28 novembre 2020

"La volpe era già il cacciatore" di Herta Muller

 

di Giulietta   Isola

 “Quel che luccica, vede.”
 
Eccomi qua, di nuovo in compagnia di Herta Muller, risucchiata in una prosa dallo stile che mi è famigliare, ma che ogni volta mi turba e mi mette alla prova , mi devo guadagnare la storia e per farlo devo ripercorrere il trauma della sua vicenda personale e quella della Romania prima della fine del regime del Conducator Nicolae Ceausescu, un tema che Herta riproduce, amplifica, corteggia e declina in tutte le sue opere.
 
 Complicata come sempre la scrittura rapida e grezza per non parlare della trama che si nasconde, va stanata tra mille metafore e straordinarie descrizioni. 
L’autrice si destreggia impeccabile fra sentimenti, parole e storie con pagine dall’atmosfera poetica e struggente che toccano nel profondo, al centro delle quali ci sono vite logorate da una libertà venuta meno, personaggi impantanati nelle loro paure, straordinari quadri di vita vissuta tra povertà, terrore e privazione, la tetra quotidianità in Romania dove “I manganelli di gomma scelgono a caso schiene, teste, gambe. Mitragliette e pistole sono appese a cinghie di cuoio. I poliziotti sono sazi delle botte che hanno dato, i cani sono sazi di abbaiare.” 
 
Un’insegnante, un operaio, un musicista e così via. Adina, Clara, Paul e Pavel sono persone comuni che si trascinano giorno per giorno lungo la vita. La normalità è un travestimento che usano con la luce del giorno, ma c’è qualcuno tra di loro la cui veste resta oscura anche durante il giorno. Non spaventatevi se andare avanti vi sembrerà un’impresa ardua e la pelle di volpe di Adina, la maestrina finita sotto lo sguardo indagatore della Securitate, vi sembrerà metafora e simbolo incongruo, sarebbe poco importante anche se fosse solo una forzatura utile per il meccanismo narrativo, il senso di questa lettura si trova nella lotta corpo a corpo con la paura, con le ombre, con la miseria e l’asservimento. 
 
Muller utilizza eventi e oggetti apparentemente banali per dimostrare le difficili condizioni di vita del popolo rumeno sotto il regime, la sua maestria è strabiliante nel rendere tangibile la rivoluzione rumena del 1989 usando l’uomo comune, non indulge mai in superflui moralismi,il suo universo è soffocante ma permette a noi lettori di vivere appieno la disperazione e la fame che mise in ginocchio la Romania. Poi un giorno tutto finisce, ma i carrarmati sono ancora ovunque e la coda per il pane davanti ai negozi è sempre lunga. Chi era la volpe e chi il cacciatore? 
 
Una lettura difficile e splendida nella sua crudezza , i ricordi autobiografici formano immagini di spietata concretezza, ve la consiglio molto.
 
ll ricciolo sulla fronte luccica. Guarda ogni giorno il paese. Ogni giorno sul giornale la cornice che racchiude l’immagine del dittatore è grande come mezzo tavolo.”
 
HERTA MULLER. LA VOLPE ERA GIA’ IL CACCIATORE.  FELTRINELLI EDITORE

26 novembre 2020

"L'ambasciatore delle foreste" di Paolo Ciampi

 


George Perkins Marsh, l’uomo che sussurrava agli alberi

 di Luciano Luciani

 Con qualche divagazione di troppo, ma con una scrittura personale, cordiale e accattivante, l’Autore, Paolo Ciampi, delinea la vita e l’opera di George Perkins Marsh  autodidatta geniale, naturalista ed eclettico studioso nordamericano, uomo politico e ambasciatore dei giovani Stati Uniti a Torino e Firenze nella giovanissima Italia prima di Porta Pia, a Roma negli anni successivi. Lo volle in quel ruolo nientemeno che Abramo Lincoln e da diplomatico il Nostro incontrò Quintino Sella, con cui condivideva la passione per la montagna, Vittorio Emanuele II, Bettino Ricasoli e gran parte della classe dirigente e dell’intellettualità moderata e liberale cui toccò governare il Bel Paese: la cosiddetta “destra storica”, sensibilissima ai temi dello Stato e del rafforzamento delle istituzioni, molto meno, invece, ai problemi della povera gente. Incontrò anche Garibaldi e su mandato del presidente degli Stati Uniti, lacerati in quel momento da una feroce guerra civile, gli chiese di intervenire alla testa delle sue camicie rosse in favore della causa antischiavista. Ma l’Eroe dei Due Mondi in quel momento aveva in testa solo Roma e la sua liberazione dalla tirannide del papa-re. Così, un proiettile di piombo italiano ricevuto nel piede destro all’Aspromonte impedì al Magnanimo Guerrigliero sia di arrivare a Roma, sia di partecipare alla guerra di secessione americana, un evento strategico nella storia del mondo della seconda metà del XIX secolo.

Giornalista dal consumato mestiere, Paolo Ciampi racconta bene e la narrazione si snoda tra il ruolo pubblico e la dimensione privata e familiare di questo intellettuale atipico originario del Vermont; tra passato e presente; tra Nuovo Mondo, l’America dei pionieri e dei pellerossa, e il Vecchio, l’Europa e l’Italia dei Grand Tour, l’una e l’altra impegnate nel difficile decollo economico e sociale dopo le rivoluzioni nazionali e liberali e in piena seconda rivoluzione industriale. 

Ecologista ante litteram, molto prima ancora che questo termine venisse adottato sino a entrare nel senso comune, Marsh si rivela un instancabile viaggiatore, uno strenuo difensore dell’ambiente (foreste, alberi, fiumi, montagne) e anche un attento e acuto osservatore della evoluzione civile del nostro Paese. Padre nobile di una politica ambientale che riuscì a conseguire risultati importanti come l’istituzione del parco nazionale di Yellowstone, il primo dell’intero pianeta, Marsh fu lo sfrenato sognatore che intese popolare, senza riuscirci, le praterie del Far West dei cammelli le cui qualità aveva avuto modo di conoscere e apprezzare durante il suo lavoro di diplomatico tra Medioriente e Africa. 

Insomma, George a volte ci piglia e a volte no e scopre che la Natura è spesso restia a farsi manipolare sia pure da un entusiasta, eccentrico amante dei luoghi del Creato. Il suo scritto Man and Nature (1864), in cui lo studioso statunitense raccolse le sue osservazioni naturalistiche, costituisce ancora oggi un’opera in largo anticipo sui suoi tempi e in grado di riservare non poche sorprese anche a un Lettore di oggi. Per esempio, l’intuizione, allora quasi profetica, secondo la quale l’uomo, agendo senza criterio né misura sul proprio ambiente naturale, può mettere in discussione la sua stessa presenza sul pianeta Terra.

Prophet of Conservation, George Perkins Marsh, “l’uomo che aveva la Natura dentro di sé”, morì in Italia, a Vallombrosa, nel 1881 ed è sepolto a Roma nel cimitero di Testaccio, quello degli acattolici.

Paolo Ciampi, L’ambasciatore delle foreste, ARKADIA editore, Cagliari 2018, pp. 160. Euro 14,00

 

 

 

 

24 novembre 2020

“Chicco di Naso” di Claudio Orsi

 


di Elisa Bertoni

 Chi ha ucciso Liliana? E' la domanda che il lettore si pone fin dall'inizio del romanzo che sarebbe tuttavia molto riduttivo considerare semplicemente un giallo. E' soprattutto un romanzo di costume, un prezioso “carosello” in cui incontriamo, come risorti nel presente della memoria, gli oggetti che hanno fatto un'epoca, l'Idrolitina Garzoni, la Vespa, la Moto Morini Corsaro 125, la Necchi elettrica per cucire, il Rum Nardini per correggere il caffè, la racchetta da tennis Maxima, l'album dei calciatori edizioni Lampo, il fumetto Topolino e le scarpette da calcio Adidas: l'oggetto che fa consumo, cantato e decantato nella marca che lo rappresenta, comincia ad affacciarsi con i suoi irresistibili allettamenti nella vita delle persone senza distinzione tra grandi e piccini. Le nuove abitudini come mangiare la insipida grandinina in brodo di dado o guardare le comiche di Ridolini, il quiz Lascia o Raddoppia, il Festival di San Remo e la Tv dei ragazzi convivono con il bisogno antico di riunirsi per giocare a tombola e di affidarsi ad una soprannaturale energia che spinge ancora a venerare l'immaginina di Padre Pio, a consultare devotamente il calendario di Frate Indovino e a rispettare con cura il lunario del Sesto Cajo Baccelli.

E' dunque lo spaccato di una società come quella italiana degli anni '60 che cercava con qualche sforzo di lasciarsi alle spalle gli anni cupi di un fascismo ancora lontano dall'essere del tutto tramontato, con le contraddizioni di un mondo che tentava di aprirsi all'innovazione e al progresso, nonostante radici profondissime che lo legavano alla terra. E profumano di terra molte pagine del libro grazie alla sapienza contadina di molti dei suoi protagonisti, come nonno Elia, che fatica ad integrarsi a pieno nel nuovo paesaggio di Coltano, ormai spersonalizzato nella monotonia di campi di ventitré ettari, tutti uguali, in una uniforme piattezza in cui difficilmente può abituarsi la mobile vivacità dell'essere umano. A lui, memoria storica dell'anziano, è affidata la possibilità di rinascita di una società nuova, rappresentata dalle piante di granturco di qualità superiore, che quasi per magia vengono su vigorose dopo che un chicco è germogliato nel naso di Massimo, il più piccino. Un chicco, chicco di naso, appunto, lega le generazioni, nella speranza che anche le ingiustizie della storia prima o poi trovino un giusto risarcimento in una umana solidarietà sociale, di cui beneficerà anche l'innocente finito in prigione. Il fatto che il testo si chiuda con la frase “E il '68 era alle porte” è indicativo di questo forte bisogno di appellarsi al nuovo, in un rivolgimento che possa scuotere una volta per tutte le coscienze ancora un po' addormentate degli italiani.

Tornando alla vicenda, essa ha il suo centro narrativo proprio nella casa cantoniera dei Mortellini, che spiccava per il suo giallo delle pareti, e che diventa il luogo in cui, quasi per un destino inscritto nel colore, ha inizio il giallo: in un appartamento di quel complesso residenziale viene uccisa Liliana. E' a partire da quella casa che si intrecciano le storie dei personaggi in una polifonia di racconti e punti di vista che rivela l'abilità del narratore, capace di variare con sapienza la lente con cui si guardano i fatti, utilizzando ora gli occhi di un bambino, ora quelli di una ragazza, ora quelli di un adulto, uomo e donna, ora quelli di un vecchio; questa polifonia è una ricchezza nel testo perché la realtà è dipinta come se si potesse gustare nel suo intreccio domestico di voci, senza che sia necessario farne propria una in quanto giusta. Si dipinge la vita così com'è, con una comprensione bonaria e affettuosa dell'animo dei semplici, senza che questo si trasformi in un paternalismo buonista, in una aprioristica idealizzazione del “popolare”, ritratto anche nelle sue contraddizioni, tra slanci di solidarietà e moralistiche piccinerie, tra saggezza dei sentimenti e istinti incontrollati.

In quella casa Liliana era già di per sé un'esclusa per il suo stile di vita lascivo e dissoluto; eppure dai pochi tratti con cui è dipinta ne esce una figura affascinante, una Madame Bovary di Coltano, vittima del destino ancor prima di essere uccisa, per la prepotenza del sogno da lei intimamente coltivato di fronte all'asfissia dell'esistere.

La casa cantoniera dei Mortellini è dunque il collante narrativo da cui si sviluppano le vite delle varie famiglie tra speranze, amori, inquietudini, aspirazioni politiche e riscatti economici, un po' come nel romanzo Cronache dei poveri amanti di Vasco Pratolini, dove è una via di Firenze, via del Corno a rappresentare il luogo dell'intreccio delle storie dei vari personaggi sullo sfondo della storia del fascismo e dell'antifascismo vissuto dal basso, da parte della gente povera.

La preminenza del paesaggio coltanese, con alcuni richiami alla città di Lucca e ai suoi dintorni, non esclude tuttavia un'apertura ad altre aree di Italia, da cui provengono alcuni personaggi, come il Lago Trasimeno, il Veneto e la Sicilia. Questo contribuisce a creare anche un pastiche linguistico, dal momento che nonno Elia, il figlio Franco, la nuora Gina ed il nipote Vincenzo hanno uno spiccato accento toscano, colorito da espressioni icastiche che danno alla lingua il sapore delle cose vere, come bronciolare, sputazzo, scortecciare, gronciolo di pane, nocello, orbao, il peoro, il buodiulo, stinchipilinchi, accanto a detti quasi proverbiali come “l'arco è di fio”; Bruno Rezzato e la moglie Ofelia, provenendo dalla provincia di Padova, si esprimono nel dialetto veneto, mentre il dottor Agostino Giammona, incaricato delle indagini, detto Austineddu, che proviene da Giarri in provincia di Catania, non esita a ricorrere all'intraducibile saggezza di una massima siciliana: “Quanno 'u piru è fattu casca sulu”. Il narratore lascia dunque ai suoi personaggi il diritto di potersi esprimere liberamente col proprio idioma nella consapevolezza che il linguaggio ci rappresenta e che ci si può comprendere ed essere amici senza per forza rinunciare alla peculiarità delle proprie radici. Uguaglianza non significa affatto appiattimento, ma comprensione nella diversità che arricchisce anche attraverso le variegate sfumature dialettali. Quando poi lo spazio narrativo sulla scia delle indagini si sposta in Marocco, il testo si arricchisce di termini quali hijab, djellaba, kif, gnawa, tajine, kaab el ghzale che testimonia un'attenzione veristica dell'autore a dare il nome proprio alle cose, per non snaturarle.

La presenza di un pastiche linguistico inserito nella trama di un giallo potrebbe ricordare il capolavoro gaddiano Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Del resto è l'autore stesso, Claudio Orsi, a richiamarlo nell'incipit del capitolo 5. Anche nel romanzo di Gadda muore una Liliana, anche lei una donna sposata senza figli, su cui aleggia un'ombra densa di solitudine e malinconia. Tuttavia Chicco di naso potrebbe addirittura definirsi stilisticamente antigaddiano. Se nell'autore milanese la lingua barocca e ingarbugliata rende difficile anche ad un lettore non ingenuo penetrare nel significato che diventa sempre di più una matassa inestricabile al pari del caso da risolvere, riflesso di un mondo ridicolo pur nella sua atrocità incarnato dal Fascismo, in questo romanzo i fili diversi riescono a correre su binari paralleli senza creare grovigli di incomprensibilità. Il lettore sfoglia le pagine senza intoppi, senza che la mancanza di un vero protagonista lo disorienti. L'Italia è uscita a fatica dal Fascismo e le varie voci che la caratterizzano, dopo tanta censura, hanno il diritto di poter convivere, lasciando ad ognuna la propria personalità, che ora ha bisogno di parlare dal basso della sua autenticità e non da pulpiti di esaltata mediocrità. Ecco che nel testo troviamo storie nelle storie, come il racconto di Franco sulla Resistenza e sulla vita di Galileo e quello di Elia sulla vita di Santa Zita: il bisogno del racconto orale che lega, senza la pretesa di una verità assoluta e precostituita, eppure una voce importante che costruisce e sedimenta memorie. Queste digressioni non sono tuttavia fuorvianti e non sviano il lettore dalla traccia dominante della trama che è nello stesso tempo la scoperta dell'assassino (primo livello di lettura), e il bisogno di una società nuova e autentica, in cui sia la pluralità a parlare (secondo livello di lettura).

E' il momento storico in cui si deve provare a ricreare un'armonia dopo la “disarmonia prestabilita” presente in Gadda, specchio di un'epoca capace di disorientare le coscienze nell'urlo di quel mantra distruttivo “W il duce”, voce coatta di cervelli omologati divenuti inutili gomitoli senza capo né coda, incapaci di costruire la propria veste di libertà. La pannocchia di qualità superiore è un simbolo forse inconsapevole dell'unità nella pluralità di chicchi, come dovrebbero essere gli italiani, capaci di seminare e produrre il nuovo, nella ricchezza di una cultura, quale appunto nello specifico quella italiana, che ha nella pluralità la sua vera identità.

Antigaddiano dunque per il momento storico che si avvia ad una svolta rispetto al passato. Non stupisce dunque che Franco, quando comprende che le accuse sono rivolte ad un amico, esclama: “...Gira e rigira si è messo in un bel pasticcio...”. Quer pasticciaccio brutto diventa il “belpasticcio”...quasi un aggettivo antitetico a marcare ormai, anche se involontariamente, la distanza tra i tempi: fascismo e postfascismo, sebbene più di diritto che di fatto.

Due voci si levano forse tra tutte, regalando sprazzi della loro filosofia di vita, costruita sull'esperienza più che sui libri: Franco e Austineddu, curiosamente entrambi, come Liliana, destinati ad un tragico destino. E di destino parla proprio Franco, quando racconta la storia della “bodda”, che potremmo intitolare “la fatalità del rospo”. Franco una mattina salva un rospo mentre provava ad attraversare un tratto trafficato dell'Aurelia, con la fine certa di venire schiacciato. Lo libera tra i solchi dell'orto, ma nel pomeriggio mentre falciava l'erba si accorge di averlo infilzato. Da ciò ricava l'idea che l'uomo deve imparare ad accettare il proprio destino quando si accorge che non è possibile cambiarlo. Sempre Franco dialogando con il figlio lo sprona a verificare di persona, gli eventi della vita e per fare questo è necessario avere coraggio: “...ci vuole il coraggio della ricerca, ci vuole la voglia di sapere la verità e non accontentarsi di prendere per buona la prima cosa che ci dicono...”.

Austineddu dal canto suo si rivela un poliziotto sui generis. Mentre è a Marrakech e dialoga con Hamada afferma: “Per venir fuori da una situazione difficile...non si deve cedere all'istinto di ricorrere alla forza. Basta essere consapevoli di averla la forza, senza bisogno di usarla...Lì è la soluzione: la consapevolezza contro l'istinto”.

La libera ricerca contro l'indottrinamento, la consapevolezza contro l'istinto: su queste due basi suggerite da due voci distinte del romanzo dovrebbe dunque costruirsi la nuova Italia. Voci distinte che soccombono tuttavia beffardamente al destino che non si può capire e alla violenza che prevale sulla consapevolezza.

Un libro dunque un po' neorealista, un po' fiabesco, un po' grottesco, per quella sua aria scanzonata che aleggia anche sul tragico e salva l'uomo, grazie al distacco dell'ironia, dall'abisso dei suoi errori e dai colpi imprevedibili della sorte. Sembra a tratti di cogliere il sorriso del narratore che gioca con i suoi personaggi, a volte anche in modo canzonatorio, come sul finale quando l'indizio rivelatore che potrebbe schiacciare l'assassino viene equivocato con surreale ottusità.

E l'assassino? L'assassino confesserà impunito, secondo una tecnica che può ricordare in parte il capolavoro di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Una confessione che farà al lettore e non agli inquirenti, e che può spaventare nelle sue conclusioni che ribaltano etiche condivise: “Verrà un giorno in cui gli uomini saranno giudicati per i loro sogni e non per le loro azioni: allora io sarò assolto”. Assassino e vittima diventano pertanto uniti dalla tragicità del sogno che lungi dal concretizzarsi in una felicità che anima la vita, conduce la prima a morire e l'altro ad uccidere, ad uccidere senza rimorsi né pentimento. Una voce, quella dell'assassino, quasi urtante, scomoda, fastidiosa perché nella sua immoralità alla fine non sembra immorale. Ancora una volta colpisce l'assenza del giudizio del narratore che fa riflettere sulla complessità dell'umano e di un'etica oltre l'etica costituita.

Ma alla fine, qual è il sogno che porta alla felicità, alla speranza di rinascita?
La risposta, sebbene mai esplicitamente data ed anzi quasi nascosta dalle voci affascinanti che vorrebbero tacitarla, è questa: il sogno che può attuarsi non è né quello basato sull'opportunismo materialistico che calpesta i sentimenti dell'uno per raggiungere cinicamente i propri desideri, né quello di chi non valuta realisticamente la persona che ha di fronte, sostituendo all'autenticità una sterile illusione.
Il vero sogno che può realizzarsi è quello del chicco di naso: la pannocchia della pluralità.

 Claudio Orsi. Chicco di naso.Aletti editore.

19 novembre 2020

"Gravesend" di William Boyle

 

di Giulietta Isola

Gravesend è un quartiere di Brooklyn, periferico rispetto a New York, negli anni si è trasformato in luogo per comunità d’immigrati, molto nutrita ad esempio, la comunità italiana. Sono state costruite abitazioni popolari e, come spesso succede, è diventato terra di famiglie numerose, crogiuolo di linguaggi e dialetti europei mischiati all’inglese, di tradizioni importate; ma anche di povertà, di violenza, di lotte tra bande, di mafia, di spaccio di droga. 

Gravesend è anche il luogo di un bel romanzo noir, genere che normalmente non apprezzo, ma questo mi è piaciuto molto sia per la trama sfaccettata che per i personaggi “sfigati” che rimangono nel cuore. 

Partiamo da Conway, il cui fratello Duncan, è morto in maniera ben poco accidentale per una trappola nel quale è stato attirato da un manipolo di balordi locali. Il suo “peccato”? Essere gay. Questa morte segna l’inizio della fine per la famiglia :la madre scompare da un giorno all’altro distrutta dall’alcol, il Vecchio, il padre , diventa l’ombra dell’uomo che era stato e Conway sogna la vendetta. Ray Boy Calabrese, capo della gang assassina, viene arrestato e condannato a sedici anni di prigione, scaduti i termini della carcerazione, Conway potrebbe mettere in atto la vendetta tanto agognata, ma uccidere è difficile ,il ragazzo non ce la fa nonostante Ray Boy , devastato dalla prigione e (forse) dai sensi di colpa, voglia essere ucciso. 

Tutto nel primo capitolo fulminante, originale e terribile nel quale Boyle trasforma in altro la vendetta e Gravesend, quel piccolo spicchio di mondo abitato da italoamericani, diventa il teatro di una discesa all’inferno che coinvolge Conway e Ray Boy, ma non solo.

 Incontriamo anche Alessandra (personaggio interessantissimo e perfettamente caratterizzato del romanzo) tornata al quartiere natio dopo aver tentato la carriera di attrice a Los Angeles, i padri dei due,, Eugene, nipote di Ray boy , Stephanie, collega di Conway e amica d’infanzia di Alessandra, McKenna un ex poliziotto alcolista, personaggi di grande impatto e forza. 

Fra tutti loro la penna di William Boyle scorre con drammatica profondità, rappresenta le contraddizioni della realtà in cui viviamo con le sue debolezze e le sue storture, è coinvolgente e riesce a farci affezionare a questi ragazzi disperati e umani per i quali il destino sembra segnato ed irreversibile, ci mostra la loro parte più scura ma anche ciò che non è stato scelto, istanti, incontri che avrebbero potuto condurli su strade diverse e forse migliori. 

Sono la generazione del dopo 11 settembre e della crisi del 2008, quelli della “generazione perduta”, prede fin troppo facili di malessere e furia che non trova sbocco, il passato li schiaccia ed il futuro sembra insondabile, giovani che si fanno amare fra stordimento e ricerca di riscatto in quel quartiere che li domina impassibile e noncurante di fronte allo sgretolarsi implacabile delle loro vite. 

Duro, poetico, pieno di passione, una lettura molto bella che consiglio.

WILLIAM BOYLE . GRAVESEND. MINIMUM FAX EDITORE

 

16 novembre 2020

"Tra le cose di casa" di Carla Rosco

   


Sembrano innocui e docili gli oggetti di casa.

Ma non lo sono, come tutto ciò che è con noi a fare un cammino, che dura quel che dura, senza poterlo sapere prima.

    Di case ne ho abitate tante. Ho cominciato come figlia a traslocare: dalla Basilicata alla Puglia alle Marche alla Campania. Poi da adulta dalla Campania alla Lombardia. E in Lombardia, nella città dove sono capitata lasciandomi alle spalle la Magna Grecia (dove l’ospitalità era sacra), ho vissuto in quattro appartamenti prima di approdare a quello mio, piccolo, comodo e carino.

Essendo mio, l’ho fatto diventare pian piano adatto al mio modo di pensare, di esserci in questo mondo del terzo millennio.

Mondo assediato, nonostante l’aspetto “brillante” di una sua parte, quella più ricca.

 C’è un cancello all’ingresso che si apre su un cortile – che sia benedetto! – con un cipresso alto una quindicina di metri, un grosso tiglio, un grande cedro del Libano e aiuole con fiori, ed anche vasi con fiori. C’è una giovane mimosa che abbiamo fatto piantare il mio compagno ed io.

E ci sono anche altri alberi meno imponenti dei magnifici tre: tiglio, cedro del Libano, cipresso.

Dal cortile si accede alla scala 2 e al terzo piano infine si entra nell’appartamento la cui porta è di fronte all’ascensore. Benvenuti in questo piccolo mondo!

Da esso a volte il mondo sembra inesistente, anche se ho l’abitudine di guardare fuori abbastanza spesso, soprattutto all’ora del tramonto: un rito iniziato in famiglia con mia madre ipersensibile alla natura e che non mi lascia scampo. Una calamita, alla ricerca di sfumature di colori, di forme di nuvole, di anche oggi se ne va, tramonta con il sole.

E mia madre Antonietta , mio fratello Lucio, che inseguiva il tramonto come faccio io, sono con me alla finestra o al balcone.

 Gli oggetti non sono innocui e docili.

Una volta scelti e portati in casa hanno una presenza che si impone, che crea umori, che ingombra, che ci appanna o illumina.

Gli oggetti come le persone.

Attenzione alle vibrazioni più o meno sottili che emana tutto quello che ci circonda.

Che emaniamo anche noi a seconda di come ci siamo nutriti, nel corpo e nella mente.

Ho creato una parola per dire che siamo un intero: corama. Mi piace il suono che ha e mi piacerebbe cominciare ad usarla alla chetichella, in sordina. Buttarla lì e fare finta di non averla detta, salvo che qualcuno, curioso di sapere, mi faccia spiegare.

 Prima di organizzare il soggiorno come si presenta ora, si sono succeduti un buon numero di cambiamenti, con eliminazione di mobili e oggetti, anche cari a volte. Ho preferito la funzionalità e il respiro dell’ambiente, che poi diventa il mio respiro.

La scrivania dove sto scrivendo, collocata di fronte alla finestra, in un angolo protetto da spifferi e freddo, è alla sua terza e credo ultima posizione.

Davanti a me ho la stanza intera, alla finestra vedo una parte del cipresso, qualche tetto, un pezzo di cielo. Accanto a me appoggiato su un tot di libri – a loro volta su un darbuka, tamburo della tradizione araba – c’è Bonobo Mario: un magnifico primate, detto anche scimpanzé pigmeo o nano, trovato a Sorrento molti anni fa in un negozio stracarico di peluche.

Stavo da tempo cercando un peluche che potesse ricordarmi i Bonobo, i meravigliosi Bonobo: vita pacifica, senza predominio dei maschi sulle femmine, sesso libero e giocoso; chiamati anche i primati Kamasutra.

Meraviglia dell’Africa, così come gli Mbuti, pigmei con una vita simile, alla faccia della nostra “civiltà” presuntuosa e capace di creare una quantità di roba o robaccia da sommergerci.

Bonobo Mario è abbastanza grande, 35 cm circa di altezza, con un’espressione dolce e piena, sembra che ti veda. Bello il pelo, i colori sono variazioni del marrone chiaro, colori caldi; solo il naso è marrone scuro. Gli occhi di plastica hanno una grande pupilla molto scura contornata da un marrone più chiaro.

Ecco un oggetto benefico, che fa venire la voglia di coccolarlo, che ti fa sentire in compagnia, pur sapendo.

   Dalla porta d’ingresso al soggiorno ci sono pochi passi attraverso il corridoio, che accompagna tutto l’appartamento fino alla camera da letto che è in fondo.

La porta del soggiorno è stata tolta, al suo posto una tenda giallina scorrevole che fa la differenza quando è ben chiusa. Nella stanza più vissuta, si succedono da destra a sinistra tutto quello che c’è: un tavolino con computer; una piccola libreria con stampante una pianta un Buddha di legno una pantera nera di peluche altre cose; un televisore bianco di 24 pollici; una cassettiera con tre grossi cassetti con sopra una radio e un apparecchio per ascoltare musica;dopo la finestra una libreria più alta; una poltrona stressless norvegese piuttosto comoda; ed eccola la mia scrivania che sporge un po’ fuori rispetto al resto. Poi c’è altro che non elenco, sempre appoggiato alle pareti in modo che lo spazio interno sia abbastanza arioso.

Due pesci di cartone azzurri e celesti, uno più grande dell’altro, visti in un negozio come pubblicità; grande impegno per farseli dare, anche loro benefici come immagine rasserenante acquatica, appuntati sul muro dietro la poltrona stressless. Ed altro alle pareti.

Oggi, mentre scrivo, sta finendo il primo aprile 2020 e siamo ancora in casa con le uscite regolate per un cavolo di virus di cui sappiamo quel che ci fanno sapere in questa babele di dominanti dal volto poco gioioso.

Diceva Spinoza: per andare avanti serve più la speranza che la paura.

E così sia, caro Spinoza, così generoso con chi ti ha seguito nel tempo e nello spazio.

 Sulla mia scrivania un libro fresco di stampa: “La rivoluzione nonviolenta – Lo studio della natura umana può evitare una rapida estinzione” di Piero P. Giorgi, che si è occupato in varie Università di sviluppo biologico, neurologia, storia della medicina, educazione alla pace.

Il libro ci racconta di un periodo nonviolento durato almeno 50.000 anni (forse anche 200.000) grazie all’Homo sapiens: l’arte rupestre paleolitica non ha rappresentazioni di violenza, ed anche le culture dei cacciatori-raccoglitori nomadi contemporanei ( i Paleolitici moderni) sono nonviolente. Insomma la violenza sarebbe un’invenzione culturale di circa 6000 anni fa legata alla produzione di cibo. Quindi, secondo l’autore, dovremmo inventare di nuovo la nonviolenza, visto che con il livello di violenza attuale uomo-contro-uomo ed uomo-contro-ambiente rischiamo l’estinzione.

Un libro ricco di molte cose interessanti, da rileggere.

Troppi libri intorno a me.

Leggere sarà pure utile, ma altrettanto utile è selezionare, scegliere con attenzione quel che ci mettiamo dentro la testa.

Prendersi il tempo.

Quando si dice che leggere fa bene, rispondo: dipende, da cosa si legge dipende.

Mi sono liberata di molti libri, adesso faccio fatica a continuare perché quelli rimasti, che sono troppi, sono frutto di una selezione.

 Sto rileggendo “Ragione e sentimento” di Jane Austen, la meravigliosa, che, come dice Pietro Citati nell’introduzione, “aveva una mente perfettamente formata e armoniosa: forse solo Raffaello l’aveva come la Austen; una luce giusta, chiara e limpida usciva da lei, avvolgeva le cose, impregnava le persone, toccava le atmosfere e le superfici, giudicava il bene e il male, senza che nessun pregiudizio offuscasse, nemmeno per un momento, lo spirito e la rappresentazione. Come capita solo ai geni, conosceva tutti i segreti della realtà, anche senza averne esperienza”.

Cito da “Ragione e sentimento” queste parole lette da poco che mi ricordano alcune persone purtroppo conosciute: “C’era una specie di freddo egoismo nell’una e nell’altra, che le attirava scambievolmente, sicché simpatizzarono a vicenda in un insipido convenzionalismo di comportamento e in una generale mancanza di intelligenza”.

A me Jane Austen dà assuefazione: faccio fatica a lasciar andare l’atmosfera creata dalle sue parole, dalla precisione del suo sguardo, da tutti quei balli (adoro ballare) di casa in casa, dalle conversazioni argute e sentite. C’è calore, c’è fraternità, c’è la fortuna di aver avuto una bella famiglia affettuosa e comunicativa. Siamo a cavallo fra settecento e ottocento, ma che voglia di fare un salto all’indietro e partecipare ad una di quelle feste, e vedere la campagna inglese, e stare un po’ con quella famiglia, e con Jane.

    Ancora aprile 2020. Su Bresciaoggi del 15 aprile si legge: “Spandimento di fanghi e virus. Esplode un altro caso Brescia”. Poi: “L’ammoniaca prodotta dai liquami alimenta i “veleni” atmosferici amplificatori del contagio, secondo i ricercatori di Sima e Harvard”.

E ancora: “Nel bresciano su un milione di abitanti ci sono ben due milioni di maiali e quasi un milione di mucche”.

La trasmissione Report di Rai3, che ha parlato di questo orrore, ha sottolineato come la Regione Lombardia per tutto il mese di febbraio ha di fatto concesso per ben 7 volte gli spandimenti nella zona del bresciano, anche se era in vigore il blocco.

Uno studio della Società Italiana di Medicina ambientale (Sima) ipotizza che il Pm10 abbia aiutato la diffusione del Covid19 nel bresciano.

Ecco uno spaccato degli orrori padani, di questa pianura super sfruttata e senza vento, dove ristagnano tutte le porcherie fatte dall’uomo, in nome del denaro, della competizione, del disprezzo della vita degli animali.

Le mucche sono vegane!

    Tra le cose di casa a volte mi sento un po’ sopraffatta dai ricordi, che per me significano un bel tot di rimpianti e qualche rimorso.

Se … se … se …

Come mi piacerebbe poter riattraversare certe situazioni con il senno di poi.

E voilà, bacchetta bacchetta delle mie brame come ti vorrei vorrei …

   

Tra le cose di casa, spostando un mobiletto dal soggiorno alla cucina, trovo un inserto della rivista “Leggere” (1990), dedicato a Gombrowicz, nato in Polonia nel 1904, autore che, secondo Francesco Cataluccio, ha rappresentato la tragicomica farsa dell’uomo contemporaneo come solo KafKa, Pirandello e pochi altri hanno saputo fare. Gli lascio la parola: “Affermare che noi conserviamo una fondamentale possibilità di libertà di fronte alla sofferenza … cercare di farci credere che siamo liberi noi, vittime, martiri, schiavi … sperimentiamo la più abominevole schiavitù dall’alba a notte fonda … e qui si parla di libertà!” E ancora:” Pure, si direbbe che, a partire dal parrucchiere o dalla sarta, fino al poeta e allo scrittore (ah, quegli autori di romanzi femminili!), non vi sia persona che non abbia cospirato allo scopo di trasformare la donna in un angelo, in un fiore, in una bambina … in poche parole, in tutto tranne che in una donna”.

    E, lasciando Gombrowicz ritrovato, ecco la cucina con una porta-finestra che dà su un balcone, che si affaccia sul cortile e le sue piante.

Qui si mangia quasi vegano: trionfo di verdure e legumi, miglio, pasta integrale e semi-integrale, pochissimo formaggio e raramente qualche uovo:

C’è tutto il necessario e il pianeta ringrazia così come gli uomini di buona volontà e gli animali tutti.

Il soggiorno, la cucina, il bagno e in fondo la camera da letto – che fa da stop con la sua porta – danno sul corridoio piuttosto lungo, e largo quanto basta per una serie di librerie poco profonde, una dopo l’altra.

Vicino alla porta d’ingresso c’è un mobiletto bianco che fa da scarpiera, e sopra alla parete un piccolo specchio bianco trovato a Massa Marittima.

Ogni cosa è un ricordo, più o meno chiaro, più o meno sicuro.

 … Tra le cose di casa mi sta anche piacendo: c’è più calma e più tempo.

Non sono l’unica.

Certo siamo quelli che se lo possono permettere, avendo una casa, un reddito sicuro, e senza la necessità di esporsi per motivi di lavoro.

Una paura c’è comunque: un crollo economico riguarderebbe tutti, anche se in modo diverso secondo le situazioni sociali.

E questo Covid19 ci lascerà in pace, lui e tutto quello che ci sta intorno nella sua complessità non sempre trasparente?

 Aggiungo tre riflessioni di tre autori amati:

 Leopardi:Le parole sono non le vesti, ma i corpi del pensiero”.

 Edgar Morin: “La nuova saggezza comporta la comprensione che ogni vita personale è un’avventura inserita in un’avventura sociale, a sua volta inserita nell’avventura dell’umanità”.

 Jane Austen: “Noi tutti abbiamo dentro di noi una guida migliore, se siamo disposti a darle ascolto, di quanto possa esserlo qualsiasi altra persona”.