30 maggio 2009

"Cantieri" di Marisa Cecchetti



di Gianni Quilici

Interessanti questi “Cantieri”, poesie che Marisa Cecchetti (poetessa, scrittrice e critica letteraria con una serie nutrita di libri alle spalle), ha pubblicato un anno fa.

Interessanti in primo luogo perché “Cantieri” raccoglie due sezioni tra loro apparentemente diverse.

Interessanti, perché l'autrice riesce a mescolare poeticamente due sguardi apparentemente distanti: un cantiere edile ed uno affettivo. E riesce a farlo, perché, in ambedue le sezioni, trasmette amore verso gli aspetti più variegati: la terra e le erbe, la luce e i corpi, il lavoro e il tempo.

La novità del libro, la sua originalità nasce forse nell'essere riuscita (Marisa Cecchetti) a fare anche poesia civile, a trasmettere, cioè, il rifiuto verso ciò che distrugge armonia e bellezza.

E' una poesia, questa, che partecipa, almeno mi pare, di quella linea che Pasolini definì “antinovecentista”, perché coglie narrativamente l'attimo in cui essa (la poesia) si rivela e lo rende (questo attimo) poetico. Poesie, in cui mi pare si colga soprattutto la lezione di Umberto Saba, che hanno nell'immediatezza diaristica dell'io nel rapporto con l'altro e col mondo la loro più efficace peculiarità. Scelgo una poesia tra tante.

Mi avevi appena detto
che non mi vedi donna.
Per telefono.
Con voce che chiudeva. Tu sapevi
le mie attese
ed i contorcimenti
stanchi dell'anima.
Friggeva
rovente il ferro
sulla piaga. Ho ascoltato
il trottare stupito del sangue
nel buio senza voce
che mi ha incollato.

Allora ho scelto i jeans, quelli stretti
e una maglietta troppo femminile
ho lavato i capelli
che scappavano tanti sulle spalle:
“Pronto Stefania?
Vengo con te a ballare”.

Mi colpisce nella prima strofa innanzitutto la perentorietà dell'andatura. Ogni verso ha una sua forza e lascia una risonanza, anche quelli apparentemente più prosaici. Esempio: “Per telefono./ Con voce che chiudeva”. Una nettezza di ritmo, che arriva a quei magnifici metaforici versi: “Friggeva/ il ferro/ sulla piaga...” E continua con rara sottigliezza psicologica: “Ho ascoltato/ il trottare stupito del sangue/ nel buio senza voce/ che mi ha incollato”, in cui si determina una sorta di schizofrenia tra il tumulto del sangue e la stupefazione paralizzata dell'io che si ascolta.

Nella seconda strofa c'è uno scatto e una corsa: l'orgoglio d'un io ferito nell'intimo della sua specie, che “si fa donna”, diventa movimento, civetteria, determinazione che il dialogo finale, domanda-risposta, bene esprime.

da "Arcipelago" -giornale dell'Arci di Lucca

Marisa Cecchetti. Cantieri. Edizioni del Cerro. Pag. 90. Euro 10,00.

26 maggio 2009

"M'ama, non m'ama" di Jean-Luc Nancy


di Gianni Quilici

E' uno di quei libri, che nascono semplicemente da un'occasione. In questo caso una conferenza con successive domande-risposte.
Il tema è enorme: l'amore. Il relatore è uno dei più significativi filosofi contemporanei: Jean-Luc Nancy. L'originalità nasce dal fatto che quella che egli stesso definisce una “piccola conferenza” ha come interlocutori privilegiati bambini e bambine, che alla fine dell'intervento hanno prioritariamente il compito di porre delle domande all'illustre relatore.

Questo comporta da parte di Jean-Luc Nancy la necessità, che, si intuisce, lui sente particolarmente, di cercare di essere il più possibile comprensibile sia nel linguaggio che nel modo di maneggiare i concetti. Senza banalizzarli, lasciandoli, a volte, aperti; qualche volta citandoli e basta.

La risposta centrale a che cosa sia l'amore mi pare si possa evincere da questa affermazione: “Quando pronunciamo 'ti amo', diciamo qualcosa di molto particolare che immediatamente fa sorgere la domanda: ma cosa stiamo dicendo, che significa? Posso dirvi che nessuno può rendere il senso di queste parole, nessuno.” (Jean-Luc Nancy)

Questo pensiero iniziale potrebbe essere anche l'inizio e la conclusione del discorso, tuttavia J. L. Nancy prova ad affrontarlo, partendo dall’analisi della filastrocca francese “Je t’aime, un peu, beaucoup, passionnément…” (che è anche il titolo originale del libro), che si potrebbe tradurre in italiano “ ti amo, un po', molto, appassionatamente...”, e che, anche in Francia si recita, allo stesso modo del corrispettivo italiano “M'ama, non m'ama”, sfogliando una margherita e strappando i petali, uno dopo l'altro.

L'analisi di questa filastrocca porta a questa conclusione: “ti amo” è un modo di sentire assoluto. Non si può dire “ti amo molto o abbastanza”, perché l'amore, quando è tale non è misurabile, non è paragonabile ad altro, perchè la sola cosa che conta nell'amore è che l'essere dell'altro sia in me, inseparabile da me. Non identificazione (impossibile), ma inseparabilità. Il rischio più grande: confondere l'immagine dell'altro che abbiamo in noi con la sua realtà. L'esercizio dell'amore consiste, quindi, nel compiere un continuo andirivieni fra l'altro reale e l'immagine così potente che abbiamo di lui...
Questo rapporto è difficilissimo, perché contiene in sé la possibilità di distruzione dell'altro o quella reciproca, ed anche la follia. Dentro questi “nodi” ci sono temi che Jean-Luc Nancy affronta sinteticamente come la fedeltà, la gelosia, la possibilità di amare più persone...

M’ama non m’ama è un libro che presenta la sua maggiore difficoltà nell'apparire piacevole e semplice, perchè sia il vocabolario agevole che il tono colloquiale portano a leggerlo velocemente e a saltare passaggi complessi, che richiedono una meditazione che vada oltre la sintesi dell'enunciato.

Un esempio. Dice Nancy: “Questo rapporto così forte e unico fra due persone è difficilissimo, ciascuno dei due rischia molto perché ciascuno deve imparare a fare a meno della sua autosufficienza, del ripiegamento su di sé, di ciò che chiamiamo narcisismo”. Concetto che spiega meglio rispondendo ad una ragazza: “Ma esiste un'altra forma di amore di sé, nel quale ci relazioniamo a noi stessi come a un'altra persona. Nell'amore siamo in due, bisogna dunque essere in due anche nell'amore di sé. Bisogna amare in sé la possibilità di amare l'altro”.

Jean Luc Nancy. M’ama, non m’ama (Je t’aime, un peu, beaucoup, passionnément…), trad. Maria Chiara Balocco. Utet Libreria 2009, pp. 112, euro 7,00, www.utetlibreria.it

24 maggio 2009

"L'ombra del sospetto" di autori vari


di Luciano Luciani

Nuove uscite in libreria, nuove collane, nuovi autori: per il giallo, il noir, l’horror italiani è sempre tempo di grande fermento.

Si tratta, ormai, di una lunga stagione che non accenna a declinare e si mantiene talmente ricca da rischiare addirittura l’eccesso, la saturazione, l’inflazione. Sì, nel mondo dei libri, da circa un decennio, è in atto una piccola, originale rivoluzione: se, ancora a metà degli anni Novanta erano rarissimi gli editori - solo i più audaci, i più avventurosi - disposti a investire sugli scrittori italiani ‘di genere’ (qualsiasi cosa si nasconda dietro questa espressione!) e su trame di delitti e d’indagini in ‘salsa tricolore’, oggi, vivaddio, quel panorama editoriale è radicalmente cambiato.

All’esaurirsi del primo decennio del nuovo millennio, il pubblico dei lettori, agli ormai stereotipati prodotti d’oltreoceano, sembra preferire di gran lunga protagonisti, storie e scenari nostrani. Anzi, più sono tali più li privilegia: come dimostra il reiterato successo dei romanzi di Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto e Andrea Camilleri, tanto per limitarci ai nome degli autori più spesso presenti ai vertici delle classifiche dei best seller.

Sempre più di frequente gli scrittori italiani si rivelano capaci di offrire a chi legge sensazioni decise, trame intelligenti, personaggi umani e credibili, uno stile agevole ma non sciatto: dunque, storie verosimili, ambientate su scenari riconoscibili e in grado di riflettere il male e l’orrore così ampiamente diffusi nel nostro presente, i fantasmi più cupi e inquietanti che ci circondano ogni giorno.

Nei suoi casi migliori il poliziesco italiano, poi, se bene utilizzato ha saputo rivelarsi anche acuto e potente strumento di analisi non solo della psicologia di singoli personaggi, ma di interi ambienti della nostra società attuale.
Dal thriller al mistery, dalla spy-story al gotico-rurale è ormai consolidata una ‘via italiana’ al romanzo poliziesco. E Roma e Milano, Bologna e la provincia toscana, la Sicilia e la Sardegna appaiono agli occhi dei lettori location assai più accettabili e plausibili delle megametropoli americane, delle nebbie di Londra o della campagna inglese, dei bistrot parigini.

In tale direzione si muovono anche le pagine a seguire. In esse una nutrita pattuglia di esperti scrittori – donne e uomini, giovani e meno giovani, più o meno noti, prevalentemente toscani ma non solo – dimostra di sapere bene rielaborare gli eterni temi del sospetto e dell’intrigo, la violenza e il delitto, l’offesa e la sua riparazione, risultato di solito dovuto all’agire di eroi talora malconci e sgualciti ma dall’affilatissima intelligenza.

Ci rassicurano gli Autori di L’ombra del sospetto del persistere di una felice fase della nostra narrativa. Poi, ci confermano un’idea che abbiamo sempre coltivato: ovvero, come molta della scrittura migliore abbia spesso una matrice periferica e marginale. Quindi che la formula del giallo o della detective story ai nostri tempi, così complicati e difficili, non sia che il modo più diretto e più efficace per raccontare anche altro, altre storie.
Per fare narrativa, insomma.

L’ombra del sospetto, racconti di Alberto Eva, Nicola Verde, Rossana Giorgi Consorti, Diana Lama, Erminio Serniotti, Daniele Nepi, Paola Alberti, Riccardo Cardellicchio, Lucia Bruni, Maurizio Antonetti, Giuseppe Previti, Oscar Montani
Marco Del Bucchia editore, 2009, pagine 260, euro 15

21 maggio 2009

"Biafra 1968" foto di Romano Cagnoni


di Gianni Quilici

Questa è una foto che si percepisce immediatamente senza bisogno di tante parole.

Allora: a cosa servono le parole?
Più sguardi, più dettagli, più osservazioni possono determinare più attenzione, più sottigliezza, più sensibilità, più sorprese, più ricchezza di tutto per tutti.

Cosa mi colpisce in questa straordinaria foto di Romano Cagnoni?

Al primo sguardo l'intensità dei sentimenti.

Ad uno sguardo appena più circostanziato questo intreccio di corpi e di sentimenti come se il triangolo di corpi fossero un corpo unico

Ad uno sguardo più analitico, in cui l'immagine non è (stata) soltanto una realtà, ma pure una forma, vedo un'espressione profonda del primo bambino con gli occhi e la testa abbassata, pensosa e quasi lontana e, forse, in contrasto l'altro bambino più piccolo disperato e piangente. Nel centro, a raccogliere questa dialettica, il volto della madre, qui nell'attimo della foto, rassegnata o impotente.

Se poi scompongo la foto nel dettaglio, non può non colpire la mano del bimbo magra, forse denutrita, perché si stringe alla faccia della donna diventando il segno di un bisogno universale: la necessità di protezione e di affetto di un bimbo, di migliaia e migliaia di bimbi, che sono o si sono trovati di fronte la guerra.

Ecco a questo punto la foto, pur drammatica e dolorosa, ha anche una grande e potente bellezza estetica. Mi si presenta allo sguardo come una rappresentazione intensa di corpi intrecciati in un corpo soltanto, scolpiti come fossero una scultura, ognuno con una sua solitudine: disperati, pensosi, rassegnati, impotenti, dignitosi.

Qual è la scelta espressiva del fotografo, di Romano Cagnoni, in questa immagine? L'essere dentro a quei sentimenti estremi. L'avvicinarsi, cioè, il più possibile ai soggetti. Nulla, infatti, qui è superfluo, tutto è essenziale e vicino. Nulla si sovrappone tra loro e noi. E questa essenzialità e vicinanza diventano universali. Ci riguardano tutti, ci investono con la potenza di quei corpi.

La foto è stata scattata nel 1970 nel Biafra, un pezzo della Nigeria, in cui era scoppiata una delle tante guerre civili dell'Africa tropicale, per lo più dimenticate dall'opinione pubblica dell'Occidente. Romano Cagnoni, grande, e forse sottovalutato, fotografo nato a Pietrasanta, ma vissuto a lungo a Londra, vi arrivò avventurosamente, rischiando, poi, più volte la vita, come racconta nel bel libro “Il mondo a fuoco” (Electa).

13 maggio 2009

"France 1987" foto di Josef Koudelka

di Gianni Quilici


Foto che immediatamente ti colpisce per un netto contrasto cromatico: il bianco quasi niveo e il nero carbone.

Questo contrasto diventa però simbolico. Il cane, al centro dell'immagine, con la sua grande e agile mole, le orecchie rialzate, il muso abbassato, la coda attorcigliata dà un'impressione vagamente demoniaca, di minaccia o comunque di dissonanza su uno sfondo di orizzonte aperto e chiuso, in cui il bianco sporco si mescola ambiguamente con il grigio indefinito.

Si potrebbe obiettare: non c'è minaccia, il cane cerca forse semplicemente del cibo. Forse. Questo è comunque un pensiero razionale, successivo, cioè, alla prima impressione. La bellezza di questa foto risiede nella centralità di un cane che si impone e un po' mefistofelico su un orizzonte incerto, che, nell'insieme, dà all'immagine il senso incombente di una possibile minaccia.

Koudelka è fotografo mitico della Magnum. Fotografo della Primavera di Praga, dei Gitani e di tutti i diseredati ed oggi di quei luoghi dove l'uomo è passato, ha costruito, prodotto, manifestato la sua civiltà con strade, edifici e industrie per poi abbandonarli al degrado del tempo.

09 maggio 2009

"La solitudine di Elena" di Juan José Millàs.


di Gianni Quilici

L'inizio. “Elena si stava depilando le gambe in bagno quando squillò il telefono e le comunicarono che sua madre era morta”.
E' il romanzo di una crisi. La crisi di una donna. Elena, 43 anni, un marito ricco e spregiudicato, una figlia che non corrisponde, un diario (della madre morta) che casualmente trova, che le mette di fronte un passato ingarbugliato di specchi da ri-visitare. La madre e lei, lei e la figlia. Una crisi che contiene non solo un passato, ma un presente arido e vuoto, che l'hashish e il wisky non solo non riescono a colmare, ma che contribuiscono a rendere più doloroso.

Un detective diventa la svolta del romanzo. Assunto telefonicamente e anonimamente dalla donna per controllare il marito (traditore e speculatore), viene quasi subito sviato per controllare lei. Elena chiede resoconti scritti non formali ed oggettivi, ma molto personali. Questa rappresentazione del detective è così attenta a cogliere i tratti anche più nascosti della donna che diventa una comunicazione vera, un conforto, uno stimolo per una lenta e dolorosa metamorfosi di liberazione.

Un romanzo breve, che lascia un senso di verità del profondo. Ad una prima parte chirurgica, analitica e frammentata in cui la perdita del centro in Elena determina una lettura difficile, perché stratificata; ne succede un'altra che “libera” quel calore che nasce da un possibile punto di incontro di solitudini (quella del detective e di Elena) che pur non realizzandosi (forse giustamente) nel romanzo, (lo scrittore) lascia che possa vivere, fuori dalle pagine, nell'immaginario.

Juan José Millàs. La solitudine di Elena. Traduzione di Paola Tomasinelli. Pag. 126. Euro 9,80.

08 maggio 2009

"Calcio nei coglioni" di Carlo Petrini


di Luciano Luciani

Calcio nei coglioni: un titolo rude per un libro ‘verità’ sul mondo del calcio. Meglio ancora, un’altra battaglia della guerra personale di Carlo Petrini contro le falsità e le omertà dell’ambiente ‘pallonaro’. Il suo lato oscuro, tra doping e fondi neri, interessi economici e ambizioni politiche, raccontato con lucida rabbia e soprattutto documentato in maniera inoppugnabile. Una realtà che l’Autore conosce bene e dall’interno.

Nato a Monticiano, Siena, nel 1948, Carlo Petrini è stato, infatti, uno dei più noti calciatori degli anni Settanta: centravanti del Milan di Nereo Rocco (1968-1969), del Torino (1969-1970), del Varese, del Catanzaro, della Ternana (1974-1975), ha giocato anche con la Roma di Nils Liedholm, (1975-1976), col Verona, col Cesena, col Bologna (1979-1980), per poi finire nel 1980 malamente coinvolto nel primo grosso scandalo della storia del nostro calcio, una pallida prefigurazione, comunque, della Calciopoli emersa due/tre anni or sono. … Come afferma l’ex calciatore “I peggiori Petrini degli anni Settanta erano dei ridicoli dilettanti, rispetto ai pallonari di oggi che si dopano con medicinali sofisticati, che combinano non solo partite ma interi campionati, che scommettono miliardi, che sniffano cocaina, che fanno orge per tutti i gusti, che incassano montagne di soldi in nero all’estero”

La sua dolorosa vicenda personale gli ha dato, però, la forza di diventare il primo, e finora l’unico calciatore professionista che si è rivelato capace di rompere decisamente con l’ipocrisia (si sa, ma non si dice, e, soprattutto, non si scrive) che avvolge il mondo del calcio, di cui Petrini non ha esitato a raccontare quello che nel suo ambiente tutti conoscono ma che si può solo sussurrare con discrezione: le pratiche dopanti, le partite combinate, i pagamenti in nero, le sfrenatezze sessuali…

Autore del best seller Nel fango del dio pallone, 2000 quasi centomila copie vendute, Petrini ha scritto inoltre Il calciatore suicidato, 2001, sulla morte misteriosa del giocatore del Cosenza, Donato Bergamini; I pallonari, 2003; Senza maglia e senza bandiera, 2004; Scudetti dopati, 2005, sulle disinvolte pratiche farmaceutiche dei calciatori della Juventus; Le corna del diavolo, 2006 una documentatissima inchiesta sulla nascita del Milan berlusconiano, e da ultimo un durissimo Calcio nei coglioni, 2007, tutti pubblicati dalla Kaos edizioni di Milano.

E anche in queste pagine ce n’è per tutti: per il designatore arbitrale Pairetto, per il superarbitro Collina, per il maltrattato arbitro Paparesta, passando per le ‘glorie nazionali’ Gianluigi Buffon, i Lippi padre e figlio, senza trascurare Fabio Cannavaro, l’eros center frequentato dai giocatori juventini, Moggi, Fabio Capello e le telefonate “a luci rosse” del frate ultrà del Cosenza calcio… E tante, tante altre porcherie che opacizzano la leggenda dello sport più bello del mondo.

Oggi Carlo Petrini è un uomo malato, quasi cieco e alle prese con una grave forma tumorale che lo costringe a dolorose terapie. Ma è sempre combattivo e se gli chiedi cosa lo spinga a scrivere libri così polemici e taglienti, ti risponde: "Soprattutto far conoscere alla gente quello che i giornali al giorno d’oggi non vogliono far sapere. Quello che io racconto è la parte malata del calcio che non è fatto solo di eroi, ma soprattutto di personaggi meschini”.

Carlo Petrini, CALCIO NEI COGLIONI Porcate, imbrogli e fregnacce: cronache pallonare senza censura.KAOS Edizioni. Pagg. 178 – Euro 16,00

04 maggio 2009

"Arthur Conan Doyle, tra razionalità e occultismo" di Luciano Luciani


Padre fondatore del romanzo poliziesco e senz’altro tra i suoi più famosi esponenti, Arthur Conan Doyle nacque a Edimburgo, in Scozia, il 22 maggio 1859. Furono probabilmente gli studi di medicina, condotti presso la Edimburgh Medical School sotto la guida del professor Joseph Bell, fervido sostenitore del metodo induttivo nelle diagnosi, a predisporlo a creare un nuovo genere di racconti polizieschi basati sulla soluzione logica dei casi più misteriosi, complessi e apparentemente insolubili: protagonisti, Sherlock Holmes e il suo amico, aiutante e cronista, il dottor Watson.

Tutti i titoli, Uno studio in rosso, 1887; Il segno dei quattro, 1890; Il mastino dei Baskerville, 1902; Le avventure di Sherlock Holmes, 1903, tra i più importanti, sono caratterizzati dalle gesta di questo personaggio che con un impeccabile procedimento razionale e una straordinaria acutezza psicologica ricostruisce i casi più complicati e oscuri: anche lui è un eroe solitario, opera in contrasto con la polizia ufficiale e, forte di una cultura scientifica fuori dal comune, ristabilisce l’ordine violato dal crimine, rimette le cose a posto, rassicura e consola i lettori.

Dal suo primo libro, The surgeon of Gaster Fall, apparso nel 1885, Conan Doyle scrisse moltissimo – racconti grotteschi e inquietanti, romanzi storici e libri di propaganda patriottica che gli valsero il titolo di Sir – e si occupò per tutta la sua esistenza di occultismo.

Se la critica lo considera uno scrittore mediocre per la trascuratezza stilistico - formale e per i suoi intrecci poco plausibili, pure il romanziere scozzese è riuscito nella difficile alchimia della creazione di un personaggio la cui fama, da oltre un secolo, appare inossidabile e non sembra conoscere appannamenti: non si contano, infatti, le rielaborazioni e le trasposizioni teatrali, cinematografiche e televisive anche recenti di Sherlock Holmes, che è sopravvissuto al proprio autore ed ha continuato a vivere sempre nuove avventure attraverso l’immaginazione di numerosi altri scrittori (uno, anzi due per tutti, Michel e Mollie Hardwick, autori di una pregevole Vita privata di Sherlock Holmes, 1970, da cui il grande regista Billy Wilder ha tratto un film niente male).

Londra, poi, ha dedicato a questo personaggio addirittura un museo e, ancora oggi, sono centinaia le lettere che quotidianamente continuano ad arrivare a… Sherlock Holmes al 221/b di Baker Street. Insomma, il protagonista dei romanzi di Conan Doyle rappresenta ancora oggi nell’immaginario collettivo il modello del perfetto detective.

Suoi riferimenti letterari dichiarati il Dupin di Poe e l’ispettore Lecoq di Gaboriau, investigatori che l’autore inglese, fin dall’incipit di Uno studio in rosso, mostra, però, di non apprezzare affatto: “Dupin era un mediocre… Lecoq era un miserabile pasticcione”. Eppure, i suoi debiti nei confronti del romanziere americano e del francese sono evidenti e li coglie con lucidità Carlo Oliva nella sua Storia sociale del giallo, 2003, quando scrive che Conan Doyle “sul dandy di Poe, con i suoi manierismi, le sue capacità deduttive e la tendenza al superomismo che gli deriva dalle lontane origini byroniane, innesta l’energia, la forza fisica, la passione dei travestimenti e la conoscenza del mondo criminale e poliziesco proprie del Lecoq di Gaboriau”. Un dandy è anche Holmes: raffinato nei gusti, elegante nell’abbigliamento, provocatorio nei confronti del senso comune. Non ha un lavoro regolare, alterna lunghi periodi d’ozio all’esercizio del violino o a strani esperimenti di chimica, si inietta cocaina in soluzione del sette per cento, frequenta personaggi altolocati.

A lui fa da spalla un personaggio che più normale, più mediocre, più vittoriano non si può, il dottor Watson: forse la migliore invenzione narrativa, certo la più originale, di Conan Doyle. Ora, finalmente, colui che racconta in prima persona le gesta dell’eroe ha una storia sua: è un ex ufficiale dell’esercito inglese; pratica una professione decorosa: è medico; manifesta una psicologia complessa, dei sentimenti, non sempre del tutto benevoli nei confronti dell’amico. E’ in lui, e non in Sherlock, che si rispecchia e si identifica il lettore consapevole della propria ignoranza e della propria difficoltà a praticare le tecniche d’indagine maneggiate con tanta proprietà ed eleganza dall’inquilino di Baker Street.

Non va poi dimenticata anche l’invenzione dell’antagonista, il mortale avversario di Sherlock Holmes: il professor Moriarty, pure lui un brillante scienziato ma anche il Napoleone del delitto, a cui Conan Doyle, stanco del successo fin troppo invadente del suo personaggio, affida nell’Ultima avventura il compito dell’eliminazione dell’ investigatore, diventato per il suo creatore ingombrante e fastidioso… Salvo poi resuscitarlo a furor di popolo - e di sterline - qualche anno più tardi, consacrandolo così definitivamente eroe indiscusso della letteratura popolare di massa.

Ma, forse, il lascito di Conan Doyle travalica la letteratura di massa o la letteratura tout court, per investire altri campi, acquisire altri meriti. Per esempio, influenzare la scienza che studia i comportamenti definiti criminali per legge. Non è senza significato ricordare che nel 1891, (Uno studio in rosso è del 1887 e Il segno dei quattro del 1890), viene pubblicato in Germania il Manuale del giudice istruttore, il primo manuale di criminalistica scientifica: ne è autore Hans Gross, giudice istruttore del distretto industriale dell’Alta Slesia, che sostiene la necessità per il criminologo impegnato nella decifrazione dei delitti di servirsi di tutte le recenti conquiste della scienza e della tecnica. Chimica, fisica, botanica, microscospia, fotografia debbono affiancarsi, cooperare e in gran misura sostituire le vecchie pratiche dei delatori e degli infiltrati tanto care di Eugène Francoise Vidocq per arrivare ad una definizione scientifica del delitto, del criminale e del suo modus operandi. Le moderne polizie europee, quella inglese, la francese, la tedesca cominciano ad applicare, per non abbandonarlo più, il metodo induttivo/deduttivo di Sherlock Holmes.

Giocatore di cricket, grande sportivo amante degli sport invernali – a Davos, in Svizzera, dove trascorreva lunghi periodi fu il primo a introdurre la pratica dello sci –, ben inserito nella società letteraria del suo tempo e amico di Jerome Klapka Jerome, James M. Barrie, H. G. Wells, Rudyard Kipling, George Bernard Shaw, Conan Doyle mantenne per tutta la vita profonde e coerenti convinzioni conservatrici. In un paio di occasioni si candidò, senza successo, alle elezioni per contrastare l’ascesa di due esponenti del radicalismo inglese e nei primi anni del secolo scorso si adoperò in prima persona, cercando anche di coinvolgere i suoi amici letterati, nella promozione di una Società per lo sviluppo delle relazioni d’amicizia tra Inghilterra e Germania: il modello autoritario incarnato dall’imperatore di Germania Guglielmo II faceva proseliti anche tra i letterati della liberale Inghilterra! Ciò non gli impedì, però, di partecipare alla Grande Guerra come inviato del Ministero della Guerra inglese sul fronte delle Fiandre e su quello italiano.