18 agosto 2011

1494. L’ombra dell’inquisitore di Roberto Ciai , Marco Lazzeri

di Luciano Luciani


Anno 1494. Tomàs de Torquemada, inquisitore generale di Castiglia e Aragona, è alla spasmodica ricerca di un documento sconvolgente: quel testo, tramandato nei secoli, potrebbe addirittura scardinare le fondamenta stesse su cui si regge la Chiesa. Scarse le informazioni, strappate a un rabbino sottoposto alle più crudeli sevizie. Tra grida di dolore e imploranti richieste di pietà, il torturato si è lasciato sfuggire un nome, quello di Giacomo Scolario, Anziano al governo della Repubblica di Lucca. Ma Cruz, lo spietato frate-sicario incaricato di costringere il notabile a parlare, è stato anticipato da una mano misteriosa. Di Scolario, trucidato assieme alla sua famiglia, è rimasto solo il cadavere.

Chi è l’assassino? Qualcun altro, dunque, è a conoscenza di quell’ oscuro segreto? Che cosa potrebbe accadere se la notizia finisse nelle mani sbagliate?

Queste domande porteranno Torquemada, Cruz e il funzionario lucchese Ermete Dei Mazzei a intraprendere un sanguinoso percorso di indagine tra Lucca e la Roma dei Borgia, mentre, sullo sfondo, muore il vecchio mondo medioevale e, tra mille sofferenze, individuali e collettive, vede faticosamente la luce un’epoca nuova non necessariamente migliore dell’antica.

Un thriller storico ben scritto e ben documentato questo 1494. L’ombra dell’inquisitore, che, con un occhio discreto al Nome della rosa di Eco e uno alle convenzioni proprie del romanzo poliziesco, combina, con intelligenza ed equilibrio, pagine mai banali e sempre godibili nello sviluppo incalzante dell’azione e nella accurata psicologia dei personaggi tutti, maggiori e minori.

Non disprezzabile, poi, in questi tempi di intolleranza diffusa verso tutti i tipi di diversità, il messaggio di pace, uguaglianza, rispetto delle idee che, senza mai assumere toni perentori e declamatori, percorre tutto il romanzo.

Insomma, il romanzo d’esordio della coppia Marco Lazzeri, ingegnere lucchese e Roberto Ciai, avvocato romano, si propone come la risposta colta, civile e ben scritta agli inverosimili e sciatti feuilleton di Dan Brown.

Leggetelo, non ve ne pentirete.



Roberto Ciai , Marco Lazzeri, 1494. L’ombra dell’inquisitore, Leone Editore, Milano 2010, pp. 588, Euro 18,50



09 agosto 2011

"Il convento di Sendomir" di Franz Grillparzer

di Gianni Quilici


La storia: il convento è su un'incantevole vallata. I due cavalieri si fermano al tramontare del sole. Lì si rifocillano il corpo alla luce di una lampada. Sarà un monaco dalla corporatura massiccia, dai modi bruscamente misteriosi a raccontare la storia del convento...

Colpisce in questo racconto di Franz Grillparzer la rappresentazione plastica della vicenda: personaggi e paesaggio si stagliano scultorei di fronte a noi. La pennellata è rotonda, i colori sono sempre acuti e forti. Il conte innamorato, la moglie che improvvisamente ci appare traditrice, sono scolpiti con netta evidenza, anche se risentono di molti perché, inevasi.

Veramente la donna (traditrice) è così cattiva? E veramente il conte (tradito) è così innocente?

C'è un romanticismo (l'amore senza incertezze), c'è un moralismo (l'amore senza incertezze tradito), di chi si identifica e quindi non vede tutto, ma solo una parte.

agosto 1989.


Franz Grillparzer. Il Convento di Sendomir; Il povero musicante, versione e introduzione di Iginio Delneri. Modena, Edizioni Paoline, stampa 1959

05 agosto 2011

"Tempo d’estate, giorni di gelato" di Luciano Luciani


Gelati di parole scritte

La letteratura non poteva evitare d’intridersi di gelato. Se Lorenzo Magalotti (Roma 1637 - Firenze 1712 ) diplomatico del Granduca di Toscana, scienziato galileiano e accademico del Cimento e della Crusca non esitò a mettere alla prova la sua ispirazione sensuale e fantasiosa con un’ Ode alla sorbetteria, il suo contemporaneo, Francesco Redi, (Arezzo 1626 – Pisa 1698), medico, naturalista e letterato non alieno da sensibilità già arcadiche, nel suo noto ditirambo il Bacco in Toscana racconta l’inedita e non del tutto piacevole sensazione procuratagli da una granita: “oh come scricchiola tra i denti, e sgretola / quindi dall’ugola giù per l’esofago / freschetta sdrucciola fin nello stomaco”. Qualche anno più tardi, Carlo Goldoni, (1707 – 1793) presenterà l’abitudine al gelato come una simpatica e consolidata consuetudine familiare: “Poi, radunati in casa i soliti diletti, si bevon le acque fresche, si bevono i sorbetti”. Secondo il commediografo veneziano uno degli imprescindibili piaceri della vita: “Oh amabile sorbetto / nettare prezioso e delicato, / benedetto colui che t’ha inventato. / Due cose in questo mondo / mertano il primo onore / il sorbetto gelato e il caldo amore” (C. Goldoni, Amore in caricatura, 1761). Anche per il coevo Giuseppe Parini i gelati rappresentano il punto più alto del gusto, paragonabili soltanto all’ambrosia e al nettare di cui si cibavano gli dei, “almo conforto” e “voluttuoso gel” ai palati degli oziosi aristocratici: “Ivi è raccolta in neve / la fragola gentil che di lontano / pur col soave odor tradì se stessa; / v’è il salubre limon; v’è il molle latte; / v’è con largo tesor culto fra noi / pomo stranier che coronato usurpa / loco a i pomi natii; v’è le due brune / odorose bevande che pur dianzi / di scoppiato vulcan simili al corso / fumanti ardenti torbide spumose / inondavan le tazze; ed or congeste / sono in rigidi coni a fieder pronte / di contraria dolcezza i sensi altrui.” Insomma, i nobili milanesi di quegli anni non si facevano certo pregare per qualità e quantità di gelati, per fragranze e sapori: fragola, limone, latte, ananas, caffè e cioccolata… Una Milano tutta “da leccare”, la loro, che anticipa di un paio di secoli quella “da bere” degli stilisti e dei faccendieri: migliore la prima o la seconda? Ai posteri…con quel che segue!

E a proposito del piacere di lambire il dolce / freddo, Gianni Rodari (1920 – 1980), maestro della letteratura per bambini apprezzato e amato in tutto il mondo, in una delle su Favole al telefono intitolata Il palazzo di gelato, con la consueta levità racconta che “Una volta, a Bologna, fecero un palazzo di gelato proprio sulla Piazza Maggiore, e i bambini venivano di lontano a dargli una leccatina.

Il tetto era di panna montata, il fumo dei comignoli di zucchero filato, i comignoli di frutta candita. Tutto il resto era di gelato: le porte di gelato, i muri di gelato, i mobili di gelato...” Per evitare che quel meraviglioso palazzo, tanto appetibile quanto precario, si sciolga inutilmente i bolognesi, giovani e vecchi, fanno a gara “per non lasciar andare perduta una sola goccia di quel capolavoro” e leccano, leccano, leccano…

Le favole, si sa, devono andare a finire bene: e così, per ordine dei dottori bolognesi, nessuno sarà chiamato a pagare il prezzo di un vendicativo mal di pancia.

E, a conclusione di questo capitoletto sugli intrecci letterari tra il ‘gelido diletto’ e la scrittura, riportiamo alcuni versi ‘freschi’ del lucchese Gianni Quilici, che, dopo aver molto vissuto e consumato di conseguenza altrettanto gelato, lo definisce felicemente “il simbolo / della leggerezza / l’esserci senza parere / il piacere senza la pesantezza.”

Gelato e canzonette

Entrambi figli dei consumi di massa inaugurati a partire dagli anni Sessanta, gelato e canzonette vanno d’amore e d’accordo tra loro. Se il gelato regala a Mogol - Battisti il folgorante inizio del loro I Giardini di marzo: “Il carretto passava e quell’uomo gridava: gelati!...”, un Gelato al limon, il più semplice, il più tradizionale tra i sapori, offre a Paolo Conte i lampi evocativi e le rapide pennellate per un testo denso di surreale, quotidiana malinconia e poetiche intuizioni: “un gelato al limon, gelato al limon gelato al limon / sprofondati in fondo a una città / un gelato al limon e vero limon / ti piace? / mentre un’altra estate passerà // libertà e perline colorate, ecco quello che io ti darò / e la sensualità delle vite disperate, / ecco il dono che io ti farò // donna che stai entrando nella mia vita / con una valigia di perplessità / ah, non aver paura che sia già finita / ancora tante cose quest’uomo ti darà // un gelato al limon, gelato al limone, gelato al limone / sprofondati in fondo a una città // un gelato al limon, gelato al limon, gelato al limon / mentre un’altra estate se ne va…”

Dicono la loro sull’algido argomento anche gli Skiantos, forse il gruppo più ironicamente delirante degli anni Ottanta,: “Quando prendo lo stipendio / in gelati me lo spendo / I gelati sono buoni ma costano milioni / La fatica mi deprime / e mi tiene sulle spine / ma se vado fuori a cena / prendo un gelato all’amarena / Il gelato è il mio conforto / mi ripaga d’ogni torto / il gelato mi consola / e fa dolce la mia gola. Quando arrivo a fine mese / faccio il conto delle spese / in gelati ho speso tutto / e rimango senza un letto / I gelati sono buoni ma costano milioni”.

Banalmente delirante, invece, il Gelato al cioccolato di Enzo Ghinazzi in arte Pupo, oggi, per fortuna, sempre meno cantante e sempre più intraprendente show man e simpatico conduttore televisivo: “…Gelato al cioccolato / E’ dolce ma un po’ salato / Tu gelato al cioccolato / Un bacio al cioccolato / io te l’ho rubato / Tu gelato al cioccolato / No…rimani così / che dolce sei tu / Io non chiedo di più…” e via così, canticchiando chiappolerie.

Un po’ meglio (ma mica tanto, però), Pino Daniele: “…come un gatto in amore / come un gelato / all’equatore / mi sciolgo / col tuo amore / ho bisogno di te / del tuo modo di pensare”. Certo, dal poeta plebeo di Je so’ pazzo e di Napule è, anche se soltanto in materia di gelati, ci saremmo aspettati qualcosa di più !

Breve, ma simpatica, l’incursione di Mina nel mondo dell’ ice cream nel suo Ma che bontà, un testo del 1977, divertito e vagamente coprofilo: “Ma perché, come mai, ma perché, / in gelateria non ci entro mai, / eh? / Mmm che cioccolato, /dammi il cucchiaino, / fai assaggiare un pochettino…”

Nello stesso anno, ad Alberto Camerini, cantautore milanese di ascendenze brasiliane, politicamente e civilmente impegnato, con Gelato metropolitano riesce l’operazione di mescolare il gelato e i suoi sapori con quelli delle complicate vicende del proprio tempo. I gusti del gelato scandiscono vicende, situazioni stati d’animo propri degli ‘anni di piombo’, i terribili Settanta, in un mix dolceamaro tra tenerezza e ironia, sarcasmo e memoria: “…dopo il pane quotidiano un gelato metropolitano / digeribile da tutti, da grandi e da bambini, diciamo gusto tutti frutti, firmato Alberto Camerini, / nutriente, digestivo, tonico e corroborante. / Banana, fragola e limone, arcobaleno, zabaione, crema gel ai tuttifrutti, stracciatella col biscotto / panna in coppa, candelotto, fior di latte clandestino, un bel cono col pistacchio, zut, vaniglia e torroncino / babà deflagrante con nocciola latitante, verde menta alla granita, al caffè, non è finita, / pesca, albicocca, ananas e dolce in bocca, tupamaro, grock ghiacciato, colorato è il mio gelato.”

Gelato e cinema

Tracce di gelato anche nel cinema, per altro uno dei luoghi deputati al consumo di ghiaccioli e ice cream. Si tratta di un ‘filmaccio’, realizzato alla maniera di quei B-movies che tanto hanno contribuito a colonizzare l’immaginario degli adolescenti anni Cinquanta in cerca di emozioni forti. Si intitola Stuff, il gelato che uccide (The stuff), è del 1985 e inizia con due minatori che in fondo a una grotta scoprono una strana sostanza, a metà tra lo yogourt e il gelato. L’assaporano, è buona e decidono di commercializzarla con l’aiuto interessato di una multinazionale alimentare. I consumatori, sollecitati anche da una battente, pervasiva campagna pubblicitaria sono entusiasti del nuovo dessert, the stuff appunto, che entra in tutte le case. Ma sfortunatamente quella bontà venuta da sottoterra è tutt’altro che innocua. Infatti, si tratta di una sostanza aliena che muta geneticamente chi l’assaggia e lo trasforma in uno zombie: un ex agente del F.B.I. e di un ragazzino, Jason, cercano di fermare la degenerazione e la conseguente strage del gelato assassino. Il film diverte e inquieta al punto giusto in quanto racchiude in sé una protesta contro il sistema consumistico americano che non si preoccupa della salute dei consumatori a cui è lecito propinare ogni porcheria. Profetica l’ anticipazione delle tematiche sollevate qualche anno più tardi delle paure alimentari indotte dalla “mucca pazza” e dall’influenza aviaria. Regia di Larry Cohen (1941, Baby killer, 1974; Che fatica essere lupi, 1981; Q – Il serpente alato, 1982; I vampiri di Salem Lot, 1987; Strega per un giorno, 1988) un maestro del genere horror di pochi mezzi, a cui dobbiamo l’intuizione geniale di un mostro che non mangia, ma diventa tale solo se viene mangiato.

Un gelato no global

Sempre a proposito del rapporto tra cinema e gelato merita di essere segnalato il grande successo che sta riscuotendo in Turchia, negli Stati Uniti e di recente anche in Italia il film comico Dondurmam gaimark (Gelato alla crema) del regista turco Yursel Aksu, l’esilarante storia di un gelataio ambulante, Mastro Alì, in lotta contro le multinazionali del gelato da cui si sente vessato. Il film ha mancato di un soffio la nomination all’Oscar del 2006, ma, in compenso, ha vinto due premi negli Usa al IV° Festival di Queens dove è stato presentato col titolo ammiccante di Ice cream, I scream (Gelato, io grido). Il gelato prodotto da Mastro Alì si chiama Nasip, ovvero ‘grazia di Dio’: è realizzato con latte di mucca verace e non con il latte in polvere e non conosce l’onta dei coloranti; però, nonostante tutte queste qualità, Mastro Alì non riesce a trovare clienti. “Ho voluto girare un film sulla estinzione di un lavoro artigianale davanti allo strapotere delle grandi multinazionali”, ha dichiarato il regista.