelangelo, sottolineandone gli intrecci, le svolte linguistiche, ambientali, tematiche.

Proviamo a percorrerla come se fosse un blog di immagini. Ecco dunque l’esistenza dura e poverissima, ma autentica, di pescatori-contadini, che vivono sulle sponde del Po e la noia, gli amori, il nichilismo della borghesia del dopoguerra; la nebbia metaforica della nativa Val Padana e la condizione di estraneità all’ombra dei grattacieli della stagione del boom; la bellezza conturbante di Lucia Bosè e la bellezza solare e sfuggente di Monica Vitti; i parchi londinesi verdeggianti e sospesi da un fremito di mistero e il fascino silenzioso dei rilievi delle Montagne Incantate; la nudità polverosa e soffocante dei deserti africani e quella avventurosa e aperta all’utopia dei deserti americani; la bellezza adolescenziale e selvaggia di Maria Schneider e quella matura e enigmatica di Vanessa Redgrave; l’urlo di impotenza di Jack Nicholson e lo sguardo febbrile di David Hemmings; la pallina da tennis che si vede-non si vede come ambiguità del reale e la villa che salta in aria, ancora e ancora in un’orgia di esplosioni come rifiuto e rivolta.

Ma tutto quanto lo vediamo attraverso diversi strumenti e molteplici linguaggi, che si integrano con una loro specificità.
Materiale centrale, naturalmente, le video-sequenze dei film, che colgono gli snodi essenziali e utili, si siano viste o meno le pellicole, per calarci nelle atmosfere antonioniane.
Ecco allora le sceneggiature originali, battute a macchina, cancellate con correzioni a mano;  ecco libri e oggetti personali del regista (la Nikon, la cinepresa, album di musica), ecco i  ritagli di articoli di riviste o di quotidiani dell’epoca, con passaggi, a volte, evidenziati a penna, premi ai film e alla carriera.
                                                       
Ecco le lettere e cartoline di amici, tutte interessanti, di Fellini e Visconti, di Sciascia e Calvino, di  Tarkovskij e Barthes, di Mastroianni e Delon, di Flaiano e Fortini. Per esempio Federico Fellini, dopo aver visto Professione reporter, scrive ad Antonioni: «Dopo aver passato due ore in tua compagnia ed aver vissuto come in sogno le tue angosce voglio dirti, anche rozzamente magari, che dei tuoi film che ho visto, questo mi sembra, il più compiuto, il più puro, il più essenziale. Sincero fino a farmi provare imbarazzo»
E Roland Barthes. “Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità”  O Umberto Eco, a proposito della mancata trasposizione di In nome della rosa  da parte del regista ferrarese, mette “subito in chiaro” che “io non sento risentimento ma al contrario molta gratitudine per l’entusiasmo con cui ti eri buttato sul mio libro. So benissimo che se non ce l’hai fatta non è stato per colpa tua e sarei stato felice se la cosa fosse andata in porto”. Oppure la lettera affettuosamente e sottilmente critica di Franco Fortini a proposito sia del personaggio di Giuliana in “Deserto Rosso”,  non definito dal punto di vista sociologico, sia del filo narrativo, che trova inconsistente.

Ecco i quadri esposti nella Mostra, che hanno tutti una relazione precisa  con immagini di film: dalle scenografie metafisiche di De Chirico, al quadro “Tutti morti, dello stesso anno” di Mario Schifano, che Antonioni capovolge da “tutti morti” in una immaginaria copulazione collettiva in Zabriskie Point; dal vitalismo caotico di Pollock alle nature morte di Morandi; dall’astrattismo colorato di Rothko alle visioni disumanizzate di Mario Sironi.
Ecco le numerosissime foto di scena compresi gli scatti di Bruce Davidson, della agenzia Magnum, la video installazione dell’artista francese Alain Fleischer, montaggio di fotografie su Lucia Bosè del Fondo Antonioni, scattate durante le riprese di Cronaca di un amore e La signora senza camelie;  i provini realizzati a Monica Vitti per Il deserto rosso, durante i quali il regista  guida l’attrice attraverso innumerevoli metamorfosi, giocando con abiti e acconciature diverse.

C’i sono comunque dei fili comuni, che percorrono l’intera mostra: l’inquietudine espressiva che porta il regista ferrarese a sperimentare continuamente. Abbiamo così la ricerca cromatica-narrativa sul bianco e nero prima e sul colore dopo, con lo scopo, sempre, di sottolineare con forza la nettezza dei contrasti. Abbiamo con Il mistero di Oberwald   un regista cinematografico che realizza, per la prima volta, un film usando  le tecnologie video della televisione. Infine abbiamo  l’Antonioni pittore che da piccolissime opere ad acquarello realizza enormi ingrandimenti fotografici, che diventano paesaggi del sentimento.
E c’è, infine, l’inquietudine esistenziale, che non è soltanto l’Antonioni maestro riconosciuto unanimemente come sottile esploratore dell’animo umano, che fa di lui  un regista moderno e internazionale; c’è pure l’Antonioni interessato ad altre terre e culture: dalla cultura pop nella Londra di metà degli anni ’60 alla rivolta politico-esistenziale negli USA fine anni ’60; dalla Cina della rivoluzione culturale cinese all’India del suo affascinante misticismo religioso.  

da Loschermo.it 




"Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti"
Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al 9 giugno 2013
a cura di Dominique Païni
Evento organizzato dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna.



05 maggio 2013

“L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri” a cura di Diego Mondella


2012-foglio 70100 novembre2:Layout 1di Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Diego Mondella raduna un gruppo di autori (Della Casa, Giusti, Zagarrio, Spagnoletti, D’Agostini, Zanello, Chiesi, Cotroneo, Caldiron, Rossi, Monetti, Marelli, Savatteri, Dottorini, Cairola, bajani,Abbate) per realizzare un’antologia di scritti finalizzati a ricordare Elio Petri, cineasta impegnato ingiustamente sottovalutato dalla critica.
Ne viene fuori un buon testo, con tutti i limiti dei lavori antologici, poco uniformi e frammentari, ma che ha il suo punto di forza in un interessante apparato di interviste agli amici e in una stupenda conversazione tra Elio Petri e Dacia Maraini. Degni di nota il capitolo Eliopensiero e una completa filmografia. Il libro ci fornisce lo spunto per parlare di un regista da noi sempre amato e sul quale abbiamo scritto qualcosa a proposito di Un tranquillo posto di campagna, Il maestro di Vigevano e Todo modo.
Elio Petri (Roma, 1929 – 1982), cinefilo sin da giovane, appassionato frequentatore di cineclub, comincia a occuparsi di politica seguendo le convinzioni della sinistra parlamentare. Unisce le due passioni quando assume l’incarico di critico cinematografico per L’Unità e subito dopo inizia una fruttuosa attività di sceneggiatore e aiuto regista a fianco di Giuseppe De Santis. Il soggetto di Roma ore 11 (1952) deriva da un’inchiesta giornalistica del futuro regista, convinto sostenitore del neorealismo nel periodo 1940 – 1960, poi transfuga verso un cinema meno sovietico e più attento alle esigenze del pubblico. Ricordiamo Elio Petri sceneggiatore di lavori popolari come L’impiegato (1959) di Gianni Puccini e I mostri (1963) di Dino Risi. La prima prova dietro la macchina da presa è L’assassino (1961), un thriller anomalo che racconta l’omicidio dell’amante di un antiquario e la relativa indagine poliziesca, ma il vero scopo del regista è quello di analizzare la mediocrità umana e l’ambiente in cui viviamo.
Il debutto di Elio Petri mostra un cineasta padrone del mezzo espressivo dopo un apprendistato fatto di documentari, critica, sceneggiatura e aiuto regia. Regista impegnato ma votato ad accettare le regole produttive, consapevole che si possa far trapelare messaggio e ideologia anche attraverso la struttura di un giallo. Il suo tema portante sarà quello dell’alienazione dell’uomo contemporaneo all’interno di una società che uniforma e banalizza.
I giorni contati (1962) è ancora più esplicito nel narrare la voglia di fuga dall’omologazione, da un quotidiano sempre uguale che annichilisce e distrugge la creatività. Il protagonista scopre sin dalla prima sequenza di avere i giorni contati perché vede un morto in autobus. Elio Petri subisce l’influenza della nouvelle vague, ama raccontare i problemi che affliggono la società contemporanea, gira anche cinema di genere ma solo per trasmettere un messaggio politico. Da questo film Petri comincia a fare uso del piano sequenza secondo la lezione di Antonioni, modificando il montaggio e inserendo nuovi elementi visivi e sonori che rappresentano la sua cifra stilistica. I tempi cominciano a essere dilatati, i gesti quotidiani del protagonista sono ripresi con attenzione. Il maestro di Vigevano (1963), interpretato da Alberto Sordi, tratto da un romanzo di Mastronardi, è un buon lavoro commerciale, come Peccato nel pomeriggio, episodio di Alta infedeltà (1964), girato con Salce, Monicelli e Rossi. La decima vittima (1965) è cinema fantastico allo stato puro, sceneggiato da Flaiano, Guerra e Salvioni sulla base del racconto di Robert Sheckley, girato all’Eur e interpretato da un ottimo Marcello Mastroianni. L’alienazione è sempre in primo piano in una società del futuro dove il potere mediatico mette in scena squallidi giochi al massacro. Petri comincia a collaborare con Gian Maria Volontè, che diventa il suo attore di riferimento a partire da A ciascuno il suo (1967), una pellicola contro la mafia tratta dal romanzo di Leonardo Sciascia. Ugo Pirro diventa il suo sceneggiatore di fiducia e ne condizionerà la poetica futura. In questo periodo Elio Petri studia la condizione dell’uomo nella società contemporanea, anche se nella pellicola Un tranquillo posto di campagna (1968) la riflessione è limitata alla figura dell’artista che non trova tranquillità nel mondo circostante. Altri temi prediletti da Petri sono il rapporto tra uomo e autorità, configurata nel datore di lavoro che aliena l’operaio e lo conduce verso la follia, ma anche nella giustizia che assolve sempre se stessa. La vita politica italiana diventa il nodo centrale del suo cinema e una visione critica del sistema accompagna uno stile che diventa sempre più ermetico.
Petri gira pellicole importanti come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – Oscar per il miglior film straniero – e La classe operaia va in Paradiso (1971) – Palma d’Oro a Cannes. Le pellicole del registra romano sono raffinate, colte, ridondanti e fin troppo intellettuali, ma riescono a mantenere un equilibrio grazie alla valida denuncia sociale e alla recitazione di Gian Maria Volontè. La denuncia antigovernativa di Elio Petri perde forza con gli ultimi lavori, a partire da La proprietà non è più un furto (1973), film molto politico, confuso e di complessa interpretazione, sia per lo stile con cui è girato che per una recitazione teatrale molto sopra le righe. Todo modo (1976) è la trasposizione di un altro romanzo di Sciascia, ma è girato secondo un registro grottesco che ne stempera la forza polemica di denuncia nei confronti del potere. Ricordiamo Ciccio Ingrassia in un’intensa parte drammatica e Gian Maria Volontè nei panni di un uomo politico molto simile ad Aldo Moro. Gli ultimi lavori di Petri sono il televisivo Le mani sporche (1979), tratto da un lavoro di Sartre, e Buone notizie (1979), un atto di accusa intriso di pessimismo contro il potere dei media.
Il cinema di Elio Petri è stato spesso accusato di eccessivo intellettualismo, di ermetismo e di scarsa concessione allo spettacolo per inseguire un discorso politico. Resta comunque un cinema importante in un panorama di scarso impegno che caratterizza i nostri anni Settanta cinematografici, perché ha saputo mettere il dito nella piaga e denunciare i mali di un Paese ostaggio della mafia e di una classe politica corrotta. Non solo. Si tratta di un cinema ispirato da molti autori del teatro dell’assurdo, gente come Ionesco, Beckett, Borges e Sartre, caratterizzato dal suo essere antirealista, se non addirittura iperrealista e surreale.
L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri. A cura di Diego Mondella. Pendragon – Euro 16 – pag. 280
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