29 aprile 2015

“Formentale: viaggio in lucchesia” di Gianni Quilici




Mi stendo sull’erba di un viottolo. Davanti ho la collina che sale e che scende rigogliosa di tanti colori vibranti; da un lato il paese, Formentale, con in alto la chiesa e il campanile e più in basso le poche case, sullo sfondo della montagna turchina che scende gradatamente a valle.



Formentale è un paese a pochi chilometri da Lucca. Sulla via Sarzanese si imbuca la strada che attraversa Farneta fino alla Abbazia, la quale, vista dall’alto, mi stupisce per la sua grandezza e bellezza architettonica. Subito dopo un cartello segnala Formentale. Si sale, tra una folta vegetazione, attraverso una stradina con stretti tornanti con l’ansia di incontrare auto in discesa, fino a trovare finalmente le prime case e subito dopo ad una svolta la chiesa che non ti aspetti.
Una chiesa di pietre bianche squadrate, una bella abside con finestre stondate, una facciata semplice, bifore con archetti e colonnine di marmo, un campanile tozzo con finestre e feritoie e, appena davanti, il cimitero (chiuso) minuscolo.


Ma ciò che colpisce è l’insieme. Il prato verde di primavera, gli olivi antichi con rami che possono sembrare braccia che si allargano ad accogliere. Un uomo, con cui simpatizzo, con fotocamera impiantata sul cavalletto che sta filmando e il suo vecchio cane tranquillo –Jack si chiama- che gironzola fiutando il territorio.



Ciò che più mi intriga è, tuttavia, la bellezza di questo pozzo rialzato da un terrazzamento di mattoni con una pompa per l’acqua in disuso, inevitabile ricordo della mia infanzia, e la collina intorno alberata e verdeggiante.
Apparentemente povere cose, ma, come diceva Pasolini in un video, queste povere cose possono risultare preziose come un’opera d’arte da conservare quindi e valorizzare, non solo come memoria, ma perché contribuiscono a rendere un luogo autentico e, a volte, poetico.


Quando vado via, ecco fermo sulla strada asfaltata,  questo bel gatto, che neppure mi guarda, ma che continua imperterrito, le zampe incrociate, a rimanere tranquillamente immobile. Devo uscire dalla macchina e chiedere con gentile fermezza se si può spostare.

Formentale, 19 aprile 2015.  
     

“Una forma di magia” di Pablo Picasso



        
 di Dafne

E’ interessante il percorso artistico a ritroso di Pablo Picasso, iniziato nel 1906 quando si scoprì affascinato dalla scultura africana e polinesiana. Ce lo spiega lui stesso in “Una forma di magia – Pensieri sull’arte”, uno di quei piccoli quaderni con testi inediti e rari del Novecento editi da Viadelvento Edizioni.

I  nuovi ragionamenti sulla sua ispirazione e sulla sua vocazione artistica nascono in seguito ad una visita al Museo Trocadero. In quel museo Picasso provò sensazioni contrastanti che lo spinsero a chiarire a se stesso la sua natura artistica e la sua poetica. Fu come una rivelazione da cui scaturì una nuova spinta, gli fu possibile riconoscere a se stesso un sotterraneo spirito di rottura rispetto ai canoni fino a quel momento adoperati:

“Quando ho scoperto l’arte negra, e ho dipinto quel che si dice la mia epoca negra, era per opporsi a ciò che nei musei era indicato come “bellezza””.

In questa frase credo che si celi tutta la forza emotiva di Picasso, la sua originalità , la nascita della sua capacità espressiva. La  sua è la necessità di opporsi a quello che comunemente riteniamo ‘bellezza’, non per eluderla o non riconoscerla, ma per trovarne una manifestazione diversa, scomponendo interiormente i flussi sensoriali ed emozionali di una percezione per riproporli trasfigurati in una vera opera interiore, che tiene conto di tutti gli aspetti di un vissuto privato. E l’artista può restituirceli senza necessariamente arrivare a farci comprendere la sua visione, piuttosto a farci vittime di un rapimento.  Ancora le sue parole :

 “Capire! Si tratta proprio di capire!…da quando un quadro è una dimostrazione matematica? Non è destinato a spiegare (a spiegare cosa? mi chiedo) ma a far nascere delle emozioni nell’animo di chi osserva. Bisogna fare in modo che un uomo non resti indifferente davanti a un’opera d’arte, non passi gettando solo un colpo d’occhio negligente…Bisogna che sussulti, si commuova […] dovrebbe essere strappato dal suo torpore, scosso, afferrato alla gola affinchè prenda coscienza del mondo in cui vive e, perciò, senta il bisogno di distaccarsene subito”.

Mi piace molto quando Picasso afferma che non considera la pittura come un processo estetico, ma una forma di magia che si interpone fra l’universo ostile e noi, come a dire che la pittura, e l’arte in genere, non possono che derivare da una sensazione di disagio nei confronti del mondo che ci circonda, da una sottile, esistenziale sofferenza che porta, chi ne ha gli strumenti, a dare forma alle personali paure e desideri per poterli, alla fine, esorcizzare. Questo vide Picasso nelle maschere africane: non degli oggetti etnografici ma  forme di mediazione tra gli uomini che le avevano realizzate e le forze ignote, fonte di soggezione, da cui si sentivano attorniati. Un modo per dominarle, per dominare ed esplicitare la propria esistenza.

Un pensiero affascinante, che ci avvicina alla sfera dell’ispirazione artistica di Picasso e ci consente di avere uno sguardo più consapevole guardando le sue opere. Si comprende bene, a questo punto, cosa intendesse quando negava che la sua pittura soggiacesce a processi estetici ma fosse spinta da altre forze.


Come non fermarsi a riflettere sull’intera sua personalità di artista quando afferma che “Les demoiselles d’Avignon dovevano nascere quel giorno [il giorno della visita al Trocadero], ma non certo a causa delle forme: perchè era il mio primo dipinto di esorcismo”.

In questo dipinto c’è stato chi ci ha visto i primi tratti di cubismo, ed è certamente così, e chi ci ha visto gli influssi dell’arte negra, ma Picasso lo nega, lo nega nella misura in cui rivendica di aver dipinto un naso di profilo in un volto di faccia, con queste parole : ” Hai mai visto una sola scultura negra, una sola, con un naso di profilo in una maschera di faccia?”  Lui, realizzando questa tela, si è liberato da qualche pensiero od ossessione da cui si sentiva posseduto, o forse da una speciale forma di energia da cui altrimenti non poteva liberarsi.

Intuisco adesso, se pur alla lontana, l’origine del fascino che scaturisce dai suoi ritratti, l’anomalo senso di bellezza che producono, il percepire l’artista dentro alle linee della persona ritratta, vedere i suoi occhi  trasfigurati da una sensibilià altra, sconosciuta, guardarla, osservarla, scomporla e ricomporla.

L’arte e la vita si dipanano, nella vita dell’artista, influenzandosi continuamente, in un tutt’uno indistinto: “Io dipingo come altri scrivono l’autobiografia. Le mie tele,  finite o no, sono le pagine del mio diario, e in quanto tali hanno valore. Il futuro sceglierà le pagine che preferisce. Non tocca a me fare la scelta”

Si ha l’immagine di un uomo totalmente preso dalla sua vita-lavoro, indifferente all’aspetto funzionale o estetico delle sue opere se dice “Sono giunto al punto in cui il movimento del pensiero mi interessa più del pensiero medesimo”.

Da questa ultima affermazione si intuisce quanto la pittura possa considerarsi (come le altre arti) alla stregua della filosofia o della poesia che ci portano, quando vogliamo soffermare il nostro sguardo e la nostra mente, a fare ogni volta un passo avanti verso un pensiero più ricco e complesso. Si tratta di praticarle e viverle nelle forme in cui a ciascuno è concesso.

Pablo Picasso. Una forma di magia – Pensieri sull’arte. Viadelvento Edizioni.

"A me mi hanno salvato le storie" di Luciano Luciani

Eugène Delacroix
Il passato assomiglia a un magazzino che contiene materiali eterogenei, disparati. Non ci sono registri d'entrata, né inventario. Nessun ordine: né per entrata, né per anno, né per autore, né, tanto meno, per temi. Impossibile individuare il senso di quei depositi, più scoria che storia. Eppure, in questo caos magmatico, in gran parte ormai rappreso, freddo e solo di rado ancora caldo o appena appena tiepido è possibile individuare alcune relazioni significative e meritevoli di essere prese ancora in considerazione. Sì, negli anfratti dell'immenso stoccaggio della Storia, ci sono, mi raccomando l'iniziale minuscola, le storie: di rigore, invece, la maiuscola per la prima, bella e terribile come la Marianna della Rivoluzione francese, audace e determinata nelle sue poppe al vento e fieramente impegnata ad affrancarci, bon gré mal gré, tutti quanti siamo.

Giovinetto liceale in preda agli eroici furori di una giustizia sociale purchessia, me la immaginavo così la Storia: ruscellante di forme, morbida ma decisa emancipatrice, vocata alla libertà, alla giustizia, alla fraternità tra le genti tutte dell'orbe terracqueo.

E i fatti, almeno per un po', sembrarono darmi ragione: erano gli “anni formidabili” e la Rivoluzione avanzava a nord come a sud, all' est come all'ovest, nel mio villaggio e in quelli lontani. Sarebbe stato sufficiente continuare a occupare scuole e facoltà universitarie, fabbriche e terreni agricoli abbandonati, stampare al ciclostile migliaia e migliaia, magari milioni, di volantini da distribuire agli oppressi in tante albe caliginose, diffondere pazientemente la stampa buona e giusta e poi parlare, discutere, dibattere, disputare, contraddire e negoziare perché, sia pure con qualche fatica, si realizzasse, qui e altrove, la desiderata armonia sociale.


Le cose poi come è noto non sono andate proprio così. A farmi dolorosamente ricredere ci pensarono la strategia della tensione e i fatti del Cile, il terrorismo nero e quello rosso, Reagan e il craxismo, la marcia dei quarantamila e l'omologazione galoppante di quella classe operaia che, secondo i voti miei e di quelli come me, avrebbe dovuto “dirigere tutto”.
La caduta del Muro di Berlino mi trovò quindi già deluso e irrimediabilmente senile, incapace di comprendere il rifiorire degli antichi egoismi nazionalistici e i nuovi fondamentalismi economici e religiosi. Sarei diventato un attempato signore politicamente riottoso e nostalgico? La vittima, ne conosco tante, di una rabbia perenne e sterile, un patetico e recalcitrante abitatore del nuovo secolo e del terzo millennio? Per dirla con un aggettivo oggi di uso corrente, un “rottamato”?

Potevo diventare un leghista, un lettore di “Libero” o del “Giornale”, un seguace, anzi un follower, di Renzi, oppure un acido stronzo totale che allarga alle intere 24 ore i, talora legittimi, soli 5 minuti di fascismo quotidiano che mi pigliano oggi... Invece a me mi hanno salvato le storie. Quanto più la Storia grande mi deludeva, tanto più le storie, vere di vita o, perché no, d'invenzione, mi permettevano di attingere a sorgenti perenni e straordinariamente fresche di umanità e intelligenza, condivisione e solidarietà, utopia e pratico buon senso: storie di gente che non ha mai vinto, ma neppure è mai stata definitivamente sconfitta e ha comunque lasciato segni incancellabili. Se ne stanno lì, le storie, abbandonate, nel Grande Deposito e sarebbe sufficiente raccoglierle, basta scavare neppure tanto in profondità, spolverarle, restituire loro qualcosa dei tratti di un'antica, nobile dignità. Collegarle tra loro, intrecciarle, aggiornare il linguaggio e riproporne i valori morali e narrativi agli abitatori della nostra contemporaneità, fiduciosi nella loro intelligenza. Storie lievi e per questo più efficaci per arrivare al cuore dell'esistenza, per risvegliare, almeno un po', le coscienze narcotizzate.


23 aprile 2015

"La visione interiore" di Henri Matisse



di Dafne

 Una trentina di pagine di riflessioni di Henri Matisse sono sufficienti per entrare nell’orbita del pianeta Arte. 

Questi piccoli quadernetti dell’editore Viadelvento (i quadernidelvento – testi inediti e rari del Novecento) hanno un fascino particolare, emanano un alone di preziosità, sembrano appena trovati su una scrivania di studio di artista. Si tratta infatti di pensieri non ordinati, senza necessariamente un filo logico, nati spontaneamente da riflessioni libere che si arricchiscono per successive associazioni di idee, apposizione di suggestioni. E noi che leggiamo ci troviamo così vicini all’immaginario dell’artista che non ci rimane che stare silenziosi ad accettare religiosamente le confidenze di ciascuno di loro. Nel caso di Matisse si tratta di personali, intimi tentativi di spiegare il proprio specifico sentire nell’atto del creare, come anche dell’intento riuscito di guardarsi all’opera con un occhio esterno per dare una personale definizione, decrizione anche pratica, strumentale, del fare arte. Vale la pena leggerne qualche stralcio:

“non bisogna considerare il pensiero di un pittore come estraneo ai suoi mezzi, perché e’ solo nella misura in cui essi lo servono che quel pensiero ha un valore; e quei mezzi devono essere tanto più completi (dico completi, non complicati) quanto più il pensiero e’ profondo. Per me e’ impossibile distinguere tra il sentimento che nutro della vita e la forma in cui lo traduco.”
E’ molto interessante la distinzione che Matisse pone tra l’aggettivo completo e l’aggettivo complicato,  come anche il concetto di sentimento della vita e traduzione di esso nella forma artistica che sarà diversa, di volta in volta, per ciascun artista. Nei manuali di storia dell’arte, ma anche di filosofia, dovremmo scontrarci con ragionamenti di questo genere, usciti dalla mente di chi pratica forme di arte, e così forse, verremmo educati al senso artistico ed alla comprensione dell’ispirazione, ci abitueremmo all’idea che l’uomo necessita anche di spazi che esulino dal contingente, e che consentano movimenti fisici e mentali che si distacchino da una logica visione della realtà per avere invece impressioni visuali del mondo che nascano da tipi di percezioni propri dell’esperienza artistica.

Inoltre, quante volte ci siamo posti domande su cosa è l’arte? E quanto è bello poter adesso riflettere sulle parole di un artista ormai totale, artista nella vita, ormai forse sicuro di quello che pensa:
“Quel che sogno è un’arte fatta di equilibrio, purezza e tranquillità, senza oggetti minacciosi o angoscianti; un’arte che sia per chiunque lavori col cervello, ad esempio l’uomo d’affari o il letterato, un lenitivo, un calmante della mente, qualcosa di simile a una buona poltrona su cui riposare dalle fatiche fisiche“
Che parole! E come non pensare all’arte contemporanea, che spesso invece è proprio rappresentata da oggetti minacciosi ed angoscianti. Allora, forse, stiamo andando indietro anzichè andare avanti nell’interpretazione del mondo che ci circonda? Allora, quella che l’uomo di oggi definisce arte, lo è davvero? Probabilmente accade più volte del necessario di chiamare arte attività produttive e manufatti che in realtà ne sono lontani.
E con quanta semplicità e naturalezza, paragona l’arte ad una buona poltrona! Senza nessun timore reverenziale o falso ossequio. Questa metafora ci dimostra quanto l’arte possa essere un bisogno di ciascuno, e quanto non sia necessario ammantarla di un’aura di eccessiva sacralità o innavicinabilità.

E ancora, assai affascinante l’approccio del pittore col proprio modello nell’atto di creare il ritratto:
“Dipendo in modo assoluto dal mio modello, che osservo in libertà e che solo più tardi mi decido a fissare nella posa più rispondente al suo naturale. Quando prendo un modello nuovo, è nel suo abbandono al riposo che indovino la posa che gli conviene e a cui mi vincolo“
Alcune parole utilizzate (dipendere, posa al naturale, vincolare) focalizzano i percorsi mentali ed artistici del pittore, è molto bello pensare che il pittore si vincoli al suo modello nell’abbandono al riposo di quest’ultimo, la pacatezza dell’immagine suggerisce una ingenua infantile pace, propria dell’abbandonarsi dei bambini, il riposo del modello potrà raggiungersi solo quando la fiducia nello sguardo che ti scruta è totale. Questa è una indicazione precisa di intenti oltre che di modalità di lavoro.

foto di Henri Cartier-Bresson

E ancora parole attualissime sul pregiudizio e sulla finalità dell’artista di esserne scevro:
“Vedere è già un atto creativo che richiede impegno. Tutto ciò che osserviamo nella vita quotidiana subisce, piò o meno, la deformazione prodotta dalle abitudini acquisite, questione forse più tangibile in un’epoca come la nostra, dove cinema, pubblicità e riviste ci impongono ogni giorno un cumulo di immagini già predisposte, che nell’ordine della percezione sono un po’ come il pregiudizio nella sfera dell’intelligenza. Lo sforzo che ci vuole per liberarsene esige una sorta di coraggio; e questo coraggio non può mancare all’artista, che deve vedere ogni cosa come fosse la prima volta“
Come non pensare, dopo queste parole, che l’unico antidoto alla banalizzazione, anche per la nostra società,  sia proprio l’arte? Per non abituarci alle immagini imposte dalle pubblicità, dalle riviste o da un certo cinema, ora come allora, possiamo solo provare a riempirci le giornate e gli occhi di immagini di opere d’arte. Da riflettere anche sulla parola sforzo, e sulla parola coraggio. Senz’altro l’artista non manca nè dell’uno nè dell’altro se artista lo è davvero, ma al giorno d’oggi anche l’uomo comune dovrebbe averne per non venire sopraffatto dalle abitudini mentali imposte dal contesto in cui viviamo, abitudini che ci portano a parlare, guardare, ascoltare e percepire con la mente carica di pregiudizi.

E ancora un illuminante concetto sui mezzi, e sulla semplicità:
“I mezzi che si usiamo per dipingere non sono mai troppo semplici. Per parte mia ho sempre mirato a diventare più semplice. La semplicità assoluta coincide con la massima pienezza. E il mezzo più semplice per quanto concerne la visione, libera la massimo grado la percezione dello sguardo. Alla lunga solo il mezzo più semplice è efficace. Ma serve coraggio per diventare semplici, da sempre. Credo che nulla al mondo sia più difficoltoso. Chi lavora con mezzi semplici non deve temere di apparire banale.”
La semplicità come abito mentale, un togliere gli orpelli che sviano dall’essenza per mirare invece all’autenticità.

Henri Matisse. La visione Interiore. Via del vento. (I quaderni del vento). Euro 4,00.

22 aprile 2015

" Sullo stile di Benedetto Croce" di Davide Pugnana



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LE PENOMBRE CHE FASCIANO

 IL FATTO DELL'ARTE

Leggendo alcune pagine di Benedetto Croce per osservarne la qualità dello stile, il meccanismo e il ritmo della pagina, ho ripensato alla giustezza del giudizio che ne diede Giacomo Debenedetti verso il 1949, delineando l'autobiografia della sua generazione: «L’appello ci veniva dalle penombre che fasciano il fatto dell’arte, come l’ha circoscritto il Croce: dall’infinito, perenne mormorio della foresta intorno alla radura illuminata».
 La metafora plastica della pagina come "radura" rischiarata dalla luce zenitale, lembo luminoso ai cui confini preme, non vista ma udita, la formicolante vastità della foresta circostante, forma un equivalente perfetto della scrittura crociana.
Certo, si può anche non essere d'accordo con la posizione di Croce, anzi si può decidere di dire no alla sua ricerca, oppure si può scegliere la posizione, cosiddetta generazionale, di chi decide di essere non tanto "anticrociano", quanto "postcrociano". Insomma, di capire storicamente e poi correggere; di passare al vaglio sistematico prima di ingolfarsi a giudicare e condannare.
Croce fu un'idra di Lerna dalle molte teste e per comprenderne la configurazione dei tratti occorre averle fissare tutte, almeno una volta.


Come esempio esplicativo della metafora di Debendetti ho scelto di trascrivere un brano - quanto 'da antologia' si vedrà! - del saggio sulla filosofia di Giambattista Vico:



"La storia di Roma, a mala pena generalizzata e integrata qua e là con quella della Grecia, si scorge nelle "degnità" vichiane che formolano leggi della dinamica sociale. Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile,. appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. Ci vogliono prima uomini immani e goffi come i Polifemi, affinché l'uomo ubbidisca all'uomo nello stato delle famiglie, e per disporlo a ubbidire alla legge nello stato futuro delle città. Ci vogliono i magnanimi e gli orgogliosi come gli Achilli, determinati a non cedere ai loro pari, affinché sulle famiglie si costituiscano le repubbliche di forma aristocratica. Quindi si richiedono i valorosi e giusti, quali gli Aristidi e i Scipioni Africani, per aprire la strada alla libertà popolare. Più innanzi, personaggi appariscenti con grandi immagini di virtù accompagnata da grandi vizi, che presso il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari, per introdurre le monarchie. Più oltre ancora, i tristi riflessivi, quali i Tiberi, per istabilirle; e, finalmente, i furiosi, i dissoluti e sfacciati, quali i Caligola, i Neroni, i Domiziani, per rovesciarle."
 
Ariosto di Benedetto Croce è, tra i suoi saggi sulla letteratura, quello che ha meno capelli bianchi. Almeno per me, questa smilza monografia mi pare non sia mai veramente entrata a far parte dell'archeologia libraria delle venerande canizie. Quando torno a sfogliarlo, mi sembra come quei vini, barricati in botti di legno buono che il tempo migliora. E nonostante siano stati pubblicati altri e più aggiornati contributi sul "Furioso", e tenuto conto di quante metodologie acuminate e accurate si siano date battaglia nel conflitto delle interpretazioni degli ultimi anni, posso dire che nessun incipit come quello scritto da Croce ha un sapore e una consistenza tali da conservare intatte le sfumature e le iridescenze proprie dei classici:
La fortuna dell'Orlando furioso si può comparare a quella di una donna leggiadra e sorridente, che tutti guardano con letizia, senza che l'ammirazione sia impacciata da alcuna perplessità d'intelletto, bastando, per ammirare, aver occhi e volgerli al grato oggetto. Limpidissimo com'è quel poema, nitidissimo in ogni particolare, facilmente apprendibile da chiunque possieda una generale cultura, non ha mai presentato seri ostacoli d'interpretazione, e perciò non ha avuto bisogno delle industrie dei commentatori e non è stato aduggiato dalle loro litiganti sottigliezze; né poi è andato soggetto, o assai lievemente, alle intermittenze che, per le varie disposizioni culturali dei vari tempi, hanno pur sofferto altre insigni opere di poesia. Grandi uomini e comuni lettori si sono trovati intorno ad esso in pieno accordo, come appunto intorno alla bellezza, poniamo di una signora Récamier; e nella folla di coloro che furono presi dal suo fascino, si notano un Machiavelli e un Galilei, un Voltaire e un Goethe.

13 aprile 2015

"Padule: viaggio in lucchesia" di Gianni Quilici



       Viaggiare vuol dire disporsi alla scoperta, aguzzare gli occhi, percepire gli oggetti, facendoli divenire, laddove è possibile, soggetti.
Così decido. Vado a pochi chilometri da dove vivo, in una frazione, Padule, dove sono stato molti anni fa.
Uno degli scopi, se vogliamo banale, è verificare se la strada che attraversa una zona paludosa, è stata asfaltata, perché vorrei  poi farla con la bici da corsa.
Arrivo a Porcari, imbocco la strada giusta che porta a Padule.
Strada dritta, sottopassaggio ferroviario, un rio, Fossanova credo, pieno d’acqua, che scorre sul lato destro della via con ponticelli, che l’attraversano. Le case della frazione sono allineate lungo la strada, case coloniche per lo più ristrutturate e tinteggiate di bianco, con qualcuna fatiscente abbandonata a se stessa.

foto gianni quilici
Ed è proprio al lato di una di esse che mi fermo.
La vediamo nell’immagine: cadente e diroccata, vista da lontano ha però il fascino del tempo con la capanna di mandolato, i piani alti delle soffitte, gli alberi davanti e dietro, i prati d’intorno,  lo slancio del ponticello, che consente il passaggio dalla strada.

foto gianni quilici
       Ma è andando avanti per pochi metri che si incontra una corte stretta da un lato dal rio (ricco d’acqua) e dall’altra da distese di prati  che arrivano sulla collina, su cui si adagia San Ginese, una frazione del comune di Capannori e al Monte Serra.

foto gianni quilici
  Una corte al tempo stesso significativa e originale. E’ inconsueto trovare, infatti, nel centro di essa, un palazzo con lo stemma, una scala esterna che sale dai due lati ed una deliziosa altana. In fondo alla corte, inoltre, colpisce la casa di un giallo Van Gogh, che mi dicono sia stata acquistata da una banca, che la sta ristrutturando.

foto gianni quilici
Riprendo la macchina e dopo qualche chilometro, ahimè, finisce la strada asfaltata, si entra in quello che fu una palude vera e propria e che oggi è  diventata un’area naturale protetta,  l’Oasi WWF del Bottaccio con sentieri che arrivano a un laghetto pieno di uccelli di vario tipo attraverso prati, boschi, canneti. Sulla destra una locanda e il ponte che attraversa il rio. La osservo: è una delle poche zone rimaste quasi incontaminate. Faccio qualche tratto a piedi. La strada sterrata è in brutte condizioni, come si intravede nella foto, buche profonde e acquose. Non mi rassegno. 
Prendo l’auto e mi inoltro. Niente da fare. Le buche sono così profonde e la mia auto è così bassa e molleggiata che rischio di fare qualche danno alla coppa dell’olio.

foto gianni quilici
Riprendo la strada verso Porcari. Mi fermo lungo la strada. Sullo sfondo si intravede il palazzo con l’altana. Sulla destra un campo di granturco tagliato e due capanne con i rispettivi mandolati. Sul tetto un branco di passeri. Scendo, faccio degli scatti, salto la fossa, vado nel campo nel centro delle capanne. Aspetto l’attimo. L’attimo del volo.

Padule, 7 marzo 2015     

“Treia: viaggio nelle Marche” di Patrizia Manganaro






Domenica. Sono libera. Mi crogiolo nel sonno un po' di più, le imposte sono spalancate come sempre, un'esondazione di sole nella stanza mi spinge a uscire fuori.

 Esco alle 10,00 per incontrarmi al bar con un'amica, mi siedo all'aperto, fa ancora freddino ma c'è una bella luce luminosa, di gente ce n'è poca in giro e quella poca non mi distrae... Do una sfogliata ai giornali, arriva l’ amica, il buongiorno, due chiacchiere, il caffè... Poi rimango da sola e senza impegni, con tutto nella testa e senza niente nella testa...che faccio...torno a casa? ...no, non ne ho voglia, questo sole me lo sognavo, voglio andare, fare qualche foto... Salgo in macchina e mi vengono in mente almeno sei località che vorrei visitare da tempo, una di queste, che è anche la più vicina, è Treia.

La strada in salita è fluida, scorrevole, la percorro come se fossi in vacanza, è magnifico sentirsi in vacanza ed è magnifico sentirsi in vacanza a soli quindici chilometri da casa propria, con l'aria di primavera che entra allegra dai finestrini tirati giù e io che mi sento sorridere in corsa...

foto Patrizia Manganaro
Quando la vedo, la città di Treia è una sorpresa. Si erge massiccia distesa su tre colli, una fortificazione imponente e armoniosa, cinta da mura tipiche del territorio marchigiano, costruzioni spoglie di fronzoli, volutamente povere, ben mantenute, con un bel camminamento che le circonda, curato, con aiuole fiorite e variopinte che si addossano alle mura e  un ampio marciapiede per passeggiate, che si affaccia al panorama di valli e colline.

 Parcheggio l'auto fuori dalle mura (un vero peccato il parcheggio auto nella bella piazza...) e proseguo a piedi entrando da Porta Cassera, una delle otto porte della cittadina, che si apre ai miei occhi come si era annunciata dalla strada: magnifica.
Il fulcro di Treia è  piazza della Repubblica, un salotto originale a cielo aperto, a forma di ferro di cavallo con un maestoso terrazzo che dà sul paesaggio e sembra abbracciare tutte le Marche.

foto Patrizia Manganaro
 Continuo la mia passeggiata fra strade larghe e strette, vicoli che si inerpicano e poi precipitano, pavimentazioni mulattiere, piazze d'aria e di luce, sottopassaggi, scalinate, slarghi, impennate della roccia, tutto incastonato in un nucleo medievale ben conservato. La felicità mi riempie gli occhi, ovunque c'è modo di salire più in alto, scalinate, torrette da cui guardare, ammirare il panorama fuori le mura e dentro: le case, le viuzze, gli orti sui terrapieni sul dietro delle case, i passaggi in archi di pietra che ricongiungono vie e contrade.

foto Patrizia Manganaro
Poi c'è il fascino delle rovine con la Torre di San Marco che si erge sulla sommità del colle Onglavino, uno dei tre colli unificati su cui è edificata Treia, e quella vegetazione muraria sulla roccia diroccata che non mostra degrado, ma proprio l'impressione di rovina come di qualcosa di caro, che mai vorrei fosse recuperata, se non con il ricordo della storia scritta e con quel moncone di torrione che resiste come un eroe invincibile, così affascinante, così nobile...
Lascio Treia con questa immagine e, nel sole, torno sui miei passi. 

Treia, 11 aprile 2015.

"Almirante Biografia di un fascista" di Aldo Grandi


                         La biografia di un fascista

di Luciano Luciani

Aldo Grandi, classe 1961, ha sempre guardato con interesse alle complicate, mosse, talora drammatiche, vicende  dei territori estremi della vita politica italiana, a sinistra come a destra. Però, più che alla storia dei partiti, questo giornalista prestato alla ricerca storica sembra rivolgere preferibilmente la propria attenzione ai personaggi delle opposte periferie dello schieramento politico, meglio se complicati o contraddittori. Ai loro difficili itinerari umani e ideali, alle ragioni di una militanza scomoda, al loro essere spesso eretici, Grandi si è sempre avvicinato con sincera curiosità e onesta intellettuale, ricorrendo a uno strumento d'indagine semplice quanto incisivo, l'intervista. Poi, con passione di ricercatore ha messo in relazione i materiali ottenuti attraverso ore e ore di incontri e discussioni, li ha confrontati e verificati con i documenti ufficiali e con le fonti giornalistiche, li ha rielaborati ottenendo una narrazione i cui lineamenti si avvicinano alla realtà storica molto più di tanta saggistica accademica e paludata.

Sono nati così alcuni utili libri di storia contemporanea: Fuori dal coro: Ruggero Zangrandi Una biografia, 1998, un'ampia rivisitazione di un maestro del giornalismo italiano; Feltrinelli La dinastia, il rivoluzionario, 2000, un lavoro importante, documentato ed equilibrato, su una figura strategica della cultura italiana del dopoguerra, amato e odiato a destra come a sinistra; I giovani di Mussolini, 2001, decine e decine di interviste agli esponenti importanti e meno importanti della generazione che aveva vent'anni o poco più alla vigilia del secondo conflitto mondiale; La generazione degli anni perduti, 2003, che racconta in in maniera esemplare i percorsi ideali, politici e umani dei militanti di base, dei dirigenti locali e nazionali di una delle formazioni politiche extraparlamentari ideologicamente più attrezzata e politicamente più radicale che intendeva trasformare “lo stato di cose presente” partendo dalla fabbrica e dagli operai.

La storia politica e umana di un uomo scomodo torna anche nell'ultimo, contestato, libro di Aldo Grandi, Almirante La biografia di un fascista, Sperling e Kupfer 2014, quella del “nero” per eccellenza della politica italiana del secolo scorso: la biografia di Giorgio Almirante, segretario del Msi dal 1969 al 1987, elettoralmente il quarto partito italiano, ma la cui forza di incidenza nella vita politica e  nell’immaginario collettivo sono andate ben oltre quel 6/7% entro cui, mediamente, si sono sempre attestate le fortune elettorali di quella formazione politica. Un personaggio   significativo, Almirante, ma non centrale nella storia del Novecento politico italiano, rispetto alla cui vicenda, l'Autore, piuttosto che lo strumento dell’intervista, che pure era stata la carta vincente di altre sue pubblicazioni, utilizza con larghezza fonti giornalistiche, materiali d'archivio e la relativamente scarsa letteratura precedente.

Una biografia scritta sine ira et studio: senza esaltazioni, ma anche priva di pregiudizi e limitazioni intorno a una figura comunque di rilievo nel panorama politico italiano della prima repubblica, cui viene giustamente e ampiamente restituito quello spessore umano che di solito non attribuiamo ai politici, letti solo come espressione di posizioni, appunto, politiche, mentre presentano anch'essi pregi e difetti, passioni e debolezze storicamente interessanti in quanto specchi veritieri di un tempo storico determinato.

Detto questo e ribadita l’utilità del lavoro di Grandi come racconto del lungo viaggio di un italiano, fascista fin da giovanissimo, che attraversa il regime mussoliniano, la guerra, l’esperienza bruciante della Rsi e poi gli anni della Repubblica fino al craxismo, traversando il centrismo e il centro sinistra, il libro finisce per deludere. E non per responsabilità dell’Autore, quanto, direi, per il personaggio biografato.

Infatti, se non si possono non riconoscere ad Almirante indubbie qualità come un’indiscutibile coerenza con la propria storia; un’onestà a tutta prova, appena appena appannata da alcune chiacchiere al termine della vita; un’abilità giornalistica fuori dal comune, riconosciutagli da tutti, in primis da un maestro come Montanelli; una straordinaria capacità oratoria; una totale dedizione alla causa, la sua,  pure restano del tutto modesti dal punto di vista politico e storico i risultati della creatura, il Msi, per cui Almirante ha speso con larghezza quasi tutt'intera la propria esistenza. Infatti, mai in quasi mezzo secolo di lotta politica, il Movimento sociale italiano riesce a riscattarsi della doppia subalternità che lo segnerà durante tutto il corso della sua vicenda.

Intanto subalternità verso la Dc. Individuata nei comizi e nelle pagine del “Secolo” come la responsabile di tutti i mali italiani, partecipe e protagonista di una Repubblica e di una Costituzione malate di ciellenismo: ma alla Democrazia cristiana, il Msi non si negò mai. Contento di svolgere il proprio ruolo di stampella, di ruota di scorta o di “serva di casa” nei momenti di crisi e di difficoltà della “Balena bianca”, sempre in nome di un anticomunismo viscerale e un po’ ottuso. Si pensi, solo per fare l’esempio più vistoso, al 1974 e al referendum sul divorzio.

Poi, subalternità sul terreno del posizionamento internazionale. Sempre in nome dell’anticomunismo, il Msi di Michelini e poi quello di Almirante non si staccarono mai da un oltranzismo atlantico, così filoamericano che di più davvero non si poteva: con tanti saluti ai combattenti delle “rossa Salò”.
A questo assai magro bilancio storico-politico, aggiungiamoci la convinta adesione di Almirante, allora giornalista della rivista “La difesa della razza”, alle leggi antisemite del 1938 - una posizione giudicata sbagliata solo tardivamente, quarant'anni più tardi - e avremo la biografia di un un personaggio comunque opaco, fideisticamente attaccato a un passato deprecabile, un nostalgico incapace di aprirsi, sia pure da destra, sia pure da posizioni conservatrici, alle novità che via via maturavano in cinquant'anni di storia nazionale.

Grandi, insomma, finisce per aderire alla vulgata che in occasione del centenario della nascita dell'uomo politico neofascista, hanno contribuito ad alimentare due personaggi provenienti da aree ed esperienze politiche opposte a quella di Almirante: Luciano Violante e Giorgio Napolitano.
Per il primo, Almirante “seppe condurre nell’alveo della democrazia quegli italiani che, dopo la caduta del fascismo e la sconfitta della Repubblica sociale, non si riconoscevano nella Repubblica italiana del 1948”.

Più articolato, ma sostanzialmente concorde quello di Giorgio Napolitano (26 giugno 2014, in occasione del centenario): “Almirante ha avuto il merito di contrastare impulsi e comportamenti antiparlamentari che tendevano periodicamente a emergere, dimostrando un convinto rispetto per le istituzioni repubblicane che in Parlamento si esprimeva attraverso uno stile oratorio e privo di eccessi, anche se spesso aspro nei toni. È stato espressione di una generazione di leader che hanno saputo confrontarsi mantenendo un reciproco rispetto a dimostrazione di un superiore senso dello Stato”.

Da due rappresentati delle istituzioni, l'uno e l'altro intrisi (fin troppo) di senso dello Stato, non potevamo certo aspettarci molto di più, da Aldo Grandi forse sì.


Aldo Grandi, Almirante Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, 2014, pp. 460, Euro 18,90

08 aprile 2015

" Un hotel di Barcellona" di Emilio Michelotti




IL FONDO 
DELL’IMPUDICIZIA


C’è chi è abituato al cappuccino e brioche. Ma c’è chi s’alza con una lorda degna di un reduce da carestie ataviche.
Ebbene, gli alberghi breakfast-buffet-incluso riservano sempre sorprese che vanno dal misero al sontuoso. L’Oasis di Barcellona è un caso a sé e unisce gli estremi con disumana crudeltà.
Metti che fra la fonte delle delizie e il tavolo dove puoi consumarne un po’, sia posto un diabolico punto di guardia dal quale un convitato di pietra, sub speciae di arcigno donnone, dopo aver ritirato una sorta di lasciapassare, stia lì a spiare ogni tua mossa.

Aggiungici ora un azzimato cerbero dai modi ineccepibili che s’aggiri per le mense sorridendo a pargoli, aiutando le bevande calde e fredde a fuoriuscire da beccucci con tastiere degne di una piattaforma spaziale, pronto a dare suggerimenti, spiegazioni, consigli – e a toglierti la coppetta appena vuotata dallo yogurt.

Secondo voi come fa un morto di fame a saziare le sue voglie? Ecco come.
La prima mattina passerai tre sole volte davanti al donnone, cogliendo con cupidigia i rari momenti nei quali l’Azzimato si distrae; potrebbe essere quando costui è intento ad evitare che la vecchietta tedesca vada in crisi di autostima di fronte ai pulsanti del tecnologico cubo di Rubik. Afferrerai il piatto più grande e vi porrai uno strato di formaggio a fette, uno di salame, uno di uova al bacon, poi ricoprirai il tutto con pezzi di pomodoro sottili, melanzane ai ferri, zucchine alla piastra. Al vertice una innocente fogliolina di lattuga.

Prima di tutto, però, hai da munirti di posateria varia e di tovaglioli, che terrai sulla stessa mano, posti sotto il lauto piatto. Nell’altra il più capiente bicchiere di succhi esotici.

Nel secondo viaggio (intanto l’Azzimato ha già estratto il piatto sporco e ti sbircia speranzoso), in una tazza da caffelatte instillerai dosi tre di italian espresso. Prima però devi esserti munito di due buste di Nesquik, la prima da godersela nella densa crema di caffè. In un piatto grande come il primo puoi infilare comodamente 3 croissant e 4 plum-kake (…mmm) sormontati da due fettine lacrimevoli di pane nero.

Il terzo viaggio è per il dessert: tre fette di torta alla crema, due al cacao, una ai frutti rossi. Nell’altra mano una scodella di yogurt “nature” che arricchirai con l’altra busta di Nesquik.

Tralascerai la frutta, a malincuore: una mia insigne amica ne riempiva lo zaino (“sai, per la merenda”). Ma qui non va bene. Ci vuole contegno.

Contegno e dignità, che la seconda e ultima mattina, arcistufo di soprusi e angherie, abbandonerai. Col fervore di una formica intenta a predisporre il granaio andrai avanti e indietro, prendendo una delizia per volta, senza mai incrociare sguardi, fissi gli occhi sopra le britanniche testine bionde. Al limite dell’esplosione gastrica, là dove lascivia cede a disgusto, uscirai salutando con un garrulo “Hola, gracias para todo”. L’importante è accompagnare la frase con un fermo gesto virile, sperando di aver aggiunto un quid di inedito al liso stereotipo dell’italianità.

30 marzo 2011