31 maggio 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici

Gianni Quilici. Autoritratto
E' solo uno scherzo,
non certo una recensione (E. M.)
 
di Emilio Michelotti

Stamani un che fra l'angoscia e la frustrazione mi ha svegliato. In pratica mi scappava follemente da pisciare. Sono corso in bagno, lo stimolo era insopportabile, ma l'atto di impossible realizzazione: il cazzo s'era talmente indurito che non me lo permetteva. Aspetto. Niente, non vuol saperne, si rifiuta.

Ho nel cervello, chissà perchè, il primo tema della Renana, e negli occhi della mente lo struscio ritmico delle cosce di una femmina felliniana che, sbucando da dietro una colonna, avanzando lentamente mi porge due tette come due lune, bianchissime, dai piccolissimi capezzoli.

Sprazzi della visione arrivano confusamente a coscienza. Ero responsabile di un viaggio del PCI, forse verso un congresso o una manifestazione nazionale. Da quali immagini proviene dunque il senso di inadeguatezza e smarrimento che mi pervade?

Intanto l'uccello fa il suo dovere di pisciatore e mi libera. Oh, indicibile pesantezza dell'esserci! Oh, straniamento di una fuga ai tropici! Ecco, ricordo: mentre mi sderenavo per sistemare tutti in un albergo-casermone-antro metamorfico, senza letti e senza infissi (l'aria effettivamente spifferava dalla finestra rimasta aperta tutta le notte), i compagni s'erano dileguati, forse ripartiti verso dove chissà.

Ero solo, nel cuore desertico di una piccola città sconosciuta. E pensare che avevo preparato un discorso, ma la brunetta che fuma, esile e dalla carnosa bocca vermiglia, mi aveva gridato narciso, egocentrico. Avevo quindi una spiegazione per il nodo alla gola.

Eppure il romanzo, nel tempo che pare segnato dalla fine della forma-romanzo, mi è piaciuto. Forse ha giocato, nelle inquiete apparizioni notturne, la bulimia, la pretesa di decrittarlo in un solo pomeriggio. O forse è perché così siamo fatti: quando una vicenda sta per finire (perfino quella soggettivamente centrale dell'esistere) ti accorgi che era bella e quanto ti mancherà.

“Non è che l'inizio” mi ha dunque convinto, caro Gianni, per il tuo modo nuovo di raccontare, per la sfasatura e l'intersecarsi del tempo, per la spasmodica ricerca di senso che ci hai messo (non so se volutamente, ma che importa?), per l'esigenza di protagonismo, per la sete di autoconfessione. Ma anche per l'esito frustrante esistenzial/generazionale delle avventure interpretate dal personaggio che dice “io”. Ancora e paradossalmente per la smania di vivere il fallimento, di gestirlo ostinatamente fino in fondo, magari con dichiarate speranze di resurrezioni future, che appaiono derivate (scusa la franchezza) da un aporetico ottimismo dell'intelligenza. Con (antifrastica conclusione) la certezza di restituire le ali al famoso sarto di Ulm.

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. Euro 13,00.






"Se non ricordo male" di Giulio Questi



di Mimmo Mastrangelo

Protagonista di “Se sei vivo spara”, Thomas Milian dichiarò in un’intervista: “ con lui era come lavorare con Antonioni, perché in fondo era un intellettuale rivoluzionario”. Per lo scrittore e giornalista Oreste Del Buono era “il Polanski orobico, il Bunuel della Val Brembana”.

Di certo Giulio Questi è stato uno degli irregolari del cinema italiano, un maledetto in attrito con  tutte le conformità e il glamour dell’universo della  celluloide. Sceneggiatore, attore e, innanzitutto, regista,  ma  le etichette  professionali, in fondo, lo disturbavano, specie quella del “metteur en scène”: “Ho evitato di qualificarmi  come regista, mi avrebbe conferito  uno status sociale dal quale  mi sono sempre  tenuto alla larga per salvaguardare la mia libertà”.
Bergamasco di nascita, Giulio Questi è morto lo scorso 3 dicembre a novant’anni conservando una proverbiale ironia e schiettezza, nonché una lucidità  pensiero impressionante.  Solo qualche mese prima della scomparsa  Rubbettino aveva dato alle stampe “Se non ricordo male”, un’autobiografia scaturita da una lunghissima discussione del regista con Domenico Monetti e Luca Pallanch.

Definire l’opera di piacevole lettura  potrebbe essere riduttivo, visto la notevole varietà di storie, avventure,  situazioni narrate  da uno dei  protagonista  (seppur  molto appartato ) del cinema italiano degli ultimi settant’anni. “Se non ricordo male” si potrebbe definire  il romanzo-vita di Giulio Questi,  di un libertario che poco meno che ventenne decise di prendere la strada della montagna ed arruolarsi in una brigata partigiana (esperienza già fatta conoscere in “Uomini e comandanti”  pubblicato da Einaudi nel 2014).

Finita la guerra a Questi si prospettò la scelta di emigrare in Svezia o in Venezuela, ma alla fine rimase nella sua amata Bergamo e iniziò a scrivere   sulle pagine culturali de “La cittadella”, una rivista a cui collaboravano  intellettuali affermati ed emergenti e che – anche per volontà dello stesso  Questi – scartò di Pasolini  le poesie in dialetto friulano.  Alcuni  racconti di Questi uscirono sul Politecnico di Elio Vittorini il quale si  arrabbiò tanto con lui quando  gli comunicò  che sarebbe andato a Roma per inseguire le muse della settima arte. “Il cinema – lo liquidò Vittorini -  è una cosa  effimera, che passa e scompare, lo scrivere resta, è importante” .

Una volta a Roma, Questi conobbe Visconti, ma le prime  serie offerte di lavoro gli furono fatte    da Valerio Zurlini che lo volle come aiuto regia per alcuni documentari e il lungometraggio “Le ragazze di  San Frediano” (1954) tratto da un romanzo di Vasco Pratolini. Con lo scrittore fiorentino incorrerà  in un incidente stradale mentre andavano in  lambretta per le strade di Roma. Questi ricorda che divenne conosciuto  tra i cinematografi della capitale proprio grazie a all’ incidente che procurò  qualche frattura a Pratolini: “Quando alla sera arrivavo al bar Rosati, in piazza del Popolo, dove stazionava l’intellighenzia del momento, tutti dicevano: guarda quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini. Ero diventato famoso: ero uscito dall’anonimato!…”.

Le pagine del libro sono rimorchianti anche  per la lunga collana di  aneddoti esposti con disincanto e senza peli sulla lingua  Ricorda Questi di quel provino in cui  bocciò sia Silvia Koscina che Sophia Loren (che poi una volta, a New York, se la ritroverà nel suo letto), di quando fu  scritturato per caso  come attore nella “Dolce vita” di Fellini; delle vacanze al mare che faceva  con Citto Maselli e la sua compagna Goliarda Sapienza; del rigetto che continuò avere per Pasolini e tutta la sua opera letteraria e cinematografica; dell’incontro con il suo sosia Pietro Germi che lo volle tra gli interpreti di “Signore i signori”; della militanza nel Partito Comunista che poi abbandonerà; della cocaina  sniffata per puro godimento senza diventare mai un cocainomane (“per me è sempre stato un momento di allegria, l’esecuzione di un inno alla gloria nei momenti più felici di comunanza”).

Il Giulio Questi regista, dopo aver lavorato in una serie di film ad episodi, nel 1967   affiancato nella sceneggiatura e nel montaggio dall’inseparabile Franco Kim Arcalli,  firma la sua  prima vera regia con “Se sei vivo spara”, “il western  più violento,  e pop che si stato prodotto in Italia”, una pellicola che segna una rivoluzione nel “cinema nostrum” ma viene martoriata da sequestri e  forbiciate della censura.  Con il successivo “La morte ha fatto l’uovo” (1968),  Questi “pigia il piede sul pedale del grottesco   e del  nero” mentre con   “Arcana” (1972)  porta a termine un “film  rituale sul disordine urbano e i suoi misteri,  difficile da decifrare e catalogare”, tra gli interpreti Lucia Bosè nei panni  di una fattucchiera lucana emigrata al nord”. Dopo “Arcana”  tutte le porte del cinema si chiuderanno per Questi, ma si apriranno quelle della televisione dove realizza tantissimi  spot  e delle  fiction (“Quando arriva il giudice”, “Non aprite all’uomo nero”, “Il segno del comando”).

Per quanto il suo cinema venga definito bizzarro, barocco, impudente, Giulio Questi  nella sua autobiografia confessa:  “Io non mi vergogno a dirlo, ho sempre cercato la poesia, cioè qualcosa di inafferrabile, talmente inafferrabile da lasciarmi a terra come poeta mancato. Ma non ci ho mai rinunciato e l’ho sempre inseguita, sì, la poesia, distruttrice della logica sintattica della normalità e del conformismo”.

Insomma, Giulio Questi un poeta delle immagini, il marchio per il  “Polanski italiano”  non sarebbe assolutamente disdicevole o fuori posto…E’ azzeccatissimo.

Giulio Questi. Se non ricordo male. Rubbettino. Euro 14,00. Pag. 192

29 maggio 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



di Virginio Giovanni Bertini

Ho finito appena adesso di leggere il libro di Gianni Quilici e sia pure a caldo vorrei esprimere qualche flash.


1. Un libro che corre anzi che vola, con un linguaggio fortemente cinematografico anche quando descrive sentimenti, sensualità, erotismo, rabbia , delusione...


2. Una prosa particolare molto materiale e al tempo stesso capace di farti immaginare, attenta ai corpi, ai dettagli tanto concreta da trasformarsi spesso nel suo opposto
e farsi poesia.


3. Le nudità: il testo mette a nudo l'io narrante, la sua forte e costante tensione erotica e le pulsazioni sessuali, le mediocritá umane quotidiane, le delusioni sentimentali e politiche, le illusioni culturali e gli angoli nascosti di una Lucca fortemente personalizzata


4. Molto riuscite le pagine sull'esperienza di supplenza scolastica e sul rapporto con il Pci di Lucca nel 1989, interessanti sul piano politico e culturale


5. Insomma un libro originale che puó essere letto come un messaggio forte contro l'ipocrisia, il perbenismo la mediocrità e una tensione forte
verso un mondo da inventare


6. Anche l'ossessione del sesso puó essere la spia della ricerca quasi disperata di un grande amore come la solitudine dell'io narrante o le sue delusioni politiche culturali disvelano forse l'altra faccia della medaglia: il desiderio di comunità, di appartenenza e di riconoscimento delle proprie qualità.


7. Infine il libro ci fa ondeggiare come se fossimo su una barca su e giù in una città quasi crepuscolare e ci sbatte in faccia le nostre nudità le nostre ossessioni le nostre mediocrità e il nostro intrinseco limite umano( molto bella la poesia finale) ma in fondo ci perdona e ci lascia una via di uscita: amare, sognare, inventare nuovi mondi e nuove relazioni sociali in città e luoghi incantevoli.

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. Pag 144. Euro 13.00

22 maggio 2015

"Con chi parli, Jonah?" di Mark Sullivan


di Luciano Luciani

Forse non abbastanza avvertito né apprezzato, continua l'impegno della casa editrice Quarup per avvicinare il pubblico dei Lettori italiani alla migliore narrativa straniera, la statunitense in particolare. Dopo il dolente Verso nord del cantante e scrittore Willy Vlautin, uscito un anno fa per la collana Badlands riservata a scritture non convenzionali e capaci di andare oltre le mode del momento, è ora la volta di Con chi parli, Jonah? di Mark Sullivan, giunto plurisemisecolare al suo romanzo d'esordio.

Ed è un felice debutto perché la pagina di Mark Sullivan, già figura di riferimento della scena punk rock nordamericana degli anni Ottanta,  si fa apprezzare per la delicatezza  con cui svolge una storia in cui la normalità quotidiana di un adolescente dei nostri giorni si intreccia con elementi horror/magici, un palese omaggio alla narrativa di Stephen King, lo scrittore dell'orrore più letto al mondo.

Il quindicenne Jonah, alle prese con tutti i problemi di tutte le adolescenze - tempeste ormonali, rapporti complicati col mondo degli adulti, il difficile posizionamento di sé in famiglia, a scuola, nel gruppo amicale e nel mondo – possiede, come nella migliore tradizione kinghiana, da Carrie a Shining, da La zona morta a Il miglio verde, un gift, un dono di cui, però, farebbe volentieri a meno: dal giorno dei funerali del padre, vede i morti... E si tratta di presenze tutt'altro che benevole. Perché lo irridono, lo minacciano, esasperano le insicurezze e la goffaggine di Jonah. Gli guastano la vita di relazione con la madre Susan, con gli amici, con le coetanee, con l'ambiente scolastico tutto. Le rare consolazioni a un'esistenza destinata all'incomunicabilità (a chi lo racconti che vedi i morti?) e alla solitudine, Jonah le trova in Ross, un grosso grasso amico sovrappeso, che sopporta e accetta le stranezza di Jonah, e nel fantasma del padre Dan che, morto dieci anni prima precipitando, gonfio di Martini, in un crepaccio alla guida della sua Porsche Convertibile, ora gli appare per provare a svolgere quel ruolo paterno che, da vivo, non gli era mai riuscito e proteggerlo dalle anime dei trapassati che non gli danno requie.

Riuscirà il nostro giovanissimo eroe a liberarsi di quegli invadenti, inquietanti fantasmi? Naturalmente sì: il brutto anatroccolo Jonah sarà, infatti, capace di trasformarsi se non in un bellissimo cigno almeno in un ragazzo come tutti gli altri. Ma sarà un cammino irto di ostacoli che non gli risparmierà dolori, sofferenze prove anche molto dure.

Con sensibile leggerezza Mark Sullivan ci racconta una storia “al limite” e insieme credibile, forte e al tempo stesso tenera, senza mai  eccedere in terrori e tremori, senza mai cadere nelle lusinghe di facili effettacci o in quelle di già usurati modelli letterari. Lo aiuta una prosa semplice e tersa in grado di scavare in profondità e di catturare il cuore e l'intelligenza del Lettore: perché come quella di pochi altri abile a  raffigurare gli occhi chiari sull'esistenza di cui solo i giovani sono capaci.

Mark Sullivan, Con chi parli, Jonah?, collana Badlands, quarup edizioni, pp. 180, Euro 14,90

15 maggio 2015

"San Vito, paese o periferia?" di Guglielmo Sonnenfeld e Cesare Marchetti

di Luciano Luciani

San Vito, paese o periferia?, Nodino 2015, di Cesare Marchetti e Guglielmo Sonnenfeld è un libro che, utilizzando materiali diversi (ricordi di anziani, testi poetici, documenti ufficiali, la rara letteratura preesistente e tante, tante fotografie!), ricostruisce la vicenda di San Vito, antica e popolosa borgata a ridosso di una città di provincia, Lucca, trasformatasi in periferia nei tumultuosi decenni che vanno dal dopoguerra a oggi. Una storia in cui l'antica unità paesana e la coscienza comunitaria di un secolare borgo toscano si trovano, in poco più di mezzo secolo, a essere investite da emergenze abitative di ogni tipo prima, fenomeni speculativi poi che ne hanno mutato radicalmente l'originaria propensione rurale e la tipologia degli abitanti: in una parola, ne hanno cambiato la stessa “anima”. 

Oggi, San Vito è un territorio anonimo, non più campagna e non ancora città. Stradine, stradone, quel che resta di campi destinate alle originali colture; agglomerati in cui attorno a vecchie residenze contadine spuntano disordinatamente negozi, garage, fabbrichette artigiane chiuse da tempo, centri commerciali, case popolari, villette a schiera, casermoni condominiali in pretto stile “palazzinaro”, capannoni industriali in disuso. Tutto questo alle porte di Lucca, a pochi passi da luoghi di bellezza come le Mura, San Frediano e San Martino, Ilaria e l'Anfiteatro... Mentre tutt'attorno si moltiplicano i raccordi, gli svincoli, gli scorrimenti veloci, le circonvallazioni, i caselli autostradali, “luoghi non luoghi” abitati da Tir, Suv, fuoristrada di città (?). Territori dell'erranza, tapis roulant di uomini e merci: il prodotto di un'urbanizzazione dissennata che non ha mai risposto non solo a una ragione estetica, ma a una ragione qualsiasi che non fosse quella della speculazione e del profitto veloce e rapace.

Ma, come diceva Sofocle, “la città è gente”: è persone e famiglie; è voci, rumori, suoni; è colori, odori di cibi e memoria di sapori indimenticabili. È afrore di umanità, è gomitolo di storie minori e minime che si avviluppano, si addensano, si sciolgono... È vita di individui e gruppi impegnati non solo a garantirsi una difficile sopravvivenza, ma anche a unirsi per contrastare, a volte con successo, la perdita di identità e di socialità e la disumanizzazione che sempre accompagnano il destino delle aree compromesse dagli stravolgimenti urbanistici e da uno sviluppo insensato. Per mantenere, comunque, direzione e significato, personali e collettivi. Sono queste le memorie privilegiate a cui si rifanno con larghezza gli Autori del libro per preservare un “patrimonio comune e riconoscibile, custodito ancora nel cuore degli abitanti di San Vito, a cui poter attingere per le trasformazioni future di questa comunità”.

Guglielmo Sonnenfeld – Cesare Marchetti, San Vito paese o periferia? Racconti e storie dal dopoguerra agli anni duemila, Edizioni La Grafica Pisana, Collana Scava dove sei. Percorsi di storia locale, Bientina (Pi), Aprile 2015, pp. 254, Euro 12,00

“Landscapes,4 Real & True 2” di Wim Wenders




di Mimmo Mastrangelo

Una ruota panoramica in un campo sgombro dell’Armenia…Una casa abbandonata nel vecchio quartiere ebraico di Berlino…Un cinema all’aperto abbandonato tra palmizi palermitani...Un cane ripreso non frontalmente su un’area sterrata mentre  sullo sfondo si intraveda un tipico rilievo australiano...Vecchi pullman abbandonati in uno slargo desertico sovrastato nel cielo azzurro da una fila di  piccole nuvole…

Brevi  soste del  viaggio dentro quei paesaggi urbani  che Wim Wenders  va catturando da decenni con la sua (inseparabile) macchina analogica. Dopo la pittura e alla stregua del cinema, la fotografia  per il regista tedesco  è  come una seconda musa. Ma ci tiene a marcare: “Nei miei film racconto delle storie invece con la fotografia  sono i luoghi a raccontarmi delle loro storie”.


Con la mostra “Landscapes,4 Real & True 2” -  che la città dove è nato, Dusseldorf, gli ha voluto dedicare al Museo Kunstpalast (apertura  fino al 16 agosto) per i suoi  settant’anni - Wim Wenders  dona un piano narrativo  di “urban-solitude”, ottanta scatti  di grande dimensione che  documentano luoghi separati dalle caduche atmosfere, irraggiati spesso da  una luce accecante  e  mai solcati dalla presenza umana. Nelle foto  l’uomo è solo  ricordo, memoria di un suo passaggio, di una sua opera realizzata, vissuta e poi abbandonata al decorso  del tempo. Istantanee scattate per fermare un attimo del tutto causale, ma in realtà  velano un pensiero elaborato, una volontà di scrivere con il fermo-immagine un testo su un pezzo del mondo.

Ogni scatto di Wenders emana, come nei suoi film,  una sensazione di malinconia  e nostalgia, di desolazione e ineffabilità, ma anche una naturale seduzione e una irreale calma, bellezza. E proprio su questo doppio scoglio (naturalezza e irrealtà) che il regista-fotografo stabilisce coi suoi “landscapes” un’affinità che ha i risvolti tanto di una scoperta  che di un atto di amore.

WIM WENDERS.LANDSCAPES, 4 REAL & TRUE 2. DUSSELDORF.  MUSEO KUNSTPALAST. FINO AL 16 AGOSTO 

11 maggio 2015

"Sul camminare" di Luciano Luciani

                                                                                           foto Gianni Quilici
                                                  Io sì che cammino davvero!

Come dicono da queste parti tra il Serchio, le Apuane e il mare, “mi fanno voglia di ride’ “ i camminatori per hobby. Quelli, per intenderci, che fasciati da elegantissime tute Patagonia o Champion, calde d’inverno, fresche d’estate, un tessuto che assorbe il sudore, annulla i cattivi odori e protegge dai raggi ultravioletti, tre o quattrocento euro a botta, ai piedi scarpe da ginnastica Nike (Nike non Naik, ignoranti!, perché è parola greca, non inglese), 150/200 euro al paio, le orecchie ‘incuffiettate’ e traboccanti musica, si affannano con aria da sportivi consumati per parchi, aiuole, ville comunali, MuradiLucca, lungofiumi, lungolaghi, periferie non più città ma non ancora campagna, inanellando, a ogni stagione che il Signore ci manda, chilometri su chilometri: corricchiando, trotterellando, camminando di buon passo, galoppando per brevi tratti, sudati, sbuffanti, ansimanti, scaracchianti… Significando, così, in tutti i modi possibili ai normali mortali, col linguaggio del corpo sofferente, il senso di una fatica tanto ciclopica quanto inutile.
È il running, bellezza!

“Si pe’ rubba’ quarc' ora alla banca de la vita bisogna fa’ tutto ‘sto mazzo, preferisco de mori’ prematuro!”, disse una volta un saggio vegliardo della mia terra natia alla vista di un genero tutto addobbato da sportivo salutista e in grave deficit d’ossigeno dopo una mezz’oretta di giri del palazzo.

Sì, da un po’ di tempo in qua, correre, e la sua variante più modesta, camminare, è diventato la panacea a ogni male, l’elisir di tutti gli acciacchi, fisici e morali, il sicuro contravveleno al sempre più agro mestiere di vivere.
Rischi il diabete? Cammina! Colesterolo e trigliceridi alti? Cammina, cammina… Depressione? Cammina, cammina, cammina… Come nell’incipit delle favole.

Se davvero le cose stessero così, allora dovrei morire a duecento anni e oltre. Perché è tutta la vita che cammino. Non per hobby, ma per necessità. Già, perché per spostarmi da un luogo all'altro e garantirmi la cosiddetta mobilità sul territorio, io, come unico mezzo di locomozione, conosco quasi esclusivamente il cavallo di san Francesco. Quello a due zampe, le mie: gambe, cosce, ginocchia, polpacci, caviglie, piedi... Sì, perché la patente di guida non ho mai voluto prenderla e con fierezza mi dichiaro appartenente alla specie in via d'estinzione, alla minoranza oppressa e perseguitata, alla setta ereticale degli spatentati senza auto. Io sì, sportivastri, che cammino davvero!

Camminare. Della sua importanza divenni consapevole in tempi ormai remoti e certo non sospetti di compiacenza verso le mode: allora eravamo appena agli inizi dell'era dell'automobile di massa e la mobilità sul territorio pedibus calcantibus non era ancora vissuta come una maledizione da cui emanciparsi il più presto possibile. Per me, figlio dell'immediato dopoguerra “povero ma bello”, (per chi c'era, però, soprattutto povero), muovere le gambe, alzare i tacchi, andare dove portano i piedi rappresentò la modalità di una tripla emancipazione. Familiare, perché passero non più implume, ormai fiducioso nella forza delle piccole ali, irrobustito il becco, cominciavo svolazzare tutt'intorno, in autonomia; territoriale, in quanto mi allontanavo dalla dimensione protetta in cui avevo vissuto l' infanzia:  il grande cortile che faceva da cornice ai giochi, non sempre del tutto innocenti, miei e dei miei coetanei e l'ormai monotono percorso casa/scuola incapace di rinnovare le emozioni, sempre identiche, che era in grado di fornire: un muretto da s/cavalcare; un cane particolarmente versato nell'abbaiare quando meno te lo aspettavi e anche mordace; l'immota e cupa immagine della romana ultima dimora di Costanza, forse santa e forse no, forse figlia o forse nipote dell'ambiguo Costantino, quello di In hoc signo vinces ; estetica perché in conseguenza di tali spostamenti scoprivo, a poco a poco, le bellezze della mia città che mi avevano sempre circondato senza che ne avessi particolare coscienza: la via Nomentana e  Sant'Agnese fuori le Mura, il quartiere Coppedè e villa Ada, Porta Pia, le Mura Aureliane, villa Borghese... E la sorpresa, insieme alla percezione di quell'armonia intrisa di umanissima storia, mi aiutarono a crescere, forse, meno risentito, più indulgente e amabile. Più civile.

04 maggio 2015

“Pasolini e la madre” foto di Mario Dondero




di Gianni Quilici

Immagino che Mario Dondero non ci abbia pensato molto a scattare quella che diventerà questa foto; non abbia, cioè, chiesto, suggerito, aspettato come, di solito, un fotografo fa con i ritratti. Come si può evincere dall’intervista di Massimo Raffaelli presente nel libro “Scatti per Pasolini” (1) dice infatti: “Andavo a casa di Pasolini come potevo andare a casa tua… Per esempio ti faccio una foto con tua madre, la faccio per simpatia, siamo insieme e te la faccio .. . “.


Credo, invece, che abbia visto la felicità dello scatto, nei movimenti che si creano spontanei. Felicità che va oltre il realismo; coglie, invece, qualcosa di intimo e di complesso,  già allora, siamo nel 1962, ma molto di più oggi. Aggiunge ancora Dondero: “Io non avevo pensato assolutamente di aver fatto una foto straordinaria, è Pasolini che è diventato straordinario”   


Osserviamo la foto.   Lo sguardo di Pasolini potrebbe sembrare, e forse lo è, sereno e dolce e sembra apparentemente affidarsi al fotografo amico; e con la camicia bianca con giacca e cravatta potrebbe apparire, ad un occhio superficiale, come uno dei tanti piccolo borghesi primi anni ’60. In realtà, guardando con attenzione, il suo è  uno sguardo fermo, di chi è padrone di se stesso,  quindi anche misterioso. Certo è diverso dai quei primi e primissimi piani dell’ultimo Pasolini fotografato da Dino Pedriali e da Giovanni Giovannetti, che esprimono l’energia e la forza e, in certi scatti, la  drammaticità del pensiero dell’artista e, in un certo senso, dell’attore, che si fa soggetto della fotografia stessa.


                                                                          Mario Dondero
Lo scatto di Mario Dondero diventa, tuttavia, rilevante per la presenza, alle spalle, un poco sfocata, della sua amatissima madre. Ecco che l’immagine, per questa presenza, va oltre il realismo diventa simbolica. Non banalmente perché sono insieme, ma per la qualità della foto stessa.   


Per la grande somiglianza fisica e psichica tra madre e figlio, che richiama quel sentimento viscerale, quell’amore simbiotico, che Moravia  ha definito in un’intervista “impressionante, un rapporto che tipifica in pieno la teoria di Freud” (2) e  di cui Pasolini stesso ha scritto più volte.


Per il tipo di inquadratura: Pasolini in primo piano, l’uomo pubblico, l’artista famoso, ma dietro le sue spalle, lei, Susanna, la madre, come presenza non solo vicina, non solo protettiva, ma, come scriverà il poeta in una famosa poesia, “insostituibile”, che l’immagine riesce, in qualche misura, a evocare.



1. Mario Dondero. Scatti per Pasolini. A cura di Elisa Dondero e Massimo Raffaelli. 5 Continents Editions.        2. Pasolini raccontato da Moravia. Gli speciali di Epoca.



Mario Dondero. Pasolini e la madre. 1962.