31 ottobre 2008

La musica al tempo delle crociate

di Nicola Amalfitano

Deus vult! Dio lo vuole!, così Pietro l'Eremita, chiamando alle armi per la difesa del Santo Sepolcro, dava inizio alla prima Crociata, nota come "Crociata dei poveri".
Nei secoli XII e XIII il tema delle Crociate si aggiunge a quello amoroso, religioso ed epico, appartenenti alla tradizione trobadorica, e si adottano nuovi strumenti musicali sull'influsso delle sonorità orientali, principalmente arabe.
L'organo è ancora lo strumento principe per l'accompagnamento liturgico; le corti risuonano della melodica arpa e in esse si diffondono, per la loro facile portabilità, la viella ad arco, la ghironda e il liuto; si fa uso anche di strumenti più tipicamente militari quali il flauto traverso, la tromba diritta, il tamburo.
In quegli anni le forme musicali si modellano sul canto piano e il dramma liturgico, senza che il canto profano abbia guadagnato ancora una identità ben definita.
La Chiesa con la liturgia, la preghiera, il canto dei salmi quotidianamente offre occasioni di canto. Il canto "gregoriano" è preghiera: l'Antiphonarium Cento, un grande libro di canti liturgici raccolti da papa San Gregorio Magno, era legato con una catena d'oro all'altare di San Pietro per la libera consultazione di tutti i pellegrini.
Il dramma liturgico rappresenta eventi delle Sacre Scritture e talvolta episodi di vita dei santi; è una struttura con dialoghi in canto piano dove gli strumenti hanno il mero compito di sostenere la voce, accompagnandola e ripetendone la melodia.
Intorno al 1100, gradualmente si sviluppa la polifonia liturgica: all'unica linea melodia gregoriana si sovrappone una voce spostata di un intervallo di quarta o quinta, le due voci poi chiudono all'unisono. Questa tecnica di abbellimenti diventa via via sempre più sofisticata con la sovrapposizione di parti e voci diverse, dando così origine al mottetto ed alla polifonia vera e propria. Un ruolo considerevole in questo processo di evoluzione appartiene alla Scuola di Notre-Dame con i due maggiori rappresentanti, Leonin e Pérotin.
La polifonia richiede regole precise, una scala di toni esatta ed invariabile, un metodo di scrittura efficace e dettagliato che tenga conto delle armonie sempre più complicate e impossibili da ritenere a memoria.
È merito del monaco benedettino Guido d'Arezzo la codifica della moderna notazione musicale che, insieme al tetragramma, sostituisce la notazione neumatica allora in uso.
Nel XII secolo la musica profana risente ancora dell'influenza liturgica tanto da ricorrere spesso alla tecnica detta "contrafactum": si ripropongono melodie sacre dove il testo religioso viene sostituito da versi licenziosi o burleschi; ne sono massimo esempio i Carmina Burana, raccolta di canti tedeschi del 1230.
Frattanto, grazie all'opera dei menestrelli, trovatori, jongleurs, minnesänger, presso le varie corti si afferma la lirica cortese in lingua volgare; non si scrive solo secondo le convenzioni dell’amore cortese, ma si mettono in risalto anche temi guerreschi ispirati alle Crociate. I canti di crociata danno voce ai diversi aspetti del pellegrinaggio: le pie devozioni lungo il cammino, l'esortazione alla conquista del Santo Sepolcro, le dame in attesa del ritorno dei loro cavalieri. Il mottetto diventa anche strumento di satira.
Tutto questo fermento costituisce una forte spinta propulsiva che determina, finalmente, l'affrancazione della musica profana da quella liturgica; ne è testimonianza l'abbondante produzione di ballate e madrigali in Italia e Francia.

Ancora, comunque, la musica strumentale, intesa come espressione artistica autonoma, non legata a funzioni di accompagnamento, non esiste; intorno al 1325 datano i primi arrangiamenti per tastiera di composizioni vocali.

IL RACCONTO DELL'ISOLA SCONOSCIUTA di José Saramago

recensione di Gianni Quilici

Per la prima volta un uomo aspettò tre giorni alla porta del re per essere ricevuto. Alla fine sorprendentemente il re andò da lui.
“Datemi una barca, disse l'uomo.
E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell'isola sconosciuta, rispose l'uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono soltanto le isole conosciute.
E qual è quest'isola sconosciuta di cui volete andare alla ricerca.
Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta”.

E' una fiaba del premio Nobel José Saramago.
Protagonisti l'uomo che cerca l'isola che non c'è e la donna delle pulizie (che apriva e chiudeva la porta del re e che, d'impeto, decide di seguire l'uomo in questa avventura ).

E' una fiaba dal timbro leggero e incantato, dato da un linguaggio elementare e cadenzato per bimbi e dall'utopia, che sottende la stessa ricerca.
Perché la ricerca dell'isola che non c'è appare subito inevitabilmente votata alla sconfitta, ma già la predisposizione alla ricerca è, in qualche modo, “abitarla”.
In questo senso la ricerca dell'isola che non c'è è presente nel modo insolito che l'uomo ha di predisporsi di fronte al re, nella sua ostinazione, in quello sguardo che lui posa sulla donna delle pulizie e lei posa su lui, in un sogno che si confonde con la realtà fino a diventare colpo di scena finale: essi stessi isola che non c'è alla ricerca di se stessi.

Ecco, José Saramago riesce ad armonizzare il linguaggio semplice e ripetitivo della fiaba in un'avventura che sotto l'incanto del paradosso e del mistero diventa anche avventura psicologica e poesia. Perché riesce a trovare quel timbro leggero in cui sentimento e ragione con molta semplicità si incontrano. Viene in mente Brecht: “La semplicità che è difficile a farsi”.

José Saramago. Il racconto dell'isola sconosciuta.(O Conto da Ilba Desconhecida), a cura di Paolo Collo e Rita Desti. Einaudi.

30 ottobre 2008

MEIN FÜRER di Dani Levy

La veramente vera verità su Adolf Hitler

di Ilaria Sabbatini

«La misura della soluzione finale, non la deve prendere come una cosa personale» si giustifica Goebbels con Adolf Grünbaum, attore di fama internazionale nella Germania degli anni venti. Solo che il professor Grünbaum - come lui pretende di essere chiamato dai vertici del reichtstag- è ebreo. Si può ridere di Hitler e capovolgere in grottesco il terrore che lo ha accompagnato nella sua perversa parabola politica? Secondo Dany Levy, sì. Non solo si può farlo ma si può proporlo scientemente come provocazione e come catarsi. «Veniamo a conoscere continuamente dei fatti nuovi. Però una vera discussione morale sull'epoca viene sempre evitata» dice Levy. Questo film non ha avuto riconoscimenti né cerimonie, eppure è uno di quelli che, finita la visione, lascia senza parole. Viene da chiedersi cosa si sia svolto in realtà davanti ai nostri occhi, quale sia il sottotesto e non ci sono rispose semplici. Mark Twain sosteneva: « The human race has one really effective weapon, and that is laughter». Questa è in effetti l'essenza dell'opera di Levy. Un'arma incruenta contro la disumanizzazione e le soluzioni manicheistiche. Ricco di citazioni autoriali, il film si pone ad un livello di speculazione molto più complesso di quello che appare, come se avesse molteplici livelli di significato. Le trovate di un fürer impotente, affetto da mille vizi maniacali e vezzi grotteschi sono solo il contorno del vero nodo del racconto. Eppure Levy non mira a caso perché quando gioca sulla difficile infanzia del gerarca si basa sul libro di Alice Miller che, ne "La persecuzione del bambino", ha documentato i maltrattamenti psico-fisici subiti da Hitler per mano del padre. Se questo è lo sfondo dissacrante, in primo piano c'è un altro fatto altrettanto documentato: Hitler ha realmente avuto un maestro di recitazione che gli insegnava la respirazione e i gesti della sua oratoria. Levy da un volto al mentore del dittatore, immagina così che dietro alla sua terribile figura si celi un piccolo attore ebreo che insegna i segreti della retorica al grande demagogo. Di lui il padrone dell'Europa ha bisogno per recuperare la fiducia in sé stesso proprio nel momento più critico della sua tremenda avventura militare. E' il gioco del disvelamento la sempiterna favola che rivela la nudità del re, il quale assume le sembianze insolite del più angoscioso protagonista del Secolo Breve. Onestamente si fa fatica a collocare Mein Fürer tra le commedie perché non corre verso l'epilogo fulminante come il virtuosistico Train de vie, non intenerisce come La vita è bella, non usa la caricatura come The producer, non fa tanto ridere insomma. O meglio non fa ridere programmaticamente bensì trattiene sempre il riso sul confine dello stupore. «Tutto rimane doloroso e fa paura. Il film non offre soluzioni a questo» glossa l'autore. Del resto, visti i tempi che corrono, dubito che ormai faccia ridere perfino il capolavoro di Chaplin cui evidentemente l'intreccio di Levy deve molto. E' una storia la sua che non fa sconti a nessuno: l'ebreo non riesce a uccidere l'incarnazione dell'antisemitismo, fallisce nel tentativo di salvare gli ebrei del proprio campo e può a malapena sottrarre al lager la numerosa famiglia. L'equilibrio del film va cercato altrove, non nella riproposizione di fughe impossibili, storie patetiche o ucronie fantastiche. L'ironia a tratti feroce della sceneggiatura fa piazza pulita di ogni buonismo e pone sarcasticamente domande mirate a scuotere la coscienza civile della nostra epoca. "Perché l'ebreo non si ribella? Niente coraggio? Non avete rabbia?" Grünbaum replica con un diretto micidiale, ma la domanda rimane, oltrepassando l'appartenenza, interpellando tutti indistintamente. Si può ridere del fürer? Certo, si può, perché decostruendo la retorica di regime, di ogni regime, rivelandone l'implicita contraddizione, si scaraventa il mito più oscuro del novecento giù dal podio degli eroi negativi e lo si offre allo sberleffo generale capace di riportarlo alla dimensione di un banale essere umano, meschino nella sua stessa abiezione.

29 ottobre 2008

L'UOMO A ROVESCIO di Fred Vargas

di Gianni Quilici

Leggo questo romanzo del 1999 (pubblicato da Einaudi nel 2006), di Fred Vargas, scrittrice francese, tradotta in 22 paesi, considerata l'anti-Patricia Cornwell. Leggo e attraverso diversi stati d'animo, che certo hanno a che fare con il romanzo, ma riguardano anche e forse sopratutto la mia soggettività.

La prima impressione è superficialmente negativa. Leggo il risvolto di copertina: si parla di un lupo che uccide, ma forse, si scrive, non è una bestia, potrebbe essere un lupo mannaro. La storia non attira il mio immaginario...

Tuttavia inizio a leggere (mi ricordo una recensione entusiasta di uno scrittore-critico-filosofo, Beppe Sebaste, che mi spinse a comprare alcuni dei romanzi della Vargas), fino ad arrivare al punto in cui scatta la seconda impressione: mi avvince.
Essere avvinti è una delle ragioni del leggere. Non l'unica, ma importante. Si legge, perché si vuole conoscere anche lo sviluppo e la conclusione di una storia. A volte perché c'è un enigma; a volte, per l'intensità che trasmette. Qui c'è una visione, che diventa concatenazione, suspence: nel Mercantour, nel Sud della Francia, la presenza dei lupi non è strana, ce n’è un gruppo intero e ognuno di loro ha un nome. C’è pure un giovane canadese che è venuto apposta per fare delle ricerche su di loro. Ad un certo punto, però, iniziano le stragi di pecore negli ovili - gli squarci sulla gola delle bestie fanno pensare a un lupo di enormi dimensioni. Può essere il grosso Crassus che non è stato avvistato da tempo? Finché muore una donna, il che è strano, perché i lupi non attaccano le persone e Suzanne non era certo così stupida da averlo provocato. E i sospetti cadono su un macellaio, che non ha peli ed è un solitario ...

Infine la terza ultima impressione: Fred Vargas è un'abilissima narratrice, non a caso sforna un best seller quasi ogni anno. Il viaggio a tre della ragazza, del vecchio che si sente in colpa per non aver saputo difendere Suzanne e del ragazzo nero, che è stato adottato dalla ruvida e generosa Suzanne, è efficace sia scenograficamente: l’arrancare del camion per bestie sulle stradine nello scenario vasto e impenetrabile della montagna; che per i dialoghi e i pensieri sotterranei che corrono tra loro. Però alla Vargas più che la vericidità della storia, della sua profondità, interessano i colpi di scena e la costruzione di personaggi buoni o simpatici che finiscano per generare partecipazione e identificazione. Il segnale più significativo è come l'assassino sia poco plausibile psicologicamente e come invece sia sconvolgente narrativamente. E come tutto venga spiegato con una banale e deterministica storia. Mi resta difficile immaginare, infatti, che un romanzo come questo si abbia il desiderio di ri-leggere.

L'uomo a rovescio (L'homme à l'envers) di Fred Vargas. Traduzione di Yasmina Melaouah. Einaudi 2006. € 15.50

28 ottobre 2008

Classica. Un approccio consapevole

di Nicola Amalfitano

L'ascolto della musica richiede un approccio consapevole per saper riconoscere e valutare i diversi elementi di una composizione.
Elementi contrappuntistici quali le sovrapposizioni di vari disegni melodici.
Elementi armonici quali:
gli accordi, sovrapposizioni di note in vario rapporto fra loro;
le modulazioni, passaggi più o meno complessi e rapidi fra tonalità diverse.
Elementi sonori, timbrici e tonali in relazione alle voci degli strumenti.
Tutti questi elementi, nel loro insieme, determinano la Forma mediante la quale quale il musicista costruisce la sua composizione e ci trasmette emozioni.
È basilare l'educazione musicale nelle scuole; la lettura di manuali, testi e riviste di settore aiuta a capire tecniche e strutture musicali; questo, però, non è sufficiente per formare gusto e sensibilità.
Bisogna ascoltarla la musica; ascoltarla in casa, nelle chiese, in piazza, nella sale da concerto e nei teatri.
La sensibilità si affina con l'esercizio; possiamo, così, scoprire, individuare e valutare gli elementi strutturali della composizione musicale: gli intervalli, i toni e i modi, gli accordi e le modulazioni, le varie voci che si intrecciano nella polifonia, i timbri vocali e strumentali.
Mi limito ad aprire una piccola finestra sullo sterminato panorama musicale, per proporre un punto di partenza utile a formare una significativa conoscenza di base.

Vivaldi

Le quattro stagioni, concerti per violino, archi e basso continuo.
Un concerto per ogni stagione; sono le composizioni più note, uno dei primi esempi di musica descrittiva.

Concerto n.1 op.10 "La tempesta di mare"
- Concerto n.2 op.10 "La notte" - Concerto n.3 op.10 "Il gardellino"
Libertà formale e fantasiosa di grande presa emotiva, giocata sulla contrapposizione tra soli (concertino) e tutti.

Händel

Musica sull'acqua.
Una suite vigorosa dove danza e concerto si fondono in un insieme ricco di contrasti.

Concerti per organo e orchestra op.7 n. 8-9-10.
È l'organo ad assumere le funzioni di concertino e dialoga con grande libertà espressiva con gli archi.

Il Messia
Oratorio per soli, coro e orchestra: momenti delicati e pieni di suggestione sfociano in brani dalla forza interiore che avvince; il poderoso "Alleluiah" genera emozioni senza fine.

Bach

Concerti brandeburghesi.
Sei concerti grossi differenziati, ciascuno, per l'organico; tutti, però, caratterizzati da una ricca elaborazione tematica e contrappuntistica.

Ouvertures (Suites) n.2 e n.3
Movimenti di danza che rappresentano efficacemente l'aspetto frivolo di Bach; molto conosciute e di grande effetto la Badinerie della suite n.2 e l'Aria della suite n.3.

L'arte della fuga - Il clavicembalo ben temperato - Le Variazioni Goldberg
La vetta della scienza contrappuntistica del barocco musicale.

Toccata e fuga in re minore.
L'arte contrappuntistica di Bach si esprime ai massimi livelli in una continua ricerca di espressioni e sonorità tendenti all'infinito.

Corali di Lipsia.
Anche questi corali, basati su temi della liturgia luterana, sono ai vertici dell'opera bachiana.

L'offerta musicale.
Da un tema fornitogli dal re Federico II di Prussia, Bach trae uno dei suoi capolavori.

Magnificat
Brano esuberante, solenne; atmosfera brillante ricca di forti contrasti.

Passione secondo Matteo
Capolavoro di tutti i tempi, si caratterizza per la complessità e la maestosità dell'organico.

Haydn

Concerto per violoncello e orchestra
Alle soglie del romanticismo viennese, questo concerto presenta ancora una struttura tardo barocca.

Sinfonia n. 103 in mi bem magg "Rullo di timpani"
Rappresenta la maturità compositiva per il disegno formale e l'accurata dinamica orchestrale.

Mozart

Sinfonia n.41 Jupiter.
Al vertice della produzione mozartiana; il titolo ne evoca il carattere grandioso.

Concerto per pianoforte e orchestra n.20
Dalla notevole forza espressiva, è considerato il primo concerto preromantico.

Serenata in sol magg. Eine kleine Nachtmusik
Piccola serenata notturna, semplice nella struttura e ricca di melodia.

Sinfonie n.38 "Praga" e Sinfonia n.40
Pagine forti, ricche di contrasti con sviluppi anche drammatici.

Messa da requiem
Maestosa, drammaticamente solenne; momenti di malinconia struggente si alternano a ritmi implacabili che rinconducono l'animo alla realtà inquietante degli ultimi momenti di vita.

Beethoven

Sinfonia n.3 "Eroica"
Sinfonia in origine dedicata a Napoleone, dalle proporzioni ampie e maestose.

Sinfonia n.5
Quattro note in apertura, "Ecco il destino che bussa alla porta".

Sinfonia n.6 "Pastorale"
Beethoven fa rivivere in musica la vita campestre, egli stesso per ogni movimento fornisce la descrizione dell'immagine che vuole evocare: "Risveglio di lieti sentimenti all’arrivo in campagna", "Scena al ruscello", "Lieta brigata di campagnoli", "Temporale", "Sentimenti di gioia e di riconoscenza dopo il temporale".

Sinfonia n.7
Definita da Wagner "l'apoteosi della danza" per la ricchezza dei movimenti e dei ritmi.

Sinfonia n.9 "Corale"
Ultima sinfonia del genio titanico che inserisce nel finale l'Inno alla gioia di F. Schiller. Idee nuove che si traducono in forme espressive che rompono gli schemi della tradizione; l'ultimo movimento, finale presto, è quello che presenta maggiori sconcertanti novità sia sul piano tecnico che su quello formale.

Concerto per pianoforte e orch. N.5 "Imperatore" op.73
Dedicato all'arciduca Rodolfo d'Asburgo-Lorena, è il più imponente fra i concerti composti da Beethoven.

Concerto in re magg. per violino e orchestra op.61
Lirismo e cantabilità; Beethoven fa raggiungere allo strumento le più alte vette espressive.

Sonate per pianoforte n.8 "Patetica", n.14 "Al chiaro di luna", n.23 "Appassionata".
Di grande forza espressiva, sono un altro esempio dell'originalità, dell'inventiva di Beethoven che, ancora una volta, rompe e riamalgama gli schemi tradizionali.

Schubert

Sinfonia Incompiuta
Composizione dai forti accenti drammatici, è considerata la più originale e matura tra le sue opere.

Quintetto per pianoforte e archi "La trota".
Partitura allegra e briosa dove le variazioni del IV movimento rappresentano il movimento della trota che, a tratti, emerge dalle acque del fiume e poi ci si rituffa dentro.

Berlioz

Sinfonia Fantastica
I cinque movimenti descrivono episodi immaginari di vita di un artista. Brani di grande presa, che alternano malinconia, furore e angoscia. Chiude un vorticoso fugato che rappresenta un sabba di streghe.

Mendelssohn

Sinfonia Italiana
Opera scritta durante il soggiorno in Italia, fissa le vivaci impressioni suscitate dai paesaggi mediterranei; l'impianto sinfonico e le melodie riflettono uno stile italiano, e nel finale è inserito il tipico "salterello" dell'Italia meridionale.

Chopin

Equivale a dire pianoforte, quindi Studi, Notturni, Valzer, Sonate etc.

Concerto n.2 per pianoforte e orchestra op.21
È la sua prima opera che lo caratterizza stilisticamente. Il pianoforte è assolutamente in primo piano, con l'orchestra in mera funzione d'accompagnamento.

Andante spianato e grande polacca brillante op.22
Un brano molto poetico con l'orchestra in secondo piano per dare il massimo risalto al pianoforte solista.

Brahms

Sinfonia n.4 op.98
Il capolavoro di Brahms che con questa pagina chiude il periodo romantico della sinfonia.

Concerto per violino e orchestra op.77
Opera prettamente lirica, trae ispirazione dal folclore ungherese; per l'elaborazione tematica, si riallaccia in qualche modo al concerto per violino di Beehtoven.

Borodin

Danze polovesiane dall'opera " Il Principe Igor".
Una serie di danze scritte per coro e orchestra; vengono eseguite spesso in forma di concerto mantendendo inalterate le caratteristiche ritmiche e melodiche che le hanno rese famose.

Paganini

Concerto n.1 per violino e orchestra
Scrittura ricca di virtuosismo per il solista, l'orchestra accompagna in forma discreta.

Le Streghe, per violino e orchestra.
Un brano dalle difficoltà tecniche incredibili.

Liszt

Rivoluziona la tecnica pianistica

Concerto n.1 per pianoforte e orchestra
Uno dei più popolari, un pianismo travolgente di forte impatto.

I Preludi, poema sinfonico.
Ispirata alla vita dell'uomo, quest'opera alterna con grande senso dell'equilibrio brio, pace e mestizia.

Wagner

Tannhäuser - Ouverture dall'opera.
L'autore rappresenta con grande forza il conflitto interiore dell'eroe alla disperata ricerca del perdono.

Lohengrin - Preludio dell'opera.
L'autore lo descrive come la "miracolosa discesa del Graal scortato dalla schiera degli angeli, e la sua consegna agli uomini eletti".
Un sentimento ultraterreno, espresso con il sapiente dosaggio dei tempi.

Parsifal - Preludio dell'opera.
Wagner tratta i temi della cristianità: amore, fede, speranza; una pagina ricca di espressività.

Ciaikovski

Suite dai balletti: Lo schiaccianoci - Il lago dei cigni

Sinfonia n.6 "Patetica"
Pervasa da pessimismo, da sfiducia nella vita, è il testamento spirituale dell'autore.

Musorgskij

Quadri di una esposizione
Originariamente scritti per pianoforte, i brani rappresentano le sensazioni provate di fronte alla forza espressiva dei dipinti.

Una notte sul monte calvo
Poema sinfonico "a progamma" dove si immagina un sabba di streghe ai piedi del Monte Triglav, vicino Kiev.

Rimskij Korsakov

Capriccio Spagnolo op.34.
L'autore si rifà al folclore spagnolo introducendo ritmi e sonorità tipiche; è un lavoro brillante dove l'orchestra è tenuta ad esprimersi con grande virtuosismo.

Grieg

Peer Gynt suite n.1 e 2
Scritte su richiesta di Ibsen, queste musiche di scena evocano paesaggi nordici, hanno una struttura melodica molto semplice ma d'effetto.

Mahler

Sinfonie
Autore post romantico innova in maniera molto singolare la sinfonia con l'uso sistematico della voce umana, inoltre allunga in maniera inusuale la durata della esecuzione.

Debussy

Prelude à l'après midi d'un faune - La Mer
Inaugura in musica il periodo impressionista; non più pagine esteriormente descrittive, ma impressioni, sensazioni che l'autore ci trasmette.

Respighi

Le fontane di Roma
Un poema sinfonico sul modello classico con influenze impressionistiche; probabilmente una delle sue migliori composizioni.

24 ottobre 2008

SUPERVITA di Marco Bacci

di Maurizio Della Nave

Tratto dall’introduzione: …un gruppo di partigiani viene aiutato nella lotta contro i tedeschi da un aviatore venuto da molto lontano; una macchina permette di viaggiare nello spazio-tempo ma lascia dietro di sé le “ombre” delle persone che l'hanno utilizzata; un mondo parallelo quasi identico al nostro, tranne che il tempo è sfasato di una cinquantina d’anni, i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale e Philip Kindred Dick è solo il personaggio di un romanzo; un software al cui interno viene conservata l’identità neuronale delle persone decedute in attesa di reimpiantarla in un altro corpo...

Uno straordinario romanzo avant-pop, caleidoscopico, carnale, virtuale. Un ingegnoso e appassionante tour-de-force narrativo che trascende i generi e in cui si mescolano e confondono Beppe Fenoglio e gli X-Files, Philip K. Dick e Jorge Luis Borges, William Gibson e Alexandre Dumas...

Marco Bacci è un giornalista e critico cinematografico, abbastanza sconosciuto come scrittore anche se ha scritto quattro o cinque libri niente male ( tra gli altri “Giulia che mi sfugge”, anch’esso particolare e fresco nello stile)...

“Supervita”. Marco Bacci. (Marsilio Editore. 16,00 euro).

PASSAGGI DI CARRIERA ( "Career Move" ) di Martin Amis

recensione di Gianni Quilici

Il progetto editoriale una volta tanto (è stato) utile, non parassitario: allegare ai giornali La Repubblica e l'Espresso un racconto in versione originale con traduzione a lato. Libretti smilzi (Short stories, appunto) da leggere (e meditare) nell'arco di una sera o di un viaggio...
Uno di questi è “Passaggi di carriera” (Career Move), tradotto da Massimo Bocchiola, di uno degli scrittori inglesi contemporanei più noti, Martin Amis.

Racconto di due “intellettuali”: un poeta di successo, che vive in una bella casa e si accompagna con ragazze bellissime; l'altro uno sceneggiatore sfigato, costretto a fare un altro lavoro, che invia ad una rivista semi-clandestina sceneggiature su sceneggiature, spesso, senza alcuna risposta. Anche il poeta di successo deve comunque penare, perché vive in un ambiente superficialmente formalista con tutte le meschinità del caso.

Il racconto non mi “prende”. A fine lettura constato: poca tensione, nessuna emozione. Perché la critica che Martin Amis fa di questi ambienti è fin troppo facile. Nessuno si salva: ne' i due co-protagonisti, ne' tantomeno il mondo editoriale con le sue conversazioni sul niente.. Ed è appunto in questo generale deserto che non trovo appigli. Non perché non c'è positività, ma perché questa negatività generale è, per così dire, priva di dialettica: troppo lineare, troppo leggera. Come se l'autore stesso non fosse molto diverso da loro. Consapevole certo, ma, più che altro, dello strato comportamentale e delle conseguenti chiacchiere. Si legga di contro “L'integrazione” di Luciano Bianciardi, dove sotto l'ironia sarcastica palpita una autentica disperazione.

Martin Amis. Passaggi di carriera (Career move). Traduzione di Massimo Bocchiola. La biblioteca di Repubblica-L'Espresso. Pag. 71.

15 ottobre 2008

TRISTE, SOLITARIO E FINALE di Osvaldo Soriano

nota di Gianni Quilici

La storia sorprende: è un grande sogno pop, dove incontriamo un vecchio Stan Laurel, celebre, ma ignorato sull'orlo della fame, Marlowe povero e imbiancato,un John Wayne muscoloso e borioso,un Chaplin fragile e vigliacco e lo stesso Soriano, giornalista argentino ad Hollywood.

La bellezza del romanzo è nella malinconia, nel malessere, nel vuoto di orizzonti, in cui l'azione da noir poliziesco: cazzottate, sparatorie, inseguimenti, non hanno senso; sono solo un turbinio dietro cui leggiamo il vuoto, di una Hollywood morta.

Osvaldo Soriano. Triste, solitario e finale. Vallecchi.

Musica classica: solo uomini i compositori?

di Nicola Amalfitano

"Non ci sono donne compositrici, non ci sono mai state e, possibilmente, mai ci saranno". Sir Thomas Beecham, Direttore d'orchestra.
(International Encyclopedia of Women Composers, di Aaron I. Cohen, New York, 1981)

"Non c'è paese senza musica creata dalle donne. L'umanità sarebbe più povera senza il nostro contributo. Quando nascono i bambini, le madri cantano." (http://www.donneinmusica.org/pagina-biblioteca-archivio.htm)

Oggi sembrano superati i pregiudizi sulla creatività musicale della donna, eppure, per quanto riguarda la musica classica, la presenza di donne compositrici nelle riviste di settore, nelle opere editoriali di grande divulgazione, nei cataloghi discografici, è pressoché nulla.È storicamente evidente la posizione di inferiorità in cui sono state tenute le donne e questo ha generato, fra l'altro, il tardivo interesse nello scoprire il loro contributo artistico. Indubbiamente, le compositrici pagano lo scotto di un passato che relegava il ruolo della donna in ambito musicale ad uno spazio circoscritto all'intrattenimento degli ospiti o al diletto personale; un velleitario fatto di etichetta. Un esempio eclatante è dato da Leopold Mozart che si dedicò completamente al più giovane Wolfgang, ignorando il grande talento musicale da tempo espresso dalla figlia Maria Anna. C'è stato anche il tempo in cui alla donna era proibito suonare uno strumento pubblicamente, o fare parte di un'orchestra. Ma nelle case, nel chiuso dei monasteri, la donna componeva e suonava anche senza ambire ad un'eventuale, quanto improbabile, pubblicazione delle sue opere.
E anche l'arte pittorica, nella storia che si snoda attraverso le sue molte rappresentazioni, ci mostra una donna il cui talento si sprigiona nell'uso degli strumenti, piuttosto che nella meraviglia della composizione.
Eppure, già dalle più antiche civiltà le donne compositrici fanno parte del mondo musicale: sono le sacerdotesse babilonesi e quelle egiziane, le etére greche, le cantatrici arabe.
Nel Medio Evo, in Provenza, le "trobaritz" scrivono composizioni dedicate ai loro cavalieri; nei monasteri, suore si dedicano alla composizione di musica sacra; la mistica Hildegarde von Bingen è autrice di una ricca raccolta di canti sacri. Nel Rinascimento fra le tante autrici di madrigali, cantate, melodrammi, spiccano Barbara Strozzi e Francesca Caccini, figlia di Giulio.
Nel Seicento e nel Settecento ricordiamo nomi quali Isabella Leonarda, suora orsolina, Elisabeth Jacquet de la Guerre e Marianna de Martinez; ad esse si affianca Maria Rosa Coccia, prima donna a fregiarsi del titolo di Maestra Compositora dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma.
Nell'età romantica ecco risaltare Fanny Mendelssohn e Clara Wieck Schumann; in tempi a noi più vicini, Cecile Chaminade, Biancamaria Furgeri, Teresa Procaccini.
E questi nominativi sono soltanto alcuni degli oltre 6000, catalogati dalla International Encyclopedia of Women Composers.
Ricerche musicologiche confermano che nel periodo tra il 1000 e il 1700, in Italia, sono state tramandate musiche di ben seicento compositrici.
In generale, è possibile ricondurre le musiciste-compositrici a quattro grandi categorie: le viandanti, con melodie, riti e tradizioni popolari; le figlie di musicisti che diventano, a loro volta, professioniste del cantare, suonare e comporre; le donne nobili e le “ben maritate” che alimentano il “mecenatismo culturale” e spesso compongono; le monache, che sfidano la Chiesa e il papato pur di produrre una propria musica.
(Una visione diversa - La creatività femminile in Italia tra l’anno Mille e il 1700, a cura di Patricia Adkins Chiti, Electa, 2003)

Letture e approfondimenti:

International Encyclopedia of Women Composers, Aaron I. Cohen, New York, 1981: informazioni biografiche, bibliografiche e discografiche su circa 6200 compositrici.

"Womencomposers", ricco database con biografie, è disponibile a questo indirizzo http://www.kapralova.org/DATABASE.htm

Fondazione Adkins Chiti: Donne In Musica http://www.donneinmusica.org/

La "Fondazione Adkins Chiti: Donne in Musica" nasce nel 1996 come evoluzione del movimento Donne in Musica che, sul finire degli anni '70, aveva iniziato ad occuparsi della promozione e della presentazione di musica creata e composta da donne in ogni tempo ed in ogni parte del mondo.

09 ottobre 2008

"MIRACOLO A SANT'ANNA" di James McBride

Recensione di Paolo Fusco

Ho letto con partecipazione la toccante lettera della Signora Didala Ghilarducci, e vorrei dire anche io due parole sul film "Miracolo a Colognora" di Spike Lee.
Concordo pienamente con la Signora Ghilarducci circa i palesi errori storici nella questione partigiana, mi permetto semmai di aggiungere che la signora ha indirizzato la sua lettera aperta a Spike Lee, forse dovremmo aggiungere tra i destinatari anche James McBride, autore dell'omonimo romanzo che Lee ha trasposto sugli schermi. Sono responsabili entrambi, senza scuse: il romanziere per non aver fatto sufficienti ricerche, il regista per essersi fidato troppo del romanziere.
Syd Field, professore (peraltro americano anche lui) autore del bellissimo saggio "Il film sulla carta" fornisce semplici regole per scrivere una sceneggiatura. La prima regola è: una volta stabilito il titolo, descrivere la storia in 10 righe.
Allora signor McBride come si intitola il suo racconto? "Miracolo a Colognora"?, benissimo, ora ci descriva la storia in 10 righe. "Il racconto parla di un gruppo di soldati di colore americani, che durante un'azione sul fiume Serchio si trovano separati dal proprio battaglione, e giungono in un piccolo paese, Colognora, molto vicino alle linee nemiche. Qui vengono a conoscenza delle azioni di un gruppetto di partigiani, tra i quali si mormora che si annidi un traditore, la cui identità effettivamente viene poi svelata. La storia ha un epilogo oltre 40 anni dopo, in America, dove l'unico soldato sopravvissuto (miracolosamente?) alla rappresaglia nazista a Colognora riconosce ed uccide il vecchio rivale". Ottimo signor McBride, la storia di "Miracolo a Colognora" è scritta bene. Come? Il titolo non è "Miracolo a Colognora" ma "Miracolo a Sant'Anna"? Non capisco....
E nemmeno io, spettatore italiano, capisco. Forse perché ho letto il libro di Syd Field. Caro professor Field, questi due scolari, Lee e McBride sono da bocciare entrambi! Hanno sbagliato già nella prima riga del loro progetto: hanno sbagliato il titolo!
Non voglio prendere le parti nè degli autori, nè della signora Ghilarducci, ma vorrei dire a quest'ultima che comprendo il suo profondo risentimento. Però l'errore storico (inequivocabile) è "figlio" di un errore precedente, errore di scrittura. Se l'errore storico offende le famiglie delle vittime ed i partigiani, l'errore di scrittura offende tutti noi spettatori. Comprendo benissimo che i sentimenti di chi ha vissuto in prima persona quei fatti non possono essere paragonati all'indignazione ben meno meritoria di un semplice spettatore, però questo io sono e come tale parlo. Se fossi stato partigiano o se avessi vissuto ciò che ha vissuto la signora sicuramente anche io avrei scritto la lettera che ha scritto lei. Non avendo la sua esperienza, mi limito a parlare di ciò che conosco, il cinema appunto.
In buona sostanza quindi, questo è un film scritto da americani, per un pubblico americano. A nessuno di loro importava veramente di Sant'Anna. E questa a casa mia si chiama strumentalizzazione, o se vogliamo opportunismo. Conosco i precedenti lavori di Spike Lee, e li ho amati. "Miracolo a Colognora" è un bel lavoro che fingendo di parlare della guerra mondiale in realtà parla della condizione dei soldati di colore in america, e lo fa bene, com'è nello stile di Spike Lee. "Miracolo a Colognora" ha una struttura semplice, senza grandi introspezioni, e con qualche grossolana approssimazione, come il pubblico americano medio (purtroppo) richiede, con un finale in cui i protagonisti si devono "per forza" incontrare di nuovo (che ha tanto il sapore del topolino del "miglio verde" piuttosto che dell'"Amico ritrovato" di Fred Uhlmann). "Miracolo a Colognora" è retorico, ha dialoghi mediocri, come buona parte del cinema americano. Questi sono secondo me i difeftti di "Miracolo a Colognora".
"Miracolo a Sant'Anna" non ha tutti questi difetti.... perchè non è ancora stato girato.

07 ottobre 2008

"MIRACOLO A SANT'ANNA" di Spike Lee

Contravvenendo alle norme redazionali che ci siamo dati in questo blog,
pubblichiamo una lettera che forse merita di essere più conosciuta.

LETTERA APERTA A SPYKE LEE di Didala Ghilarducci

Gentile regista, mi chiamo Didala Ghilarducci. Sono una vecchia
partigiana. Mio marito, Chittò, fu ucciso dai nazisti sui monti
versiliesi alcune settimane dopo la strage diSant’Anna di Stazzema, in
quel terribile agosto del ‘44. Mi sono risolta a scriverle perché
quello che leggo sui giornali a proposito del film che lei sta girando
mi fa sentire il cuore pesante come un macigno.
Pare infatti che nel film si avvalori la falsa tesi che la strage
venga compiuta a causa della ricerca di partigiani presenti in paese.
E’ una falsa tesi che i detrattori della Resistenza hanno sempre
sostenuto per dare ai partigiani la colpa di quella strage. Tutte
queste voci che si rincorrono sul contenuto delle scene girate a
Sant’Anna, se possono poco turbare lei, danno agli uomini ed alle
donne della Resistenza italiana una dolorosa inquietudine.
So che lei è un grande regista, so che nei sui film è riuscito sempre
a raccontare drammi, dolori ed oppressioni che ci hanno emozionato ed
hanno fatto crescere la coscienza civile anche qui in Europa. Di
questo soprattutto le sono grata. Ho lottato una vita per la
democrazia, i diritti civili e la libertà che non posso non trovarmi
accanto a chi combatte e denuncia ingiustizie e sopraffazioni. Proprio
per questo vorrei essere altrettanto brava da poterle non solo
spiegare, ma farle sentire in qualche modo, perché ogni finzione, ogni
aggiustamento di quanto avvenuto a Sant’Anna di Stazzema mi pare, ci
pare, inaccettabile.
Quando le persone, una comunità, hanno vissuto un lutto così profondo
e traumatico, comprenderà che conservino sul tema una sensibilità
esasperata dal dolore che brucia ancora la carne a distanza di
sessant’anni. Nel raccontare la sua storia, una storia importante non
solo per il suo Paese, lei ha scelto di fermarsi su quella piccola
piazza davanti alla chiesa, a Sant’Anna. Una piazza che io, come
altri, ho visto nel suo orrore reale ed inenarrabile nel ‘44. Il vento
può aver portato tra i boschi e verso il mare la cenere di quel rogo,
ma l’angoscia, il pianto e il sangue restano aggrumati là e resteranno
là nel tempo e nelle nostre coscienze di uomini e donne. Se lei,
gentile regista, si soffermerà in questo pensiero allora capirà come
non sia possibile in quella piazza raccontare un’altra morte.
Non lo possiamo fare per le vittime, non lo possiamo fare per quei
ragazzi e quelle ragazze della Resistenza rimasti sui monti insieme a
loro a ricordarci per sempre l’orrore della guerra e il prezzo
altissimo della libertà. Se togliamo loro la storia, allora li
priviamo del senso della loro morte. E questo non è possibile in
quella piazza. In un’altra ricostruita altrove, ma non lì. Non riesco
ad immaginare che per raccontare una storia di diritti e di persone si
finisca per sottrarre la propria storia ad altre vittime. Ecco,
gentile regista, le ho aperto il cuore nella speranza che in qualche
modo da lei possa giungere una risposta che ci faccia comprendere che
il senso del faticoso cammino di impegno civile, di riconciliazione
che come comunità e persone abbiamo ricercato e percorso in questi
sessant’anni, non sarà disperso.
6 novembre 2007


Di nostro ci mettiamo il suggerimento di visitare i seguenti link:

* Atti integrali dell'inchiesta sulla strage di Sant'Anna di Stazzema


* Tribunale militare di La Spezia, sentenza per l'eccidio di Stazzema


* Una mattina di agosto - puntata integrale de "La Storia siamo noi"

(digitare "Stazzema" nello spazio sotto la dicitura "Cerca nel sito")

06 ottobre 2008

"PER IL BENE DELLA CAUSA" di Alexandr Solzenitsyn

di Gianni Quilici

Trovo a Firenze in una libreria a metà prezzo un racconto-romanzo, forse introvabile, di Solzenitsyn “Per il bene della causa”. Dello scrittore russo ho letto diverse opere brevi, nessun grande romanzo.
Di lui Franco Cordelli, lettore onnivoro e molto perspicace e sempre interessante scrisse che “è il più grande scrittore vivente”. Era.
Ed in effetti in questo racconto, che ha la struttura d'un romanzo breve, S. fornisce un quadro della società sovietica staliniana di straordinaria vivezza ed efficacia.

Ci sono molti aspetti calibrati in sequenze di grande forza visiva:
la scuola e la passione con cui gli studenti hanno lavorato per costruirne una nuova, adeguata alle loro esigenze, in cui stanno per(o dovrebbero) trasferirsi, con la figura di una giovane insegnante appassionata e legatissima a loro in un rapporto reciproco;
l'ispezione di una commissione ministeriale, che decide dall'alto di delegare l'istituto agli usi di una non bene definito “centro di ricerche”, controproducente economicamente, oltre che pedagogicamente;
la disperazione, la rabbia, lo stato di confusione in cui precipita il direttore dell'istituto e gli incontri con il segretario politico della zona e di questo con il segretario regionale (due ritratti vivissimi in se' e nel loro contrasto).

Solzenitsyn dà della società stalinista una rappresentazione articolata: alla passione-dedizione-entusiasmo, di chi si sente parte di una causa collettiva si oppongono l'ottusità, l'intransigenza, il dogma fatto persona dal dio partito.

La scrittura è moderna e duttile, funzionale alla storia. Il primo capitolo sembra quasi una sceneggiatura cinematografica, in cui non contano tanto i personaggi, ma l'affastellamento poliedrico delle voci; mentre in altri c'è lo scontro scultoreo nella sua evidenza tra due volontà, due ideologie.

Alexandr Solzenitsyn. “Per il bene della causa”. Tindalo.

01 ottobre 2008

"TO DIE IN JERUSALEM" di Hilla Medalia

Recensione di Ilaria Sabbatini

Ieri sera, per la serie Doc3 della RAI, ho visto il documentario di Hilla Medalia, regista israeliana che con questo lavoro del 2002 realizzava il suo primo lungometraggio. Il titolo era interessante, la regista una donna, israeliana, così ho voluto capire di cosa si trattasse.
Selezione ufficiale del Jerusalem Film Festival e dell’Edinburgh Film Festival il documentario, più che aprire lo sguardo sulle prospettive di dialogo, pare ostaggio di un cortocircuito di argomenti che si inseguono senza soluzione di continuità. Un potenziale dialogo congelato nella logica della ragione e del torto. Si tratta di due storie parallele, due storie di donne, una palestinese diciottenne e una coetanea israeliana, le cui vite sono intrecciate e fuse nel momento della decisione suicida che solo nella morte le rende simili. La tesi – francamente generalista – è che vittima e attentatrice siano state stritolate da una stessa logica di potere. Il che è sicuramente vero, ma non esime dalla necessità di prendere atto di una situazione che non è semplicemente politica. A due anni di distanza la madre della giovane israeliana decide di incontrare la madre della palestinese, ma il loro confronto è per buona parte uno scambio di accuse che, per quanto giustificate, risultano reciprocamente sorde. L’una rinfaccia all’altra la prassi del suicidio stragista, mentre a sua volta viene inesorabilmente ricondotta all’indesiderabile – e malaccetto – ruolo di occupante. Colpisce il grande risalto riservato dalla regista alla questione religiosa che si esplica nell’intervista collaterale a un’altra aspirante suicida politica palestinese. Il suo tentativo è fallito e la giovane, detenuta in un carcere israeliano, si racconta giustificandosi approssimativamente con il Corano. L’episodio lascia alquanto perplessi perché questa figura di donna non è coinvolta nell’azione suicida di cui tratta il film. Per sua stessa asserzione la ragazza riferisce motivazioni personali – quasi esistenziali – indipendenti dal pensiero di gruppi organizzati, e proprio per questo ancor più disperanti. Forse è questa la caratteristica che la assimila all’altra giovane attentatrice suicida, cui è ascritta la riflessione del film. Ma tornando alle due madri, forse vale la pena soffermarsi sulle modalità del loro incontro dal momento che in realtà si sono potute parlare solo attraverso un collegamento satellitare, a causa delle condizioni imposte dall’occupazione. Non è un dato indifferente, è anzi una chiave di lettura per tutta la paradossale storia ripresa dal film. C’è da chiedersi: possiamo chiamarlo dialogo finché – per entrambe le parti – non è garantita la libertà di spostamento entro e oltre il confine che le isola? Ci può essere confronto finché le posizioni non sono paritarie? E’ comunicazione quella in cui manca la consapevolezza reale della condizione dell’altro? La comunicazione, ben al di là della trasmissione, passa inevitabilmente per la presa di coscienza di una situazione. Ci corre la stessa differenza che esiste tra vedere e guardare, sentire e ascoltare. Forse – prendendo spunto da Dolci – si dovrebbe cominciare ad ammettere a tutti i livelli che la distinzione fra comunicare e trasmettere è la stessa che corre tra potere e dominio.