24 novembre 2016

Come parlare di pittura? Il ‘tizianismo verbale’ di Pietro Aretino



“Lo Aretino non ritragge le cose men bene in parole che Tiziano in colori; e ho veduto de’ suoi sonetti fatti da lui d’alcuni ritratti di Tiziano, e non è facile il giudicare se li sonetti son nati dalli ritratti o li ritratti da loro; certo ambidue insieme, cioè il sonetto e il ritratto, sono cosa perfetta: questo dà voce al ritratto, quello all’incontro di carne e d’ossa veste il sonetto. E credo che l’essere dipinto da Tiziano e lodato dall’Aretino sia una nuova regenerazione degli uomini, li quali non possono essere di così poco valore da sé che ne’colori e ne’versi di questi due non divenghino gentilissime e carissime cose.” (Amedeo Quondam)

di Davide Pugnana

          Niente meglio del reciproco compenetrarsi di pittura e parola testimonia e restituisce, attraverso lo scorrere dei secoli e delle generazioni, la prorompente vitalità del dialogo tra Tiziano Vecellio e Pietro Aretino. Vicini e allo stesso tempo lontani, intrecciati eppure destinati a non incontrarsi mai se non nello scenario di un impossibile e nostalgico abbraccio, questi due linguaggi si rincorrono e si illuminano con la disperazione dei grandi desideri. 

Scorre nelle quarantaquattro epistole dell’Aretino a Tiziano una parola che insegue la prestezza di tocco del pittore. Ogni frase tende al massimo il suo arco retorico, trasceglie aggettivi, verbi, metafore, sgrana enumerazioni che al massimo grado visualizzino l’oggetto d’amore assente; quella cosa ineffabile e, nella sua forma, perfettamente compiuta che si vorrebbe afferrare e fermare in un medium  che non le appartiene e mai le apparterrà. 

Nonostante questa alterità costitutiva, ogni invenzione linguistica dell’Aretino al cospetto dell’opera di Tiziano sembra spinta da una strenua sete di caccia: appropriarsi di quei rossi carnosi che aprono ferite dolcissime e struggenti oltre una torre di castello o si dilungano in brani di cielo dove nuvole a stracci aprono sulla testiera dei blu e dei viola, mirabilmente tenuti sospesi contro i lucori della luce morente del tardo pomeriggio; dire fino in fondo quell’immobile rabbrividire dell’aria attorno alle fronde degli alberi o nei vuoti pausati dei corpi; essere, o diventare, verbalmente quel giallo che serpentinato increspa l’orizzonte dietro Tobiolo e l’angelo e, al contempo, trovare il nodo di sostantivi per quel battere di panneggi in bianco e in rosso. 

Ecco il lievito che nutre le lettere pittoriche dell’Aretino. Per questo scrittore di potente capacità visiva le ‘vedute’ tizianesche, così ariose e struggenti e grondanti colore, che nella loro calda opulenza tattile sembrano fare del cielo, delle nuvole e dell’acqua di Venezia presenze di carne, diventavano non tanto il terreno per una esercitazione retorica nel solco dell’ekphrasis – di cui pure fu maestro – quanto un viaggio di ricognizione nelle possibilità estreme del mimetismo linguistico rispetto all’altro ‘testo’, quello visivo, perennemente ammirato dalla riva del verbo perché conchiuso e sdegnoso nella sua espressione risolta.

A testimoniare l’intensità di questo rapporto non c’è solo la corsa febbrile della parola verso la pittura. Tutt’oggi possiamo fare esperienza del contrario varcando la soglia della Sala di Apollo nella galleria palatina a Firenze. Era questa l’anticamera del palazzo, ornata dagli affreschi di Pietro da Cortona, nella quale la nobiltà ordinaria ferveva in attesa di essere ricevuta dal granduca. Qui possiamo toccare con gli occhi alcuni importanti ritratti di Tiziano: la Santa Maria Maddalena, il ritratto femminile detto “La Bella”, il Concerto, la copia del ritratto a Papa Giulio II di Raffaello, e, spostandoci ancora, il ritratto che egli fece dell’Aretino, che d’acchito colpisce per il guizzo torto e nervoso della posa e il timbro superbo della veste. Cade in taglio, nonostante il tono sprezzante ma vedremo perché, la descrizione che ne fece Francesco De Sanctis nella sua storia letteraria:  “Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo, assai simile di struttura, sta sopra alla testa dell’uomo […] per il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli appetiti sessuali […] I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura, che sotto il nome “racconti galanti”, invase l’Europa. […] Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l’Italia.” Intuizione metaforica quella del “lupo che cerca la preda” che meglio non potrebbe tradurre la levriera disposizione verbale dell’Aretino di fronte alla tenuta pittorica di Tiziano. 
E proprio di questo ritratto troviamo un equivalente verbale nella lettera dell’ottobre 1545 a Cosimo I:”eccovi lo stesso essempio de la medesima sembianza mia dal di lui [Tiziano] proprio pennello impressa. Certo ella respira, batte i polsi, e move lo spirito, nel modo ch’io mi faccio in la viva. E se piú fussero stati gli scudi che glie ne ho conti, invero i drappi sarieno lucidi, morbidi, e rigidi, come il da senno raso, il velluto, e il broccato.” 

Come sarà per i ritratti del Bernini un secolo dopo (pensiamo alla Costanza del Bargello), la pittura di Tiziano non è solo lavorio di pennello, non è solo forma e colore; con quelle terre colorate messe sulla tela Tiziano riesce a fermare la presenza biologica del soggetto, il formicolio vitale che innerva il suo corpo (il ritmo del respiro, il pulsare dei polsi, l’agire del temperamento), il peso e il fruscio del corpo nel suo spazio di esistenza. Il ritratto di Tiziano – afferma Aretino – si impone, per sempre, più e meglio di un atto di nascita, come testimonianza dell’esistenza di un individuo su questa terra. 

Aretino nutriva questa convinzione già nel 1540, allorché il 20 novembre scriveva al Marchese del Vasto: “il pennello de l’uomo mirabile [Tiziano] va con sí nuovo modo a trovare le parti che non si veggono ne la immagine che egli colorisce di voi, che ella nel mostrarsi in tutte le membra tonde come il vivo, vi fa piú tosto essere Alfonso che parere il ferro.” Come cinque anni dopo sarà per Aretino, nel campo visivo di Tiziano il Marchese del Vasto, chiuso nello scintillio della sua armatura, è, ed è al massimo della sua cifra biologica, “tondo come il vivo”.

Aretino era ben consapevole della spaccatura fatale tra la cosa dipinta e la parola che desidera nominarla. Come ogni scrittore d’arte, sapeva bene che mai la letteratura avrebbe potuto restituire ciò che si era incarnato in quella specifica forma espressiva, nata, come spiegherà da di dentro Konrad Fiedler secoli dopo, da un processo visivo e portata a compimento dal gesto della mano. Nessun testo verbale, per quanto sorretto da perizia stilistica, sarebbe stato capace di trasformare in parola la mistica del tocco di un pittore come Tiziano. Nel suo struggimento melanconico di fronte ad un oggetto insieme presente e assente, la scrittura potrà solo elaborare strategie di avvicinamento più o meno stringenti, impegnandosi semmai a colmare e assottigliare il divario tra l’evidenza dell’opera d’arte figurativa – perfettamente autonoma e quasi incurante della tessitura verbale che l’avvolge –  e l’evocatività della parola. Un’impossibilità o, meglio, un’afasia nominativa che Paul Valery racchiuderà nel motto: “Comment parler peinture?”. Questa domanda innesca in Pietro Aretino un confronto agonistico e, in qualche modo, formativo con la pittura di Tiziano. La capacità di scandaglio psicologico dell’amico pittore, abile nel “ritrarre le nature altrui”, sarà un modello per Aretino: “E per ciò io mi sforzo di ritrarre le nature altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto; e perché i buoni pittori apprezzano molto un bel groppo di figure abbozzate, lascio stampare le mie cose cosí fatte, né mi curo punto di miniar parole; perché la fatica sta nel disegno, e se beni colori son belli da per sé, non fanno che i cartocci loro son sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far presto e di suo.”  (lettera al Valdaura del dicembre 1537). La piena adesione dell’Aretino alla maniera di Tiziano è testimoniata dalla celebre lettera ch’egli spedì al pittore medesimo nel maggio 1544. Una lettera che potremo definire una forma di tizianismo verbale per il modo in cui la lingua del poeta cerca di appropriarsi del mondo e del modo visivo del pittore, come dimostra il cuore del testo:
“che vedete, nel raccontarlo io, in prima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgete l’aria, ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi de i nuvoli composti d’umidità condensa. I quali in la principal veduta mezzi si stavano vicini a i tetti degli edificii, e mezzi ne la penultima. Peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano. I piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da i palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi. Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azzurro verde veramente composto da le bizzarrie de la natura maestra de i maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘O Tiziano, dove sete mo´?


Può, insomma, la parola della letteratura equivalere con la pittura che desidera nominare? 
La riposta è no. 
Ma il punto nodale è un altro: che cosa genera, nello scrittore d’arte, la nostalgia dell’oggetto inafferrabile? Che genere di lotta viene ingaggiata? Uno degli esempi più significativi di questo corpo a corpo tra pittura e parola è proprio questa epistola di Pietro Aretino al “signor compare Tiziano”. 

Sotto il cielo di una sera veneziana prossima alla notte, Pietro Aretino ha cenato in solitudine, contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana, una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli lasciano in bocca nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La lettera registra in presa diretta, come una stenografia degli istanti, i gesti e i pensieri di quella sera di amara e cupa solitudine. Pietro si alza da tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale della finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto, nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci miste, “turbe” salgono dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono pigre navicelle volanti che s’incontrano in quell’ora del giorno quando il mare abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come dentro una veduta veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello specchio di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” sembrano fissati in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la terribilità del pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e di tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo] non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio di Aretino si dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del reale trasmutano di essenza: ricordano pigmenti di colore, velature, ‘segni’ . Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la lettera e ne muta registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in quell’istante di risveglio visivo, la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e respiro. “Onde l’aria era tale quale vorrebbero esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel cielo che adesso stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura, l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario e la vaghezza dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della malinconia, e trova, nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le motive e memoria figurativa, uno squarcio improvviso nel quale s’allineano e mescolano gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano. Poter esser Tiziano! 

Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si disegna repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone. L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi degli edifici, l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile di San Marco, alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. 

Sferzato da questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione sostantivi e aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria figurativa e moderna trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa: “Imprima i casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbe dei nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la principal veduta si stavano vicino ai tetti de gli edifici, e mezzi ne la penultima, però che la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri un azurro verde, veramente composto de le bizzarrie della natura, maestre dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri isfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?

16 novembre 2016

"Un matrimonio benedetto" di Ngũgĩ wa Thiong'o


Uno scrittore africano

 sulle soglie del Nobel

di Luciano Luciani

Anche quest'anno i giurati svedesi del Nobel per la letteratura hanno perso una buona occasione. Se l'attribuzione del prestigioso riconoscimento al poeta e menestrello Bob Dylan ci rallegra - almeno dal punto di vista generazionale -, restiamo convinti che sarebbe stato necessario uno sguardo più largo: ovvero che un premio così carico di significati sarebbe dovuto andare a un autore dalla scrittura ben più robusta sul piano estetico e civile. 

Magari ampliando la propria attenzione a letterature più periferiche, ma vitali, originali, capaci di contenuti inconsueti. Per esempio quelle di un continente per tanti versi dimenticato come l'Africa, le cui sofferenze, drammi e dilemmi continuano ad arrivare sino a noi attraverso le voci e le opere dei suoi poeti, scrittori, drammaturghi, saggisti... 

Alcuni nomi? Il ghanese Aiy Kewi Armah (1939), il somalo Nuruddin Farah (1945), il mozambicano Mia Couto (1955), il botswano Barolong Seboni (1957), il keniota di etnia kikuyu Ngũgĩ wa Thiong'o (1938) già da qualche anno in odore di Nobel. Quest'ultimo, uno tra gli scrittori più interessanti dell'Africa post-coloniale, forse più e meglio di altri ha saputo raccontare le contraddizioni aspre e i bordi taglienti di una decolonizzazione che non saputo mantenere, se non in minima parte, le speranze di riscatto e liberazione che l'avevano sostenuta e alimentata e imponendo così ha ai suoi protagonisti prezzi altissimi. 

Non solo nei termini economici e sociali di un mancato sviluppo, ma culturalmente: lo sradicamento e l'assoggettamento psicologico, innanzitutto, dell'uomo africano nei confronti dei modelli importati e imposti dai padroni bianchi, i "pallidoni del cavolo". Cacciati sì, dopo lunghi anni di sanguinose rivolte, ma ancora presenti nei cuori e nelle teste di tanti africani, non ancora uomini liberi, ma solo schiavi benestanti: perché - ci significa Ngũgĩ - l'arma più potente nella mani dell'oppressore è sempre stata la mente dell'oppresso.
 

In attesa del Nobel, lo scrittore keniota, tradotto in più di trenta lingue - anche in Italia a partire dalla fine degli anni settanta, sia pure in maniera non sistematica - continua a essere proposto a un lettore italiano intenzionato a cimentarsi con una scrittura di qualità, non banale e non effimera. 

Recentemente lo ha fatto anche la piccola e coraggiosa Casa editrice quarup  con un libro di racconti, Un matrimonio benedetto (Secret Lives, and Other Stories), che risale al 1976 - alla vigilia di un anno cruciale nella vita del letterato africano, quello della sua restrizione nelle carceri del suo Paese per aver criticato la politica filoccidentale e neocolonialista dei governanti kenioti - e che corrisponde alla fase più marcatamente politica e civile del romanziere  kikuyo. 

Un grappolo di narrazioni robuste, intense, piene di umanità e quindi di "politica", se è vero che la politica non può che trattare delle vicende e dei sentimenti delle persone: storie di di uomini e donne sospesi tra modernità e tradizione, tra il villaggio e la città, tra i valori della tribù e un nuovo Kenya popolato di africani ricchi, di funzionari corrotti - servi che a forza di servire sono diventati padroni -, di ingiustificabili e incomprensibili lacerazioni sociali. 

Racconti segnati in genere da finali che sanno di ripiegamento e di sconfitta: metafore riuscite e dolorose del destino che avrebbe nei decenni successivi tradito e offeso l'Africa e le speranze dei suoi popoli, delle sue genti.

Ngũgĩ wa Thiong'o, Un matrimonio benedetto, quarup, Pescara 2015, pp. 186, Euro 13,90

05 novembre 2016

"Questo abbraccio" di Loredana Capannoli






Questo abbraccio ha la forma di una vita prenatale 
avvolta in un cerchio caldo e sicuro. 
E' questa la sua forza amorosa. 
L'abbraccio rimane nella nostra memoria 
come un intreccio capace di isolare tutto ciò che è fuori da noi, 
riportandoci a un contatto primordiale cuore a cuore.
Il battito, 
il solo suono dell'abbraccio

02 novembre 2016

“La settimana bianca” di Emmanuel Carrère




di Gianni Quilici

Un bambino, Nicolas, viene portato dal babbo in uno chalet tra i monti per una “settimana bianca”. Gli altri bambini sono già arrivati con il pullman e Nicholas è sordamente arrabbiato col padre, perché sa che questo tipo di venuta provocherà sguardi ironici.
E’ uno di quei romanzi, che rappresentano con straordinaria perspicacia il malessere fisico e psichico di un bambino (vicino all’adolescenza) taciturno e sensibilissimo, troppo protetto e controllato da un padre che, pur rimanendo sullo sfondo misterioso, appare pieno di comportamenti psicotici.

Essere gettato giorno e notte per una decina di giorni con altri bambini fa precipitare Nicolas in un’ansia acutamente nevrotica. Per un verso, infatti vorrebbe sparire; per un altro cerca disperatamente di trovare “appigli”.

Ecco, quindi, la controversa amicizia con Hodcann, ragazzo ammirato e temuto da tutti, alto  e con una voce di adulto, capace di essere volgare, oppure di esprimersi con un vocabolario che per raffinatezza , ricchezza e precisione suonava sorprendente per la sua età. Ecco il contatto più filiale con Patrick, l’istruttore, che intuisce le difficoltà del bambino e che lo tratta con una leggerezza e libertà  che lo stupiscono. Ci sarà poi la tragedia.

Il romanzo ha una scrittura diretta e serrata che scava nell’immaginario ipertrofico di Nicolas trasmettendocelo nelle sue zone più oscure e sottili, ideali per una scomposizione descrittiva di tipo psicoanalitico. Quello che accadrà in quei giorni segnerà, comunque,  il destino del bambino, ma non solo di lui.

Carrère, infatti, con un salto cronologico improvviso, ci presenta Nicolas 20 anni dopo, una sera di gennaio a Parigi nella spianata deserta del Trocadéro. Lì casualmente incontra Hodcann con il cranio rasato, bitorzoluto, la barba lunga e nera, gli abiti informi, poco puliti. E’ lo scarto temporale che preannuncia il finale: la tragedia di quella “settimana bianca”.   

Una tragedia tanto orribile quanto implicita, quasi silenziosa; per questo più penetrante, perché lascia spazio all’immaginazione, che, come sappiamo, non ha limiti.

Emmanuel Carrère. La settimana bianca. La classe de neige" Traduzione di Paola Gallo. Einaudi.