25 dicembre 2014

“Corsagna. Viaggio in Mediavalle” di Gianni Quilici



foto Gianni Quilici
Natale 2014. Invece del pranzo natalizio; un viaggio natalizio. Un paese posto a 400 metri circa, nella collina ad ovest di Borgo a Mozzano. Leggo: uno dei paesi più popolosi del comune, 666 abitanti. La strada è un fondovalle tra due crinali, che costeggiano il fiume Serchio. Prima di Borgo a Mozzano il cartello indica il paese e si inizia a salire. Qualche Km e poi ecco Corsagna.

 La strada in cui si arriva è anche una piazza, piazza XX settembre,  inizio del centro storico con una bella fontana e un bel tabernacolo, negozi, un ristorante e macchine parcheggiate. Ed una croce. Leggo l’interessante epigrafe del 1899:

Indulgenza di 100 giorni
a chi saluta questa croce
Di 5 anni
a chi recita  3 Pater ave e gloria
E di 300 anni
a chi ne recita 5

foto Gianni Quilici
Da lì si sale a piedi. Vedo un canino svelto svelto che mi viene incontro, come per salutarmi, mi abbasso, ci annusiamo; un uomo che mi supera con un ragazzo che lo segue,  “salve”   “auguri” ci salutiamo ed ho l’impressione, piacevole, di un ragazzo anni ’50, per il sorriso impacciato, per i pantaloni larghi, per il taglio dei capelli. “Sentimentalizzo populisticamente?” mi dico. Vedo una fontanella modesta, un uccello ingabbiato, un canone che annusa qua e là, alza la zampa e piscia. 
 E sulla destra un vicolo  di pietra ben lavorata, con una volta, che introduce ondeggiando in una di quelle gallerie così autentiche da emozionare  per la loro secolare storia; vedo un uomo che sta scendendo con un pacco nelle mani, lo lascio passare, poi mi volto e scatto la foto un po’ prima che sparisca.Ora il vicolo è diventato viottolo ed è uno dei sentieri, che porta al punto più alto del paese, la chiesa di S. Michele (1506). 


                                                             foto Gianni Quilici
Ma prima di arrivarci, nel viale largo, che costeggia il camposanto mi sorprende la fila di croci marmoree, una dietro l’altra, ognuna accompagnata da cipressi da poco piantati. Ogni croce ha nome e foto con anno di nascita e di morte. Tutti uccisi nelle due guerre mondiali, tutti giovani o giovanissimi, tutti soldati alpini o di cavalleria. Penso al film di Olmi, alle atrocità della Grande guerra e di tutte le guerre. “Onore al paese” mi viene da pensare “non solo perché li ha ricordati, ma anche per la cura con cui sembra voglia mantenere vivo questo ricordo”. La chiesa è grigia e modesta nell’intonaco grigio con ai lati due cappelle squadrate, forse rinascimentali, poste una di fronte all’altra. Al centro della facciata il bel campanile merlato, che svetta con la sua storia di sassi e di pietre severe. Da lì si domina il paese, le colline di fronte, ma una di esse impedisce lo sguardo sulla parte più attraente del  fondovalle: Borgo a Mozzano e il fiume con uno dei più stupendi ponti italiani e forse europei: il Ponte della Maddalena, più comunemente conosciuto come Ponte del Diavolo.

Corsagna. 25 dicembre 2014.     

24 dicembre 2014

“Fuorigioco” una poesia civile e visionaria



MIRTOS, Cefalonia

di Gianni Quilici

E’ uscito in libreria “Fuorigioco”, secondo libro di poesie, dopo Fraternità, di Virginio Giovanni Bertini, fino a poco tempo fa sindacalista della CGIL,  autore di un libro a più voci Il corpo e l’anima, diario appassionante di una lotta per diritti negati, e del romanzo Cuore vuoto.

Bertini è  poeta vero. Un poeta civile ed insieme esistenziale, in cui si percepiscono echi di Garcia Lorca e Leopardi, di Brecht e delle canzoni Rap.

“Fuorigioco” è formato da tre sezioni intimamente collegate.

La prima, “Ultrasuoni dell’anima”, è poesia di un realismo visionario (Mirtos, Tramonto a Petani, Luna rossa a Costa Rei), a volte di impronta surrealista (Sensazioni lunari), in cui alla bellezza stupefatta del creato si mescolano inquietudini, smarrimenti, angosce.

La seconda parte, “Dimensione di amore e morte”, rappresenta efficacemente due dei più estremi contrasti del vivere quotidiano: la felicità che diventa ballata travolgente, euforica che trascina anima e corpo vorticosamente e all’opposto incomunicabilità, passioni ormai prosciugate fino a uno struggente e doloroso cantico per la perdita del fratello Giorgio, sacerdote, morto ancora giovane (Portate le rose gialle)

Portate le rose gialle
alla croce di legno,
nella nuda terra ei giace.
La sua grassa risata
è spenta,
Isola tace
l’urlo disperato
di una madre,
unica voce. ( … )

L’ultima sezione, “Elogio dell’anticonformismo”, contiene le poesie più direttamente civili. Versi intrisi di invettiva contro la “cieca gentile ferocia” della burocrazia, contro “le guerre intelligenti e umanitarie”, contro “le tanti solitudini”,  in folgoranti ritratti di vite tradite, martoriate, spezzate; ma anche versi pieni  di invito ad ascoltare e ad ascoltarci, senza paura, senza pregiudizi, senza falsi moralismi.
Termina, infatti,  l’ultima delle poesie, rivolgendosi soprattutto ai giovani:

 “E’ ora di svoltare, di schizzare,
 di credere in te stesso, qui oggi,
 in questa terra solare
 di giocare la partita
 della tua vita. (…)
 E i giorni
 vivili tutti,
 come fossero ultimi
 non come primi
 anche
 nell’anno che verrà” .

16 dicembre 2014

" Fuorigioco" di Virginio Giovanni Bertini





I sindacalisti siamo abituati a pensarli più a loro agio con le parole parlate che con quelle scritte: assemblee, comizi… Più della penna di una volta, più del computer di oggi, è il megafono che connota il sindacalista. E abbiamo sempre immaginato che per i funzionari delle organizzazioni dei lavoratori la scrittura si restringa alla stesura del volantino o alla elaborazione del comunicato stampa.

Si tratta di un luogo comune e anche un po’ trito, smentito da numerosi Autori che provengono dalla pratica sindacale: uno per tutti, Virginio Giovanni Bertini, lucchese, per anni importante punto di riferimento politico e culturale nella città delle Mura. Un riconoscimento guadagnato sul campo perché Bertini in non poche situazioni significative è andato ben oltre la consueta prassi sindacale dell’organizzazione e contrattazione della forza lavoro; ha saputo allargare gli orizzonti dell’azione sociale; ha individuato forze e soggetti nuovi da coinvolgere e mobilitare; ha proposto obbiettivi originali e strade non battute per perseguirli. E le sue scoperte e i suoi rovelli, i suoi successi e le battute d’arresto li ha fatti rifluire sulla pagina scritta, utilizzando ora i modi della prosa, ora quelli della poesia. La forma espressiva più amata da Virginio e che per la sua straordinaria alchimia tra arte ed emozione, il suo particolarissimo potere di evocazione e suggestione si rivela all’Autore come il modo più adeguato per raggiungere insieme la ragione e il sentimento.

Una sensibilità quasi naturale, quella di Bertini per la poesia, una vocazione irrobustita e resa più consapevole dai severi studi classici nel liceo cittadino e mai abbandonata. Neppure negli anni degli eroici furori, delle lotte studentesche e sindacali e ritrovata più tardi, al tempo della prima maturità, con Fraternità, 1997, una originale raccolta poetica di testi con al proprio centro il lavoro di fabbrica, la sua organizzazione e i suoi protagonisti. Versi in cui si prefigura la loro perdita di centralità, di importanza nella società e si enumerano le trasformazioni epocali indotte dalla globalizzazione nei rapporti di forza fra le classi, nelle relazioni fra le persone. Testi e versi culturalmente, socialmente e politicamente orientati, “civili”, carichi di una fortissima tensione ideale. Non a caso il titolo, Fraternità: dei tre grandi principi dell’ ‘89 rivoluzionario, il più complesso, il più difficile, il più remoto a realizzarsi. Una silloge in cui non mancavano momenti di pausa, di ripiegamento interiore, malinconie e riflessioni esistenziali, occasioni di contemplazione della bellezza che lasciavano già presupporre ulteriori svolgimenti dell’ispirazione poetica di Virginio: quelli che, appunto, si danno in questa ultima raccolta, Fuorigioco, ancora fresca di stampa e che  rivela un cospicuo arricchimento della gamma delle sensibilità dell’Autore che sa trovare immagini e parole per temi che, nella sua precedente esperienza poetica, erano rimasti solo accennati, abbozzati, allusi. Per esempio la scoperta e la contemplazione della bellezza, la sua ricerca, la rivelazione di come e quanto essa sia insidiata dalla sofferenza, dalla pena.

Un dolore fisico e morale che non ha solo cause storiche e sociali, ma appartiene alla condizione umana, la sua stessa esistenza ne è intrisa. Così il bellissimo canto di nozze, un epitalamio dai sentori classici, dedicato al matrimonio del figlio con Alessia, vibrante nel ritornello “Inizia il viaggio,/ parte la danza,/ amore passione/ amore speranza…” è, messo in relazione con testi come Incomunicabilità d’amore, Fine di un amore, a testimoniare la caducità, la fragilità dei sentimenti umani, mentre un intenso, straziante epicedio, un canto funebre per la morte del fratello sacerdote, grida tutto lo scandalo per l’assurdità della morte, di quella morte.

Ed è l’ultima sezione della raccolta, Elogio dell’anticonformismo, otto poesie, a restituirci il Virginio Giovanni Bertini per noi più consueto: il sindacalista, il compagno, con cui per anni, ci siamo confrontati, con cui abbiamo organizzato insieme iniziative e promosso attività sempre alla ricerca dei modi migliori per uscire dalle innumerevoli crisi che hanno attanagliato il nostro essere sociale e politico. E anche per l’attuale temperie storica, Virginio una sua ricetta pensa di averla e ce la suggerisce in forma di versi. Di fronte alla catastrofe etica e culturale che sotto i nostri occhi si disvela in tutta la sua devastante potenza, lasciandoci confusi e disorientati, Bertini ci propone la prassi del fuorigioco. Ovvero il chiamarsi fuori, inventare nuove regole di nuovi giochi. I giochi seri del Potere e della Società a cui riguardare con occhi diversi: quelli della libertà e della giustizia, della creatività, della affettività, della tenerezza, della “simpatia piena d’amore” verso i deboli, i fragili, gli spossessati, i perdenti, gli sconfitti di ogni latitudine per una nuova Internazionale, quella degli ultimi. Se e quando questi diventeranno i primi dipende anche da noi, dalla nostra capacità di rinnovarci, di parlare nuove lingue, di individuare nuovi obbiettivi che valga davvero la pena di perseguire.

Questo, mi sembra che ci dica Virginio. E lo fa usando la parola di una poesia fatta di musica, cantabile secondo una cadenza incalzante, serrata, battente: il ritmo adeguato all’urgenza dei problemi che ci stanno addosso.

Virginio Giovanni Bertini, Fuorigioco, Aletti editore, Roma 2014, collana “Gli Emersi”, pp. 64, Euro 12,00



"Tra fedi e sapori" di Luciano Luciani



Gli occhi di santa Lucia
13 dicembre

Martire del IV secolo, tra storia e leggenda, la siracusana Lucia, gode ancora, almeno a giudicare dall’onomastica diffusa, di un largo seguito popolare. Il suo nome che contiene la radice della parola latina lux, luce, viene antifrasticamente festeggiato dalla Chiesa alla data del 13 dicembre, corrispondente nell’antico calendario giuliano al solstizio d’inverno, “il giorno più corto che ci sia”.

Esemplare la storia della sua testimonianza di fede. Promessa in matrimonio dalla famiglia a sua insaputa, aveva, invece, per amore di Cristo, fatto voto di castità. Ottenuto da un pellegrinaggio miracoloso sulla tomba di sant’Agata di Catania lo scioglimento del vincolo nuziale, fu però vittima della vendetta del fidanzato per nulla disposto a rassegnarsi facilmente allo scioglimento della promessa e alla possibilità di un buon matrimonio con una fanciulla di nobile e ricca famiglia. 

La leggenda vuole che per significare la sua totale fermezza nel voto Lucia si strappasse gli occhi e li inviasse al promesso sposo su un vassoio. Ma questo, non ancora soddisfatto, la chiamò in giudizio davanti al proconsole romano non solo per la rottura della promessa matrimoniale, ma, accusa gravissima, per la frequentazione con i cristiani. Pascasio, il funzionario imperiale, la condannò, allora, a una pena infame: essere condotta e costretta a vivere in un lupanare per essere profanata nel corpo e nella sua dedizione a Cristo. Ma il rappresentante del potere romano non aveva fatto i conti con la forza dello Spirito Santo che rese la fanciulla pesantissima e, quindi, inamovibile. Solo dopo altre atroci torture, ferita mortalmente alla gola, Lucia spirò. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa veneziana che porta il suo nome, mentre i suoi occhi sono venerati a Napoli nel tempio cristiano di san Giovanni maggiore.
 
Tarallini detti “occhietti di santa Lucia
Ingredienti
1 kg di farina di tipo 00
200 gr di olio extravergine
un pizzico di sale
200 gr di vino bianco secco

Impasta la farina, l’olio, il vino e il sale fino a ottenere un amalgama dalla consistenza morbida. Stendilo e con la pasta realizza dei bastoncelli con cui confezionerai dei tarallini. Cuocili in forno a 150° per circa 20 minuti. Completata la cottura, tuffali nella glassa e falli asciugare.
  

La salvifica “cuccìa”
In Sicilia, ma anche in Lucania, Puglia e Calabria, il giorno di santa Lucia viene celebrato con la “cuccìa”, dolce ben augurale  e foriero per la famiglia di felicità, benessere, ricchezza. Racconta la tradizione che in un lontano 13 dicembre, mentre la popolazione languiva per una terribile carestia, si vide arrivare in porto una nave carica di grano. Era tale la fame che quella gente non attese a macinare il grano per farne farina per il pane, ma decise di cibarsi di quel grano appena appena bollito. “Cuccìa, cuccìa”, “è cotto, è cotto”, fu il grido con cui quei cuochi improvvisati sollecitavano gli affamati a cibarsi di quell’alimento salvifico, semplici chicchi di grano cotto. Il ricordo di quella povera mensa, tanto magra quanto miracolosa, si trasformò col trascorrere del tempo in una festa e per il 13 dicembre divenne consuetudine nelle famiglie presentare in tavola un dolce di grano bollito condito con miele, vino cotto, ricotta canditi a cui nel corso degli anni si sono aggiunti cioccolata calda, noci, scorze d’arancia, chiodi di garofano… Un profluvio di dolcezze che potrebbe risultare stucchevole a qualche palato e che ci sollecita a proporre la versione calabrese della “cuccìa”, più sobria e con un minore tasso glicemico-

“Cuccìa” calabrese
Ingredienti
100 gr di grano tenero
300 gr di ceci, fagioli,lenticchie, gherigli di noce
una manciata d’uva passa che avrai fatto rinvenire nell’acqua tiepida
miele d’api

Metti a bagno in acqua tiepida per 12 ore ma separati il grano e i legumi. Lessali separatamente, scolali e passali in un tegame nel quale avrai fatto sciogliere il miele d’api.
Aggiungi le noci spezzettate e l’uvetta.
Amalgama e servi freddo.










13 dicembre 2014

“Lettere a un amico pittore” di Vincent Van Gogh



di Gianni Quilici

Via via che leggevo Lettere a un amico pittore di Vincent van Gogh, scrivevo a margine noterelle che, parzialmente, qui segnalo, consapevole dell’inutilità di queste riflessioni (già risapute), ma come esercizio (per non perderle) ed anche perché ogni riflessione, pure risaputa, può avere un suo stile, quindi una sua necessità.

Primo: le lettere al giovane amico pittore Emile Bernard non sono frettolose, di circostanza e a direzione unica, ma un dialogo in cui Van Gogh si confronta, espone, racconta, domanda. Il tono è sempre amicale e soprattutto sincero. Sulle poesie e sugli schizzi di disegni, che Bernard gli invia, esprime opinioni non solo positive, ma anche negative, in modo a volte analitico, soprattutto per le poesie, sempre comunque motivando, incoraggiando.

Secondo: le opinioni di Van Gogh sono sicure e profonde, denotano una conoscenza letteraria e soprattutto una notevole cultura dei pittori su cui riflette e, come è noto, una eccezionale sottigliezza riguardo ai colori, alla loro individuazione, mescolanza e uso. Colpisce che consideri Vermeer, allora misconosciuto, come un pittore che rende tangibile l'infinito, che "nei suoi rari quadri ci sono a rigore tutte le ricchezze di una tavolozza completa". 

Terzo: anche nella scrittura van Gogh riesce a trasmettere “visioni” di bellezza, come quando scrive a proposito della corrida di Arles: “Però la folla era magnifica, le grandi folle variopinte, accalcate su due tre file di gradini con l’effetto di sole e l’ombra del cerchio immenso”, che potrebbe essere pure soggetto di una sua pittura; e meglio ancora quando descrive uno dei due disegni da lui fatti a penna:
“…una immensa campagna pianeggiante –vista a volo d’uccello dall’alto di una collina- delle vigne, dei campi di grano mietuti. Il tutto moltiplicato all’infinito, si allarga come la superficie di un mare verso l’orizzonte chiuso dalle montagnole della Crau”

Quarto: ha una visione della vita dalla parte dei più umili e indifesi. Scrive, a proposito dei colonialisti bianchi:
  I cristianissimi bianchi non hanno trovato di meglio che sterminare e la tribù degli indigeni-antropafagi e la tribù contro la quale la prima guerreggiava….Quando ne avremo abbastanza dell’orrendo bianco con la sua bottiglia d’alcool, il suo portamonete, il suo vaiolo? L’orrendo bianco con la sua ipocrisia, la sua avarizia e la sua sterilità. E quei selvaggi erano così dolci e così amorevoli!”
 La puttana, inoltre, gode  della sua simpatia più che della sua compassione e viene considerata dal grande pittore amica e sorella in quanto lei è un essere esiliato e un rifiuto della società come lo sono loro artisti. 

Quinto: Van Gogh sente il rimpianto per la “mancanza di spirito di corpo tra gli artisti, i quali si criticano, si perseguitano”(…), mentre invece “le difficoltà materiali della vita del pittore rendono desiderabili la collaborazione, l’unione dei pittori” (…), tanto più che “involontariamente le opere formano gruppo serie “ come sta succedendo ora tra gli impressionisti, “nonostante tutte le loro disastrose guerre civili…”.

Per ultimo: c’è, infine una visione esteticamente molto intrigante, che ricorda molto Martin Scorsese nei panni del pittore ne “I corvi” di Kurosawa, quando scrive:
  “ Lavoro anche in pieno mezzogiorno, in pieno sole, senza nessuna ombra, nei campi di grano, ed ecco, ne godo come una cicala”




Vincent van Gogh. Lettere ad un amico pittore (Lettres de Vincent van Gogh à Emile Bernard ). A cura di Maria Mimita Lamberti. Traduzione di Sergio Caredda. Bur Biblioteca Universale Rizzoli.

12 dicembre 2014

"Camminando" di Eva Scatena



Camminare perché camminando non ci si prende troppo sul serio. Camminare anche con il male alle gambe. Camminare guardando dentro e avanti. Camminare nella città, sentendo che è un pezzo di noi che ci accoglie. Camminare dentro la notte e nei colori sul bagnato. Camminare tra un lampione e l’altro, mettendo i piedi in pozze di buio, nero come l’assenza che a volte si sente. Camminare tra un desiderio e una quiete. Camminare oltre il dicibile, perché c’è sempre qualcosa che si può dire solo a una persona, e magari nel momento giusto non c’è. Camminare immersa nell’aria e pensarsi come impronte di volume che si susseguono. Camminare prima nella luce e poi man mano nell’ombra. Camminare senza una meta sapendo che si arriverà. Camminare perché adesso tutti corrono e chissà cosa facevano quando non si correva. Camminare in tondo e scoprire la spirale. Camminare su un ciglio in equilibrio, per gioco e per scommessa, pronti comunque a ridere. Camminare senza pestare le commessure delle pietre come da bambini.  Camminare pestando le commessure con indifferenza apprensiva. Camminare finché i piedi bollono e continuare. Camminare annusando i profumi che ci avvolgono. Camminare sentendo nell’aria la pioggia che arriva. Camminare veloci perché il pensiero è veloce. Camminare lentamente e fermarsi senza vedere nulla di ciò che si fissa perché il pensiero si è fermato, ha preso ciò che da troppo scappava via ed ora gli pare di aver capito tutto. Camminare da soli o in compagnia sapendo che un po’ si è sempre soli. Camminare parlando e raccontare ciò che c’è attorno: Camminare perché è a misura d’uomo, anzi no è a misura di bellezza. Camminare sui sassi con le scarpe buone. Camminare fino all’acqua e poi entrarci dentro. Camminare fuggendo qualcosa. Camminare cercando qualcosa. Camminare e restare fermi. Camminare cercando di mettere in ordine un amore. Camminare nell’amore senza alcun pensiero che non sia per lui. Camminare per sviluppare il senso dell’ironia. Camminare mentre fa freddo o caldo, sapendo che è camminare che conta. Camminare ascoltando quello che c’è da ascoltare e non è negli auricolari. Camminare guardando le spalle di chi sta davanti e pensare che chi cammina protegge non colpisce. Camminare perché abbiamo un’ombra ed è ciò che resta della luce che ci attraversa.

Camminare fino a ciò che non si vede,
che non si pensa,
che non si è mai sentito prima,
che non si sapeva di avere eppure lo si sapeva.

Da qualche parte.

Camminare fino al limite del conosciuto
 e trovarci dove sempre ci siamo aspettati.


"Intervista ad Antonio Possenti" di Mira Giromini




Mira Giromini con Antonio Possenti
E’ relativamente poco che faccio interviste ad artisti; e normalmente la traccia di domande che preparo viene leggermente stravolta per l’abbondante spazio di tempo che lascio all’intervistato. Con Antonio Possenti le domande sono state completamente stravolte e non solo le domande che facevo io a lui sono diventate punto di partenza per nuove riflessioni ma sono nate domande del tutto nuove in un apparente programma che non è mai stato programmato. L’idea principale era quella di chiedergli come vive, di parlare della sua casa come prolungamento della sua personalità, la casa come immagine dell’uomo e di ciò che pensa dunque come dalla casa possa emergere la sua poetica artistica. Nella realtà è emersa un’immagine diversa da quella che mi aspettavo: Possenti non è un collezionista, dunque non archivia e non classifica; ha cominciato parlandomi della psicanalisi (sarebbe da analizzare il perché siamo partiti dalla psicanalisi) per poi descrivermi gli osservatori delle sue opere e concludere su che cosa sia veramente il mestiere dell’arte e del pittore che si sovrappone e si incarna con la vita dell’eremita.

Gli mostro delle foto e in una di queste c’è l’immagine di Cesare Musatti; così inizia a parlare dell’incontro con uno dei psichiatri e psicanalisti più famosi d’Italia.
Ho fatto una mostra su Freud alla Galleria d’arte a Milano, avevo rappresentato i vari momenti della vita di Freud, alcuni quadri erano abbastanza criptici e nascosti e tra questi ve n’era uno inventato e da me intitolato: “Freud e le balene” . Si vedeva il mare e Freud sulla spiaggia con quelle balene che faccio spesso. Cesare Musatti che era già anziano riconobbe le varie rappresentazioni, anche quelle difficili che avevo rappresentato e scelto sulla vita di Freud ma di fronte a “Freud e le balene” rimase turbato, pensò a qualche sogno che non conosceva, si fermò a riflettere, ed essendo anziano, forse pensò anche ad una sua dimenticanza senile ma mentre continuava a riflettere sulla mia rappresentazione alla fine gli dissi “professore guardi è una mia invenzione”. Musatti reagì bene, era un tipo ilare.

Nella sua pittura c’è la tematica della psicanalisi?
Certamente tante cose vengono dall’inconscio. La fantasia si alimenta con l’inconscio altrimenti crolla, ma in un dipinto di fantasia vengono ribaltate le prospettive e le forme naturalistiche, è un mondo altro che ha degli elementi che vengono organizzati e si prestano in modo tale da poter essere sottoposti ed interpretati dalla psicanalisi, ma la psicanalisi ha poco a che vedere con l’arte; essendo una scienza sistematica, con concetti ben collegabili tra di loro, non per niente gli psicanalisti trovano i miei quadri una fonte inesauribile di analisi.

Dunque nei quadri c’è una parte razionale programmata ed una parte istintiva e quest’ultima non può essere ricondotta per forza alla psicanalisi?
E’ chiaro che il pittore fonda la propria opera sulla fantasia e l’immaginazione e attinge per lo più i propri motivi ispiratori dal mondo dell’inconscio; difficilmente il pittore può dare spiegazioni di carattere razionale e la psicanalisi ha poco a che vedere con l’arte .
L’ispirazione si costruisce da dentro, una certa situazione ti dà modo di sviluppare o eliminare certe cose che già sono nel quadro; di agire per analogie per contrapposti; anche il colore non è mai razionale, è misterioso in questo tipo di pittura. Non è così in Mondrian che è uno scienziato attento all’uso del colore. In questo mio tipo di pittura il colore non è razionale.
Per dare la spiegazione di ciò che è razionale e ciò che non lo è si può fare un tranello agli amici psicanalisti e dimostrare il limite della psicanalisi rispetto all’interpretazione della pittura. Ammetti che abbia la finestra del mio studio che si affaccia su un paesaggio lombardo in cui ci sono diverse fabbriche; io ho la mania di fare, come faceva Monet, questo paesaggio nelle varie ore del giorno. Queste fabbriche, almeno la maggior parte, hanno delle ciminiere che analizzate in psicanalisi sono un simbolo fallico mentre invece io non ho assolutamente questa idea. Questo è naturalmente un esempio banale e portato al limite estremo ma sta a dimostrare che la mia sola intenzione è quella di riprodurre la realtà mentre la psicanalisi vuole per forza trovare un senso nascosto nelle opere e definire l’inconscio dell’artista. La verità è semplice io voglio dipingere.

Gli oggetti fisici sono fonte di ispirazione per i suoi quadri?
Sicuramente. Ogni cosa è fonte di ispirazione o meglio“occasione” . La cosa curiosa del pittore è che tutte le cose che vede sono “occasione di pittura”, allora si impara sempre, si percepisce sempre qualcosa anche da elementi che non hanno niente a che vedere con la pittura; la posizione di un oggetto mi fa pensare a come posso rappresentarlo o rappresentare altra cosa con quella forma o posizione.

Si considera un collezionista?
Io non sono assolutamente un collezionista, sono piuttosto un “raccoglitore d’oggetti” che mi piacciono. La differenza sostanziale è che il collezionista prende qualsiasi cosa di cui colleziona, bella o brutta che sia. Io non faccio così, io amo i rinoceronti ne ho tantissimi, è il mio animale preferito. Il collezionista prende qualsiasi cosa che riguarda i rinoceronti. Io prendo solo quelli che mi piacciono. Sarebbe come se facessi la collezione di francobolli e io prendessi solo quelli che mi piacciono, un collezionista vero non lo farebbe mai. In questo modo ho cose di valore accanto a oggetti che non valgono niente ma che mi piacciono. E poi non posso essere un collezionista perché sono disordinato.
Mi piacciono le cose, ma la ricerca non è in funzione della pittura, non prendo l’oggetto per poi rappresentarlo; diventa piuttosto l’inverso. In questo mondo così vario, come forme, come origine e destinazione mi servo delle cose dopo che l’ho prese, così si crea una specie di atmosfera.

Si crea una specie di wunderkammer?
Si, una specie, ma non in senso scientifico. La wunderkammer era dettata dal senso del meraviglioso e dello straordinario, suscitava stupore, era in funzione del visitatore, nella mia casa questo elemento non c’è.
In alcuni oggetti esiste, da parte mia, la considerazione della bellezza del kitch estremo. Nel senso di cose dichiaratamente mediocri che però vengono portati all’eccesso della mediocrità e assumono un certo tipo di validità. Ti do un esempio: ho fatto mettere in cornice una locandina dove c’è Moira Orfei, che è il massimo del kitch; è chiaro che questo tipo di recupero è in funzione ironica, non certo alla ricerca di valori. Per un po’ di tempo è stata qui nel mio studio. In quei giorni mi vennero a trovare delle persone: una, che mi conosceva bene e quindi sapeva dei miei gusti e condivideva con me questa mio lato ironico; l’altro invece che considerava criticamente la scelta di incorniciare Moira Orfei, probabilmente perché gli sembrava inopportuna o per lo meno incomprensibile. Del resto succede la stessa cosa anche in pittura alcuni la capiscono altri no, altri ancora capiscono solo gli aspetti superficiali. Il panorama è vasto. Coloro che si avvicinano alla pittura sono un repertorio di situazioni psicologiche ampio che sarebbe bello da poter analizzare per farne un repertorio scientifico.

Mi può fare alcuni esempi di questi repertori di visitatori nel suo studio?
Tempo fa avevo fatto una serie di strisce di cartone uguali per soggetto: strisce in cartone verticali e strette il cui soggetto era il volto di una persona e sopra la testa una serie di uccelli colorati uno sopra l’altro; la mia idea era quella di arrivare a una cinquantina. Doveva venire a trovarmi da Roma un amico con la moglie. Arrivato nel mio studiò era da solo, cominciò a guardare i quadri cercando quello che gli piacesse dunque chiamò la moglie al telefono descrivendo le opere, a quel punto la moglie chiedeva qualcosa circa la scelta e lui disse :“so’ tuttti uguaalii”. L’uomo non vedeva il fatto che gli uccelli erano uno diverso dall’altro, caratteristici; vedeva il solo soggetto.

Un altro episodio?
Racconto spesso questo aneddoto. Quando mi dicono, in forma di elogio “I suoi quadri non mi vengono mai a noia, ci trovo sempre qualcosa di nuovo”. Per dimostrare che i quadri sono sempre gli stessi e siamo noi che cambiamo ogni giorno e ogni momento, mutando il modo di vedere le cose e il rapporto che abbiamo con queste racconto questo episodio.
Mi si presenta un signore che esordisce dicendomi se mi ricordavo di lui; in verità io sono di memoria labile e non mi ricordavo ma parlandomi insieme mi venne in mente che anni prima quest’ uomo venne a trovarmi insieme con la sua allora fidanzata; i due erano felicemente innamorati, camminavano ad un metro d’altezza e scelsero insieme un quadro che rappresentava un uomo e una donna di profilo che sembrava che si guardassero; immedesimandosi nella coppia dissero di prender quel quadro perché i due si guardavano vicendevolmente come loro due in quel momento. Mi venne spontaneo a quel punto domandargli se avesse sempre quel quadro che aveva comprato con quella ragazza. A quel punto l’uomo mi rispose: “Non me ne parli, anzi voglio darlo via, sono una coppia che si guarda in cagnesco”. L’uomo aveva ribaltato assolutamente l’immagine e il significato dello stesso quadro. In alcuni miei quadri veramente complessi si possono trovare elementi nascosti che col tempo si possono scoprire ma in realtà l’aspetto sostanziale non muta. Il dipinto era lo stesso ma quest’uomo aveva cambiato radicalmente la sua visione delle cose in relazione al suo mutare interiore.

Mi viene in mente un quadro di un uomo e una donna di profilo con una torta in mezzo a loro che si sta sciogliendo, qual è il significato?
Lo faccio spesso è l’anniversario di matrimonio; è un soggetto, che riguarda il deperimento delle cose, se si vuole è un soggetto un po’triste. E’ l’anniversario di matrimonio di due vecchi: c’è l’uomo in frac, la donna con il velo bianco, rappresentati quasi come due mummie e in mezzo a loro la torta a cupola che si disfà. C’è un contrappasso tra quella che è la volontà del ricordo e quello che è la realtà. Vi sono aspetti e cose di un occhio oggettivo insieme alla soggettività. Non è detto che una vecchia coppia, non stia più bene insieme dopo tanti anni; quindi dal loro punto di vista è una festa, ma dal punto di vista oggettivo il tempo è passato. E’ comunque l’immagine del deperimento delle cose. Quando si parla di deperimento si dà sempre un’accezione negativa come se fosse lo scomparire del tempo e l’avvenire del brutto ma se uno guarda bene, le cose non stanno così: uno ha il suo periodo di vita e poi scompare, a cominciare dalla nostra vita. Se uno guarda la cosa serenamente non ne vede l’aspetto negativo, cioè la flessione della bellezza e la sua distruzione, vede solo il trascorrere del tempo rispetto alla natura.

Nei suoi quadri esistono delle simbologie?
Non faccio mai niente di simbolico, piuttosto una cosa rappresenta metaforicamente qualcos’altro, anche se poi ogni cosa può essere interpretata come simbolo, specialmente quello che rappresento non essendo perfettamente integrato nell’ambiente circostante diventa un messaggio simbolico. Un dipinto di Morandi è difficile che abbia qualcosa di metaforico, è un’interpretazione pittorica di alto livello. Chi fa operazioni come quelle che faccio io, ed insieme a me tanti altri, possono avere implicazioni simboliche.
Per esempio una cosa che faccio molto spesso è la mezza mela che ha circa una cinquantina di interpretazioni. Riflettendoci può essere la rappresentazione del passare delle cose o la metafora del tempo che scorre ed ancora è una simbologia di carattere sentimentale (due mezzi che insieme formano un’unità). Occorre pensare che per il pittore l’oggetto della sua intenzione è la pittura, questo non va mai dimenticato. Io principalmente intendo fare una mezza mela.
Per questo motivo dico sempre ai pittori che fanno cose astratte di mettere “senza titolo” o una numerazione; perché ricollegare il titolo a qualcosa di naturalistico permette a chi guarda di vedere cose che non ci sono e che dipendono solo da alcune conformazioni della pittura che il pittore non ha assolutamente voluto.

Qual’ è il rapporto con gli animali?
Nella mia vita ho avuto molti animali, soprattutto cani e per diverse ragioni sono attratto dal mondo animale. Gli animali hanno un carattere unico: l’innocenza. Qualsiasi cosa facciano sono la manifestazione dell’innocenza. Non esistono animali cattivi. Se il cane mi morde qualche ragione per cui lo fa ce l’ha; l’innocenza è l’aspetto migliore della natura che più di ogni altra cosa mi affascina nell’animale.
Io dico sempre quello che penso e almeno per la metà di quello che dico non è vero, nel senso che non corrisponde alla realtà, è solamente una mia visione; per esempio riguardo al mutamento delle cose. La vita migliore è quella dell’eremita. Agisce secondo i suoi criteri. Non sente la costrizione, è chiaro che si vieta tante cose come il contatto e dialogo che fanno parte della vita, ma è nella perfetta felicità.

Mi spieghi meglio la figura dell’eremita.
E’ chiaro che l’eremita implica la privazione di tante cose importanti, come per esempio lo scambio delle idee però implica anche l’assoluta libertà. I condizionamenti sono subdoli, vivere in società implica l’assuefazione, la metodicità di comportamenti che poi sono anomali rispetto alla propria natura. Io non vivo come un eremita, ma facendo il conto delle ore della mia vita sono stato molto solo, si direbbe che sono molto di più le ore solo che in compagnia.

L’eremita come simbolo della ricerca interiore?
No, l’eremita in quanto necessità. L’artista è un mestiere che non implica una relazione con l’altro, tanto più è l’aspirazione a esprimere tanto più è bello stare soli, stare lontano da una realtà sociale.

In questo spazio eremitico c’è la solitudine?
Si solitudine e soprattutto il silenzio. Oggi non c’è luogo dove non ci sia una musichina, spazi con delle musiche di contorno che per la maggior parte del tempo non sono mai sentite, sono sottofondi che credo che derivino dal cinema. Abbiamo associato il fatto che la musica possa essere un la colonna sonora della nostra vita, a volte la musica è perenne e martellante come nei locali, sulle strade, nei negozi, è veramente triste .
Gli elementi importanti sono: silenzio e solitudine.

L’eremita ha una lampada di fronte ai suoi occhi, è l’immagine della luce interiore?
No, secondo la rappresentazione dei tarocchi, è la ricerca in senso stretto. La ricerca come diceva Diogene, la lampada fa si che l’uomo veda e possa cercare.

A questo punto come mi può descrivere la figura dell’artista?
L’artista è un concetto recente del Novecento. Nel passato c’era l’artigiano che sapevano fare. Poi è stata data più importanza all’invenzione e al concetto che alla tecnica. Al di là di questo l’artista cerca di fare il meglio; come l’ingegnere o il dottore cercherà di fare il meglio; sotto questo profilo non vedo differenze tra i lavori. Certo è che il sacrificio è minore; chi fa questo mestiere è fuori dalla “perdizione di Adamo”. L’artista è il meno penalizzato tra i lavori, il fatto di vedere e far vedere quello che hai nella mente è immediato, non obbliga a conoscere una grammatica per farsi apprezzare. L’attività che svolgo è una specie di esercizio all’emozione.

10 dicembre 2014

"Le donzelline. Donne d’amore nell’Italia rinascimentale" di Luciano Luciani,




Le “onorate cortigiane” che 
dominarono l’Italia rinascimentale

 di Nadia Davini
 
Sguardo fiero, soffici capelli ramati, il decolleté latteo illuminato da un filo di perle. Bocca carnosa, ben disegnata, ma senza sorriso. Così Tintoretto ci rimanda in un celebre quadro l’immagine di Veronica Franco, veneziana, scrittrice e poetessa, di professione «cortigiana honorata» della Venezia cinquecentesca, desiderata da nobili, prelati, artisti. Perfino Enrico III, sovrano di Polonia e di Francia, di passaggio a Venezia nel 1574 volle passare una notte con l'ambita Veronica, che, oltre ad offrirgli le sue grazie, gli donò anche un suo ritratto in miniatura e due sonetti da lei composti per l'occasione. Il tocco di classe di una donna colta, ironica, antesignana di una nuova femminilità, decisa a battersi contro le diseguaglianze tra i sessi. 

Sarà forse per questo che il ritratto del Tintoretto è stato scelto come immagine di copertina dell'ultima fatica letteraria di Luciano Luciani, Le donzelline. Donne d'amore nell'Italia rinascimentale. Una sorta di saluto di benvenuto al lettore, un modo per dichiarare fin dall'inizio da che parte pende la penna dell'autore. Che non ha dubbi e, quando si tratta di scegliere, decide di restituire dignità a persone e personaggi dimenticati, mostrando con grande interesse e profonda umanità le vicende scandalose delle prostitute del Cinquecento. 

Chi sono le donzelline? E da dove vengono? L'autore, romano e lucchese da oltre trent’anni, ex docente e pubblicista, nel suo informarci su chi fossero le prostitute del XV secolo, ci regala una riflessione ben più ampia su come queste donne – e le donne in generale – venissero viste e considerate; su quante profonde siano le radici della disuguaglianza di genere e del pregiudizio; su quanta sia ricorrente l'ipocrisia maschile fondata sulla dicotomia attrazione/repulsione. E lo fa con la leggerezza di chi vuole condividere il proprio stesso stupore, la propria stessa gioia, nell'aver esplorato un argomento tabù, infarcito di luoghi comuni. 

Le Donzelline non si presentano come un trattato sulla prostituzione rinascimentale e bisogna leggere tutto il libro, che è impresa piacevole e facile, per accorgersi di aver cominciato un viaggio a ritroso alla ricerca di vicende intime e spaccati sulla società del tempo, piccole storie semplici che si muovono e si confrontano nell'universo più grande della Storia di quel periodo, tra luoghi comuni, ipocrisia diffusa e dinamismo culturale, mescolando uno stile ora colto ora popolare, avvincente dall'inizio alla fine. 

Si parte dalle stufe, ovvero i bagni pubblici, ufficialmente stabilimenti termali che godevano di una fama equivoca ed erano gestite da prostitute troppo anziane per esercitare la professione attiva. 

Si prosegue con la spiegazione, senza mezzi termini, di come alle puellae lupanaris fosse riconosciuta un'importante utilità sociale, come lo era il porre un vincolo alla sregolata attività sessuale e alla sodomia, il vitium contra naturam, omo o eterosessuale che fosse. 

Una sosta sulla visione della Chiesa cattolica e subito una panoramica a tutto tondo sulla prostituzione nell'Italia del Rinascimento. Roma, certo, poi Firenze, Venezia, Perugia. Genova che obbligava le prostitute a vestirsi di giallo per distinguersi dalle altre donne, Viterbo, dove si cercò di regolarizzare la prostituzione nel XIII secolo, passando per Pistoia e, naturalmente, Lucca. Che fu la prima città a istituzionalizzare la prostituzione dopo la terribile pestilenza del 1348. La zona riservata all'esercizio si trovava a nord-ovest della città, in “Cojaria” (l'attuale Pelleria), dove si lavoravano le pelli: la gestione del primo bordello se l'aggiudicò per 120 fiorini d'oro un cittadino lucchese, Nicolao del Tepa, che riscuoteva i proventi dell'attività delle meretrici: parte delle somme ricavate furono impiegate nella costruzione del ponte sul fiume Serchio. 

Intorno alla metà del XV secolo, poi, una serie di leggi e provvedimenti liberalizzarono l'esercizio delle attività prostitutive e al postribolum si aggiunsero alberghi, taverne, case private e le famigerate “stufe”. Il bordello pubblico arrivò a conquistare, nei primi anni del XVI secolo, anche il cuore della città, piazza San Michele, per poi spostarsi in un'altra zona del centro storico, dietro alla chiesa di San Girolamo. A garantire la loro incolumità, difendendole da danni, brutalità, abusi e sopraffazioni spettava  ai “Protettori delle meretrici”, un nuovo istituto formato da tre anziani, uno per ciascun terziere, e il Podestà.

Accanto ai luoghi, i nomi. E dunque Tullia d'Aragona, bellissima incantatrice, Veronica Franco, autrice di uno dei rari canzonieri femminili del Cinquecento, Imperia la più famosa cortigiana del Rinascimento romano, morta suicida perché innamorata di un nobile che non poteva sposare in quanto già coniugato. E ancora un esercito di donne del popolo, dalle lavandaie alle cucitrici, dalle tessitrici alle ambulanti, che non riuscivano a vivere del loro lavoro e cercavano clienti tra gli strati più infimi della popolazione per integrare i loro miseri guadagni.

Come nasce il libro? Da una capatina allo storico mercatino lucchese dei libri usati e un testo ingiallito che gli rimane tra le mani: la biografia di una poetessa rinascimentale che dell'arte del sesso aveva fatto la propria attività principale. Mettici poi le rilevazioni sulle abitudini del tre volte ex (ex ex ex) premier e il gioco è fatto, ecco il “la” per approfondire un tema volutamente taciuto e capace di intrecciare storia, costumi, riflessioni e letteratura.


Luciano Luciani, Le donzelline Donne d’amore nell’Italia rinascimentale, collana Obliqui, ETS Pisa, 2014, pp. 130, Euro 12,00

08 dicembre 2014

" World Press Photo 14" di Gianni Quilici



Uno sguardo 
sul nostro Pianeta

Sono sempre un’apertura sullo stato di salute del nostro Pianeta le mostre del World Press Photo 14, del concorso fotografico, cioè, più importante internazionalmente, giunto questo anno alla 57esima edizione.

Ad organizzarlo nella chiesa di San Cristoforo, non certamente il massimo come contenitore, è, come ogni anno, il Photolux Festival, succeduto al Photo Digital Fest, diretto da Enrico Stefanelli.

Sono scatti scelti da un ristretto numero di esperti fra migliaia e migliaia  di foto, inviate da professionisti di tutto il mondo. Foto di sport e di natura, di ritratti e di reportage.

Non sono spesso, di per sé, grandi scatti, perché viene valorizzato molto ciò che queste foto rivelano: problemi nascosti ( o quasi) e naturalmente eventi che hanno scosso l’opinione pubblica. Abbiamo quindi reportage anche su fatti poco noti o largamente sconosciuti. Per fare degli esempi: il divieto dell’omosessualità nella repubblica democratica del Congo; un rifugio per 250 cani randagi, creato in Malesia da una signora tedesca; una bambina di 10 anni di una riserva indiana che dalla nascita non si taglia i capelli; una veduta aerea dell’inquinamento prodotto da una centrale elettrica che contiene cenere di carbonio, eccetera, eccetera.

Detto questo qual è il reportage che più mi ha colpito?
Sono quattro scatti di Rahul Stanmeyer su un edificio di 8 piani crollato in Bangla Desh, che ha ucciso più di 1100 persone. Stanmeyer riesce  a condensare in soli pochi scatti il senso della tragedia. Dapprima in un campo lunghissimo che abbraccia l’intera grande piazza con le macerie e con altri palazzi letteralmente smembrati,  e migliaia di persone disposte da tutte le parti come tante formichine; i soccorritori che scavano, colti da vicino in un quadro d’insieme; un’operaia rimasta sepolta e portata via con la maschera d’ossigeno sul volto; e un primissimo piano molto intenso su una ragazza che piange, di cui vediamo una lacrima scendere sul volto.


Ma non meno espressivo è il reportage di ribelli dell’esercito siriano (ESL), che stanno attaccando un ceckpoint del governo a Damasco e vengono colpiti. Nell’ultima grande immagine vediamo le schegge e i frammenti di un muro colpito, mentre un soldato si ripara la testa con le nude mani. Foto che coglie l’attimo in una situazione pericolosa pure per il fotografo serbo Goran Tomasevic.

E come ritratti?

La delusione di una ragazza, che non ha potuto omaggiare la salma di Mandela, di cui il fotografo Markus Schkeiber rappresenta in primo piano il bel volto raccolto nel momento in cui appoggia alle labbra una piccola croce.





Ed infine la bellezza armoniosa e vagamente feroce di un puma, che percorre un sentiero del Griffith Park sorpreso da Steve Winter sulla lunga distesa di una Los Angeles tutta luci.

 6x3 wpp
da Lo schermo.it