29 maggio 2014

"Così resistemmo..." a cura dell'ANPI di Lucca




di Luciano Luciani

Il settantesimo anniversario della liberazione di Lucca dall’oppressione nazifascista (settembre 1944 – settembre 2014) si va configurando come un’importante opportunità per la comunità locale. Le manifestazioni (di tipo istituzionale, storiche, artistiche e anche quelle a più larga risonanza emotiva e popolare…) che, a vari livelli, – comunale, provinciale, regionale, – segneranno le prossime settimane e i prossimi mesi offrono, infatti, a tutti i cittadini lucchesi la possibilità di tornare a riflettere intorno ad alcune fondamentali questioni della nostra vita civile:
- qual è l’insegnamento che le vicende di quel tragico 1943/1944 hanno lasciato e quanto di esse ci portiamo dietro e dentro;
- in quale misura la nostra storia recente possa essere considerata una riserva di identità;
- che cosa significa essere italiani oggi;
- quale idea di Italia intendiamo avere per il futuro.
Insomma chi siamo, da dove veniamo e, come sistema-Paese, in quale direzione stiamo procedendo.

Oggi che abbiamo la possibilità di godere di un progresso civile, sociale, economico, impensabile per i ‘padri Costituenti’ di settant’anni or sono, siamo anche più chiaramente consapevoli che esso non è mai stato semplice né esente da larghe zone d’ombra e che conflitti, ingiustizie e tensioni, l’hanno percorso e segnato. Se rileggiamo la nostra storia repubblicana e democratica dobbiamo, però, ammettere che valori importanti e ‘strategici’ quali l’amore per la libertà, l’aspirazione alla giustizia sociale, la pratica della solidarietà sono sempre stati al centro della ricerca e dell’impegno della grande maggioranza dei cittadini italiani e lucchesi: virtù apprezzabili che abbiamo il compito di trasmettere alle giovani generazioni, nei cui confronti non sempre riusciamo a essere attenti e generosi quanto forse dovremmo.
Luci e più di qualche ombra, dunque, e parecchi gli impegni da prendere per gli anni a venire. Tra gli altri quello di non dimenticare mai di difendere l’unità del nostro Paese, raggiunta nel primo Risorgimento, e la Costituzione repubblicana conquistata con la Resistenza; poi, tenere sempre presenti le lezioni che ci sono venute dalle grandi correnti ideali e dai grandi movimenti riformatori che nella storia di questo Paese agirono per trasformare in senso sempre più democratico lo Stato uscito da vent’anni di dittatura fascista, dalla catastrofe della guerra, dell’8 settembre, dalla Liberazione. Non trascurare mai tale eredità morale e consegnarla, senza enfasi e senza retorica, ai più giovani significherebbe davvero tornare a dare senso a una memoria finalmente comune e condivisa.

Le pagine di Così resistemmo…, pubblicazione voluta e curata dall’Anpi di Lucca e dall’Amministrazione comunale, con le sue storie di donne e uomini della Resistenza e nella Resistenza, (don Arturo Paoli e Carlo Del Bianco, Nara Marchetti e Maria Eletta Martini, Paolo Rosellini e Mario Buoni e tanti, tanti altri…) vanno appunto in tale direzione: favorire la conoscenza e la riscoperta di uno straordinario patrimonio ideale fatto di passioni, entusiasmi, sacrifici, fino a quello estremo della vita, di molti Lucchesi, donne e uomini di tutte le età, condizioni sociali, convinzioni politiche e religiose. Storie di amor di patria, di libertà e giustizia vissute e sofferte da parte di personaggi noti e meno noti, ma tutti capaci di confrontarsi con i bordi frastagliati e affilati della Storia e, con specificità tutte lucchesi, lasciare tracce profonde nella coscienza del loro tempo e porre le basi per la convivenza civile del nostro.

I racconti contenuti in questo libro, ne siamo convinti, saranno senz’altro capaci di evocare positivi rintocchi emotivi e intellettuali nel cuore e nella mente di tutti i Lettori e trasmettere l’idea forte che “la memoria non è fatta solo di giuramenti, parole e lapidi; è fatta di gesti che si ripetono ogni mattino del mondo. E il mondo che vogliamo noi va salvato ogni giorno, nutrito, tenuto vivo. Basta mollare un attimo e tutto va in rovina” (Stefano Benni).


Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Sezione intercomunale di Lucca, 1944 – 2014 70° anniversario della Liberazione di Lucca dal nazifascismo Così resistemmo… Profili di donne e uomini della Resistenza e nella Resistenza a Lucca e da Lucca, pp. 80. Euro 5,00

25 maggio 2014

"Francesco Giuntoli: un comunista libertario" di Gianni Quilici


Francesco Giuntoli, anni '90. Foto di Gianni Quilici

"L’ho conosciuto agli inizi del ’69 quando, anche a Lucca da poco, era scoppiato il movimento studentesco e Francesco Giuntoli ne era diventato ben presto uno dei leader riconosciuti.

Mi risultò subito simpatico, perché dietro la determinazione delle sue parole e delle sue scelte ci vedevo un sorriso buono, autoironico e fraterno. Così l’ho percepito sempre: determinato e gentile.

Ma Francesco Giuntoli era qualcosa di più.
Era un intellettuale, che analizzava il presente, avendo una conoscenza della storia, soprattutto una conoscenza profonda del movimento operaio, non solo italiano, ma internazionalista.

Era, inoltre, un militante, che ha attraversato attivamente la storia di questi anni, dal mitico ’68 fino, come dirigente di Rifondazione Comunista, all’ultimo respiro dei nostri giorni. L’ultima volta che l’ho sentito intervenire, con la sua oratoria appassionata vagamente ottocentesca, era l’11 settembre dello scorso anno, in una iniziativa su due grandi presidenti, Sandro Pertini e Salvador Allende.

Ma Francesco è stato soprattutto un comunista, parola oltraggiata, ma che condensa molte qualità, non solo cultura e militanza, ma in più assume come punti di vista i grandi valori dell’esistenza: l’uguaglianza e la libertà, la fraternità e il pacifismo.

Non è mai stato, tuttavia un comunista ortodosso. E’ stato un comunista libertario, che amava i piaceri, l’ascolto, il confronto; solo era intransigente rispetto ai compromessi, che mettessero in discussione i valori a cui profondamente credeva.

Per questo le sue scelte esistenziali e politiche sono state coerenti e coraggiose sempre, aperte e intransigenti.Per questo la sua morte ha suscitato, in chi lo ha conosciuto o semplicemente incontrato, un dolore vero. Aveva 63 anni e tante cose da dire e da fare. Questo è il rimpianto".

22 maggio 2014

“Un’estate in Grecia” di Giuseppe Ciulla



di Gianni Quilici

Un’estate in Grecia è un titolo ambiguo, ma indovinato, perché invece di evocare una vacanza tra mare e archeologia, come pigramente si potrebbe immaginare, racconta un altro tipo di viaggio attraverso luoghi, esperienze, persone che diano una risposta all’obiettivo che Giuseppe Ciulla, l’autore, si è posto inizialmente: “Raccontare ciò che la crisi non racconta, perché solo se capisci la Grecia, oggi capisci cos’è rimasto dell’Europa”.

Da qui un viaggio non predeterminato, “un viaggio leggero, evitando scali globalizzati, usando solo mezzi pubblici” mimetizzandosi con i locali. Non un turista, ma un greco in tutto per tutto. Un po’ come hanno fatto grandi giornalisti come Ryszard Kapuscinski, Tiziano Terzani e come continua a fare Paolo Rumiz.

Il viaggio percorrerà 4000 Km da Patrasso ad Atene fino al confine di Orestiada con uno sconfinamento a Edirne, in Turchia,  con successivo ritorno ed altri cambi di rotta, tra cui una visita (introspettiva) al monastero di Agios Pavlos, sul monte Athos.

E’ un viaggio che fa viaggiare. E’ un viaggio che vede (occhi), che ascolta (orecchie), che sente (cuore), che riflette (ragione). Di un giornalista, che è anche un narratore e, a volte, un narratore poeta.

Giuseppe Ciulla presenta il libro a Lucca. Foto Gianni Quilici
Del giornalista Giuseppe Ciulla ha la curiosità di esplorare, di seguire tracce, di verificarle; del narratore ha lo sguardo analitico su luoghi, persone e il ritmo del discorso; del poeta la capacità di creare, a volte, metafore dentro la stessa realtà.
Faccio un esempio, in cui narrazione e poesia si incontrano, con una breve premessa. Uno dei luoghi emblematici della Grecia è il confine, perché “se l’impero europeo ha delle crepe” scrive l’autore “ è alle frontiere che vanno cercate”.  Perché è il confine il luogo in cui si addensano le maggiori contraddizioni, il maggiore crogiolo di culture e di problemi. E questo confine ha un fiume: l’Evros.

Ecco come Ciulla lo descrive:
Ci fermiamo abbagliati dalla bellezza della strada. A piedi risaliamo il tornante attratti dalla forza magnetica del confine. L’Evros è sotto di noi.  Spunta da dietro la curva, il manto verde che luccica sotto i raggi del primo sole. Respira lento come un ventre a riposo. Scorre torcendosi a sud, a tratti vedi lingue della sua pelle argentata saltellare in avanti, come spinte da un colpo di frusta. La corrente le raduna in un vortice e hai la sensazione che nulla possa fermarle. Poi la forza del fiume le rimette in linea in un coro di grilli che ne accompagna l’andare. Solo guardandolo negli occhi capisci con che cosa hai a che fare. La legge del fiume conta più di quella degli uomini, è la forza della frontiera. Ora lo capisco. Capisco le facce dei migranti, i loro occhi spiritati, le storie diventate leggende. L’Evros è un mondo, decide della vita e della morte. Custodisce anime e segreti. Da sempre presidia il passaggio per l’Oriente. Solo il Danubio, l’anima celeste d’Europa, ha un carisma superiore tra Istanbul e Vienna. 

C’è realismo, c’è una scansione ritmica, c’è la grandezza della metafora. La frontiera come luogo simbolico di morte e di vita, di speranza e di disperazione.

Il viaggio scopre luoghi, personaggi ed esperienze, che, pur nella loro limitatezza geografica, tracciano, in nuce, ipotesi alternative alla politica distruttiva di Bruxelles. Dai commercianti di Volos, che hanno creato un mercato senza intermediazioni e il  Tem, moneta alternativa all’euro, all’esperienza spirituale degli eremiti sul monte Athos; dai volontari medici di una clinica, che curano gratis in un quartiere povero a pochi chilometri da Atene, ai contadini che danzano fino e oltre il mattino a Tripoli nel pieno del Peloponneso; dalla comunità “Kitnafuga” tra i più vecchi e tecnologizzati produttori di miele biologico del vecchio continente, a Sharif, che seppellisce gli stranieri morti nel fiume Evros, facendosi cento chilometri fino al confine per prendersi il corpo che le acque avevano inghiottito.

Esperienze che, pur rimanendo localistiche, indicano una direzione, possibili modelli di sviluppo nazionali o almeno interregionali.

Ma la Grecia, finisce per capire Giuseppe Ciulla, ha qualcosa di diverso dall’occidente europeo. L’autore ne individua almeno tre, di diversità.

La prima:  i greci sono gente abituata alla precarietà. La popolazione del vecchio continente no. In occidente l’incertezza spaventa. In Grecia ci convivono da duemila anni.  

La seconda: i greci sono ospitali, l’ospitalità è nella loro cultura da sempre. Offrire, regalare, ospitare è per loro sentirsi orgogliosamente greci, diversi. La parola “philotimo” è la parola che sintetizza questa loro filosofia.  

La terza, che forse è la causa profonda delle altre due: i greci sono rivolti ad est. Non hanno dimenticato “ che una parte dell’Europa promosse la quarta crociata, distruggendo per sempre l’antica capitale, Bisanzio, e cambiando il destino dei popoli che vivevano nel suo mito”. Quindi: “lo stile di vita di un greco somiglia più a quello di un siriano che a quello di un tedesco”.  

Infine il viaggio di Ciulla non ha la presunzione di esaurire la realtà greca, è uno sguardo acuto di ciò che ha visto direttamente nell’estate 2012. E’ un libro aperto che si apre ad altri viaggi nel flusso di un tempo in rapido mutamento.

Giuseppe Ciulla. Un’estate in Grecia. Chiare lettere. Pag. 151. Euro 12,90

20 maggio 2014

"Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi" di Jacques Lacan




di Daniele Guasco

Se ci si interroga sulla funzione del linguaggio, lo schema semiotico tradizionale si rivela insufficiente.

Lo svela Lacan:
“[…] Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare”.
(p. 152, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in La Cosa Freudiana)
Bisogna insistere sul fatto che il linguaggio è un mazzo di carte prefabbricato, indifferente alla particolarità dell’individuo, ma ancor di più è necessario mettere in luce che la parola è un atto individuale, una praxis che ci mette costantemente in discussione, manifestazione del nostro desiderio metafisico. Si tratta di un desiderio di ciò che è completamente differente da noi, di ciò che ci trascende ed è inafferrabile, che scorgiamo in quel languido nulla che sono gli occhi, che troviamo nella visione epifanica del volto dell’interlocutore. Bisogna mettere in rilievo che la parola è un dono.
Questa evocazione dell’altro, quest’appello al differente, trova il suo paradigma centrale nel “grido nella notte” che tutti noi siamo stati da bambini, nel buio della nostra stanza. Un grido che chiama l’amore.

Il gioco del linguaggio si gioca su due piani: quello dell’emissione di suoni – la cui significazione è similare a quella del grido – e quello del contenuto logico e concettuale che questi suoni codificati esprimono. Di qui due possibilità di espressione: quelle che Lacan chiama Parola Piena e Parola Vuota.

La Psicoanalisi è una talking cure e conferisce all’esperienza della comunicazione la sua linfa vitale. 

Lo psicoanalista deve guidare il paziente nella comunicazione per far emergere quelle verità rimosse che si sono rese testi leggibili solo all’analista: i sintomi. Una volta emerse, devono poter essere sfruttate per un riordinamento della biblioteca che è la storia del soggetto, affinché tutto assuma un senso. In questa direzione il linguaggio assume una funzione strutturante.

Il ruolo dell’analista è precisamente quello di guidare questa (ri)strutturazione, attraverso il suo silenzio. E quando spezza il silenzio lo fa solamente per permettere al paziente di effettuare la sua cura, di attuare la sua storicizzazione attraverso l’esercizio della parola.

Questa funzione strutturante del linguaggio è possibile perché la parola non si contenta di costituirsi come evocazione: essa infatti ha significato nella risposta dell’altro. Ancora di più: il discorso dell’altro stesso è l’inconscio. L’analista quindi fornisce un significato al discorso del paziente attraverso il suo ascolto e attraverso la sua presenza, attraverso la sua guida. La grande responsabilità dell’analista secondo Lacan, quindi, non è solo quella di approvare o rifiutare il discorso del paziente, ma quella di riconoscerlo o abolirlo come soggetto.

Il soggetto ha quindi due possibilità di cui abbiamo accennato poco fa: lo scopo della comunicazione è il riconoscimento e la comunicazione stessa è un appello. Se la parola non va oltre non si carica di un significato concettuale che faccia emergere la verità intima e singolare del soggetto: è Parola Vuota. Se invece fa emergere la verità storica del paziente, è Parola Piena e dà la possibilità all’analista non solo di riconoscere l’appello ed esservi presente, ma anche di aiutare il paziente a ricostituirsi come soggetto con le proprie forze.

Quanto alla coazione a ripetere e al perpetuarsi delle vicende tragiche nella storia del soggetto, Lacan rivela la funzione simbolica dell’automatismo di ripetizione: esso infatti non mira che all’eternizzazione del desiderio attraverso il simbolo. E’ come desiderio di morte infatti, che il soggetto si afferma per gli altri. Il caso di Empedocle, considerato da Freud paradigmatico riguardo l’istinto di morte, mostra come il filosofo, gettandosi nell’Etna, lasci per sempre presente nella memoria degli uomini il suo atto simbolico.

La Psicoanalisi quindi, si occupa di dare al desiderio del soggetto la sua mediazione simbolica attraverso la quale perforare il circolo della ripetizione, il cui limite estremo è la morte.
Questa la funzione e il campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, dove la parola non è più messaggio, ma dono ed appello.


Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in La cosa freudiana e altri scritti. Psicoanalisi e linguaggio, Einaudi, Torino, 1972, pp.83-178, euro 8

"Il poliziesco compassato: la scuola inglese" di Luciano Luciani



Intelligenza e brividi
Il poliziesco inglese, più incline al mistero e all’esercizio dell’intelligenza che al thriller ( da thrill, brivido, fremito), ha preso le mosse dai racconti di Edgar Allan Poe e presenta “caratteristiche, miti, moduli, riti e convenzioni tanto particolari da sfuggire quasi sempre alla critica ‘seria’, che l’ha spesso liquidato in modo sommario, ma qualche volta l’ha anche esaltato in modo esagerato” (Ranieri Carano).

Tzvetan Todorov, in un suo importante saggio, Tipologia del romanzo poliziesco, ha osservato che ogni poliziesco di tipo inglese, che egli chiama romanzo-enigma, è costituito da due storie: una invisibile, quella del delitto che verrà ricostruito durante lo svolgimento; l’altra visibile, quella dell’indagine, un lento apprendistato in cui il detective, che gode di una totale immunità, a poco a poco riordina e comprende i fatti.

A proposito della ripetitività del poliziesco inglese, Thomas Narcejac, autore e storico del genere, si interpella se “avendo a disposizione un calcolatore ad hoc, l’appassionato di romanzi polizieschi potrebbe entro certi limiti, procedere liberamente alla composizione di romanzi di tal genere” e quindi procurarsi autonomamente, prescindendo dall’autore, le emozioni proprie del genere. Insomma, i meccanismi del poliziesco inglese sono così perfetti, così rodati da poter prescindere da particolari abilità letterarie degli scrittori: un giudizio non particolarmente elogiativo nei confronti di pur validi scrittori come Richard Austin Freeman, significativo precursore del filone scientifico, Gilbert Keith Chesterton, l’inventore di Padre Brown, i prolificissimi Edgar Wallace e John Creasey, la celeberrima Agatha Christie, Peter Cheyney, il più americano dei giallisti inglesi.

Richard Austin Freeman tra chimica e medicina
L’autore che più direttamente si ispira a Conan Doyle, uno dei più illustri padri fondatori, è Richard Austin Freeman che ha dato vita al personaggio di John Thorndyke, professore di medicina legale, uno dei più importanti investigatori scientifici della narrativa poliziesca, anche se oggi non risulta molto noto al pubblico del lettori. Questo dipende dal fatto che le sue indagini sono condotte su un piano rigorosamente scientifico e presuppongono abbondanti cognizioni di chimica e medicina non sempre alla portata di tutti. Suo primo e più famoso romanzo di una lunga serie, L’impronta scarlatta in cui il dottor John Thorndyke applica con disinvoltura i paradigmi invalsi nella semeiotica medica: è stato notato che ai suoi metodi non sono estranee le sperimentazioni al tempo stesso empiriche e matematiche di cui, secondo il racconto di Vitruvio, si valse Archimede per provare il furto dell’oro da parte dell’artigiano incaricato di foggiare la corona di Gerione. Freeman, però, merita di essere ricordato per essere stato il primo ad inserire nel romanzo poliziesco quella particolare tecnica narrativa che va sotto il nome di inverted story: il delitto avviene sotto gli occhi del lettore e la vicenda del progetto criminale procede da un punto di vista rovesciato.
L’ottimismo di Padre Brown

Per il critico Mario Praz, Padre Brown “è il simbolo della tradizione ortodossa vittoriana di fronte alla vuota scienza materialistica”: E’ un piccolo prete cattolico dai tratti e dai modi insignificanti nato nel 1911 dalla fantasia di Gilbert Keith Chesterton (1874–1936), scrittore e critico d’arte appassionato di romanzi polizieschi al punto da impegnarsi in una difesa della detective story fin dal 1901 sulle pagine di “The Defendant”, per poi continuare con alcuni saggi sul personaggio di Conan Doyle che occuparono gli spazi del “Daily News” sino al 1907. Seguirono alcune novelle d’imitazione doyliana e solo nel 1911 apparve questo particolarissimo personaggio che continuerà a proporre le proprie modeste avventure per quasi un quarto di secolo.
Secondo alcuni critici, i racconti di Padre Brown, più che vere e proprie vicende poliziesche, sarebbero prediche sulla giustizia e sul bene: alla base della sua azione, infatti, non ci sarebbe alcuna metodologia scientifica, ma solo una profonda conoscenza dell’animo umano che deriva al sacerdote da anni di pratica in confessionale. Anche se tale considerazione può sembrare severa, non si può negare che l’enorme popolarità goduta dai libri di Chesterton si spiega in gran parte con i molti elementi che esulano da una concezione troppo rigorosa del genere, non ultimi lo stile ironico e ricco di paradossi, la critica ai mali della società industriale, il tono di confortante bonarietà e l’onesto ottimismo che accompagnano l’azione del piccolo prete cattolico inglese. Alcuni titoli, oggi in gran parte dimenticati, ma ben noti ai lettori di un paio di generazioni fa: L’innocenza di padre Brown, 1911; La saggezza di padre Brown, 1914; L’incredulità di padre Brown, 1926; Il segreto di padre Brown, 1926; Lo scandalo di padre Brown, 1935 .

Uno scrittore da Guinnes dei primati: Edgar Wallace
Il più famoso e prolifico autore inglese dei primi trent’anni del secolo scorso si chiama Edgar Wallace. Il suo primo romanzo, I Quattro Giusti è del 1906: ebbene in poco più di un quarto di secolo di indefessa attività il Nostro scrisse - e talora dettò - 173 romanzi, circa quattrocento racconti, una trentina di commedie. Una produzione da Guinnes dei primati. Un esempio della velocità di scrittura di questo romanziere che amava definirsi “una macchina per far soldi”?: Una sua commedia, On the Spot, iniziata di venerdì risultava terminata la domenica successiva a ora di pranzo. Una produttività quasi leggendaria, ottenuta però a scapito dall’accuratezza formale, dell’inverosimiglianza degli intrecci, della infondatezza delle soluzioni.

Agatha Christie la “regina del giallo”
Winston Churchill la definì “la donna che dopo Lucrezia Borgia è vissuta più a lungo tempo a contatto con il crimine”: comunemente nota coma la “regina del giallo”, Agatha Christie (1890- 1976) è ancora oggi una delle autrici di romanzi polizieschi più nota e letta. Anche questa scrittrice ha prodotto molto, novanta tra romanzi e racconti, per non parlare della sua produzione teatrale: se numerosi suoi romanzi appaiono privi di personaggi fissi, la Christie è famosa soprattutto per l’invenzione di Hercule Poirot, piccolo, grassoccio, vanitoso detective belga dalla testa a forma di uovo e dai baffi impomatati, probabilmente costruito ribaltando il più famoso modello conandoylano, alto, magro, in tutto e per tutto inglese; altro suo personaggio ricorrente, Miss Marple, una vecchietta fragile e tranquilla dotata di molto buon senso, di una profonda conoscenza della natura umana - in fondo “gli esseri umani e il loro comportamento sono sempre gli stessi -, nonché esperta criminologa.
Molti suoi romanzi sono ormai dei classici della narrativa poliziesca: in Dalle nove alle dieci il delitto è commesso dal narratore; nella Tragedia in tre atti il colpevole è un attore che prima di commettere il suo delitto fa una prova generale, ammazzando un innocente; nell’ Assassinio sull’Orient Express, la Christie inventa il delitto collettivo e in Sipario fa addirittura morire il suo celebre investigatore.
 Nelle sue pagine sono presenti tutti i difetti della scuola inglese: “gli uomini si muovono in un mondo che non ha linee e colori, il sangue non sporca, i cadaveri non puzzano, i personaggi si incontrano, si scontrano, parlano (quanto parlano, ahimè, quelli della Christie!) ma non dicono nulla di sé; in un certo senso sono disumani, come disumano è, in un certo senso, un problema di matematica pura. E il detective è un eccentrico proprio perché l’eccentricità fa meno umani”.

Peter Cheyney, il più americano degli inglesi
Ex investigatore privato che aprì un’agenzia investigativa a Londra alla fine dalla prima guerra mondiale, Peter Cheyney (1896-1951) può essere legittimamente considerato il più americano degli scrittori inglesi e uno dei pochi che abbia trasferito nella narrativa un’esperienza diretta. Lemmy Caution, il più popolare dei suoi personaggi, è un agente speciale del Dipartimento Federale di Giustizia, un investigatore dagli evidenti tratti hard boiled:.Un uomo d’azione, dotato di un’inesauribile vitalità, ma privo della malinconia dei personaggi di Hammet e Chandler e anzi provvisto di una buona dose di senso dell’umorismo e di autoironia. Molto amato in Francia nell’immediato secondo dopoguerra vivrà un’intensa vita cinematografica che raggiunse il suo culmine con il cerebrale Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, di Jean –Luc Godard, 1965, in Italia Agente Lemmy Caution: missione Alphaville. Da ricordare che uno dei meriti di Cheyney va ricercato nel linguaggio che è una parodia del gergo americano, anche se l’autore non era mai stato negli Usa. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo Pericolo pubblico, 1936.

John Creasey alias J.J. Marric, alias Gordon Ashe, alias Anthony Morton…
John Creasey (1908-1973) pubblicò il suo primo racconto a 17 anni, ma dovette aspettare fino al 1931 per vedere accettato un suo romanzo, collezionando nel frattempo ben 743 rifiuti. In una quarantina d’anni, poi, ha firmato circa seicento romanzi utilizzando almeno una quindicina di pseudonimi (J.J. Marric, Gordon Ashe, Anthony Morton, …). Nonostante la vastissima produzione, i suoi libri circolarono a lungo solo in Inghilterra: John Creasey si impose internazionalmente a partire dal 1955 con la serie firmata J. J. Marric e le avventure di George Gideon, ispettore di Scotland Yard, poliziotto coscienzioso e umano. La novità non è però tanto nel personaggio quanto nella formula, che un quarto di secolo più tardi sarà seguita dall’americano Ed Mc Bain con la serie dell’’87° Distretto. In ogni romanzo i lettori hanno l’impressione di gettare uno sguardo dietro le quinte di Scotland Yard dove gli agenti sono costantemente impegnati a seguire vicende apparentemente isolate, ma collegate in qualche modo tra loro.



"Breve come un sospiro" di Anne Philipe



di Mimmo Mastrangelo

“…La dolcezza dell’aria mi fa sognare ciò  che è stato e ciò che sarebbe se tu fossi vivo. So che questo sogno prova la mia incapacità di vivere il presente. Mi lascio trascinare da questa corrente senza guardare  troppo lontano o troppo in fondo. Aspetto il momento in cui ritroverò  la forza. Verrà. La vita mi appassiona ancora. Voglio salvarmi, non liberarmi di te”. 

Se si facesse una classifica sugli epiloghi più belli della letteratura  del novecento i righi cui sopra firmati di Anne Philipe per “Breve come un sospiro” avrebbero buone chances di occuparne la testa. Magnifiche lemme per come vanno ad incavare in quel  punto dell’anima dove si mettono in moto le energie che dovrebbero risanare la voglia di vivere vita dopo il lutto, la perdita della persona più cara. 

Una scelta pregevole  quella della casa editrice romana E/O di riportare in libreria (l’ultima edizione l’aveva pubblicata nel 1997 Garzanti),  per la collana gli  Intramontabili  e  la traduzione di Giancarlo Buzzi, l’opera con  cui Anne Philipe esordì nel 1963 aggiudicandosi anche il prestigioso Prix de l’Umanité. 

Un racconto breve ma che scuote fortemente la sfera dell’ affetto,  con un registro che assomiglia alle pagine di un diario  dove  Anne Philipe rievoca il suo grande amore per il marito e gli ultimi mesi di vita prima che un cancro al fegato lo stroncasse non ancora trentasettenne. 

L’uomo è Gérard Philipe uno dei più amati attori cinematografici della sua generazione  che già nello scandaloso “Il diavolo in corpo”(1946) di Claude Autan-Lara - e in seguito ne “La Certosa di Parma” (1947) di Christian Jaque nelle “Amanti di monsieur Ripois” (1953) di René Clément - si era rivelato figura fascinosa e inquieta, nell’attore che meglio incarnava  un’idea problematica della giovinezza, mentre  fuori dal set si distingueva per  l’impegno politico sulla  “rive en gauche” (fu il primo fra gli artisti francesi a firmare l’appello di Stoccolma che si opponeva alla corsa agli armamenti). 

Nelle sue pagine Anna Philipe  ci mette pudore e sentimento (da non confondere con un sentimentalismo ostentato) per descrivere  i pensieri, i silenzi, i momenti di felicità, gli sguardi che “tornano ad essere quelli  dei primi giorni di innamoramento”, il disorientamento e l’angoscia legato alla malattia che irrompe. L’amore    per Gérard scrive Anne è il “più bel legame con la vita” ,  uno stato di grazia finché non arriverà la morte e nulla sarà più come  prima. 

Il racconto della Philipe  scorre veloce e quando si  giunge alla frase di congedo “voglio salvarmi, non liberarmi di te” si è assaliti dalla  voglia di ricominciare daccapo la lettura, per far risuonare più forte il canto di un  amore  che non poteva essere raccontato se non dalle pagine di un libro,  di un ménage che si dirama lungo il  tratto breve di un sospiro e si rifugia nel ricordo per  non lasciarsi scolorire, morire .

Anne Philipe “Breve come un sospiro”. Trad. Giancarlo Buzzi edizioni E/O.

                                                    

14 maggio 2014

"Le relazioni pericolose" di Choderlos De Laclos



nota di Gianni Quilici

Classico del 700, romanzo epistolare,  
si legge con un piacere voluttuoso.
Perché  Laclos è riuscito a creare molte psicologie,
che sono anche filosofie di vita,
a farle interagire in una storia concatenata,
che diventa una sorta di grande teatro dialettico
(di strategie e di scontri) della seduzione,
di cui noi siamo via via spettatori non solo dei fatti,
ma  di  ciò che, con straordinaria  finezza psicologica
i due protagonisti-complici architettano,
ossia le strategie messe in atto per sedurre.
Choderlos De Laclos riesce a rilanciare continuamente la tensione narrativa,  
grazie allo spessore  intellettuale  con cui i due  conducono il gioco,
sintesi perfetta di intelligenza pratica e intellettuale e di diabolico cinismo. 

febbraio 2005



Choderlos De Laclos. Le relazioni pericolose. Garzanti




12 maggio 2014

"Alle origini del poliziesco tricolore" di Luciano Luciani




Modelli e imitazioni

Fu l’eroe di Conan Doyle il modello su cui si plasmarono i primi investigatori letterari italiani. Sherlock Holmes giunse in Italia nel 1895 per iniziativa della casa editrice Verri che raccolse in un unico volume tre racconti della saga del detective di Baker Street. Quattro anni più tardi “La Domenica del Corriere” ne pubblica altri episodi quasi in contemporanea con le edizioni originali che apparivano in Inghilterra a puntate sullo “Strand Magazine”. Visto il successo delle storie e del personaggio, gli editori italiani fecero a gara nel pubblicare inediti e ripubblicare i romanzi di maggiore apprezzamento presso i lettori. Escono così diverse edizioni di alcuni tra i romanzi più famosi dello scrittore inglese come Uno studio in rosso e Il segno dei quattro che erano rimasti esclusi dall’iniziativa della  “Domenica del Corriere” e che solo in seguito saranno editati nei singoli volumi della collana Il Romanzo Mensile. Allo scoppio del primo conflitto mondiale in Italia erano apparsi tutti i testi sherlockiani che hanno avuto un effetto di trascinamento anche sugli altri testi di Conan Doyle, quelli rivolti all’avventura e al mistero come Un mondo perduto, La mummia rediviva, Le avventure del colonnello Gerard

Ovviamente non potevano mancare gli imitatori e già nel 1902 Dante Minghelli Vaini, con lo pseudonimo di Donan Coyle pubblica uno Shairlock Holtes in Italia, una raccolta di sei racconti ambientati nel Bel Paese e narrati in prima persona da un certo dottor Maltson.
Imitazione e confronto li ritroviamo anche sui fascicoli dedicati alla saga del poliziotto italo-americano Joe Petrosino che iniziano ad uscire a partire dal 1909 con la dicitura “Joe Petrosino–Il Sherlock Holmes d’Italia”: per gli autori e i lettori del tempo il personaggio di Conan Doyle è sinonimo di investigatore. Nel 1911 Umberto Cei pubblica due romanzi, Un dramma alla stazione e Il segreto della cassaforte, che hanno come protagonista un personaggio dal nome di sicura aristocrazia italiana, Riccardo De Medici che sembra incarnare sia i lineamenti raziocinanti di Holmes, sia quelli dinamico-attivistici di Petrosino.

Poliziesco e feuilleton
Ma le origini del poliziesco tricolore sono senz’altro precedenti a questi fenomeni d’imitazione e affondano le loro radici in altri generi letterari con cui convivono e di cui si alimentano. Per esempio, il feuilleton: e quando se parla, almeno nel nostro Paese, si dice di Francesco Mastriani (Napoli 1819-1891), scrittore popolarissimo di romanzi d’appendice, circa un centinaio, nei quali ritrasse le miserabili condizioni di vita della plebe napoletana, attraverso la narrazione di vicende torbide, spesso desunte dai fatti più clamorosi della cronaca nera e modellate sulle pagine parigine di Sue e Balzac . Fra i suoi titoli più famosi La cieca di Sorrento, 1852; I vermi, 1862-64; I misteri di Napoli, 1875; La sepolta viva, 1889.

Non si trascuri, poi, nelle ricerca delle origini di una letteratura poliziesca nazionale la sperimentazione degli autori della Scapigliatura, tra i quali merita di essere ricordato Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901). Laureatosi in lettere nel 1874 presso l’Accademia scientifico-letteraria della città lombarda, fu insegnante liceale, e docente di stilistica presso l’Accademia dove aveva studiato. L’attività letteraria del De Marchi ebbe inizio nel clima della Scapigliatura milanese, evidente nel primo romanzo, Due anime in un corpo, 1878, carico di ossessioni e inquietudini: il protagonista, Marcello, rivive l’esistenza di un amico assassinato, il violinista Lucini, fino ad amare Marina, la donna per la quale il Lucini era stato ammazzato, a lui sconosciuta. Capolavoro del De Marchi è considerato Demetrio Pianelli, 1890, in cui secondo i modi del realismo, in una prosa dimessa e cordiale, descrive le vicende e gli affanni di quel nuovo ceto, la piccola borghesia impiegatizia che l’unità nazionale aveva portato alla ribalta e moltiplicato: in questo testo, poi, accanto al motivo sociale si aggiunge anche quello della passione amorosa. Sulla linea della grande tradizione letteraria lombarda, che, da Parini a Manzoni sentiva con forza il senso della responsabilità morale e civile dello scrittore, con Il cappello del prete, 1887, De Marchi intercetta, forse non del tutto consapevolmente, alcune procedure tipiche del romanzo poliziesco. Uscito prima a puntate nell’”Italia”, l’anno dopo sulle pagine del “Corriere di Napoli” e poi in volume, Il cappello del prete prende lo spunto da un fatto di cronaca nera, l’omicidio di un sacerdote, e si muove programmaticamente nell’ambito della letteratura d’appendice, non disprezzata, ma anzi colta come occasione per parlare al grande pubblico. Così scrive De Marchi nell’avvertenza del romanzo: “L’autore entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più d’una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d’una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’arte nostra. Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che aiuti a sollevare gli animi. L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”. Se non c’è ancora il poliziesco, compare lo spirito che ne è all’origine: una letteratura insieme popolare e colta, accessibile e vocata al ragionamento induttivo-deduttivo.

Carolina e Italo
Non si può trattare di letteratura d’appendice in Italia senza soffermarsi su Carolina Invernizio, (1851 – 1916), l’”onesta gallina della letteratura”, come ebbe a definirla con qualche severità Antonio Gramsci. Trasferitasi in giovanissima età dalla natia Voghera a Firenze, dove seguì gli studi magistrali e visse per la maggior parte della sua esistenza, pubblicò oltre 120 romanzi, densi di situazioni patetiche e terrificanti, scritti in uno stile sciatto ed approssimativo sul modello dei feuilletons di Xavier de Montépin e Ponson du Terrail. Avversata dalla critica, messa all’Indice dal Vaticano, le sue opere raggiunsero tirature incredibili per i tempi. Il successo di pubblico di questa scrittrice rappresenta un fenomeno su cui gli studiosi dei fatti letterari hanno cominciato a riflettere negli ultimi trent’anni, ritrovando nell’autrice la degradazione del romanzesco dell’Ottocento che si manifesta in un intreccio di sadismo e sentimentalismo che esercitò una funzione gratificante presso il vasto pubblico della letteratura di consumo. Circa il giudizio secondo cui all’Invernizio spetterebbe il ruolo di progenitrice del poliziesco di casa nostra, Folco Portinari scrive che soprattutto in alcuni romanzi come Il bacio d’una morta, “l’impianto generale, anche a livello di trama, può essere già quello del giallo investigativo” Per Anna Nozzoli “siamo… più vicini al mérvilleux expliquè di Ann Radcliff che non alle strutture lineari del romanzo poliziesco” e sarà necessario attendere “i romanzi del primo decennio del nuovo secolo, perché l’Invernizio metta a punto in modo più preciso l’impianto del racconto investigativo, anche se naturalmente il suo giallo resterà sempre denso di elementi estranei, costruito con l’architettura mista di detection e di feuilleton che era già stata caratteristica di Gaboriau o addirittura del primo Sherlock Holmes”

Sempre per la gioia dei ricercatori di patenti nobili per il detective story italiano, ricordiamo che anche Italo Svevo (Trieste 1861- Motta di Livenza 1928), negli anni del suo apprendistato letterario, si cimentò col poliziesco. Merita di essere ricordato L’assassinio di via Belpoggio, pubblicato sul quotidiano irredentista triestino “L’Indipendente” dal 4 al 9 ottobre 1890 e considerato come l’esordio ufficiale di Svevo alla scrittura. Giorgio, il protagonista, corrisponde a pieno alla galleria degli inetti sveviani: è un assassino quasi per caso, più per colpa di Antonio, la vittima che ostenta la propria ricchezza, che per una natura portata al male. Lo perderanno i sensi di colpa, le incertezze, le contraddizioni nel proprio comportamento criminale: pagine che sanno soprattutto di Poe (Il cuore rivelatore) e Dostoevskij.




09 maggio 2014

"Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino" di Gordiano Lupi



Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino racconta con amore e nostalgia una storia ambientata in un suggestivo spaccato maremmano. 

Leggiamone alcuni passi: “Aldo Agroppi era amico di sua madre, viveva in via Pisa, un quartiere di famiglie operaie, case bombardate durante la Seconda Guerra Mondiale, tragiche ferite di dolore, macerie ancora da assorbire. Giovanni ricorda una foto di Agroppi che indossa la maglia della Nazionale, autografata con un pennarello nero. Era stato proprio Agroppi in persona a dargliela, all’angolo tra corso Italia e via Gaeta, in un giorno di primavera di tanti anni fa, dove la madre del calciatore gestiva una trattoria, un posto d’altri tempi, dove si mangiava con poca spesa. Giovanni era un bambino innamorato dei campioni, giocava su un campo di calcio delimitato dalla sua fantasia, imitava le serpentine di rombo di tuono Gigi Riva, i virtuosismi di Sandro Mazzola, le bordate di Roberto Boninsegna, le finte dell’abatino Gianni Rivera e la vita da mediano di Aldo Agroppi, cominciata a Piombino e conclusa a Torino”.

La colonna sonora sulla quale si sviluppano le avventure calcistico - sentimentali narrate dal romanzo comprende come momenti temporali La leva calcistica della classe 1968 di Francesco De Gregori e Vado via di Stefano Rosso. Il tono è proustiano, un vecchio calciatore alla ricerca del suo passato, del tempo perduto che ritrova allenando un squadra di dilettanti della provincia toscana: la squadra della sua città, dalla quale è partito molti anni prima per conquistare i palcoscenici nazionali. Le vicende calcistiche sono il sottofondo di alcune storie collaterali che hanno per protagonisti diversi amici, non manca una storia d’amore che viene dal passato, mixata da ricordi legati a infanzia e giovinezza del protagonista. Il calciatore prediletto del vecchio mister è il marocchino Tarik, un ragazzo approdato in Toscana a bordo di una carretta del mare lasciando nel villaggio africano moglie e figli. Sarà il protagonista di un’integrazione razziale, il vincitore morale d’una battaglia contro diffidenza e superstizioni. Non solo sul rettangolo di gioco. 

Gordiano Lupi, collaboratore de La Stampa, direttore editoriale del Foglio Letterario e traduttore di alcuni scrittori cubani, torna alla sua Toscana per raccontare una storia nostalgico - sentimentale sullo sfondo d’un piccolo mondo antico, tra sogni, speranze perdute e ricordi del passato.


Gordiano Lupi - CALCIO E ACCIAIO - Dimenticare Piombino
Acar Edizioni – Euro 15 – Pagine 200 – Distribuzione Nazionale ALI
Introduzione di Gianni Anselmi, Sindaco di Piombino ed ex calciatore nerazzurro





08 maggio 2014

"I fogli del capitano Michel" di Claudio Rigon



di Luciano Luciani 

Sempre più prossimo il centenario dello scoppio della Grande Guerra con tutto il suo carico di ricordi. Militari, politici, civili: ragioni e responsabilità degli uni e degli altri, protagonisti e comprimari, eroismi e viltà… Finalmente l’ anno anniversario di una vicenda epocale che permetta la realizzazione di una memoria condivisa? Probabilmente no, perché giunge sullo scenario di un’ Europa sempre più sul punto di smemorare le motivazioni ideali della sue solo relativamente recenti unità e concordia, in nome di riaffioranti nazionalismi e micro nazionalismi che rischiano di avvelenare il futuro del continente.

Un sicuro antidoto a una tale deriva ce lo offre un libro, un piccolo libro, un testo particolarissimo pubblicato alcuni anni fa. Si intitola I fogli del capitano Michel e l’ha scritto Claudio Rigon, vicentino, docente di fisica alle scuole superiori, appassionato di fotografia e di montagna.

Tutto parte dalla decisione dell’Autore di documentarsi su alcuni luoghi della Grande Guerra: quelli del monte Ortigara, sul margine settentrionale dell’Altopiano di Asiago, là dove, nel giugno del 1917, si combatté “una grande battaglia, terribile e inutile: venticinquemila fra morti e feriti e dispersi gli italiani (era stata una nostra offensiva) novemila gli austriaci, un nulla di fatto”.

Rigon è nato nel 1948, appartiene, quindi, alla prima generazione di italiani che ha evitato il triste destino di essere mandato in guerra ad ammazzare e a farsi ammazzare: per questo, forse, quel conflitto e i luoghi delle sue battaglie esercitano su di lui, vicentino, una particolare fascinazione. Perché Vicenza nella Grande Guerra era nelle immediate retrovie, perché quelle vicende hanno lasciato tracce durature nella memoria collettiva e nei racconti degli uomini appartenenti a un tempo appena precedente il suo: “Mi venne voglia di cercare immagini di quel tempo, della vita di allora lassù, ma anche semplicemente di allora. Esistevano delle fotografie fatte in quei luoghi? Sapevo che al Museo del Risorgimento di Vicenza c’era un archivio fotografico della guerra, avevo visto in passato una bella mostra allestita con grandi riproduzioni da copie originali. Decisi di andarci, di parlare con il direttore, di dirgli del mio lavoro, di chiedergli di poter consultare l’archivio. Trovai piena disponibilità. Era inverno e il mio lavoro in montagna era sospeso. Il giovedì ero libero dall’insegnamento: divenne il mio giorno al museo”. 

Qui si imbatte nelle carte della “Donazione Michel”: ovvero fotografie arrivate al Museo nel 1989 dalla nuora del capitano, la signora Giuseppina P., moglie del figlio di Michel, ovvero Ersilio Michel (1878-1955). Non un personaggio qualunque: livornese, docente di storia del Risorgimento presso l’Ateneo pisano nei decenni successivi alla Grande Guerra è autore di un testo fondamentale per chiunque si occupi di storia del Risorgimento in Toscana, Maestri e scolari nell’Università di Pisa nel Risorgimento nazionale, Sansoni, 1949.

Ecco il libro di Rigon nasce così: passeggiate lungo luoghi aspri e brulli dell’Altopiano di Asiago, la suggestione, la fascinazione che quei luoghi ancora conservano per essere stati teatri di vicende tragiche e dolorose; l’incontro con le carte Michel.

Rigon non è solo un uomo di scuola, è uno scienziato, ha una formazione scientifica: quindi si mette al lavoro con rigore, con metodo, sistematicamente per sette anni, dal 2001 al 2008. Riordina quelle carte, un giovedì dopo l’altro, 257 fonogrammi, scritti a matita, qualcuno a penna, che vanno dalla fine di giugno alla fine di luglio del 1916.
Li riordina, li legge, cerca di interpretarne i sensi profondi: si sforza di andare oltre le parole per recuperarne senso, direzione e significato… E ne viene fuori questo libro straordinario, fuori dai generi, fuori dagli schemi, duro e tagliente come le rocce di quell’altopiano.

Un libro che senza enfasi di nessun tipo – nessuna retorica guerriera, nessuna foga pacifista – restituisce la guerra alla sua vera natura: un’opaca routine il cui fine è produrre distruzione e morte; un quotidiano tragico di normalità deviata e brutalizzata. 

La guerra è sporcizia, freddo, paura, orrore, tradimento. Tradimento e raggiro. Morte (quindi, morti!). Le perdite sono sempre alte, altissime: ferite, carni violate, corpi fatti a pezzi… In alcuni fonogrammi ci si lamenta, ci si preoccupa in maniera quasi ossessiva delle diserzioni, del pericolo che esse rappresentano per l’esempio che danno e per il morale delle truppe. Mai nessun eroismo, pure quando c’è. La guerra è diseroicizzata; prevale, invece, un aspetto mediocremente burocratico/amministrativo: ordini, contrordini, elenchi, appelli e contrappelli, contabilità dei morti, dei feriti, dei dispersi come se tutto si svolgesse in un ufficio. Un crudo reportage a più voci sulla guerra e dignità militare, un instant book in direzione di un passato centenario. Un libro utilissimo qualora la storia si decidesse di scriverla e studiarla in modo più vero e aderente alla realtà.

“Ciò che traspare di quella colossale carneficina non è il pathos brutale, ma la banalità… il dolore è solo un imbarazzante effetto collaterale di cui nessuno parla.

Dopo il lungo Ottocento dominato dalle idee di pace e progresso economico, con il primo conflitto mondiale inizia quella che alcuni storici definiscono la “guerra civile europea” magmatico intreccio di tradizionali conflitti tra Stati, rivoluzioni, guerre civili e di liberazione, genocidi e brutalità derivate da contrasti politici, nazionali e di classe. 

La Grande guerra” - scrive uno storico contemporaneista, Enzo Traverso - - “si configura come una cesura storica che spezza la continuità delle esperienze di vita e trasforma il paesaggio mentale delle società europee”. Un’affermazione dimostrata da questa raccolta di messaggi, la “scatola nera” di un mese della vita di un battaglione di alpini rimasto quasi senza ufficiali. Una storia di guerra, una storia lontana i cui protagonisti giovani e giovanissimi soldati e ufficiali, molti dei quali, destinati a morire in trincea e fra i reticolati, sembrano vogliano dirci di sé qualcosa d’importante, qualcosa di fondamentale rimasta ancora in gran parte inespressa, in gran parte incompresa.



Claudio Rigon, I fogli del capitano Michel, Einaudi, To 2009, pp. 201, Euro 13,50