26 febbraio 2012

"Cinema d'autore degli anni sessanta" di Emiliano Morreale


di Mimmo Mastrangelo

Nel dubbio (ma non è un dubbio) che per il cinema italiano non torneranno più i fasti di un tempo, diamo per certo che gli anni sessanta per la nostra cinematografia furono un momento felicissimo. Uno stato di grazia non solo per merito della commedia italiana dei Monicelli, dei Germi, dei Risi, ma pure per quei film “autoriali” che, come avvenne in Francia per la Nouvelle Vague, andarono a connotarsi con la figura e la soggettività del regista.

Sono di quel periodo l’affermazione, tanto in Italia che all’estero, di Pasolini, Olmi, Fellini, Antonioni, Bertolucci e Bellocchio, mentre nel caso di Visconti con l’uscita de suo “Gattopardo” (1963) ci fu una vera consacrazione.

Attraverso la lettura di sei film realizzati dai regista sopramenzionati, il critico Emiliano Morreale con il saggio “Cinema d’autore degli anni sessanta” (Editrice Il Castoro) è andato a rileggere quell’età dell’oro alle luce anche delle forti mutazioni che ci furono nella società italiana e nei gusti del massiccio pubblico delle sale.

Per dare un’idea di quel “mutamento epocale” Morreale rileva il ruolo avuto dal cinema d’impegno nel definire la modernità di uno stile e l’identità collettiva tra i suoi spettatori. Rispetto alla Nouvelle Vague dei Godard, dei Truffaut, dei Chabrol, al Novo brasiliano, al Free cinema inglese e alla Nova Vlna cecoslovacca, il cinema autoriale di casa nostra si presentò senza uno specifico marchio e ciò perché dietro a Fellini, Pasolini, Bertolucci e gli altri non si costruì nessun discorso critico-teorico e poi le loro opere, in diversi casi, vennero considerate come un’ estensione della prestigiosa ondata neorealista.

Morreale puntualizza inoltre le svolte linguistiche che segnarono una via italiana alla moderna cinematografica e la brevità della stagione del cinema d’autore, la quale già alla metà del decennio interessato cominciò a cedere il passo ad una commedia dal format più leggero e ad un cinema tendenzialmente politicizzato nato sulla spinta delle proteste di piazza.

“Il cinema d’autore – scrive Morreale – non conoscerà mai più incassi ed un interesse del pubblico paragonabili ai primi anni sessanta e, d’altro canto, sarà sempre meno interessato a un dialogo diretto con società”.

Ma quali sono i film che vengono analizzati nel saggio dal critico siciliano e che lasceranno affermare il regista in un “mito”, in un personaggio conosciuto ed apprezzato alla stregua di un attore o di un’ attrice? La dolce vita(1960) di Federico Fellini che svela uno spaccato della società e del costume del tempo, seguendo a sprazzi un canone caricaturale e sprezzante; L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, un film girato come se la sua storia fosse risucchiata in un sogno e i personaggi si muovessero senza cause apparenti e fuori da ogni psicologia; il già citato Il Gattopardo (1963) di Visconti riconosciuto da un critico di ideologia comunista nel “più bel film conservatore degli ultimi vent’anni”; Accattone (1961) che segna l’esordio dietro la camera da presa di Pasolini e segue passo-passo il giovane protagonista (un sorprendente Franco Citti per bravura e verità esistenziale) nella sua precaria condizione fino a schiantarsi con la morte liberatrice; I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi, un lavoro stilisticamente molto vicino alla Nouvelle Vague per la peculiarità con cui vengono affrontati gli intrecci spazio-temporali. Infine, Prima della rivoluzione (1964) e I pugni in tasca (1965), rispettivamente di Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, sono le due pellicole in cui, più delle altre, si riconosce l’individualità (e creatività) dell’autore, l’inclinazione alla drammaturgia, l’orientamento ad uno sguardo morale, il paesaggio di un’Italia poco prima che diventasse – come riporta Morreale – “un Paese mancato”.

EMILIANO MORREALE. “CINEMA D’AUTORE DEGLI ANNI SESSANTA”. EDITRICE IL CASTORO. PAG 169 EURO 15,50.


"Silvana Sciortino" di Gianni Quilici

[foto di Gianni Quilici]

Silvana era bella. La sua bellezza, oltre che visibile, era invisibile. Lei la mostrava, non la esibiva. Occorreva scoprirla. Come tutte le bellezze profonde. E quale era questa bellezza?

Ho conosciuto Silvana Sciortino negli anni '80. Mi ero formato alla scuola del Manifesto (poi PdUP). Del manifesto avevo amato da subito il gusto della complessità, l'apertura mentale, la ricchezza culturale, la concretezza dell'utopia e il linguaggio creativo e corrosivo delle sue penne migliori. Così quando il PdUP, che aveva continuato l'esperienza politica iniziata dal manifesto, decise, dopo la svolta di Berlinguer, di ritornare con tutti gli onori nel PCI, non ebbi dubbi. Mi incuriosivano la vita di un partito ramificato, il suo gruppo dirigente, il suo popolo.

Lì iniziai a frequentare Silvana. Ma fu alla fine del 1986, quando la Federazione del PCI organizzò un mese di iniziative dal titolo “Il Fiume- La Città” che ebbi modo di conoscerla più da vicino. Fu questa una delle iniziative sicuramente più progettuali e innovative realizzate delle molte che il Partito organizzò in quegli anni. Da questi incontri venne realizzato un “Quaderno”, che curai insieme a Silvana, un bel quaderno a rileggerlo ancora oggi, con contributi di Guglielmo Petroni, Michelangelo Zecchini e diversi altri.

Di Silvana mi colpì dapprima lo sguardo. Era uno sguardo che ti vedeva, ti ascoltava, ti considerava. Non tutti hanno lo sguardo di chi ascolta. Molti hanno lo sguardo, inconsapevole, di chi giudica: che ti cataloga, cioè, inserendoti in una gerarchia. Silvana non era così: aveva il piacere o la pazienza di ascoltare e questo ascolto non era fine a se stesso.

Silvana si prendeva cura di ciò di cui si occupava. Non era approssimativa nelle analisi: leggeva, anche aspetti che a me parevano noiosi, ascoltava, elaborava.

Percepivo in lei una felice sintesi tra femminile e maschile. Del femminile conosceva il “peso delle cose”, la pazienza della ricerca e la fatica della sintesi. Del maschile la determinazione con cui alla fine difendeva le sue scelte. Una determinazione capace di sostenere -come mi ricordo- scontri anche duri con un gruppo dirigente, in buona parte, composto di maschi.

C'era poi uno strato più profondo che ho solo intuito, che non ho avuto modo o forse il tempo di conoscere: la zona più intima, quella dei sentimenti e delle emozioni più personali.

L'ho intuita, perché Silvana non si nascondeva, ma dovevi trovare la chiave, lei non si “dava” a scatola chiusa.

Ecco la sua bellezza era in tutti questi elementi.

In un volto, ai miei occhi, aristocraticamente antico (mi faceva pensare ad una donna egizia, versante Nefertiti), ma soprattutto nella tranquilla, sorridente, misteriosa energia che trasmetteva.

Per tutte queste ragioni più volte ho pensato che Silvana sarebbe stata il Sindaco ideale per il comune di Lucca. Ora, ancora di più ne capisco i motivi: perché si sarebbe presa “cura” con amore e competenza della straordinaria bellezza del centro storico e delle storture della sua ibrida periferia, conoscendone ella le ombre e le potenzialità.

Perché il suo illuminismo mentale era desiderio di ricerca e di scoperta, di ri-messa in discussione di ciò che si sa o si presume di sapere.

Per questo, dopo tanti anni, Silvana rimane e sarà sempre ai miei occhi Silvana, “unica e irripetibile”.

tratto dal libro Laura Di Simo, Luciano Luciani, Andrea Macchi (a cura di). Silvana Sciortino:Una comunista diversa a Lucca, Lucca 2012.

19 febbraio 2012

Silvana Sciortino e Merano Bernacchi: due libri di comunisti lucchesi




Luciano Luciani

Nell’arco di poco più di un anno – tra l’ottobre 2010 e questo febbraio 2012 – sono stati pubblicati due libri di memorie e di testimonianze su due dirigenti comunisti: Merano Bernacchi e Silvana Sciortino. Due esponenti locali del Pci, che, ricoprendo ruoli di direzione nel partito e di rappresentanti del Pci nelle istituzioni, pur dall’opposizione, hanno svolto un ruolo importante, significativo nelle vicende politiche e nella storia di Lucca e del suo territorio.

Si potrebbe pensare a un’inattesa fioritura di studi di storia contemporanea, frutto della iniziativa lungimirante di qualche istituto universitario o di qualcuna delle numerose Fondazioni che animano la vita culturale della città. Qualcuno, meno bendisposto e ancora vittima di qualche forma di anticomunismo maniacale, ammalato di dietrologia, potrebbe vedere dietro questi libri il tentativo dei comunisti di condurre un’operazione per conquistare l’egemonia sulla memoria locale, provando ad appropriarsi di un passato che li vide, allora, in minoranza e all’opposizione.

Niente di tutto questo. Avendo partecipato, in qualità di curatore alla elaborazione e realizzazione sia del primo libro, Merano Bernacchi. Una storia di buona politica. Passione e responsabilità, sia di questo secondo, Silvana Sciortino. Una comunista diversa a Lucca, mi permetto di deludere tanto quanti hanno visto in queste iniziative editoriali un’attenzione progettuale e organica alla storia del partito comunista, alle sue politiche e ai suoi protagonisti; quanto coloro che, ancora ossessionati dalla paura della bandiera rossa con falce e martello, temono chissà quali manovre politico/culturali “a posteriori”.

Dietro questi due libri, e in particolare dietro le pagine su Silvana Sciortino, c’è, innanzitutto, la volontà delle rispettive famiglie. Intenzionate a impedire che un clima culturale e politico radicalmente mutato rispetto a 20 anni fa possa portare a una deprecabile e dolorosa perdita di memoria nei riguardi di due figure diverse, ma entrambe di spessore, capaci e generose, ricche di competenze e di grande umanità.

Militanti, dirigenti politici a tempo pieno, di specchiata onestà, di un disinteresse così totale da risolversi talora nel danno per sé e per la propri famiglia. Politici credibili, autorevoli, apprezzate tanto dagli iscritti e dagli elettori della propria parte, quanto stimati dagli avversari politici. È tale il giudizio che emerge dalle pagine di queste pubblicazioni ed è bene che sia ribadito con forza in un tempo, il nostro, in cui, mai come ora, la politica e i suoi esponenti hanno toccato il fondo nella considerazione della gente e nel senso comune diffuso.

Questa è una delle lezioni forti, il messaggio che con più nettezza trapela da questo libro: un’idea alta e nobile della politica, come servizio per i cittadini tutti e segnatamente quelli economicamente e socialmente meno attrezzati, meno fortunati, più esposti. E bene hanno fatto le famiglie di Merano e Silvana a creare le condizioni perché quelle storie, quelle esperienze, quelle vicende di intelligenza, passione e sacrificio vedano la luce in maniera organizzata e sistematica e possano raggiungere un pubblico più vasto: di compagni, di amici, di cittadini, di ieri e di oggi.

Per me è stato motivo di grande onore, di grande gratificazione personale, essere stato chiamato a partecipare alla costruzione e alla elaborazione dell’uno e dell’altro libro. Uso il termine “costruzione” non a caso: perché le due pubblicazioni sono state costruite con i materiali forniti da molti amici e compagni di allora. I ricordi e le testimonianze di molti, di quanti hanno condiviso le vicende umane e politiche di questi nostri due compagni: i familiari, innanzitutto, poi gli amici e, soprattutto, i militanti di base e i dirigenti, a vari livelli, del partito comunista lucchese. Ma anche esponenti dei movimenti, dell’associazionismo, senza trascurare di dare la parola anche agli avversari politici di allora. Fornendo, poi, anche esempi significativi di testi di questi due dirigenti: articoli, comizi, interventi istituzionali.

È mia convinzione che gli storici a venire, quelli veri, quelli che lavorano in maniera metodica, sistematica, scientifica, e che si occuperanno della politica a Lucca negli anni Settanta e Ottanta faranno di sicuro meglio, ma non potranno prescindere da questi libri, da queste pagine.

Pagine che ci raccontano le passioni di quasi un ventennio di lotte politiche e sociali, rilette con gli occhi di chi c’era e che riescono a darci ancora il calore e il sentimento di un’epoca che è appena ieri e le cui ragioni ritroviamo in tanti fatti, problemi, modi irrisolti e contraddizioni dell’oggi.

Un aspetto, quest’ultimo, che i curatori hanno verificato nella “fatica” con cui questi libro, e soprattutto il secondo su Silvana Sciortino, si sono venuti via via definendo: alcune testimonianze sono emerse quasi con sofferenza; altre sono state rivisitate più e più volte; si è discusso su giudizi e su alcune parole e il loro significato, allora e oggi, quasi con scrupolo da filologi.

La vicenda di Silvana che faceva politica a Lucca, da dirigente, come comunista e come donna mi è parsa una storia non pacificata, non rasserenata, non rassicurante, ma ancora, e non poco, abrasiva. Questo libro la ripropone e, a mio parere, si tratta di una bella notizia.


Laura Di Simo, Luciano Luciani, Andrea Macchi (a cura di), Silvana Sciortino: Una comunista diversa a Lucca, Lucca 2012, pp. 148, sip


Luciano Luciani (a cura di), Merano Bernacchi Una storia di buona politica Passione e responsabilità, Lucca 2010, pp. 188, sip


12 febbraio 2012

"Passolungo –Storia di un cavallo" di Lev Nikolaevic Tolstoj

di Gianni Quilici

E’ un bellissimo racconto, senza debolezze. Lo è , perché attraverso la storia del cavallo, Tolstoj ci racconta la vita: la nascita, lo sviluppo difficile, il momento di grande felicità, la vecchiaia ed infine, con asciutta inesorabile verità, la morte.

E’ un cavallo, ma potrebbe essere una persona. Del cavallo ha il corpo, la forza, la snellezza; della persona memoria, sensibilità, intelligenza. Ci sono momenti di grande poesia; momenti che si desidererebbe vivere, perché la pagina ce li ha trasmessi con una grandezza di senso da renderli desiderabili.

Alcuni attimi che, seppure tolti dal contesto, illuminano visivamente e poeticamente il fluire della vita.

“In mezzo al cortile illuminato dalla luna si profilava l’alta e magra figura del castrone, la sella alta col suo pomo sporgente. I cavalli gli stavano intorno, immobili e nel più profondo silenzio…”

Avevo amiche e compagni. Imparavamo insieme a mangiare l’erba, a nitrire come i grandi e a galoppare con la coda al vento intorno alle nostre madri. Fu un tempo felice. Tutto mi era permesso, tutti mi amavano e consideravano con indulgenza quanto facevo. Ma non durò a lungo”.

Lev Nikolaevic Tolstoj. Passolungo –Storia di un cavallo- Traduzione di Corrado Alvaro. SE.

“Dario Argento e L’uccello dalle piume di cristallo” di Giovanni Modica

di Gordiano Lupi

piume cristallo

Giovanni Modica pubblica il suo secondo saggio di cinema e si pone all’attenzione della critica come uno degli autori più preparati della nuova generazione.

Il primo lavoro, dedicato a Sette note in nero di Lucio Fulci, faceva intravedere doti di sopraffino intenditore cinematografico e di grande cultore della materia, anche se la forma era ancora sovrabbondante.

Dario Argento e L’uccello dalle piume di cristallo, invece, è un testo completo, esauriente, informato e definitivo sul primo thriller del regista romano. La forma della scrittura è migliorata, anche se preferisco un approccio più divulgativo e meno tecnico, più rivolto ai lettori e meno agli studiosi. In ogni caso servono testi rigorosi e scientificamente esatti per dimostrare la necessità di studiare autori un tempo bistrattati.

Modica analizza sequenza per sequenza il film di Argento, espone la trama in un’ampia sinossi, racconta l’esordio registico dell’autore romano e le prime esperienze da sceneggiatore western con Sergio Leone.

Non mancano le fonti dell’ispirazione di Argento: Fritz Lang, in primo luogo, ma senza dimenticare il maestro Mario Bava, persino Michelangelo Antonioni e le fonti narrative alla base della poetica thriller.

Un intero capitolo è dedicato all’analisi della carriera degli interpreti principali del film, con particolare attenzione a Tony Musante, Enrico Maria Salerno e Suzy Kendall.

I luoghi dove è stata girata la pellicola sono oggetto di studio accurato, così come la fotografia di Storaro e il montaggio di Fraticelli vengono analizzati con puntualità, grazie a interviste e commenti di prima mano.

Non poteva mancare un capitolo sulla musica di Ennio Morricone e neanche una discreta appendice critica.

Modica è il solo critico italiano che approfondisce il legame tra L’uccello dalle piume di cristallo e il telefilm Il tram, interpretato da Paola Tedesco ed Enzo Cerusico.

Molto interessante la parte curata da Luigi Cozzi (editore, buon regista del passato, autore dell’editing e della selezione fotografica), che ripropone alcune vecchie interviste al regista romano con cui ha vissuto (e continua a vivere) anni di amicizia e proficua collaborazione.

Giovanni Modica si propone di compiere un lavoro esaustivo sulla cosiddetta trilogia zoologica di Dario Argento. Attendiamo con interesse i prossimi volumi dedicati a Il gatto a nove code e 4 Mosche di velluto grigio.

Giovanni Modica. Dario Argento e L'uccello dalle piume di cristallo.Profondo Rosso – Pag. 285 – Euro 27,00. www.profondorossostore.com – info@profondorossostore.com

www.infol.it/lupi


03 febbraio 2012

"Elogio degli amanuensi" di Giovanni Tritemio

di Davide Pugnana










Noi siàn le tristi penne isbigottite,
le cesoiuzze e il coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi sian partite
e siàn venute a voi qui di presente,
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

(Guido Cavalcanti)

I

Come possiamo non porre mente, leggendo questo elogio dei monaci-copisti, scritto intorno al 1492 - in pieno declino della pratica chirografica - a Guglielmo da Baskerville, l’intelligentissimo e colto monaco bibliofilo che continua a sedurre qualsiasi lettore del Nome della rosa? Il ritratto che Umberto Eco delinea del suo protagonista, così finemente tracciato in punta di pennello, quasi figurina di miniatura, potrebbe senza dissonanze assimilarsi all’idea implicita che dell’abate Giovanni Tritemio si fa il lettore di oggi. Pressappòco più alto di un metro e ottanta, esageratamente sottile, forse per l’esercizio dei digiuni; il mento volitivo perché cavato dall’aspra geometria del quadrato, e assai sporgente come l’allungarsi del naso aquilino e scarno, sul quale inquieti si muovono gli occhi: vivaci e penetranti, come quelli di chi s’è educato a leggere i moti interni sopra una fisiognomica empirica; due stiletti avvezzi a sondare il nero delle anime più che ad ascoltarne le confessioni, vere per metà e soffiate nel buio.

Ma all’immaginazione del lettore interessa un altro motivo iconico, presente fin dal titolo dell‘opera e disseminato in ogni pagina: le mani. Scrivere un elogio dell’amanuense significa tessere un elogio della mano. Come saranno state quelle del nostro abate se non eternamente schizzate e maculate d’inchiostro? Mani abili e nervose nel manipolare gli strumenti del proprio lavoro: avvezze a scansar le penne e a tuffarle nell’inchiostro; a maneggiare i fogli di pergamena; a scompaginarli o a rilegarli; a disporre le assicelle e il cuoio e le lamine per ornare le copertine; gli esili coltellini per raschiare, ripulire e tracciare sopra le linee per la scrittura. È quella mano della scrittura che nemmeno la spoliazione fisica della morte può scalfire, come ci narra lo stesso Giovanni Tritemio, allorquando venne riesumato il corpo di un monaco amanuense, molto devoto e prolifico; e le cui “tre dita della mano destra, quelle che avevano copiato così tanti volumi, vennero ritrovate integre e conservate tanto da far credere che il corpo fosse stato sepolto il giorno stesso” (pp. 62-63)


II

Vitalissimo e inquieto, “L’elogio degli amanuensi” dell‘abate Giovanni Tritemio (Sellerio editore Palermo, 1997, pp. 117) sembra un libro scritto e licenziato dallo scrittoio di un autore contemporaneo. Mentre siamo condotti, a poco a poco, dentro il monastero, di cella in cella, per assistere al vivo farsi del lavoro del copista, non siamo più i lettori di un abate a cavallo tra Quattro e Cinquecento; ma partecipiamo alle angosce di umanista-bibliofilo, caduto in una frangia temporale scossa da quella rivoluzione copernicana che porta il nome di Gutenberg. Una sottile angoscia assale Tritemio, uomo pre-tipografico, davanti alla nuova tecnologia: a quel torchio da stampa che gli toglieva la penna di mano. Dove finiranno i “libri”? E le officine dei copisti? Le pagine a stampa avranno la stessa resistenza all’usura del tempo che hanno le pergamene? Copiare di proprio pugno i testi degli antichi, o le Sacre Scritture, era segno scarlatto della propria appartenenza al movimento umanistico. Per Giovanni Tritemio, eletto abate di Sponheim a ventun anni, che giovanissimo aveva studiato a Heidelberg nel prestigioso circolo di umanisti della Sodalitas litteraria Rhenana; conoscitore del greco e dell’ebraico; autore di testi legati alla tradizione magica ed esoterica; inventore d’una propria crittografia - per questo bibliofilo fino al midollo, l’avvento della stampa aveva le sembianze di un terribile flagello. Il suo De laude scriptorum nasce come una sfida: è un elogio della mano umana e dell’occhio del monaco-copista che, tenace e paziente, salva dalla spirale dell’oblio il sapere antico. L’intero trattato è pervaso da affermazioni tese a sottolineare la principale funzione della scrittura e del lavoro di copia: “senza l’attività dei copisti essa [la vasta tradizione lasciataci dagli auctores antichi] non potrebbe mai giungere a conoscenza della posterità. Se la cura degli amanuensi non affidasse alle lettere ogni buona azione e utile conoscenza, esse cadrebbero bel presto nell’oblio. Sono i copisti a dare valore alle parole, memoria alle cose e un senso allo scorrere del tempo.” (pp.33-34). Tritemio percepisce che, in un tempo di scoperte e innovazioni, non c’è più spazio per l’amanuense, per la passione della copia dei testi antichi: essi sono paradigmi entrati in crisi, prossimi a dissolversi. L’impulso alla conservazione di questa pratica è l’asse portante dell’Elogio, il suo lievito fecondo: è una spinta drammatica che intende denunciare, ricordare, fissare ciò che va sgretolandosi. Forte di questa inquietudine, l’anima del libro è un affresco dai marcati chiaroscuri: pagina dopo pagina, siamo assaliti da toni drammatici e commossi; da invettive e scenari a tinte fosche; da lezioni e consigli pratici; vediamo stigmatizzato l’ozio dei monaci che usano le mani solo per i lavori nei campi; mentre ci viene ricordato l’amore di Girolamo e di Cassiodoro, di Beda, di Rabano Mauro e di Pier Damiani per i libri. La loro indefessa passione per il lavoro di copia e per le loro biblioteche esemplari.

Non è un tema così antico. Il senso di vivere in un tempo di crisi del libro e di declino della stampa è connaturato al nostro presente, quando esso sia visto dagli occhi dell’umanista. Come Giovanni Tritemio, anche l’umanista di oggi è disorientato davanti ai nuovi supporti virtuali che smaterializzano il libro. La perdita in atto va molto al di là dell’appello al fruscio delle pagine. Il prezzo da pagare è alto e non si misurerà in tempi brevi. Ma questo è un altro capitolo. Ciò che qui interessa è la continuità di un atteggiamento dello spirito: è possibile che, nell’oggi, arrivi un momento nel quale l’umanista prenda coscienza, si sieda e scriva un “breve trattato”, scevro da bigottismo fanatico e fazioso, solo per ricordarci alcuni valori fondamentali radicati alla civiltà del libro? È in questa disposizione di spirito che, quasi seicento anni fa, nasceva L’elogio degli amanuensi.


III

Infatti, rimango lì con la lingua inaridita e il fiato sospeso, mentre il calamo trema ancora incerto, e nel mio cuore è vivo solo il desiderio e la passione per la scrittura. Quindi, se dovessi fallire, nessuno sostenga mi sia mancato lo spirito, bensì le parole” (p.36). Che bel viatico per l’umanista di ogni tempo! Sul margine dell‘Elogio, glossa tra le glosse, raccogliamo questo rapido autoritratto dell’autore. Il quale, per non lasciarsi sopraffare dallo sdegno e dall’ira, ammansita l‘angoscia che lo stringe e fatta professione di modestia retorica, stila un serrato elenco di punti da sviluppare. È la spina dorsale del suo trattato. Ci avverte che ragionerà sulla “cura e l’amore per i libri”; sull’ “attenzione che debba esser riposta nell’arte dello scrivere”; sulla “cura e la conservazione dei libri”; sullo “stile e l’ortografia” e su quanto conservare tutto ciò sia “buono e utile”.

Tesserà un elogio nella sostanza; ma ne sortirà un rimprovero e un ammonimento nella forma: mordente nel timbro che lo percorre tutto; ora appassionato e dolente, a tratti nostalgico e visionario; trapunto con stile screziato da improvvise accensioni, tipico delle prediche dal pulpito: quelle che principiano lente e carezzevoli, posandosi sull’uditorio assai benevole; e poi si increspano e si gonfiano fino a diventare un’onda capace di trascinare via la mente e il cuore, di schiantare e travolgere; di portare alla riva mentale dei fedeli un fascio di concetti, immagini, flagelli, peccati, astrazioni, divieti, gioie, promesse - ciottoli di un altro mondo, ben lavorati dal rètore che, per secoli, li ha lasciati cadere sotto i sensi degli ignoranti, con studiato rumore.

Che cosa devono ricordare della loro attività i suoi fratelli copisti? Innanzitutto che essa poggia su di una specifica prescrizione vergata da S. Benedetto nella sua Regola: “saranno veri monaci solo coloro che vivranno del lavoro delle proprie mani”.

È il lavoro la risposta alla dispersione e all’oblio. Siete monaci-copisti; conoscete l’alfabeto. Vivete ritirati fra le mura, dove le ore immerse nel silenzio si dilatano. Un lentissimo stillicidio allunga i giorni e propizia la pacatezza della scrittura. Non rimanete, come gli accidiosi di Dante, immersi fino al collo nelle acque limacciose della vostra pigrizia. Non abbruttitevi nel lavoro dei campi. Non disperdete nell’oralità della predica le vostre idee. Fate sì che ogni libro copiato diventi un dono rivolto a Dio! Le singole frasi che i vostri occhi, e la vostra memoria, trasferiranno da una pagina all’altra saranno le vostre preghiere. Non dimenticate che siete i custodi di quelle arche della cultura che sono le biblioteche del vostro monastero. Lavorate per salvare il sapere dei grandi Padri della Chiesa e per consegnarlo ai posteri, i quali certo vi guarderanno con l’ammirazione riservata agli eroi e agli araldi di Dio. Andate, dunque, con la mente all’esempio degli antichi bibliofili pagani e cristiani: Platone, principe dei filosofi, sborsò diecimila denari per avere tre volumi di Filolao Pitagorico e Aristotele comprò alcuni libri appartenuti al filosofo Speusippo pagandoli ben tre talenti attici. Santo Panfilo copiò Origene; Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, copiò di suo pugno tutte le opere da lui edite, monumentalizzandosi; Agostino morente “chiese ai confratelli come una sorta di particolare ultima volontà, che custodissero con estrema cura la biblioteca della Chiesa” (p.45) .

Da dove nasce questa singolare forma di devozione cartacea? Questo culto privato che ci porta ad amare i libri, fino al geloso possesso? A copiarne mille pagine o lacerti, solo per averne qualche seme verbale nella bisaccia? Quale filosofia occulta ci fa trattare il loro acquisto o ci sprona a ricercarli, come fosse questione di vita e di morte? Giovanni Tritemio risponde a tutti questi interrogativi con una frase: perché “esistono libri che suscitano in noi il desiderio di una felicità futura, che alleviano le miserie del presente stato di esilio, che allontanano dal vizio instillando la virtù, che danno forza nelle sventure e che rendono fruttuoso il trascorrere del tempo.” (p.46). Ed è per difendere questo viscerale senso di appartenenza al libro che Tritemio concepisce un suo Elogio degli amanuensi, pur avendo dietro di sé l’illustre esempio del cancelliere parigino Giovanni Gerson. Questo abate sente di dover scrivere per chiarire a se stesso e alla sua comunità alcune questioni nodali. E coglie nel profondo: rivendica l’essenza metastorica di ogni vocazione; invita alla resistenza etica malgrado i tempi; ci restituisce, intatto, il senso della conquista della parola scritta: a lungo sondata e verificata fin dalla giovinezza, magari perduta per via, rischiarata alla fiamma del pensiero antico, e ritrovata infine con maggior consapevolezza.

Il suo destinatario è l’amanuense, il monaco che, copiando con sovrumana pazienza, sottrae la parola all’oblio e fa della pagina scritta un ‘templum’. Il monito latente è chiaro: Siete figli di questo spirito umanistico, e per questo dovete istruirvi nell’esercizio dell’arte della scrittura, la più alta tra le attività manuali prescritte da Benedetto alla nostra comunità. È questa, parafrasata, la spinta ideologica dell’Elogio degli amanuensi.


IV

Bello è cogliere gli indizi di una vita quotidiana raccolta in questa silenziosa operosità. Seguirne gli scarti, le evasioni fantastiche, i gesti, la candenza. Spingersi fin dentro la scabra oggettualità intrecciata ad una spazio nudo, in eterno dialogo con la luce diurna e notturna. Tritemio non ci porta nelle ore e nei giorni del monaco-copista, al quale si rivolge da maestro, per istruirlo, per scuotere la sua coscienza; non ci lascia nulla della concentrazione esistenziale della vita monastica, del suo tempo circolare, quasi immobile; ma dissemina le sue pagine di alcuni dettagli minimi: sono lievi pertugi che ci permettono di ricostruire, come in un sogno miniato, la giornata di un monaco-copista spianto dal buco della serratura. Nello scriptorium, c’è una tessitura di suoni unita ad una percezione tattile: la robustezza della pergamena che, spostata, produce un tonfo sordo; lo scricchiolio del pennino sulla superficie ruvida, che avanza rapido sulle parole familiari e si ferma quando l’occhio si stanca nella corsa dal codice alla pagina bianca; l’abrasione del coltellino che leviga e prepara il terreno per la scrittura; il ritmo della foratura, della rilegatura; il battito metallico del calamo che cade; l’aprirsi e chiudersi delle dita ingolfate. Il tempo dell’amanuense è un tempo lento a passare. Una narrazione di giornate calme che, di ora in ora, giravano tutte le loro luci dentro la stanza di lavoro. Seduto nella sua luminosa officina, vicino alle arcate aperte sul paesaggio all‘intorno, il monaco poteva, in pieno raccoglimento, seguire il giro delle ore sul tavolinetto del suo scrittoio; vedere come le scaglie di luce, filtrando lievemente fino a piovere sulle scodelline dell’inchiostro e dei colori, nel passare accendevano dolci iridescenze d’oro e di cobalto; le quali poi, restavano sospese come una prolungata vibrazione nell’aria immota della cella.

È un libro non ancora scritto quello dedicato alla gioia faticosa della giornata dell’amanuense: le sue levate sul filo dell’alba; le sue notti piene di parole fresche o oscure, il tam-tam paranoico di tante pagine ancora da finire; la vita del corpo nell’indolenzimento della mano e della schiena, rotta sul legno; la miriade di stimoli che dalle pergamene vengono alla sua immaginazione e gli suscitano veloci fantasmi di voci, di canti, di figurazioni celesti o grottesche.


V

Ma sotto ogni frase di Giovanni Tritemio, nel sangue delle sue invettive e dei suoi moniti, lavora un’angoscia diversa, più difficile da nominare rispetto alla crisi dell’attività amanuense e all’avvento della stampa. È un’angoscia labile e sinistra, senza contorni; che sbatte contro un demone antico e sfuggente, nato con l‘uomo. Tritemio lo conosce bene, sa la sua bravura ad insinuarsi e a tormentare. Non ha sede all’esterno, ma nasce dal di dentro. Ne ha letto sui libri di medicina greca e nella letteratura religiosa. Giovane e inesperto, lo ha sperimentato nell’anima, e i segni della sua fiamma di ghiaccio sono ancora vivi. Sa che nessuna preghiera è tanto forte da esorcizzarlo. La sua presenza genera nel libro delle zone buie. Per conoscerne gli effetti dobbiamo andare a leggere le bellissime pagine che Giorgio Agamben ha dedicato a questo ’demone meridiano’: “Per tutto il medioevo, un flagello peggiore della peste che infesta i castelli, le ville e i palazzi delle città del mondo si abbatte sulle dimore della vita spirituale, penetra nelle celle e nei chiostri dei monasteri, nelle tebaidi degli eremiti, nelle trappe dei reclusi. Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa danno alla morte che esso induce nell’anima; e, benché negli elenchi delle Summae virtutum et vitiorum, nelle miniature dei manoscritti e nelle rappresentazioni popolari dei sette peccati capitali, la sua desolata effigie figuri al quinto posto, un’antica tradizione ermeneutica ne fa il più letale dei vizi, l’unico per il quale non vi sia alcun perdono possibile. I padri si scagliano con particolare fervore contro i pericoli di questo ‘demone meridiano’, che sceglie le sue vittime fra gli homines religiosi e li assale quando il sole culmina sull’orizzonte; e forse per nessun’altra tentazione dell’anima i loro scritti fanno mostra di una così spietata penetrazione psicologica e di una tanto puntigliosa e agghiacciante fenomenologia.” (G.Agamben, Stanze, Einaudi, 2006, pp. 5-6)

La puntigliosa psicologia cristiana ha rubricato il demone meridiano sotto il peccato capitale dell' ‘accidia’; noi moderni la chiamiamo ‘malinconia’. Ancora nel Novecento troviamo una penetrante riflessione di Paul Valery su questa particolare ‘noia’: non è una passeggera noia di vivere, non viene dalla fatica, non se ne conosce il genere e non se ne sanno tracciare i confini; ma è “ quella noia perfetta, quella noia pura, quella noia che non ha altra sostanza che la vita stessa, e altra causa seconda che la chiaroveggenza del vivente. Questa noia assoluta non è in sé che la vita nella sua nudità, quando di contempla chiaramente.” (P.Valery, L’anima e la danza, 1923). Giovanni Tritemio sa riconoscere sul volto dei suoi confratelli i segni di questo demone; per questo motivo, quasi in ogni capitolo dell‘Elogio, egli rimprovera gli amanuensi, li mette in guardia, li istruisce sui modi per non desistere dalla loro attività di copia. Scrivere con disciplina, ficcarsi nel libro, riempire il bianco della pergamena, equivale a non cadere negli intervalli dell’ozio; a non divagare la mente, lasciandola preda del torpore: “mentre ricopia cose buone e devote, il monaco non subisce il fastidio di pensieri vuoti e turpi” (p.61); “Nessuno pensi di potere sfuggire alla pena riservata agli oziosi, se avrà osato sottrarsi al lavoro della scrittura.” (p. 74); “Per togliere ogni possibilità di avanzare scuse ai pigri e agli indolenti mi sembra consigliabile che l’abate, sia di persona che attraverso altri monaci, insegni l’arte della scrittura. In tal modo si toglierebbe qualsiasi pretesto agli oziosi […] Se poi qualcuno fosse così ostinato nella propria pigrizia da non voler essere in alcun modo avviato alla scrittura, gli dovranno essere imposti altri lavori e privazioni. […] Non bisogna infatti dimenticare che i demoni sono fortemente ostili all’attività della scrittura poiché sanno che può condurre molte persone alla salvezza. Essi trovano modo per distogliere i monaci da quest’arte. “ p.88). E ancora più scopertamente in questo passaggio: “La Scrittura dice: l’ozioso persiste nei propri desideri. Perché? Perché fino a quando la nostra mente non sia impegnata in qualche attività che ci tenga utilmente occupati, rimane libera e disponibile ad accogliere pensieri empi e malvagi. Gli abitanti di Sodoma furono condotti alla perdizione proprio dall’abbondanza di cibo e ozio. La pigrizia è la madre di ogni vizio e la tomba di ogni virtù.” (pp.89-90). Lo stesso Umberto Galimberti, scrivendo sui vizi capitali, ci ricorda come: “i monaci antichi e medievali ricorrevano, come noi oggi, al lavoro, a cui aggiungevano l’orazione : ora et labora, che, ripetuto più volte come fanno i bambini con le loro cantilene, suona: labora et ora, ‘laboratorio’.” (U.Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Fetrinelli, Milano, 2007, p.25)



VI

L’elogio dell’amanuense contiene in sé pagine che, riunite, forniscono i precetti di un laboratorio di scrittura. Sono i capitoli più tecnici, ma non meno affascinanti. Tritemio ci apre le porte dell’officina amanuense; del suo quotidiano corpo a corpo con il codice da trascrivere e della sua formazione. Il monaco che intende diventare copista deve apprendere le norme dell’ortografia “senza le quali anche il libro più utile può risultare brutto e spregevole” (p.68). Deve letteralmente ‘saper guardare’ i manoscritti della tradizione, e interiorizzare nel modo giusto la lezione dei modelli, per imitarne la maniera e trarne “una silloge della nostra stessa arte [di copista]”. Per farsi la mano e sviluppare un’elegante “tecnica di scrittura”, il monaco può iniziare scegliendo dei passi delle Sacre Scritture e, ricopiandoli, costruire una propria antologia: “I confratelli copisti che vogliano poi veramente progredite nello studio […] dovranno iniziare a compilare un libretto, detto florilegio. […] seguendo l’esempio delle api, lo possano annotare, così che le frasi, quasi come nettare, siano raccolte nell’alveare del proprio volumetto, per averle a portata di mano da utilizzare al momento opportuno.” (p.78).

Parallelamente al perfezionamento della tecnica calligrafica, il monaco deve conoscere - e noi lettori con lui - la nomenclatura specifica dei copisti e avere nozioni di tipologie testuali. Così potranno scegliere se essere “antiquari” e copiare solo opere degli antichi oppure essere “librarii” e alternare libri antichi e nuovi, e con essi imparare due diverse modalità di scrittura, a caratteri antichi e moderni. Allo stesso modo, devono saper riconoscere i diversi generi letterari, ossia se quello che stanno copiando è un “libro di excerpta” (brani scelti); un “libro di homelie” (prediche orali); un Dialogus, un Tractatus; dei Commentaria (interpretazioni dei testi sacri) o un Apologeticos (testo scritto in difesa della fede). E poi come, al loro interno, è organizzata la materia (il prologo, la prefazione, il proemio); e se appartengono ad un corpus organico (biblos; liber; volumen; fasti; folia) o siano monografie.

È questa la didattica su più livelli dei medievali laboratori di scrittori, ancora attivi all’epoca in cui Giovanni Tritemio scrive il suo Elogio. La punta più avanzata di questo processo formativo è la creazione di un’autonoma bellezza della pagina: la ricerca cioè, durante l’atto di copia, di una velatura di “particolare bellezza”. Tritemio spesse volte si ferma a ragionare sull’allestimento della pagina scritta: una cura che non va intesa come la coerenza di unità stilistica tra immagine, decorazione e testo propria dei manoscritti miniati medievali; ma di una vera e propria estetizzazione della pagina scritta, ottenuta attraverso la calligrafia, l’eleganza grafica della lettera. Nel suo lavoro, il monaco-copista non si pone problemi di stile, di ritmo, di intensità e di chiarezza espressiva; non si arrovella sui concetti e le frasi, come lo scrittore alla prese con la sua pagina; se c'è una tensione essa è tutto rivolta al disegno delle lettere, depositate sulla pergamena cariche di “particolare bellezza”. Sono lettere dipinte con il pennino, non hanno la corsività delle scritture mercantili tutto intese alla rapidità del commercio e dei conti. Le lettere dell’amanuense sono fatte della stessa sostanza del tempo immobile e della luminosità che le circonda. È la qualità grafica della lettera scritta che conferisce valore alla copia. E la copia perfetta sarà quella che saprà unire alla fedeltà e all’impegno della trascrizione, alla resa senza errori del contenuto, la sottile arte della calligrafia, lo splendore della forma verbale. Il bravo amanuense è, per Giovanni Tritemio, un esteta della pagina scritta. Per lui la pagina è un insieme di lettere guardate.


VII

Una volta che questo smilzo libello, al confine tra l’elogio, la predica e il trattato, sia terminato e lasciato sedimentare, ci stupiremo di vederlo presto ricomparire nel mezzo di altre letture; oppure scoprire di averlo lasciato viaggiare a ritroso, fino ad intrecciarlo alle immagini colorate che intervallavano i libri di storia delle scuole medie. La nostra fantasia è stata precocemente densa degli ori e del cobalto delle miniature; dei trionfi della morte; di cavalli bardati e di sontuose vesti curtensi; di serpentinate Eve e di orti fiabeschi, punteggiati di piccoli ciuffi d‘erba e di dame con i libri aperti sulle ginocchia. Lungo le soporifere ore della lezione sul feudalesimo, mentre la voce dell’insegnante scandiva le date e i nomi dei vassalli, la corte di Federico II, e di Ottone, le vicende dei mercanti e le lotte dei guelfi e dei ghibellini, la mano voltava le pagine e rimanevano avvitati nello sguardo immagini banalissime: i cappelli neri dei magri flagellanti; i pontefici che ammonivano con l’indice e il medio uniti; e, accanto, i barbuti sovrani con la spada, così simili ai nostri padri, come loro eroi di un’araldica tutta nostra; inaccessibili e cristallizzati in solenni pose frontali. E poi c’era il monaco. Lo guardavamo a lungo, con gli occhi dei bambini: racchiuso nella sua cella come una farfalla nella crisalide; sullo sfondo la fuga di due finestre interrompevano a scaglie il cielo azzurro. Ci sembrava bloccato in un’aura incantata, abbandonato ad una solenne compostezza, un po’ annoiato mentre orchestrava la folla di oggetti fiabeschi: il pennino e il coltellino ricurvo che chiamavamo ‘bisturi’, e che ambedue teneva, contemporaneamente, con due mani. Era quasi sempre rappresentato di sguincio, secondo la prospettiva medievale: seduto sopra un piccolo scranno di legno, assorto e pronto a scivolare via assieme alle sue carte. Un giorno non lo avremo più guardato. Cauto e silenzioso, sarebbe scomparso dal nostro orizzonte; e ancora per alcuni anni non avremo saputo che si chiamava ‘amanuense’. E così è stato per molti studenti. Per altri, quest’atmosfera immaginativa, quelle annoiate reveries, sarebbero tornate più tardi, leggendo Dante e Petrarca; oppure scoprendo le pagine straordinarie di due capolavori storiografici - insuperate bibbie della cultura medievale - quali sono L’autunno del Medioevo di Johan Huizinga e L’arte e la società medievale di Georges Duby: testi verso senza i quali questo scritto non sarebbe mai nato.

Altri allievi svogliati hanno ritrovato il monaco in piccoli, misconosciuti, libelli. Gli è venuto incontro profondamente cambiato. Adesso lo chiamamo ‘amanuense’ e sanno che scrive sulla pergamena; che il ’bisturi’ ha una sua funzione e che ha il compito di scrivere belle lettere, capaci di viaggiare dentro i secoli e di vincere il tempo, come l‘ambra ha avvolto gli insetti al tempo dei dinosauri. Gli guardiamo le mani macchiate d’inchiostro, e la postura lievemente ricurva, mentre siede allo scrittoio.

Giovanni Tritemio. Elogio degli amanuensi. Editore Sellerio, pagine; 128, prezzo: € 8.