29 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani e Nino Zampaglione (12a puntata)


Dodicesima puntata. in cui i ricodi di Luciano
si intrecciano con quelli di Nino Zampaglione,
calabro-pisano, comunista e dispensiere


Nino.
A Nino Zampaglione, che più e meglio di me (lui è stato persino dispensiere!) ha conservato nozioni vivide degli anni a metà dei Settanta, ho chiesto di delineare i lineamenti essenziali, fisici e morali, dei protagonisti minori, anzi minimi, di una comunità sparita. Cancellata dalla storia come le tribù dei pellerossa del nordamerica o degli aborigeni australiani e della quale solo pochi panni sbiaditi - perché il tempo stinge -  sono rimasti appesi ai fili della memoria.
Lo ringrazio con l'affetto di sempre e con parole mie procedo sui suoi passi.

I vecchi compagni.
Operai di mestiere, artigiani, lavoratori Piaggio, pensionati, dipendenti di aziende legate al Comune, alla Provincia o all'Università, microimprenditori, disoccupati in cerca di occupazione, un bravo falegname che per pochi soldi mi costrui un tavolo a caprette e una libreria robustissima a scaffali in puro stile sovietico che utilizzo tutt'ora. Di  loro, a volergli dare un volto, mi torna in mente per primo, chissà perché, Romano, detto “l’Intellettuale”. Personaggio mite, difficilmente si alterava, sempre gentile e cortese. Nelle riunioni o assemblee di partito interveniva sempre e come molti esordiva dicendo che era d’accordo con la relazione introduttiva e con quanti erano già intervenuti.
 

Poi mi ricordo di Paolo, detto “Pappetta”, perché quando parlava sembrava che masticasse acqua. Ha lavorato fino alla pensione alla libreria Mondadori in galleria Gramsci, dove alcuni compagni della Cella compravano libri e soprattutto dischi, perché Paolo riusciva sempre a garantire sconti piuttosto sostanziosi.
 

Non mi posso dimenticare, poi, di Erico, detto “Berlinguer” per la sua sincera fede in un comunismo ragionevole e riformista a cui se ne accompagnava un'altra: accanito tifoso della Fiorentina fino a scommettere ogni anno sullo  scudetto, sta ancora aspettando il terzo titolo della squadra del cuore. Intanto Berlinguer è morto, il Pci non c'è più e un comunismo qualsiasi risulta ormai “non pervenuto”. Forse, chissà, quando la Fiorentina vincerà il campionato anche il suo comunismo potrebbe fare una sua modesta riapparizione da qualche parte....
 

L'attivista a tutto tondo era Sergio, segretario della Sezione, componente fisso e indispensabile del servizio d’ordine del Pci provinciale durante le manifestazioni e comizi, il suo compito era quello di contrastare i militanti di Lotta Continua e degli altri gruppi. Durante le campagne elettorali o nei periodi politicamente “caldi”, assai frequenti anni settanta, si usava fare le scritte sull’asfalto delle strade o sui muri per rendere ancora più visibile la presenza dei militanti comunisti e il loro impegno politico. Ovviamente la Pubblica Sicurezza faceva di tutto per contrastare questa forma di propaganda politica e noi avevamo messo in atto una strategia per raggiungere comunque l’obbiettivo. Sergio andava avanti con in mano un bidone di vernice e un pennello e la polizia lo seguiva a distanza aspettando di beccarlo a fare le scritte. Dopo qualche centinaia di metri aumentava l’andatura fino a mettersi a correre e la polizia lo seguiva fino a bloccarlo e non poteva fare altro che costatare che nel bidone non c’era vernice. Nel tempo in cui la Polizia prendeva i suoi dati della carta d'identità e lo interrogava, gli altri compagni, rimasti dietro, marcavano con scritte a larghi caratteri l’asfalto e i muri della Cella. Tanti sono gli aneddoti su Sergio: per esempio che rovesciò sul pavimento la moglie che già dormiva perché aveva osato rifare il letto con le lenzuola nere, (in quel tempo erano di moda le lenzuola colorate), dicendo che già faceva fatica a sopportare quelle bianche.
 

A Sergio associo Veniero: di lavoro faceva l’autotrasportatore (camionista di Tir) e, a suo dire, nessuno era più comunista di lui. Manifestava la sua fede politica anche esteriormente e in modo vistoso: il 25 aprile, il 1 maggio, e in occasione delle feste dell’Unità per lui era doverose indossare un fazzoletto rosso al collo.
 

Meno acceso, ma non privo d'ironia verso le cose di un mondo dominato ancora per chi sa quanto tempo dai padroni, era Otello detto “Coino”. Operaio della Piaggio legatissimo al Circolo e alla sua varia umanità, pur iscritto al Pci, non era un frequentatore assiduo della sezione e raramente partecipava alle riunioni di partito. Il suo impegno politico lo riservava alla fabbrica e alle lotte sindacali che giudicava più capaci di cambiare i rapporti di forza tra le classi.
 

Presenza atipica quella di Osiano, detto lo “Zio”, perché aveva quattro nipoti quasi suoi coetanei. Pessimo raccontatore di barzellette sporche che si ostinava comunque a propinarti, era un informatore culturale per Mondadori, lavorava essenzialmente con le librerie proponendo le novità editoriali. Assiduo  della Sezione e del Circolo, attivista e grande sottoscrittore, diffusore dell’Unità, come tanti altri compagni era inserito nel gruppo di quelli che garantivano periodicamente la vigilanza di notte e nei festivi presso la sede della Federazione provinciale.
 

Poi c'era Giulio detto “Popi”, soprannome di origini familiari a significare piccolo Piero, a causa della statura ridotta. Anche lui assiduo frequentatore del circolo e della sezione Pci, comunista stalinista, non ha mai condiviso il compromesso storico e la Dc era il suo nemico. Ancora oggi nei locali della sezione c’è una sua foto col fazzoletto rosso al collo e il pugno chiuso. In suoonore era stato inventato un aperitivo dal colore rosso detto appunto Popino (prosecco e bitter campari). Era l'unico a conoscere alcuni canti comunisti già allora desueti, quelli di Spartacus Picenus (Raffaele Mario Offidani), oggi oggetto solo del blando interesse di demologi e antropologi. Mi sono rimaste nella memoria e nel cuore la passione e l'intensità con cui il “Popi”  cantava Sventola, bandiera rossa, movenze musicali da operetta e un ritornello indimenticabile: Io ti vedo lassù / sulle rovine di un mondo che fu / Bandiera rossa sventolare ognor / su tutti i popoli in sommossa... 
 

A Mauro, il “Crociaio”, il soprannome derivava dalla sua attività: faceva il marmista e lavorava soprattutto nel settore cimiteriale. Non era un grande frequentatore della Sezione, ma un ottimo sostenitore e sottoscrittore della sezione. A Roberto ci si rivolgeva come al “Papino” perché suo nonno, chissà perché, lo chiamavano il “Papa”.
 

Umberto, venditore ambulante soprattutto d’estate sulla spiaggia, diventava “Ciuccino” in quanto abituato a portare a casa alle figlie le caramelle che vinceva giocando a carte.
Grande diffusore dell’Unità. Rolando era detto “Nasco”. Grande tifoso del Pisa calcio, non ha mai mancato una sola partita sia all'Arena Garibaldi sia in trasferta. È morto d’infarto allo stadio nel corso di una partita fuori casa.
 

Giulio frequentatore del Circolo e della Sezione, era un attivista semplice, ma si faceva valere soprattutto durante la Festa dell’Unità dove abitualmente era addetto alla griglia per cuocere, nessuno come lui, salsicce e rostinciana.
 

Luciano iscritto alla sezione autoferrotranvieri, collega e amico di Sergio Pozzolini, valente diffusore del quotidiano del Partito, era stato per 15 anni segretario della Sezione centro del Pci sud. Aldemaro gestiva un deposito di libri e stampe, che con qualche enfasi chiamava libreria o galleria d’arte. I compagni della sezione talora lo scansavano perché voleva vendere a tutti libri che, a suo dire, possedeva solo lui. Quando qualcuno gli chiedeva cosa facesse di lavoro, era solito rispondere che vendeva cibo per la mente.
 

Se Umberto era detto “Umbertino” per un fisico che non era certo quello di ungigante, qualche spiegazione merita l'appellativo di “Caribù” con cui era indicato Carlino: avendo sfondato con una testata il cofano di un'auto era stato assimilato a un personaggio dei fumetti di qualche notorietà in quegli anni, il piccolo pellerossa Caribù dalla testa così dura da spaccare un macigno...
 

Tra i molti, scivolati via attraverso le maglie della rete della memoria, mi rimanangono ancora Carlo, appassionato di calcio e arbitro professionista, attualmente presidente della sezione arbitri di Pisa; Nando, detto “Galippe”, con seri problemi alle gambe e alla deambulazione e talora oggetto di benevoli scherzi e battute da parte dei frequentatori del circolo; Alessandro, per gli amici “Dado”, perché basso di statura e squadrato da sembrare a sei facce: Luciano, fratello maggiore di Erico, netturbino, diffusore dell’Unità e abituale frequentatore del Circolo e della Sezione.

Forse, Nino e io, soli, sappiamo che questi uomini vissero insieme una stagione di complicate amicizie e faticose solidarietà.


26 marzo 2020

"I miti" di Gianni Quilici


 I miti

I miti moderni sono tanto affascinanti
quanto pericolosi.
Il mito è spesso cieca immaginazione.
Il mito crea spesso facile identificazione.
Il mito diventa indiscutibile
quindi intellettualmente parassitario.

Uno sguardo libero
deve liberarlo
perché  sia di nuovo libero
reso più grande
anche quando viene smitizzato
perché forse più vero
comunque discutibile

E quanti miti contemporanei
in Italia e oltre
presenti ed antichi
andrebbero purificati
restituiti più fragili
più umani
più contraddittori
più complessi

24 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (Undicesima puntata)




noterelle di uno di Roma sugli usi e i costumi

dei proletari pisani negli anni Settanta


Mogli e figli.
Numerose il giusto le famiglie dei compagni. Due/tre figli e mogli, spesso, ma non sempre, precocemente invecchiate nel fisico, poco curate nel corpo, sciatte, segnate da una vita di sacrifici e dalla frequentazione con mariti non sai se più trascurati o disattenti, certo privi di qualsiasi motivazione alla vita familiare. Le casalinghe erano quelle messe peggio, mentre nelle poche donne che lavoravano coglievi ancora una fierezza, un portamento dignitoso e lampi di autonomia intellettuale che ti sorprendevano piacevolmente. Rarissime, almeno in pubblico, le manifestazioni di affetto o di tenerezza degli uomini verso figli e consorti, raccontate come impacci, ostacoli, impedimenti a una vita più piena, più “da uomo”. Ignoro se poi nel privato, nell'intimità questi pisani di periferia fossero capaci di premure o gesti di tenerezza, certo è che non li lasciavano trasparire quasi fossero gesti inopportuni, se non riprovevoli. Eppure i compagni non mancavano mai di celebrare l'otto marzo, la festa dell'altra metà del cielo, con rametti di mimosa, un piccolo rinfresco e la diffusione straordinaria di “Noi Donne”. Nella vulgata dominante le mogli erano sempre incazzate con questi mariti impegnati allo spasimo a cambiare il mondo e a conquistare l'armonia sociale e quindi con poco tempo disponibile per la vita domestica e l'educazione della prole. Che tra la ferrovia e la spalletta dell'Arno vedevo crescere libera ma anche riottosa, quando non irriducibile e solo apparentemente obbediente alle intenzioni familiari. Ricordo un Paolo, una Paola, una Sabina, un Piero partecipi di una dimensione infantile separata o con pochi o punti agganci col mondo degli adulti, due realtà che raramente s'incontravano o appena si sfioravano di tanto in tanto. Sarà stato un bene o un male? Non lo so, non ho avuto modo e tempo per seguirne crescita ed evoluzione: certo per questi “bimbetti” la famiglia non era un granché e la scuola era anche peggio.

La scuola e il doposcuola.
Non il luogo della formazione culturale e umana, ma una dimensione afflittiva e umiliante, la scuola, per ragazzini, maschi e femmine, che parlavano male, scrivevano peggio e non erano per niente interessati ai programmi scolastici. Ne conseguivano comportamenti indisciplinati, se non addirittura ribelli e un profitto bassissimo, vittime designate, quei bambini, di una feroce selezione scolastica, peraltro condivisa e introiettata dai genitori: “sai” mi dicevano,”mio figlio/a non è portato/a per lo studio. Subito dopo la licenza dell'obbligo, via, a lavorare!” Rari, rarissimi tra questi adolescenti quelli che tentavano la scuola superiore per interromperla presto e malamente dopo uno/due anni di frustranti insuccessi... E diventavano apprendisti. Commesse le ragazze nei negozi della zona in attesa di un fidanzato, poi marito che permettesse loro di accasarsi alla bella e meglio; nelle piccole fabbriche di Ospedaletto, Riglione, Navacchio, Cascina, Fornacette, Pontedera,  i ragazzi: tanta fatica, sporcizia, orari lunghissimi, pochi soldi e una vita di sfruttamento davanti.
Per aver almeno provato a cambiare questo destino già definito di subalternità e sottomissione, almeno una citazione la meritano i volontari del doposcuola che venne organizzato alla Cella negli anni '73 e '74 e resse fino all'istituzione degli Organi collegiali della scuola. La frequentarono i figli delle famiglie residenti nelle case popolari della Cella che, tutti o quasi, incontravano difficoltà, né piccole né poche, nella scuola del mattino A loro e ai loro destini scolastici si dedicarono per due anni, tutti i pomeriggi dal lunedì al venerdì, soprattutto Paolo Borghi, Nino Zampaglione, Luciano Luciani, Paola Gnesi, Betti Gnesi, Gigi Previti, Gioia Maestro, Walter Siti, Angelo Curatola, Franca Mirti, Sandra Minelli, Cristiana Torti e ancora qualcun altro di cui si è ormai dissolto il castello di sabbia del loro viso e non ne ricordo neppure il nome. Al secondo piano del Circolo, quello vocato alle riunioni di Partito, si facevano assieme i compiti per il giorno dopo, si preparavano le lezioni, si provava a costruire una linea di difesa contro una scuola media crudele e aggressiva verso i figli dei poveri. Se è vero che i volontari del doposcuola ottennero una qualche forma di riconoscimento dall’istituzione scolastica tant’è che partecipavano agli incontri con gli insegnanti in sostituzione dei genitori, dal preside e dai docenti di quella scuola media che si trovava alle spalle di via Benedetto Croce (le scuole Marconi?) non ricordo che sia mai venuta una parola di attenzione e simpatia, comprensione e condivisione con quelle attività pomeridiane che pure si adoperavano per sanare i loro guasti della mattina. Eppure qualcuno dei “bimbetti” ce lo portammo a conseguire la licenza di scuola media, con fatica ma ce lo portammo, e un tale risultato fu motivo di qualche soddisfazione e di una stima rinnovata da parte dei compagni che per la prima volta scoprivano i figli tutt'altro che inadatti, alla scuola, tutt'altro che scemi o come li definivano loro, “ghiozzi”. Mi sembra importante ricordare che quel gruppo di studenti, di “intellettuali”, come tra il bonario e lo svalutativo veniva indicato dai compagni del Circolo, rimase insieme ancora per alcuni anni e partecipò all'esperienza degli educatori e animatori dei soggiorni estivi effettuati nel territorio del Comune di Zeri e istituiti dall’allora Consorzio di Medicina Scolastica dell’Amministrazione Provinciale di Pisa in collaborazione con alcuni Comuni (Pisa, San Giuliano Terme, Cascina, Guardistallo...). Di lì la formazione di un'associazione, il Gruppo di Impegno sui Problemi Educativi, Gripe, che ebbe un'esistenza tutt'altro che effimera durata un paio d'anni, realizzò alcune attività non disprezzabili tra la scuola e il sociale e si concluse per la naturale diaspora dei suoi componenti chiamati dalla vita ad altri lavori, ad altre responsabilità



18 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (decima puntata)




memorie autobiografiche di un ventenne romano

capitato a Pisa per caso mezzo secolo fa



Donne e Feste.
Rare e fugaci le apparizioni femminili nei locali del Circolo. La donne - mogli, figlie, sorelle, madri – facevano rapide comparse per ricordare ai mariti, ai padri, figli, fratelli, che era ora di tornare a casa, che era pronto in tavola, che si era presentato qualche problema che solo una presenza maschile poteva aiutare a risolvere. Non stava bene per una donna fermarsi troppo a lungo in quegli ambienti per soli uomini, per di più piuttosto grossolani nei modi e spesso, assai spesso, simpatizzanti più per l'alcol che per l'idea della Necessaria Vittoria del Proletariato. Solo ora, a ripensarci, mi rendo conto che lì le donne non avevano voce: le mogli e le figlie venivano iscritte d'ufficio all'Arci o al Pci, e se le loro più o meno consapevoli adesioni contribuivano al conseguimento del faticoso e sospirato obbiettivo del 100 per 100 nel tesseramento, non le ritrovavi, mai o quasi, rappresentate negli organismi dirigenti dell'una o dell'altra Associazione.

Si dava, però, nel corso dell'anno un tempo breve (in genere due fine settimana lunghi, venerdì, sabato e domenica, la formula di calendario economicamente migliore ribadivano i compagni più esperti) in cui le donne risultavano finalmente decisive e al centro della vita associativa. Accadeva d'estate ed erano i giorni, magici, della locale Festa dell'Unità, un momento importante nel calendario emozionale della comunità della Cella. Allora, in occasione di quella corrispondenza laica con la festa del santo patrono, che, peraltro, nei miei anni alla Cella non ho mai vista celebrata, si ristabiliva l'uguaglianza tra i generi e l'altra metà del cielo assumeva il ruolo strategico che le spettava. Se competeva agli uomini l'allestimento materiale dei banchi, dei tavoli, degli ombrelloni, dei pannelli colorati di rosso con i profili di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, senza trascurare il compagno Ho Chi Min, che delimitavano l'area della festa allestita in un piccolo slargo tra le case popolari, toccava alle donne riempire quello spazio degli afrori e dei sapori di una densa, robusta e appetitosa cucina toscana: tortelli al sugo, penne arrabiatissime, zuppa toscana di cui non ho mai più provato l'eguale, cacciucco alla livornese, coniglio, anzi conigliolo, al sugo con le olive o fritto, rostinciana, panzanella, vassoi di finocchiona e pecorini, patate fritte, frati zuccheratissimi e bomboloni alla crema sempre strabordante... E poi fette di cocomero diaccio e melone, gelati Sammontana, birra, Coca Cola e tanto, ma tanto vino per bagnare e animare a dovere quelle serate estive in cui la Festa dell'Unità rappresentava l'unico svago per le famiglie che non potevano permettersi le vacanze estive, al massimo una girata a Marina o a Tirrenia la domenica pomeriggio. Il programma, oltre al veloce comizio d'apertura affidato a un compagno della Segreteria venuto espressamente dalla Federazione, prevedeva una tombolata gigante con ricchi premi, un torneo di briscola con ricchi premi, una riffa, posizionata sui numeri della ruota di Firenze sempre con ricchi premi. Ricchi premi: ovvero un salame oppure un prosciutto, l'uno e l'altro di non eccelsa qualità e stagionatura, mentre un piccolo tavolo di libri, riviste e pubblicazioni di propaganda provvedeva a soddisfare le esigenze culturali del ristretto gruppo degli “intellettuali”.
Si ballava alle Feste dell'Unità? In proposito nella memoria non mi è rimasto nessun graffio significativo e in tutta sincerità debbo dire che nessuno dei compagni della Cella mi sembrava possedere il fisico adatto per gettarsi nelle danze e neppure la necessaria libertà giocosa della testa e del corpo. O forse sono io, ancora oggi, ad attribuire agli altri le mie timidezze, le mie difficoltà di relazionarmi con pienezza.
E poi, che Dio possa perdonarci, c'era il gioco del porcellino! Ovvero, in uno spazio circolare, delimitato da scatolotti numerati, veniva abbandonato un povero Cavia porcellus, un roditore da esperimenti da laboratorio, che a forza di urla, improperi, risate, bestemmie e cori da stadio veniva sollecitato a infilarsi in uno dei bussolotti. Vincevi, se il numero del piccolo box in cui la bestiola cercava di trovare riparo dalle grida corrispondeva al tuo. E così ad libitum. ancora e ancora, fino a quando l'animaletto, definitivamente terrorizzato, si bloccava al centro dell'arena o si rifiutava di uscire dall'ultima scatola. Nessuna sensibilità animalista ci toccava allora per un divertimento da denuncia alla Protezione Animali, ma popolarissimo tra i frequentatori della Festa...
E le domeniche un appuntamento fisso: diffusione straordinaria dell'Unità con centinaia di copie vendute porta a porta, suonando campanelli e citofoni, interrompendo ultimi sonni e colazioni, complicando vite private e diritti al riposo e alla privacy.
Era bello, comunque, con sospir mi rimembra, tirare tardi nel fresco della notte, succhiando un ghiacciolo e discettando sui massimi sistemi: il Vietnam e la Dc, il Partito e i gruppi extraparlamentari, le imminenti elezioni - c'era sempre un appuntamento elettorale che incombeva -  e le lotte sindacali vicine e lontane. Si andava a letto ancora più convinti. E contenti di un'esistenza piena di senso, del fatto che eravamo fortunati a vivere in quel tempo così pieno di prospettive, così ricco di speranze. Così intenso da desiderarne due, di vite, per vederle tutte realizzate.
In fondo, la politica - quella politica lì, praticata in quella maniera -  rappresentava uno dei pochi, forse l'unico, elemento d'ordine di giovani vite alle prese col caos affettivo ed esistenziale proprio dell'età e peculiare di quei complicati giorni lontani.



12 marzo 2020

“Anna Magnani” foto di Philippe Halsman


di Gianni Quilici

Immagino che ciò che conta in questo scatto fotografico di Philipe Halsman sia come sia arrivato a quella “situazione”, quale sia stato il processo attraverso cui Anna Magnani abbia potuto regalare quel volto e come il fotografo lo abbia fatto suo.
Perché è un’immagine intima. Molto intima. Più un fotogramma di un film che una foto.
Sicuramente Anna Magnani è una grande interprete ed ha un istinto teatrale formidabile. Ma si ha bisogno comunque di una motivazione, almeno di uno stimolo forte per lasciarsi andare in quel modo.  

Come è risaputo Philippe Halsman è stato un grande ritrattista e, come si evince dalla sue dichiarazioni, un acuto psicologo. Ha scritto:”Ogni faccia che vedo mi sembra nasconda – e a volte fuggevolmente riveli – il mistero di un essere umano. Catturare questa rivelazione è diventato l scopo e la passione della mia vita”.

E in questo primo piano su Anna Magnani ci è riuscito magnificamente.
E’ una di quelle foto che colpiscono così immediatamente gli occhi che sembra avere poco senso ragionarci sopra.
Ma alcune osservazioni vorrei avanzarle.

La prima: l’intensità del dolore della Magnani s’impone in ogni aspetto di ciò che noi vediamo: l’occhio sinistro chiuso che si intreccia alla mano posata sull’altro occhio come se ci dicesse “non è possibile!” “non voglio crederci” “è intollerabile”.
C’è tuttavia qualcosa di ancora più sottile: l’intensità del dolore arriva da tutto il corpo. Visibile e invisibile. In altri termini è un dolore che va oltre l’immagine. Suscita condivisione.

La seconda osservazione: la bellezza di Anna Magnani nel senso classico della parola. La bellezza delle lunghe dita nude e affusolate, la bocca dischiusa e carnosa, i capelli nerissimi e sparpagliati.  Suscita desiderio o può suscitarlo.

Ed infine tutto questo è rafforzato da un elemento linguistico: il contrasto cromatico tra il primissimo piano chiaro  e lo sfondo con i capelli scuri. Conseguenza: il volto emerge scolpito in tutta la sua evidenza.

“Anna Magnani” foto di Philippe Halsman/Magnum Photos. Roma 1951

  

09 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (Nona puntata)




nono appuntamento con la memoria autobiografica
di un Autore sconosciuto ai più

Pisa. La Casa del Popolo “Antonio Gramsci” - La Cella.
Dal Centro di Formazione Professionale Enaip di Pontedera, dunque, mai una gioia, anzi non pochi i motivi di insoddisfazione e frustrazione. Dai quali mi rifacevo con la sempre più intensa frequentazione del Circolo Arci “Antonio Gramsci” - La Cella e della sezione del Partito comunista ospitata nei suoi locali. Una Casa del Popolo come ce n'erano tante nella civile Toscana del secolo scorso, serrata tra il bacino dell'Arno e la Tosco-Romagnola, segmento breve e più alto di un lungo filare di casette basse e scialbate in giallino. Nel buiore di una strada stretta e tutte curve che portava a Riglione, Cascina, Fornacette e Pontedera, ne indicava l'esistenza un grande neon luminoso, dove accanto alle lettere dell'insegna spiccava il simbolo del Pci: una bandierina tricolore e una rossa appaiate, con un più ampio spazio concesso alla rossa, naturalmente, e tanto di falce e martello. Tre gradini da salire, una porta a vetri cigolante e si entrava nel più importante spazio di aggregazione civile, politica, culturale e umana di quell'area a sud-est di Pisa, dimenticata da Dio e anche dagli uomini che pure, con non poca fatica, si adoperavano per amministrare la città della Torre pendente. Alcuni tavolini, quasi tutti claudicanti, accerchiati da sedie da bar e in fondo a sinistra il bancone del ”dispensiere”: termine diffuso in tutto il Pisano per indicare colui che amministrava la dispensa, preparava e distribuiva - dispensava - caffè e soprattutto ponci, plurale di ponce, adattamento pisano-livornese dall'inglese punch (bevanda). Ovvero caffè corretti al rum con scorza di limone, alla livornese; oppure al sassolino, o anche al mandarino, senza dimenticare il cognac o la sambuca... A lui. al dispensiere, non si chiedevano cocktail particolarmente elaborati o raffinatezze alcoliche, ma correzioni robuste a un prezzo contenuto, oggetto di solito di aspre discussioni in sede di Comitato Direttivo della Casa del Popolo. Era lui a gestire la macchina per il caffè sistemata a destra del piano d'appoggio, i cui vapori, durante la stagione invernale, contribuivano anche ad alzare un po' la temperatura piuttosto rigida di un ambiente mal riscaldato. Dietro un grande specchio appannato rimandava a fatica le immagini dei frequentatori, complicate da un articolato sistema di scaffali di vetro su cui erano ben esposte le bottiglie del tesoretto alcolico del Circolo: amari e grappe, cognac e brandy, sambuche e, per i più cosmopoliti, una sola marca di vodka e un paio di tipi di whisky. Qui, per tutto il tempo della mia frequentazione del Circolo, stazionarono  bottiglie di strane sopravvivenze spiritose; liquidi desueti come il Marsala, liscio o all'uovo, e il Vov, un ignobile intruglio di zabajone liquoroso, che ricordavo di aver annusato, spacciato come “corroborante”, nelle non rare occasioni in cui ero apparso deperito agli occhi dei miei sempre ansiosi genitori. E per non bere a sciacquabudella venivano in soccorso piccole confezioni di noccioline americane, di “seme” (i romanissimi bruscolini), di nocciole, di caramelle, liquerizie, gomme da masticare, tavolette di cioccolato, qualche polveroso pacchetto di biscotti dall'aria vetusta. In un angolo un grande surgelatore, in funzione solo durante l'estate, prometteva di contribuire a stemperare la calura dei giorni d'estate con i suoi prodotti  rigorosamente “Sammontana gelati all'italiana”: cremini e ghiaccioli, coppette e semifreddi.

“Noi, 'un ci si 'apisce nulla”
Una scala collegava il piano terra col primo e un ambiente più vasto deputato alle assemblee dell'Arci  o del Pci, ai congressi di sezione, alle (rare) proiezioni. Certo, non era la Sala Nervi: trenta/quaranta sedie di plastica, un tavolo in fondo per la presidenza, sul lato opposto collocato su un trespolo aggettante un televisore. In un andito nascosto una stanzetta arredata con armadi di metallo con i registri dell'amministrazione e i cedolini delle tessere, croce e delizia di ogni serio dirigente comunista con l'assillo perenne del 100 per 100 nel tesseramento. Appoggiate a un angolo le bandiere da sventolare durante le manifestazioni: quella del Pci, dell'Arci e su alcuni scaffali le raccolte degli ultimi anni di “Rinascita”, a cui Circolo e Sezione erano abbonati, ma che nessuno leggeva perché reputate rivista di difficile lettura. Malinconicamente si ammucchiavano settimana dopo settimana. “Vedi tu” mi esortava il compagno Romano Mussi del Direttivo “se c'è qualcosa che t'interessa prendila pure. Noi” concludeva tra il frustrato e il compiaciuto “' 'un ci si 'apisce nulla”. Andava meglio con “Giorni-Vie Nuove”, che trattava anche temi sportivi e non disdegnava ogni tanto qualche fotografia di belle ragazze. Qualche copia ne circolava sui tavoli del bar e non pochi compagni la sfogliavano e qualcuno ne commentava anche ad alta voce gli argomenti. Era il  modesto, ma non banale, tentativo dei comunisti per confrontarsi con una cultura di massa in larga espansione: inadeguato, certo, ma interessante per per i temi trattati (il femminismo, la condizione giovanile e il '68, il cinema, la televisione, il dissenso nei Paesi socialisti, il mondo della canzone, lo sport, la moda...) con i quali “Giorni - Vie Nuove”, diretto da Davide Lajolo, giornalista di razza e vigoroso scrittore, si adoperava per mettere in relazione i comunisti, gli elettori del Pci e i simpatizzanti con un paese reale in ribollente trasformazione nei comportamenti e nella mentalità. Agli abbonati, poi, venivano dati in regalo libri di qualche pregio per i contenuti e come prodotto editoriale. Uno di questi, La storia degli italiani di Giuliano Procacci, ottenuto con la solita procedura di delegarne la lettura agli “intellettuali”, onora ancora oggi gli scaffali della mia libreria.

04 marzo 2020

"Una volta qui era tutta campagna" di Giovanna Baldini.

                 
                           Memorie autobiografiche dalla Toscana profonda

di Luciano Luciani

Memorie autobiografiche che ci giungono dal secolo scorso e dalla Toscana profonda, le pagine del libro Una volta qui era tutta campagna Ponte a Egola: un'epica minima, appena pubblicato per i tipi della casa editrice pisana ETS. Le ha scritte, secondo un apprezzabile registro piano e cordiale, Giovanna Baldini, bambina negli anni Cinquanta del Novecento, intingendo i suoi pennini negli inchiostri indelebili degli affetti familiari e amicali: ed è merito dell'Autrice aver saputo mantenere lo sguardo limpido e curioso di allora e di essere, ancora oggi, disponibile a stupirsi dei racconti di nonno Pietro, delle fole di zia Marietta o delle leggende “di paura” che tanto la inquietavano nei giorni dell'infanzia.


Quando “qui era tutta campagna” il mondo si presentava più semplice e più povero, ma non per questo peggiore, anzi! Si era usciti da poco da una guerra tragica che aveva sfigurato il volto del nostro Paese e gli animi degli uomini e i giovani di allora, tra loro anche i genitori dell'Autrice, seppero trovare le risorse di orgoglio, coraggio e tenacia necessarie per risalire la china e creare le premesse per una stagione di straordinarie conquiste economiche, sociali e di civiltà molte delle quali, per fortuna, resistono ancora nei nostri anni complicati e difficili. In maniera forse ingenua e disordinata, ma sempre generosa e capace di futuro, un formidabile processo di trasformazione investirà l'Italia e anche Ponte a Egola, frazione di San Miniato, in provincia di Pisa proprio sul limitare di quella di Firenze. Anche qui, una piccola comunità legata alla terra e ai suoi ritmi, così lenti da sembrare immutabili, conoscerà invece un'accelerazione e uno sviluppo straordinari, cambiandosi in pochi anni in una piccola capitale dell'industria conciaria, i cui prodotti saranno apprezzati sui mercati nazionali e internazionali. 


L'Autrice ci racconta quei veloci mutamenti e la loro ricaduta sul terreno della mentalità e dei comportamenti, del costume e della vita di relazione: un mondo nuovo che urgeva, batteva alle porte e faceva i conti col vecchio. La modernità si confrontava, a volte duramente e senza sconti, con la tradizione e insieme l'una e l'altra cercavano di ricomporre un equilibrio non sempre facile. Cambiavano le attività, i mestieri, le figure sociali, il paesaggio e quel lembo di regione si trasformava in quella “Toscana brutta” lamentata in una ossimorica definizione da Enzo Carli, illustre storico dell'arte pisano. Forse tale, ma certo operosa, intraprendente, attiva come trapela da questo racconto di una vicenda familiare che è insieme scrittura privata e politica, personale e sociale. Attenta, e questo è un altro dei non pochi meriti del libro, alla evoluzione della condizione femminile: a come quelle ragazzine, figlie di indomite staffette partigiane e impavide militanti comuniste  che diffondevano “L'Unità” e “Noi Donne” nonostante Scelba e la Celere, seppero crescere e porre le basi per diventare negli anni a venire donne autonome e consapevoli dei diritti e dei doveri, cittadine impegnate e protagoniste di una storia in gran parte ancora tutta da scrivere.

Giovanna Baldini, Una volta qui era tutta campagna. Ponte a Egola. Un'epica minima, prefazione di Lia Marianelli, Edizioni ETS, Pisa 2019

Giovanna Baldini, nata a Ponte a Egola negli anni “poveri ma belli”, vive a Pisa.
Docente di lettere nei licei, è impegnata in attività di volontariato carcerario.
Insieme a  Vittoria Carla di Bari, Maria Letizia Verola ha curato la pubblicazione di Incontro con la legalità, La Grafica Pisana, 2010. Con la casa editrice ETS di Pisa ha pubblicato Ricette al fresco Gli 85 modi per cucinare nel carcere di Pisa; sempre con Ets nel 2015 Il tartufo Un diamante sporco di terra; nel 2014 per le edizioni Helicon insieme a Cristiana Vettori Il gusto giusto 100 ricette al sapore di legalità, libertà e democrazia.

03 marzo 2020

“Il principe nero” di Fabio Galimberti



    

di Silvia Chessa

                 Come può una figura così turpe un modello di uomo così villano da introdursi furtivamente, sotto mentite spoglie, di notte, nel letto di una donna, facendosi scambiare per il marito (fidanzato, o compagno), essere considerato, agli occhi dell’universo, un Dongiovanni, l’emblema del corteggiatore ?
Perché di questo si tratta, su questo, o anche su questo, si interroga Fabio Galimberti nel suo libro.

Prima di parlare del Principe nero di Galimberti è, però, doveroso un breve excursus nella ricca e avvincente storia letteraria del personaggio protagonista.
Don Giovanni è, in realtà, un mito tragico e non gaudente nato in Spagna nel XVI secolo, una allegoria della protesta dell'istinto contro il rigore della legge e la severità morale dell'epoca; la sfida della vita sopra la morte. L'intento di Tirso de Molina (El Burlador de Sevilla, circa 1630) era moralistico: caricando di vizi il protagonista intendeva assicurarlo all'inferno come giusto castigo finale. Per fortuna nostra, e come per Pinocchio, Don Juan prende forma e vita propria, arricchendosi via via di sfumature ed abilità, come la strategia seduttoria, che lo faranno diventare una simpatica o addirittura amabile canaglia.

Il personaggio, animato di vita propria, attraversa crisi e cadute, sembra uscire di scena, ma poi si rinnova rinascendo dalle proprie ceneri come la Fenice. La sua figura si connota di valenze religiose nell’ “Ateista fulminato” (metà del 1600): il conte Aurelio non piegandosi al pentimento è colto da un fulmine che lo spedisce all'inferno. Il tema verrà ripreso da Molière il quale porta Don Giovanni all'apice del suo sviluppo e maturità nel suo Don Juan edito nel 1665. Nella storia del teatro e della musica, infine, darà ispirazione ed origine ad alcune delle più belle ed intramontabili opere.

Il profilo originario di Don Giovanni è dunque quello di un ingannatore, da qui prende le mosse la prospettiva di Fabio Galimberti (psicoanalista, docente nonché autore di altri titoli). Questo Principe nero nasce molestatore di donne, il quale pur di arrivare allo scopo di averle (non di amarle, non di renderle felici e neppure di essere da esse desiderato) è disposto a tutto.
Pertanto dobbiamo capire, in ciò ci aiuta l'autore, questo passaggio, questo mutamento genetico-romanzesco, ma anche psicoanalitico: in quanto il Don Giovanni, che nella sua raffigurazione letteraria non mostrava doti di vero corteggiatore, di uomo galante con le carte in regola per fare innamorare le donne, diventa, paradossalmente, emblema e simbolo del corteggiatore e conquistatore per eccellenza. Il Casanova per antonomasia, e questo non solo nel linguaggio orale e nel parlar comune, bensì nella profonda psiche e addirittura nella psicanalisi, equiparabile ad un narcisista incline alla conquista compulsiva che lascia un mare di sofferenze e di assenze dietro di sé.

Potremmo rispondere facendo riferimento a Zeus (che, innamoratosi di Leda, si trasformò in un cigno per unirsi a lei) e dire quindi che questo prendere le sembianze di altro/i , questa capacità di recitare o fingere un mutamento è forse antica arma di conquista, segreto della lusinga?
O forse il motivo della conquista è, come Freud aveva posto in modo rivoluzionario, nelle parole che le donne pronunciano per riferirla (ripartorirla?), insomma le ragioni sono da ascriversi quasi alla sfera del racconto, ovverosia alla traslitterazione verbale  che le donne stesse fanno della loro storia con Don Giovanni?
Insomma la vita, e quello che essa contiene, per esempio una storia d'amore, può prendere forma e senso dall'eco della sua narrazione, dalla narrazione che se ne fa di essa. Un po’ come se la nostra esistenza finissimo per "Viverla per raccontarla" , rimanendo in ambito letterario ed attingendo ad un altro grande narratore, G.G. Marquez.
Questi gli indizi, ma per sapere le vere risposte e le nuove prospettive indicate da Fabio Galimberti non resta che leggere questo ben ritmato e scorrevole libro.

Piccola curiosità personale, scorrendo anche solo i titoli della corposa bibliografia (sotto riportata) della figura letteraria-teatrale del Don Giovanni, non si ha l'impressione, netta, di una parabola prima ascendente (da Burlador a Don Juan, apice in Molière) e poi discendente (Ospite di pietra, Don Giovanni involontario)?
A me sembra che questa figura del Don Giovanni, ingigantita prima e circoscritta poi ad ospite di passaggio e conquistatore accidentale, (passando per i bagni di umiltà della grande inquisizione che lo ha calato nei panni di ateo punito), fino a svaporare, ai giorni attuali, si accinga a restare, al netto di analisi, romanzi, trasposizioni teatrali e raffinate opere musicali, una semplice sovrastruttura alla quale le donne di oggi sapranno e dovrebbero, presa finalmente la parola, conferire, come si spera, il giusto e definitivo ruolo ed il relativo merito.

 

Il principe nero: Don Giovanni, un sogno femminile.

di Fabio Galimberti
Editore: Mimesis
Collana: Eterotopie
Data di Pubblicazione: 2019

 
________         Bibliografia del mito di Don Juan             __________

La tragedia del Conte Leonzio rappresentata a Ingolstadt nel 1615 (narrata in Promontorium Malae Spei Impiis Pe-riculose navigantibus Propositum, di Padre Paolo Zehzntner S.f., 1643).
El Burlador de Sevilla, di Tirso de Molina (prima del 1630).
L'Ateista fulminato, scenario (raccolta ma­noscritta Biblioteca Casanatense, me­tà 1600).
Il Convitato di pietra (idem).
Il Convitato di pietra, di Giacinto Andrea Cicognini, circa 1630.
Le Festin de pierre, di Dorimond (1658).
Le Festin de pierre, di Villiers (1659).
Le Festin de pierre, scenario di Domenico Biancolelli (dopo il 1661).
Don Juan, di Molière, 1665.
L'Empio punito, di Filippo Acciaiuoli (1669).
Le Festin de pierre, di Rosimond (1669).
Il Libertino, di Thomas Shadwell (1676), musicato da Purcell.
Don Juan, di Thomas Corneille (1677).
No hay plazo que no se cumpla..., di Anto­nio de Zamora (1714).
Don Giovanni, di Carlo Goldoni (1730).
Don Giovanni, balletto di C.W. Gluck (1761).
Il Convitato di pietra, di A. Perrucci (1778).
Don Giovanni, di Giacomo Tritto (1783).
Il Convitato di pietra, opera di P Giovanni Gazzaniga (1787).
Don   Giovanni,   opera   di   W.A. Mozart (1787).
Don Giovanni, di Joan Helberg (per mario­nette, 1814).
Don Juan, novella di E.T.A. Hoffmann (pri­ma del 1820).
Don  Giovanni,  poema   di   George Byron (1824).
Don  Giovanni e  Faust,  di  CD. Grabbe (1829).
Il  Convitato di pietra, di Alexander Pu­skin (1830).
Il Convitato di pietra, di Giovanni Pacini (1832).
La Matinée de Don Juan, di Alfred De Musset (1833).
Le anime del purgatorio, di Prosper Mérimée (1834).
Don Juan de Maratta, di Alexandre Dumas padre (1837).
Don Juan Tenorio, di José Zorilla (1844).
Don Giovanni, poema di Lenau (1843).
Monsieur Jean, di Roger Vailland (1859).
Don Zuan, di Aleksej K. Tolstoi, poema (1862).
Il Convitato di pietra, di Alexander Dargominski (1872).
La morte di Don Giovanni, di A.M.G. Junqueiro, poema (1874).
La Fine di Don Giovanni di Paul von Heyse (1884).
Don Giovanni, poema sinfonico di Richard Strauss (1887).
Uomo e Superuomo, di George Bernard Shaw (1903).
La Dannazione di Don Giovanni, di Artu­ro Graf (1905).
L'ospite di pietra, di Lesja Ukrainka (1913).
L'ombra di Don Giovanni, di Franco Al­fano (1914).
Don   Giovanni   involontario, di Vitaliano Brancati (1943).
Don Giovanni o L'amore per la geometria, di Max Frisch (1962).

01 marzo 2020

"Poesia" di Mirta Vignatti


      Mirta Vignatti. Foto di Violetta Barone

In me
al lume
della luna d’aprile
è sceso il volo
del desiderio
di non esser
più io.
          Mirta Vignatti

di Gianni Quilici
Sono soltanto sei versi, ma, questa  immagine, questo canto, esprimono una sottile profondità. Una profondità leggera, quasi evanescente, perché  desiderio di un attimo.  Se tuttavia questi versi sono ridotti a parafrasi ecco che appaiono banali.  Esempio: la luce della luna suscita il desiderio della protagonista di non essere più se stessa.

Leggetela, invece, più volte, visualizzate l’immagine,  assaporate la parola distillata in versi brevissimi, percepite quel ritmo in cui i versi si snodano  fino a quando veloce  il desiderio … sparire, dissolversi. Sparire dove, ci si potrebbe chiedere?  Apparentemente nel nulla. In realtà in quel desiderio. Nel nulla da quel desiderio. Ciò che rimane, però, non sono pensieri, ma  echi, risonanze indefinite come desiderio di trascendenza.     

E si potrebbe aggiungere, andando nei dettagli: bello l’inizio come sospiro perentorio (“In me”), come la scelta della parola intima, patriarcale (“al lume” invece che “alla luce”), inoltre il rapporto implicito e rapido del desiderio tra l’io e la luna  ( “è sceso il volo/ del desiderio),  infine la chiusa che proietta l’indefinitezza (“non esser/ più io).

Un’emozione, che diventa desiderio oltre il dicibile, che Mirta Vignatti  rappresenta con sinteticità e verità.  

da Mirta Vignatti. Accarezzando l'azzurro. Acariciando el azur" 1995