20 aprile 2010

"Isabelle Huppert. La donna dei ritratti" di Autori Vari

di Gianni Quilici
E' uno di quei libri che molti che amano cinema e/o la fotografia vorrebbero probabilmente avere. Come oggetto di libreria, per sfogliarlo semplicemente o per leggerlo e forse anche studiarlo. Non a caso è edito da Contrasto, la casa editrice rivelatasi in questi anni come la più prolifica e significativa nel realizzare libri e mostre fotografiche di gran livello.
La prima banale impressione sorge proprio dalla bellezza dell'oggetto libro: carta, caratteri, resa delle foto, varietà e armonia della impaginazione, anche se tutto ciò non è difficile da ottenere oggi nella società dell'apparenza.
La seconda impressione può essere data dalla sottigliezza degli interventi: da Serge Toubiana (prefatore) a Elfriede Jelenek, Patrice Chéreau, Susan Sontag. Sottigliezza che rischia forse, almeno nell'intervento della scrittrice, premio Nobel, Elfriede Jelenek, di girare intorno a se stessa, rischiando di perdersi.
Ma sopratutto questo è un libro desiderabile per i ritratti su Isabelle Huppert, una delle più grandi attrici oggi sulla scena, quasi mitica nella sua lontananza rispetto a qualsiasi tipo di divismo; e perchè gli autori degli scatti sono alcuni dei più grandi fotografi di ieri e di oggi.
Scatti tutti significativi, ma alcuni di primissimo livello. Curiosamente il più intenso e misterioso per la sua oniricità è stato realizzato da un fotografo anonimo nel 1968. Altri notevoli ritratti portano la firma di Boubat, Ronis, Anne-Marie Mièville, Cartier-Bresson, Doisneau, Scianna, Avedon, Lindberg, Le Querrec, Corbeau, Faigenbaum... e su ognuno di questi molto ci sarebbe da scrivere.
C'è forse un limite: quello dell'assemblaggio. Le fotografie, per lo più scattate in studio e nel corso del tempo, vivono più in se stesse che nel raccontare un percorso, una storia, un'articolazione.
Le uniche foto che lasciano presagire un progetto di questo genere non a caso sono quelle di un fotografo, per così dire, di strada: Robert Doisneau. D'altra parte una storia fotografica avrebbe richiesto un proposito deliberato, una complicità, del tempo.

AAVV. Isabelle Huppert. La donna dei ritratti. Contrasto. Pag 167. Euro 35.

"Con il cuore e con la mente Vite femminili in Lucchesia tra fascismo e ricostruzione 1920 - 1947" di Alessandra Fulvia Celi e Simonetta Simonetti

di Luciano Luciani


Lavoro importante e impegnativo questa di Alessandra Celi e Simonetta Simonetti, Con il cuore e con la mente Vite femminili in Lucchesia tra fascismo e ricostruzione. Libro che rientra negli studi di ‘genere’, di genere femminile, sempre meno rari, ma, comunque, non frequentissimi e già solo per questo meritevole di attenzione e rispetto. Altro motivo di apprezzamento del libro il fatto di superare lo spartiacque del ’45, della Liberazione, avventurandosi negli anni immediatamente successivi, quelli cosiddetti della Ricostruzione, individuando continuità e discontinuità coll’immediato passato. Anche questo negli studi storiografici recenti appare sempre meno raro, ma comunque da sottolineare per il fatto di essere coniugato, declinato, modulato nella corposità, nella palpabilità della vita provinciale, della nostra provincia.

Poi, tra le qualità del lavoro, mi sentirei di indicare l’utilizzo intrecciato, direi sapientemente intrecciato, di documenti scritti e fonti orali. Anche questa non è una novità assoluta, ma si tratta di un metodo di lavoro ancora non del tutto accettato e diffuso, nei confronti del quale, poi, tanta Accademia storica storce ancora la bocca e guarda con sufficienza.

Anche il periodo preso in esame merita qualche considerazione, perché ricostruirlo storicamente, se pure nella dimensione provinciale, è un compito da far tremare le vene dei polsi: procede, infatti, dagli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, - che, paradossalmente, per l’emancipazione delle donne fece più di decine e decine d’anni di lotte sociali e dei primi, timidi, provvedimenti legislativi dell’età giolittiana - fino alle prime elezioni a suffragio universale, quelle in cui per la prima volta nella nostra storia nazionale le donne furono ammesse al voto, le elezioni amministrative della primavera del ’46. In mezzo, c’è poco più di un quarto di secolo in cui in Europa e in Italia accade tutto e il contrario di tutto: la nascita del fascismo; l’affermazione di un regime autoritario di massa; l’impero; le due guerre mondiali; la “morte della patria”; l’8 settembre; la resurrezione dell’Italia nella lotta contro i tedeschi e i fascisti; la Liberazione; la faticosissime ricostruzione… Come vissero le donne tutto questo? Come lo vissero le donne in carne e ossa di Lucca, delle campagne lucchesi, della Versilia e della Garfagnana?

Alessandra e Simonetta con un paziente, sensibile lavoro che si muove tra la stampa nazionale e quella provinciale (soprattutto “L’Intrepido” e “L’Artiglio”), con l’utilizzo di fondi archivistici locali probabilmente ancora inesplorati, con la ricerca e la lettura intelligente di fonti documentarie poco considerate (le relazioni delle responsabili femminili di fasci locali o addirittura paesani; delle visitatrici, delle responsabili a tutti i livelli dell’Onmi, delle Colonie estive…penetrano in profondità nell’universo femminile fascista, contiguo al fascismo, o dal fascismo organizzato e, con grande professionalità, ci offrono risposte, che, con alcune specificità lucchesi, non si discostano dal quadro nazionale.

Il fascismo, anche quello lucchese, ridusse le donne, alla fine del primo conflitto mondiale già in cammino per il riconoscimento dei loro diritti, a sole Mogli e Madri per la Patria, alla sublimazione di una inferiorità che veniva dalla storia, alla dedizione totale ai Doveri.

Solo le attività assistenziali offrirono ad alcune di loro uno spazio minimo, seppur controllato, di socialità, pagando però il prezzo di atteggiamenti autoritari o paternalistici verso le altre donne.

Una scelta politica di opposizione era difficilissima e fu di poche, pochissime in tutta Italia (qui non ho trovato casi del genere, ma può darsi che sia stato lettore disattento).

La maggior parte delle donne riuscì a crearsi qualche spazio di libertà esclusivamente nel chiuso della casa, nei luoghi di lavoro, sempre, comunque, all’interno di un costume di vita rigidamente fissato nelle sue norme esteriori.

La specificità lucchese è rappresentata dalle organizzazioni cattoliche, la cui trama organizzativa sociale, ricreativa, assistenziale, culturale, particolarmente fitta in Lucchesia suscitò ben presto la gelosia del regime che arrivò nei primi anni ’30 a vere e proprie forme di persecuzione e repressione.

La condizione delle donne negli anni del regime è bene espressa da Gadda in Eros e Priàpo: “ Lui le voleva macchine enfiate per ogni nove mesi, per ogni tre, se natura per dannata ipotesi lo avesse concesso.”

“La donna per il regime è una macchina che produce figli per lo sfruttamento e la guerra; la donna è ridotta a una mammella rigonfia che allatta, le donne sono “funzionarie” dei servizi domestici (Laura Mancini).

Con un formidabile ossimoro, Gadda parla della “virile vulva della donna italiana”.

Le donne sono costrette a tornare a casa e a rimanerci: lo testimoniano la riduzione dei salari femminili, l’esclusione dall’insegnamento delle lettere e della filosofia nei licei, il raddoppio delle tasse scolastiche per le studentesse… Tutto questo, però, senza nasconderci quelli che furono i punti di forza del fascismo: le misure rivolte alla tutela della maternità (Onmi) e l’intervento sui problemi concreti delle donne, una pratica del tutto estranea al vecchio stato liberale che favorì un consenso delle masse femminili al fascismo: per loro, per le donne erano previste, poi, premiazioni, esibizioni ginniche, manifestazioni di vedove, fanciulle, madri prolifiche… E distintivi, tessere, medaglie: una strategia complessiva, a 360° tutta tesa a favorire una sorta di “ipnosi” (Virginia Woolf) con cui rafforzare il mito dell’ordine: il disordine delle persone era un segno di debolezza dello Stato, quindi gli individui andavano rassicurati con lo spettacolo dell’ordine. (Ricordate Una giornata particolare di Ettore Scola con Mastroianni e Loren?)

Dalla scuola alla fabbrica, ordinatamente, le donne dovevano praticare i lavori donneschi, allattare, produrre… e stare zitte!

Nei lavatoi pubblici compariva spesso una scritta: ”Lava bene e parla poco”.

Per recuperare la concretezza della condizione femminile nella nostra provincia, la materialità delle vite quotidiane, , rimando ai capitoli centrali del libro Le scene di vita femminile, squarci davvero di grande interesse di storia della mentalità: 1 L’Opera Nazionale per la maternità e l’infanzia, L’attività delle donne lucchesi; 2 Vita di fabbrica; 3 Donne cattoliche; 4 In colonia.

Pagine utilissime per comprendere la sostanza reale della condizione femminile nel fascismo, e anche lo scarto tra misure politiche e la loro realizzazione; tra intenzioni ed esistenze concrete; tra consenso e dissenso prima blando, latente, poi, negli anni della guerra, sempre più marcato, convinto, mai ideologico, però, e sempre legato alle concretissime questioni della qualità della vita.


E arriviamo alla sezione del libro che mi ha interessato di più, l’ultima parte, circa 1/3 del lavoro, La guerra e il dopoguerra delle donne, che presenta una scelta coraggiosa, controcorrente: cioè avere compreso nella ricerca, accanto alle donne e alle ragazze che scelsero il volontariato partigiano (attorno alle quali esiste un’ampia bibliografia scritta, però, in gran parte da uomini, con tutte le incomprensioni che da un fatto del genere possono derivare) anche le donne, le ragazze della Rsi: un filone di ricerca nuovo, inesplorato, affrontato finora solo in studi recenti e ancora parziali per esempio, La scelta di Marina Addis Saba.

Sì, non furono poche, anche nella nostra provincia, le ragazze che scelsero Salò: e mentre per molti dei loro coetanei maschi che aderirono alla Repubblica Sociale si trattò di presentarsi al bando di leva, obbligati dalle minacce di rappresaglia sui parenti, la scelta di queste ragazze non fu imposta, ma volontaria. Come si spiega? Forse le radici di questa adesione stanno nel consenso di massa tra le donne, che pure il fascismo aveva ottenuto, che era stato largo e che ancora durava; forse in un desiderio di protagonismo, di libertà e modernità che poteva finalmente realizzarsi; forse in una volontà di affermazione individuale, una voglia che trapela anche da certe interviste riportate nel libro, di essere padrone di se stesse, di contare nella vita sociale di quel momento storico: si poteva fare col fascismo, e arruolandosi nelle Ausiliarie, la prima formazione militare femminile nella storia dell’esercito italiano, se si escludono le portatrici carniche della prima guerra mondiale.

Fu una risposta, sbagliata, a quella “morte della patria” intravista l’8 settembre ’43; l’indignazione per la fuga del re, lo spettacolo miserevole della monarchia e dei comandi, per il tradimento operato nei confronti dell’alleato tedesco.

Certo è che le ragazze che scelsero Salò seguirono il senso dell’onore, delle gerarchie, dell’obbedienza, che sono i valori tipici del genere maschile, che erano stati loro inculcati con l’educazione del regime, in cui avevano creduto: la patria era stata tradita; gli uomini non la difendevano, avevano perduto l’onore e toccava alle donne rimediare all’oltraggio, difendere la patria venduta agli stranieri. Per questo si arruolarono sottoponendosi alla gerarchia militare, alla disciplina propria di un esercito, entrarono a far parte di un’organizzazione militare.

Diversa l’essenza della moralità delle ragazze e delle donne che parteciparono al volontariato partigiano: una novità assoluta, perché anche questo del volontariato politico-militare era un territorio esclusivamente maschile dal garibaldinismo dei Mille fino alla guerra di Spagna.

Anche in questo caso lo spartiacque è l’8 settembre.

Ecco, la vera novità storica, che emerge bene anche dalle pagine e dalle numerose testimonianze orali, riportate da Alessandra e Simonetta: in questo caso le donne fanno il loro ingresso nella storia seguendo valori tipici del genere femminile: la pietà, l’abitudine all’aiuto, alla cura, all’assistenza ai deboli, la condivisione… Un altruismo proprio della tradizione del genere femminile che viene velocemente rielaborato e si trasforma in altruismo civile, carico di una fortissima autonomia. Le ragazze partigiane non furono trattenute né disorientate da un malinteso senso dell’onore, della fedeltà al giuramento prestato, questioni esclusivamente maschili: un’invenzione di regole, un’imposizione di miti violenti, strettamente legata ai codici propri del mondo maschile e lontana dalle ragioni profonde della vita.

Forse è qui la differenza tra le due scelte e non è differenza da poco.



Alessandra Fulvia Celi – Simonetta Simonetti, Con il cuore e con la mente Vite femminili in Lucchesia tra fascismo e ricostruzione 1920 – 1947, Maria Pacini Fazzi editore, pp. 424, Euro 25,00


11 aprile 2010

"La tisi, una malattia ‘letteraria’" di Luciano Luciani

Nell’Ottocento, sotto il nome ‘mal sottile’ o ‘mal di petto’, la tubercolosi costituì il morbo del secolo, portando a morte, oltre a milioni di persone, musicisti come Chopin, poeti come Alfred de Musset, forse Giacomo Leopardi, di sicuro il toscano Giuseppe Giusti… Il poeta e letterato tedesco Wolfgang Goethe, dato per spacciato a causa della Tbc appena uscito dall’adolescenza, visse invece fino a 83 anni! Malattia sociale per eccellenza si alimentava oltre che delle vecchie ingiustizie tra le classi anche di quelle acquisite dalla recente rivoluzione industriale: l’urbanesimo e i suoi guasti; uno sfruttamento forsennato della classe operaia in fabbrica; gli orari di lavoro interminabili; le donne e fanciulli schiavizzati giorno e notte alla macchina in ambienti insalubri… La natura esatta della Tbc rimase sconosciuta fino a quando Robert Koch, un medico tedesco, attraverso un percorso di ricerca durato qualche anno, riuscì ad isolarne il bacillo (Mycobacterium tubercolosis) detto, appunto, bacillo di Koch. Vera e propria pandemia, la tubercolosi non poteva che rendersi largamente visibile nella letteratura dell’Ottocento, un secolo che dalla vita e dalla realtà del suo tempo trasse più di un robusto motivo di ispirazione. Inoltre, per il perenne stato febbrile che la malattia determina, per l’apparizione del sangue, per l’esito spesso letale, tale morbo sembrava stabilire intense consonanze con il sentire romantico proprio del secolo. Questi i principali motivi che possono spiegare la sua marcata letterarietà lungo tutto il secolo XIX ed oltre.

LEOPARDI E SILVIA

È Giacomo Leopardi (1798-1837) ad offrirci in uno dei suoi testi più famosi, A Silvia, una prima, indimenticabile immagine poetica indissolubilmente legata alla tubercolosi:
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi…
La ‘tenerella’, come è noto, è Silvia, nome letterario di derivazione tassiana di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, uccisa in giovanissima età da quel ‘chiuso morbo’ che possiamo senz’altro identificare con la tubercolosi. E come morì Silvia, così perirono le illusioni e le speranze giovanili del Poeta.

MARIA DI FEDE E BELLEZZA

I versi leopardiani sono del 1828. Pochi anni più tardi, nel 1840, viene pubblicato Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo (1802-1874), letterato, scrittore e poeta coerentemente romantico. Il romanzo narra la storia di Giovanni e Maria, due personaggi incerti, contraddittori, tormentati. Unitisi in matrimonio dopo esistenze fitte di delusioni, i due sembrano trovare finalmente una qualche serenità. Fino a quando “Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando gliela prende, la trova intrisa di sangue e mette un grido.” La tubercolosi non perdona e Maria morirà dopo sofferenze che, secondo l’ideologia romantica ben espressa da Tommaseo, purificheranno sia lei, dopo una vita che non ha escluso il peccato, sia Giovanni che ne condivide il calvario: “Il male ripigliava con furia: le febbri talvolta la levavan di sé; e nel delirio vedeva cosa pietose, e quando liete, ch’erano più di tutte pietose a sentire. La notte del dì ventun dicembre vaneggiò lungamente. Il dì ventidue peggiorò.”

LA SIGNORA DELLE CAMELIE

Ma è un romanzo francese, La signora delle camelie pubblicato nel 1848, a sancire il definitivo successo letterario. a dimensione europea del ‘mal sottile’. Ne è autore Alessandro Dumas figlio (1824-1895) che nel contesto della vita mondana parigina d’alto bordo, propria degli anni che precedono il ‘48 rivoluzionario, colloca la vita, gli amori e la morte per tisi di Maria Duplessis, tormentosamente amata dallo stesso Autore. Lo straordinario successo di pubblico di questo libro in Francia e fuori dalla Francia doveva ripetersi tre/quattro anni più tardi, quando la censura governativa concesse che quelle vicende venissero rappresentate anche a teatro.

LA TRAVIATA

Al di là dei meriti letterari la fama di quelle pagine dura ancora, grazie soprattutto alla trasposizione melodrammatica che ne fece Giuseppe Verdi con La traviata, rappresentata per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia nel marzo del 1853. La musica verdiana accompagna il libretto di Francesco Maria Piave che si ispira con qualche libertà proprio al già famosissimo testo di Alessandro Dumas figlio: Margherita diviene Violetta, Armand Duval diviene Alfredo Germont. Il tema della tisi, malattia romantica di moda, dalla quale è affetta Violetta, che ne morirà tra le braccia dell’amante, ispira a Verdi le più alte e patetiche pagine musicali della sua straordinaria carriera.

UNO SCAPIGLIATO ‘MAL DI PETTO’.

Anche gli Scapigliati, che spesso e volentieri a partire dalla metà dell’Ottocento si compiacquero di un’estetica del brutto e del macabro, usarono spesso la tisi come motivo ricorrente della loro ispirazione. Valga per tutti questi letterati ‘ribelli’ la Lezione d’anatomia di Arrigo Boito (1842-1918):
La sala è lugubre
Dal negro tetto
Discende l’alba,
Che si riverbera
Sul freddo letto
Con luce scialba.
Chi dorme? Un’etica
Defunta ieri
All’ospedale;
Tolta alle requie
Dei cimiteri,
E al funerale:
Delitto! e sanguina
Per piaga immonda
Il petto a quella!
Ed era giovane!
Ed era bionda!
Ed era bella!

LA TOSSE DI MIMÌ

La consacrazione artistica della tubercolosi doveva, però, realizzarsi definitivamente negli ultimi anni del secolo con la rappresentazione dell’indiscusso capolavoro pucciniano, La bohème (1896). La gelida manina del primo atto e i colpi di tosse che squassano Mimì nel secondo preparano il patetico finale della morte per consunzione da ‘mal sottile’: tutta l’opera ruota attorno al tema della malattia incurabile e allo straziante crescendo degli accenni, dei segni, dei sintomi che la evocano continuamente in tutta la sua fatalità. Come sempre, amore e morte funzionano. Aggiungeteci una Parigi come la immaginavano e vagheggiavano i piccoli borghesi di tutt’Italia, la grande musica del compositore lucchese e il gioco è fatto. Ma la protagonista vera della Bohème non è Mimì: è la tisi.

LA TUBERCOLOSI AUTOBIOGRAFICA DEI POETI CREPUSCOLARI

I poeti crepuscolari, proprio per la loro particolarissima sensibilità poetica (percezione dello svanire delle cose, sentimento malinconico dell’amore, il pensiero e il desiderio della morte non intesa eroicamente ma ironicamente) si ispirarono spesso al ‘mal sottile’ anche per motivi autobiografici: di tubercolosi muore nel 1907, a neppure ventun’anni, Sergio Corazzini (1886-1907), romano, una delle voci più capaci di esprimere la ‘pena di vivere’ propria di questa generazione di letterati. Corazzini nei suoi versi racconta la vita in un sanatorio dell’Alto Adige, in una località chiamata Toblack. Qui i malati attendono la morte, tema ossessivo e incombente delle loro giornate e dell’ispirazione del poeta:
… E giovinezze erranti per le vie
piene di un grande sole malinconico
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.
(Toblak)

Malato di tubercolosi polmonare è il caposcuola dei Crepuscolari, Guido Gozzano (Torino, 1883-1916). La malattia gli viene diagnosticata nell’aprile del 1907, quando il poeta ha solo ventiquattro anni ed ha appena pubblicato la sua prima raccolta di versi, La via del rifugio. Da allora quel male e la morte prossima ventura diventeranno temi ricorrenti dell’ispirazione di Gozzano che non rinuncerà a coniugare ironicamente il tema della sua infermità, prendendo garbatamente in giro – com’è nelle corde della sua poesia- i medici che pretendono di curarla:
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.
E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.
(Alle soglie)
Anche il motivo del viaggio, caro ai poeti del Decadentismo, viene riproposto in chiave crepuscolare e legato alla malattia:
...Dove andrò? Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio.
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio.
(La signorina Felicita ovvero la Felicità)

Tutta l’esistenza di Gozzano e tutta la sua poesia sono profondamente segnate dall.esperienza del ‘mal di petto’, che diventa la ’cifra’ stessa della vita del poeta:
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
(L’ipotesi)
Guido Gozzano, “ricusando sempre il clamore della disperazione, il dramma luttuoso dello sconforto, s’incamminò invece verso la morte con le mani in tasca, sorridendo di quel vago sorriso leggero, con la stessa naturalezza con cui andò incontro al suo successo eccezionale” (Comolli ), morì il 9 agosto 1916. Dopo quasi dieci anni d’attesa e di rimandi era arrivata “la cosa/vera chiamata Morte.”




09 aprile 2010

"Il libro dell'inquietudine" di Fernando Pessoa

di Gianni Quilici

Ho iniziato a leggere Pessoa qualche mese fa. A piccole dosi. Mi sono accorto che era quasi impossibile leggerlo rapidamente. Troppo complesso ed anche monocorde. Anzi, neppure a piccole dosi potevo comprenderlo davvero. Perché, a leggerlo con troppe pause, si poteva facilmente perdere il disegno complessivo. Anche perché, pur essendo Pessoa un pensatore, la sua filosofia esistenziale era così articolata da risultare di difficile sistemazione.

Cosa ho fatto allora? Ho sottolineato i passi che mi colpivano di più (scrivendo talvolta qualche nota a margine), come forse aveva fatto Antonio Tabucchi, che da questo libro ha scelto arbitrariamente pensieri o aforismi, che sono diventati un libro: “Il poeta è un fingitore”.

Il risultato finale è stato soprattutto “perdersi in Pessoa” e perdersi ha voluto dire comunque “guadagnare”. Perché Pessoa è, almeno, due cose, più o meno, insieme: poeta e filosofo, come pochi altri, credo, nella storia della letteratura e non solo del Novecento.

Prendo uno fra i tanti pensieri-aforismi che costellano questo “libro dell'inquietudine” e lo rendo arbitrariamente in versi, come se fosse (ma lo è) una poesia.

Litania

Noi

non ci realizziamo mai.

Siamo due abissi:

un pozzo

che fissa

il Cielo.


C'è in questa immagine una profondità lapidaria e vertiginosa di un pensiero visionario ed insieme una scansione, un ritmo.

Questa è una caratteristica profonda del suo pensiero: veicolarlo attraverso immagini lampeggianti, inebrianti, anche quando inesorabili, “nude”. Si legga questa riflessione.

Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita. Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle. Alla fine di questa giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l’ansia insaziabile e molteplice dell’essere sempre la stessa persona e un’altra.

Ci sono almeno tre aspetti:

il rapporto strettissimo tra l'io e il mondo; il susseguirsi di immagini consuete fino alle più desuete e imprevedibilmente poetiche (“i geroglifici infranti delle stelle”); la staticità assoluta dell'io e insieme la sua mobilità.

E si veda in questo pensiero la spietatezza con cui definisce l'amore.

Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. Questo discorso vale per tutta la gamma dell'amore. Nell'amore sessuale cerchiamo il nostro piacere ottenuto attraverso un corpo estraneo. Nell'amore che non è quello sessuale cerchiamo un nostro piacere ottenuto attraverso un'idea nostra. [...] Due persone dicono reciprocamente "ti amo", o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l'attività dell'anima.

Ciò che colpisce è l'estrema disperazione ed insieme l'estrema lucidità. C'è, infatti, in Pessoa, un'estrema sorveglianza dell'io sull'io, a volte impossibilità di vivere, di lasciarsi andare, di dimenticarsi.

All'improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno”Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso.

Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; per altri ancora, essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.

Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?

Oppure...

Sono in grande parte, la prosa stessa che scrivo. Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e nella sfrenata disposizioni delle immagini Sono, in gran parte, la prosa stessa che scrivo.

Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. ....

I sentimenti più dolorosi e le emozioni più pungenti, sono quelli assurdi: l'ansia di cose impossibili, proprio perché sono impossibili, la nostalgia di ciò che non c'è mai stato, il desiderio di ciò che potrebbe essere stato, la pena di non essere un altro, l'insoddisfazione per l'esistenza del mondo.

Questa sorta di rappresentazione e auto-rappresentazione è tuttavia piena di articolazioni dialettiche. Pessoa conosce il divenire, la molteplicità dell'essere che noi siamo, la bellezza anche.

La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timpani e tamburi. Mi conosco come una sinfonia.

E la possibilità di risorgere sempre.

Cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all'altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell'emozione...

Fernando Pessoa. Il libro dell'inquietudine. Prefazione di Antonio Tabucchi. A cura di Maria José de Lancastre. Feltrinelli.

"Bella ciao Canto e politica nella storia d'Italia" di Stefano Pivato

di Luciano Luciani

In ogni tempo i canti popolari hanno espresso le aspirazioni più profonde delle classi subalterne, testimoniando sia l’adesione degli sfruttati a un ideale alto di emancipazione, sia un forte e radicato senso di identità e appartenenza. Il canto sociale e quello politico non solo hanno espresso in maniera immediata la durezza della fatica e i patimenti della miseria, costituendo non di rado lo strumento più efficace per scagliare violente invettive contro gli sfruttatori, ma hanno scandito le vicende della politica e ne hanno rimarcato i fatti più significativi, accompagnando gli operai e contadini nelle loro lotte e manifestazioni di massa. Rappresentano, insomma, l’espressione più diretta della partecipazione delle masse alla storia con il loro carico di passioni, emozioni, sentimenti: dati pure questi importanti e, perfino per gli storici accademici, atti a comprendere il senso e la “temperie” reale degli avvenimenti, almeno dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, da quando la politica come pratica riservata solo agli aristocratici o ai ceti alto borghesi è diventata strumento di socializzazione anche per il popolo.

E’ questo il motivo conduttore di Bella ciao Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, di Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino: un filo che si dipana dalle origini del nostro Risorgimento fino ai più recenti rapper come i 99 Posse, Jovanotti, Manu Chao, cantori delle nuove e inedite povertà del millennio appena iniziato e dei sogni degli emarginati della società globale. E in mezzo i variegati orientamenti politici e ideali del nostro faticoso processo di unità nazionale e i canti che li esprimevano: inizialmente caratterizzati solo da un generico patriottismo si andarono progressivamente definendo in senso anticlericale, repubblicano, tingendosi via via di anarchia, di socialismo, dell’utopia comunista… E l’autore non trascura, poi, i versi ingenui degli emigranti; i testi che offrirono consolazione agli antifascisti irriducibili; le rime, dense, pregnanti della lotta partigiana in montagna e quelle polemiche e irridenti degli anni difficili dell’immediato dopoguerra.

Un merito grande del libro di Pivato? L’avere evitato un atteggiamento che ha contrassegnato fino ad appena ieri tanti studiosi delle tradizioni popolari: cioè, quello di riguardare sempre se non con disprezzo almeno con una certa arcigna severità a tutte manifestazioni dell’industria musicale. L’autore di Bella ciao restituisce, invece, dignità culturale – e quindi anche politica – non solo alla canzone d’autore, ma anche ad alcuni prodotti del mercato discografico, restituendo puntualmente al lettore la storia, spesso aspra, della dialettica sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta tra canzone militante, con i suoi testi ideologici e le sue sonorità elementari, e la musica leggera “tout court”, le sue spiccate professionalità, i suoi circuiti miliardari, la sua capillare diffusione e distribuzione. Un confronto impari: e infatti la canzone politica e sociale, anche per i propri errori tra cui quello di una orgogliosa e ribadita autosufficienza dai meccanismi economici, sembra sparire nel corso degli anni Ottanta e Novanta. “Tutto” scrive Giuseppe Vettori, studioso del folklore italiano “sembra svanire nel nulla. Il movimento di massa nato intorno alla cultura popolare impallidisce, si dissolve: niente più pubblico, né libri, né dischi, né convegni, né spettacoli, né dibattiti… quel ‘popolo’ comincia a trasformarsi in ‘gente’ sempre più indifferenziata”, opaca, segnata in senso qualunquista. Ma alla maniera dei fiumi carsici la canzone politica e sociale torna a riapparire più vitale di prima “all’inizio del nuovo millennio, allorché la piazza si ripopola: cortei pacifisti, manifestazioni sindacali, adunate dei disoccupati e dei senza casa affollano un luogo sociale frequentato solo dai turisti.

E mentre i congressi dei partiti della sinistra celebrano la fatica del lavoro quotidiano opposta alla facile etica del successo dell’era berlusconiana, attraverso Una vita da mediano di Luciano Ligabue, i giovani che ora tornano a manifestare riscoprono anche la tradizione del canto sociale” (p. 320). Tocca ora alle generazioni più recenti rielaborare, secondo modi del tutto nuovi, del tutto originali, la straordinaria ricchezza rappresentata dalle parole e dalle melodie dei loro nonni e dei loro padri.

Stefano Pivato, Bella ciao Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, Bari, pp. 361, Euro 18,00


06 aprile 2010

" La vita di Castruccio Castracani degl’Antelminelli narrata da se stesso medesimo" di Giovanni Boccardi


di Luciano Luciani

Lavoro atipico, originale questo La vita di Castruccio Castracani degl’Antelminelli narrata da se stesso medesimo, di Gianni Boccardi, appassionato e colto indagatore della storia toscana e dei suoi nessi con quella nazionale: storia di un tempo remoto, ma per tanti versi ancora attuale nelle ragioni e passioni degli uomini di quell’epoca lontana.

Pagine, queste di Boccardi, inusuali e per niente scontate: intanto per la scelta del personaggio eponimo del libro, quel Castruccio Castracani in genere più citato che davvero conosciuto e studiato: forse, come argomenta con lucidità l’Autore nella sua Introduzione, anche poco amato. Una sintetica scheda ci potrà aiutare a comprendere meglio la natura dell’uomo, il suo ruolo nella storia d’Italia e d’Europa tra basso Medioevo e Rinascimento aurorale e la successiva damnatio memoriae calata su di lui.

Castruccio nacque a Lucca nel 1281 da Puccia Streghi sposa del ricco mercante Gaio Castracani. Capo ghibellino, sconfisse i Guelfi di Firenze guidati da Filippo d’Angiò e i loro alleati napoletani nella battaglia di Montecatini del 1315. Dal 1316 fu Signore di Lucca, soppiantando Uguccione della Faggiola grazie a una rivolta popolare. L’imperatore Ludovico IV il Bavaro lo nominò Duce e Vicario Imperiale nel 1327: valoroso condottiero, politico abile fu il primo a tentare la creazione di una signoria territoriale in Toscana, come più di un secolo più tardi faranno i Medici, ma non poté proseguire nella creazione di uno stato regionale perché morì, probabilmente di malaria, nel 1328. Quasi contemporaneamente fallì il tentativo dell’imperatore Arrigo VII (1275-1313) di ristabilire la propria autorità in Italia: qualche anno più tardi Ludovico il Bavaro (1287-1347) riuscirà sì a farsi incoronare imperatore a Roma (1328), ma, in un breve volgere di tempo, dovrà rinunciare ai propri progetti e ritornare in patria. E il suo successore, Carlo IV, sarà costretto a prendere atto dell’impossibilità di restaurare l’impero: la Bolla d’Oro del 1356, definendo una volta per tutte i sette grandi principi tedeschi cui spettava il diritto di eleggere l’imperatore, ridurrà, di fatto, l’Impero a una questione interna della Germania.

La crisi dei due grandi principi universalistici, la Chiesa e l’Impero, che avevano retto l’Europa per circa mezzo millennio era comunque destinata a liberare energie nuove, a favorire processi inediti: nell’Europa occidentale andranno a formarsi gli Stati nazionali; in Italia, soprattutto al Centro e al Nord, si costituiranno Stati signorili a dimensione regionale. In molte città del Centro e del Nord, infatti, si assisterà alla definitiva crisi delle istituzioni comunali, che, nell’ambito della organizzazione civile e politica del vecchio Comune risultavano ormai ingovernabili. Un solo Signore finirà per concentrare su di sé tutta l’autorità e amministrerà l’intero potere attraverso un apparato che rispondeva unicamente a lui. Le libertà comunali e le limitate forme di democrazia che esse garantivano vennero soppresse, mentre risulteranno rafforzati vecchi particolarismi feudali, mai del tutto aboliti dalle istituzioni comunali: gli storici parlano in proposito di una ‘rifeudalizzazione’, fatta di antichi diritti feudali, di nuove forme di potere e di dipendenza personale da un Signore, forte di un’organizzazione statale più organica, centralizzata, unitaria e moderna nel rispetto dell’autorità. È il caso di Matteo Visconti di Milano, di Cangrande della Scala a Verona, di Castruccio Castracani a Lucca. E arriviamo all’eroe eponimo del lavoro di Boccardi, un protagonista importante della storia dell’Italia del periodo. Poco fortunato anche dal punto di vista storiografico, fin quasi a sfiorare una sorta di damnatio memoriae.

Alle sue scarse fortune in questo senso non giovò, certo, il fatto di essere stato ghibellino in una fase storica in cui le vicende di questa parte politica andavano decisamente declinando in Italia e il ghibellinismo si andava configurando come “famiglia perdente”, come “un ramo secco” della storia, suscitando, di conseguenza, entusiasmi via via sempre minori e sempre più rari seguaci sia sul terreno politico, sia su quello della difesa della memoria. Non farà meraviglia, poi, che in età risorgimentale la storiografia patriottica, fin troppo nutrita di sentimenti antitedeschi, abbia rimproverato a Castruccio un accesso di contiguità agli imperatori germanici. Troppo ostile alla Chiesa, poi, Castruccio per essere apprezzato dalla storiografia neoguelfa e cattolica.

Quindi ben vengano le pagine di Gianni Boccardi, che, coniugando il rigore storico del saggio alla fruibilità del romanzo storico, compiono un’apprezzabile operazione di divulgazione, riproponendo all’attenzione del lettore dei nostri giorni, un protagonista significativo della storia italiana ed europea. E, sia detto a maggior merito dell’Autore, non era un compito facile scrivere di Castruccio perché si tratta di una personalità complessa, versatile, polimorfa.

È lucchese Castruccio, figlio di mercanti: un borghese, di quella borghesia comunale senza complessi, spregiudicata, abituata da tempo a gestire il potere, ad assurgere ai più alti incarichi di governo nella propria città. Guelfo bianco in origine, come Dante, attraverso la vicenda dell’esilio della sua famiglia per motivi politici (un destino che spesso toccava in sorte, quasi un istituto, ai maggiorenti politici del tempo), riuscì ad avere una formazione non angustamente municipale, ma più larga, italiana, nazionale e poi europea.

Ce la racconta bene Boccardi questa educazione. Prima in Inghilterra alla corte di Edoardo I, dove Castruccio si fece uomo. Edoardo I (1239-1307) è un grande sovrano: spezza le resistenze feudali; afferma il potere centrale monarchico, avvia una rigorosa politica di espansione territoriale, limita la giurisdizione ecclesiastica. Un modello per il futuro Signore di Lucca. Né meno utile fu la successiva permanenza di Castruccio nella Francia di Filippo IV il Bello (1268-1314). Personaggio discutibile oggi agli occhi dei lettori di letteratura popolare grazie a Dan Brown e al suo Il codice Da Vinci come persecutore dell’ordine dei cavalieri senza macchia e senza paura, i Templari, anche il re francese fu un grande modernizzatore, difensore delle prerogative della monarchia e di un forte potere centrale, impegnato in un aspro scontro con le pretese universalistiche di papa Bonifacio VIII. Probabilmente rappresentò un altro punto di riferimento per il giovane Castruccio, che, mentre definiva meglio la sua appartenenza, del tutto strumentale, al ghibellinismo, maturava a sua volta l’idea di un solido potere centrale monarchico, fondato sulla forza delle armi e su una spregiudicata abilità politica. Perché questo fu soprattutto Castruccio: un uomo d’ordine, un condottiero, un abilissimo comandante che sapeva unire al “mestiere delle armi”, svolto con feroce competenza e spietata professionalità, non comuni doti di iniziativa politica che due secoli più tardi lo renderanno benemerito agli occhi di Niccolò Machiavelli, che nella breve Vita di Castruccio Castracani da Lucca del 1520.riconobbe in lui tratti che erano già stati del suo Principe. Quindi non stiamo parlando di un rozzo soldataccio di ventura, magari più abile e fortunato di altri: no, qui stiamo trattando, e Boccardi giustamente nel suo lavoro non trascura anche gli aspetti più privati del suo personaggio, di un personaggio affascinante, capace di fare strage non solo di uomini, ma anche di cuori femminili. Un uomo che, a giudicare dalle rare immagini di lui rimaste negli affreschi del ciclo del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa, appare attraente, giovane, bello e biondo, arguto narratore, poeta a sua volta e abile declamatore di versi propri.

Amico di sovrani, fidato luogotenente di imperatori, invincibile sul campo di battaglia, privo di scrupoli morali sul terreno politico, eppure sempre mosso da una sua fedele coerenza ai principi del ghibellinismo, Castruccio sembra davvero incarnare, forse anche meglio del Duca Valentino, il Principe machiavelliano, le famose caratteristiche della ‘golpe’ e del ‘lione’...

Non era facile raccontare un tale personaggio, la sua vita, le sue innegabili zone d’ombra, le complicatezze di un animo che fu anche tortuoso così come furono contorti e tortuosi i passaggi e i processi della storia del suo tempo. Boccardi ci riesce adottando un particolarissimo, inusuale punto di vista: fa, cioè, parlare Castruccio in prima persona, permettendogli in questo modo non solo di descrivere le vicende dei campi di battaglia e degli ancora più infìdi territori della politica, ma anche le vicende del cuore e, a volte, del cuore profondo, per non dire del ‘cuore nero’ di Castruccio. Poi, però, l’Autore, proprio per evitare un punto di vista eccessivamente soggettivo e quindi troppo squilibrato in favore di Castruccio, che gli è simpatico, introduce ampi inserti in terza persona ottenuti rielaborando fonti coeve (per esempio, la Cronica di Giovanni Villani, fiorentino Guelfo nero ma caratterizzato da una grande, notevole imparzialità di giudizio; oppure la Vita di Castruccio Castracani da Lucca del Machiavelli dove, però, tende a prevalere la idealizzazione del personaggio) con il compito di controbilanciare la soggettività altrimenti prevaricante di Castruccio e di contestualizzare al meglio fatti e vicende.

Il risultato finale delle fatiche di Boccardi è un buon libro, un bel libro di storia che realizza un difficile equilibrio tra l’autobiografia romanzata e il romanzo storico, tra il vero e il verosimile. Scritto per il pubblico largo dei lettori colti e non solo per gli addetti ai lavori, il Castruccio di Boccardi risulta non solo fruibile, ma divertente nella accezione migliore del termine e godibile anche per l’uso di una lingua che, programmaticamente, tende ad assumere nuances e sapori medievali: per esempio nell’uso dei termini tecnici soprattutto relativi all’arte della guerra e al mestiere delle armi. Avvincenti le numerose descrizioni degli eventi militari, delle battaglie di Montecatini e Altopascio, di cui non vengono taciute la ferocia e la spietatezza e che ci appaiono purtroppo, tristemente attuali. Così come, sconsolatamente contemporanee, ci si mostrano le faide tra guelfi e ghibellini, tra guelfi neri e bianchi, le alleanze sempre precarie, i patti continuamente dimessi o traditi…


Nel 1876, un filosofo Charles Renouvier, sul modello del termine Utopia, ovvero non luogo, nessun luogo, luogo che non esiste, coniò la parola Ucronìa, ovvero ciò che nel corso del tempo non è avvenuto, ma sarebbe potuto essere: per esempio, cosa sarebbe successo se nel 490 a. C. i Greci fossero stati sconfitti a Maratona? E se Alessandro il Grande non fosse morto nel 323 a. C.? Oppure se Annibale dopo la battaglia di Canne avesse attaccato Roma? E se Carlo Martello nel 732 non avesse sconfitto gli Arabi a Poitiers? Dove sarebbero oggi le radici cristiane dell’Europa? E cosa sarebbe stata la storia europea se nel 1588 l’Invincibile Armada avesse conquistato l’Inghilterra? Come sarebbero oggi l’Europa e il mondo se le forze dell’Asse avessero vinto la II Guerra mondiale? Lo raccontano, mirabilmente Philip Dick ne La svastica sul sole e Robert Harris in Fatherland. Un gioco, certo. Una sorta di war-game che viene usato, con qualche buon risultato didattico, nelle facoltà di storia anglosassoni.

Proviamo ad applicare questa modalità, la modalità di questo gioco a Castruccio Castracani che, a detta di Machiavelli, non fu inferiore né a Filippo di Macedonia, né al romano Scipione: cosa sarebbe stata la storia del nostro Paese se “ in cambio di Lucca, egli avesse avuto per sua patria Macedonia o Roma”? O, più semplicemente, quale sarebbe stata la storia del nostro Paese se Castruccio avesse potuto dipanare ancora per qualche anno il filo della sua esistenza e non fosse morto il 3 settembre 1328, forse di veleno, probabilmente di malaria? Se Castruccio avesse anticipato di un secolo e mezzo i fasti regionali di Lorenzo dei Medici in quale direzione sarebbe mutata la storia d’Italia nell’autunno del Medioevo? E se, già padrone di gran parte della Toscana e stimato com’era dall’imperatore Ludovico il Bavaro, avesse realizzato l’obbiettivo di farsi incoronare re d’Italia? Già, quale sarebbe stata allora la storia del nostro Paese? Quale il suo sviluppo? Chiediamocelo. Come gioco di simulazione, come esercizio intellettuale, come una piccola ebbrezza della ragione, piacevole e inquietante insieme.


Gianni Boccardi, La vita di Castruccio Castracani de gl’Antelminelli narrata da se stesso medesimo, Editrice Nuove Esperienze, Pistoia 2007, pp. 160, Euro 12,00