28 febbraio 2010

"I miei giorni" di Giuliano Foggi



Nato a Lucca nel 1922 da una famiglia operaia, Giuliano Foggi riuscì a studiare e a laurearsi in lettere presso l’Università di Pisa. Poi, una vita da insegnante spesa negli istituti superiori di Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Lucca e Pisa a cui si accompagnò un’intensa e costante attività politica e sindacale a livello locale e nazionale.
Nella primavera del 2005, Foggi ha pubblicato I miei giorni 1942 – 1945, MPF Lucca, un originale personalissimo prosimetro, vera e propria “storia di un’anima” di chi aveva vent’anni nel periodo durissimo dell’ultimo conflitto mondiale.
Questa pagine nascono proprio da quel libro, dall’affollarsi dei ricordi, sollecitati a trasferirsi sulla pagina in prosa dalle affettuose richieste degli amici per raccontare ai più giovani un tempo di ferro e di fuoco ma anche di esaltante scoperta dei valori di libertà e democrazia. (Luciano Luciani)



da I miei giorni di Giuliano Foggi

31 Agosto 1943. Pisa.

Stamattina c’è stata veramente una sorpresa, si stavano facendo le ultime prove per l’esame di Caporal Maggiore e io, fortunatamente, l’ho superato.
Poi, a un certo punto, verso mezzogiorno c’è stato l’allarme. E’ sembrata subito una cosa seria perché c’hanno fatto uscire così come eravamo, chi con la divisa, chi con la tenuta sportiva, chi aveva le scarpette da ginnastica. Ci siamo allontanati, dalla parte opposta di Porta a Mare, sulla via Aurelia e abbiamo infilato il viale che porta a San Rossore. Ci siamo sdraiati lungo il fosso. E’ passato molto tempo, tanto è vero che da un momento all’altro aspettavamo il cessato allarme e invece, di colpo, abbiamo iniziato a percepire un forte rumore: erano aerei. Ma non due o tre isolati, erano tutti nel cielo e li vedevamo chiaramente, e poi abbiamo cominciato a sentire i colpi.
Colpi forti che si sentivano distintamente da Porta a Mare, a poche centinaia di metri da dove eravamo noi e dalla nostra caserma. Mi ricordo che la terra tremava e noi eravamo tutti a terra appiccicati e quello che era accanto a me, in un momento in cui sentimmo un rumore spaventoso, mi dette un morso sul culo! Poi, poco a poco, si allontanò questo rumore e ci accorgemmo che andava verso la parte centrale di Pisa. A un certo punto, dopo che era passato parecchio tempo, cessò l’allarme e di corsa ci riportarono in caserma.
Ci fecero uscire subito dopo così come eravamo, senza strumenti e arrangiandoci per trovare qualcosa da metterci addosso, e ci portarono di corsa a 200 – 300 metri al di là del ponte di Porta a Mare. A questo punto ci trovammo davanti ciò che era accaduto: da una parte, lungo il canale c’erano uomini che erano rimasti uccisi e avevano il cervello schiacciato contro il muro del canale. Noi andammo più avanti e arrivammo fino alla fabbrica della St. Gobain e anche lì c’erano cadaveri sia all’interno che all’esterno: c’era un operaio che uscì urlando, era tutto nero, era impazzito. Il comandante, allora, ci fece tornare indietro e ci portò proprio nel centro di Porta a Mare, alla stazione della tranvia, dove c’è la chiesa, i negozi, il barbiere, gli edifici. Arrivati lì vedemmo il campanile fatto a a pezzi , la chiesa mezza diroccata e una donna che usciva dalla porta urlando impazzita anche lei. Ci dettero ordine di cominciare a scavare tra le macerie e noi iniziammo da un edificio alla cui base si trovava il barbiere. Iniziammo a scavare con le mani e a tirare fuori i cadaveri che mettevamo sull’aiuola di destra davanti all’ingresso del ponte sull’Arno, dove ce n’erano già moltissimi, e poi tornavamo a scavare. A un certo punto mi capitò tra le mani la testa di una donna che aveva il cuoio capelluto quasi completamente sradicato: non era morta e in braccio aveva un ragazzino che, senza essere stato ferito, era ugualmente cadavere, molto probabilmente soffocato. E continuammo. Con le mani e basta, senza nessuno strumento.
Arriva uno dei nostri compagni, il quale ci avverte che avevano istituito un servizio d’ordine sul ponte dell’Aurelia nel caso di un’altra emergenza. Poi mi dice: “C’è tuo padre, vuol vedere come stai”. Allora sono andato là, così com’ero. Avevo le mani piene di sangue, fino ai gomiti, e lui era lì in bicicletta, proprio al di là dei soldati. Accanto a lui c’era un uomo. Sapevo chi era, ma non lo riconobbi subito: lavorava come falegname nella zona in cui lavorava mio padre. Erano venuti in bici da Lucca ed erano capitati lì subito perché sapevano dov’era la caserma. Quindi mio padre mi chiese come stavo, con pochi convenevoli tra di noi, ma intensissimi. Tanto che mi aprì il cuore. Mi dice: “Sai, si va verso la stazione, si va a vedere che è successo là” e quindi ci lasciammo. Tornai dentro e continuai a scavare come avevamo iniziato, fino al tardo pomeriggio. Poi, alla fine, eravamo tutti distrutti, ci inquadrarono e tornammo alla caserma che era lì a due passi, visto anche che erano arrivati altri militari a darci il cambio. Quando imboccammo il ponte, sulle due aiuole, cataste enormi, altissime di cadaveri, e poi cominciammo a vedere gente che arrivava in bicicletta…Quelli erano i parenti: andavano verso gli edifici e, vedendoli completamente distrutti, chiedevano informazioni. Poi le donne venivano a vedere sulla catasta e riconoscevano i propri figli.
Noi rientrammo in caserma e ci sorbimmo l’ennesimo rancio.


9 Settembre 1943. Stagno.

Ieri sera, in maniera sbrigativa e confusa, c’hanno detto che era stato comunicato l’armistizio, però né ufficiali, né sottoufficiali aggiunsero qualcosa di più. Per cui siamo andati a letto anche molto preoccupati, chiedendoci quello che sarebbe successo, anche se quello che doveva accadere era già avvenuto stamattina. Appena alzati c’hanno fatto vestire di tutto punto e ci hanno inquadrati, e consegnando a ognuno il proprio fucilino 91, senza elmetto (io avevo ancora le scarpe da ginnastica, perché le altre le avevo consegnate, erano sciupate e non me le avevano ancora cambiate, dicevano che nei magazzini non c’era materiale), c’hanno fatto salire sul camion e hanno portato, tutta la Compagnia, sulla strada per Livorno e a Stagno ci siamo fermati.
Proprio lì dove c’è il ponte sul canale che finisce in mare. Dietro di noi abbiamo visto che stavano arrivando gli altri reparti della Compagnia, ma anche reparti di altre Compagnie che erano alloggiati insieme a noi nella caserma della via Aurelia. Ci hanno disposto in ordine di battaglia ed è toccato proprio a noi, alla I° Compagnia e in particolare alla nostra squadra di essere schierati in prima fila. Il tenente ci dispose in questa maniera: accostati al poggio del canale, avendo però alle spalle il corso d’acqua. Quindi, in caso di necessità di arretrare non so come avremmo fatto. Tanto è vero che ci rivolgemmo al Sergente Maggiore che ci disse di attenerci agli ordini.
Dopo un po’ arriva un prete, probabilmente il parroco della chiesa che si vedeva distante. Ci indirizzò alcune gentili parole e poi ci benedisse, dandoci un augurio di buona fortuna. Noi, tutti contemporaneamente, reagimmo con quel gesto che di solito si compie per scongiurare eventi sfortunati o dolorosi. Poi rimanemmo lì, in attesa, appoggiati a una riva del canale. A un certo punto sentimmo del fracasso lungo la strada e il Tenente e il Sergente si affacciarono. Il fracasso aumentò e dopo poco vedemmo arrivare i carri armati tedeschi che avanzarono fino davanti a noi, occupando interamente la strada, seguiti da reparti a piedi e da altri automezzi. Cominciò un brevissimo colloquio tra il nostro Tenente e il comandante dei carri. Noi avevamo il fucilino 91 con in una tasca forse una decina di cartucce e nell’altra due bombe a mano. Nient’altro. Allora il Tenente parlottò un po’ e poi si rivolse a noi dicendo :”Cediamo le armi, non sappiamo cosa fare”.
Ci guardammo. Il Tenente e il Sergente Maggiore ci stimavano moltissimo, erano quasi nostri amici e potevano avere un anno o due più della truppa. Salimmo sul ponte e ci portarono sul lato della strada dove c’era un casotto. I soldati tedeschi ci presero il moschetto, ma dovevano avere molta paura anche loro perché, per esempio, le bombe a mano non me le levarono eppure si vedevano perché le avevo sul petto. E poi, cosa che ci sorprese, ci lasciarono liberi di andare via e noi ci siamo subito allontanati camminando lungo la riva del canale. A questo punto il Tenente mi si è avvicinato chiedendomi se aveva fatto male a cedere subito le armi: gli ho risposto che se non faceva così sarebbe morto lui per primo. Poi il gruppo si è diviso: una parte tentava di andare verso Pisa, un’altra era decisa a procedere verso sud e un gruppetto, tra cui Bruno Vangelisti, io e altri, prese la strada dei campi in direzione dei Monti Pisani. La meta era S. Maria del Giudice e Lucca: alcuni avrebbero poi proseguito verso nord.
Così abbiamo cominciato ad attraversare i campi coltivati a tabacco e la prima casa di contadini che abbiamo trovato ci siamo fermati e raccontato rapidamente quello che c’era successo. Loro hanno capito subito e ci hanno chiesto se avevamo bisogno di cambiarci, visto che non potevamo andare in giro vestiti da soldati. Allora hanno dato a ciascuno una camicia, un paio di pantaloni e noi gli abbiamo lasciato lì la nostra roba. Così vestiti abbiamo continuato la marcia attraverso la piana di Livorno fino ad arrivare sotto ai Monti Pisani in una zona dove passa l’Arno, che ho subito riconosciuto perché ere la strada che portava a Calci. Me la ricordavo perché l’avevo fatta in bici e a piedi tanti anni prima quando ero nell’Azione Cattolica. Gli altri si fidavano della mia guida e pensavo di prendere la strada lungo monte per arrivare a Santa Maria del Giudice e poi a Lucca. Il ponte non c’era, ma vedemmo che uno con la barca faceva servizio e portava la gente a Badia. Lo faceva per tutti e anche per noi senza volere nulla perché aveva capito la situazione. Scendemmo dalla parte di là e potemmo percorrere la strada sotto monte, fermandoci più volte visto che c’erano le viti che mostravano già dei bei grappoli d’uva. Avevamo fame e iniziammo a mangiare quest’uva. Così, lungo la strada siamo arrivati a San Giuliano: non entrammo in paese, ma, sapendo che avevano terminato la galleria che congiungeva la parte superiore di San Giuliano con Santa Maria del Giudice, che doveva essere l’inizio di un raddoppio della strada del Brennero, prendemmo un sentiero, al margine del paese che saliva su e portava proprio in cima al passo. Anche questo lo conoscevo, perché c’ero stato dalla parte di Lucca. Arrivati in cima, la galleria si è aperta davanti a noi: buia, non terminata, il manto stradale non c’era, solo una copertura grossolana e mancava tutto il resto. Il piano stradale non era tale, ma tutto buche, avvallamenti, e al buio siamo cascati varie volte in quanto non si vedeva nulla. Infine arrivammo dalla parte di là e, a questo punto, ci saremmo divisi, Bruno da una parte, io dall’altra e gli altri avrebbero continuato verso nord. Decisi di non entrare a quell’ora a Lucca perché mi sembrava pericoloso.

9 Settembre 1943. Santa Maria del Giudice. Sera.

Dopo il foro di San Giuliano c’era ancora luce e si vide Lucca. Tutta la notte ho sentito l’odore delle mele, non potevo vederle nel buio della stanza, ma erano lì, sul cassettone di fronte al letto. “Quest’anno non potremo vederci alla casa di campagna” mi aveva scritto Marta ai primi di luglio. La fuga da Stagno iniziata la mattina era finita in una galleria buia, piena di buche. Appena fuori, l’ampia valle splendente di verde: in mezzo la città. Ho bussato ugualmente alla casa di campagna e la zia di Marta mi ha accolto, senza chiedere nulla. E ora dormivo nella stanza odorosa di mele. Ancora non potevo sapere: Marta era malata e sarebbe morta qualche giorno dopo. Proprio Marta e Giuba erano state le prime conoscenze che avevo fatto in treno i primi giorni che andavo all’università. Eravamo nel 1942. Erano carine e gentili, erano tutte e due ‘anziane’, facevano il terzo anno e io ero una matricola. E allora, subito, senza che io dicessi loro nulla mi presero sotto la loro protezione. Giuba la conoscevo vagamente perché stava in un bellissimo palazzo in piazza San Pietro con una splendida veranda e siccome io sto lì a due passi, in via del Biscione, erano posti che conoscevo molto bene e mi era capitato, quindi, di vederla. In treno, ma anche all’università mi hanno protetto perché le matricole erano proprio trattate male, anche se avevano pagato la cena o il pranzo, e così via. E dovendo usare mezzi pubblici, come il treno, accadeva che degli ‘anziani’ entrassero nel vagone e facessero scendere le matricole prima del tempo. Anche un paio di miei carissimi amici, con cui avevo fatto il liceo assieme, sono dovuti scendere più di una volta a Rigoli o a Ripafratta. Poi questi universitari venivano da me per fare altrettanto e le due ragazze dicevano loro, tranquillamente, che erano ‘anziane’ e che io ero con loro. E secondo le regole goliardiche questi se ne andarono e mi lasciarono in pace. Da questo rapporto amichevole è nato, poi, un rapporto di più stretta amicizia tra me e Marta che è continuato per vari mesi durante il periodo in cui ero a Sassuolo a fare il corso e anche dopo. Le poche volte che sono venuto a casa l’ho sempre incontrata, stavo 5 – 10 minuti a casa mia, poi andavo per 2 – 3 ore da lei prima di riprendere il treno per Sassuolo. Poi successe qualcosa e mi scrisse una lettera, a luglio. E la sera, passata nella casa della zia di Marta, è dentro di me, come qualcosa che rappresenta più di un ricordo, come se fosse stato l’ultimo incontro. Perché era la casa dove ci eravamo visti, fatto merenda, da cui eravamo partititi per salire la cima del monte, e, tornando, la mano mia nella sua.




Luglio – Agosto 1944. Lammari.

Sono tornato a casa i primi di luglio, a casa per modo di dire, perché i miei come tanti altri sono sfollati nella campagna lucchese. Una conoscente, o meglio un’operaia che lavora con mia madre nella Manifattura ci ha trovato un alloggio lì a Lammari, a casa di un vecchio contadino a pochi passi dalla chiesa. Da questo momento sono sempre stato imboscato, nascosto come tanti altri giovani del paese o sfollati che erano nelle mie stesse condizioni. E allora, a poco a poco, abbiamo cominciato a trovarci e a passare i pomeriggi al sicuro in fondo ai campi di granturco, giocando a carte. Mi sono accorto che a giocare a carte avevo fortuna, i lammaresi sono famosi giocatori, e quindi sono riuscito anche a guadagnare qualche soldo. Così passavamo il tempo, sempre però attenti, preoccupati di quello che succedeva. Le notizie le sapevamo da alcuni nostri compagni che venivano da Capannori, i quali erano in rapporti con i partigiani pisani che erano sul Monte Serra, che ci dicevano come andavano le cose nella piana pisana, cosicché noi n’eravamo sempre al corrente con la speranza che gli Americani occupassero Pisa e che, passato il Monte Serra, arrivassero a Lucca. Il resto del tempo lo passavamo in una corte vicina con un paio di ragazze: una era di lì, del paese; l’altra era una viareggina sfollata che faceva la parrucchiera e la manicure. E stavamo per delle ore in fondo ai campi a chiacchierare, con i piedi dentro i cataletti di irrigazione che venivano dal Serchio perché faceva molto caldo. Dopo un po’ di tempo tra me e una di queste ragazze è nato un rapporto più ravvicinato e mi ricordo che la sera andavamo in questa corte e facevamo veglia sull’aia con i genitori di lei e gli altri. Una sera, mentre eravamo lì, arriva la notizia che c’erano in giro, le pattuglie tedesche che stavano rastrellando e quindi, anche se la mia casa era a due passi, non vollero che facessi quei 200 – 300 metri e mi fecero dormire da loro. Dormii su in soffitta, benissimo. E la cosa mi piacque pure perché era una variante della solita vita.
Tante volte per poter essere libero, per poter fare due passi e muovermi, usavo camuffarmi: mi facevo la barba tutti i giorni, già l’avevo radissima, e poi mi facevo dare una sottana da mia sorella, un reggipetto, e stavo nell’orto. Sembravo una ragazza, infatti le pattuglie tedesche che sono passate non ci hanno mai fatto attenzione. Però, una mattina mentre mi lavavo nel fosso che passava sotto casa, ero vestito con i pantaloncini corti da ragazzo. Passò una pattuglia tedesca che mi prelevò,visto che nessuno ci aveva avvisato del loro arrivo. Mi hanno fatto mettere le scarpe e ho visto che avevano prelevato anche altri giovani del posto e ci hanno portato quasi al confine del paese di Lammari, su un poggio un po’ rialzato. Sembrava di capire che dovevamo scavare una trincea e, nel mentre che davano ordini, tutta spaventata è arrivata mia madre, che non era a lavorare. Le dissi di stare tranquilla che in qualche modo avremmo fatto. E’ successo proprio così. Poi è arrivata un’altra pattuglia tedesca e un soldatino, che doveva essere più giovane di me, mi ha detto: “Tu essere piccolo, bambino, tornare a casa, via” e non credo di essermelo fatto ripetere due volte. Sono rientrato a casa e a mia madre ho semplicemente detto che ero tornato. Per quella volta è finita lì.


10 settembre 1944. Lammari. Lucca.

Dalla mattina del 6 settembre i tedeschi hanno abbandonato il paese. Il 7 e l’8 sono andato in città: gli abitanti avevano paura che entrasse gente pericolosa e noi gli abbiamo chiesto di lasciarci passare. Ci hanno detto di attraversare una di quelle sortite lungo le Mura e lì ci siamo recati: quella che si trova in corrispondenza della Manifattura Tabacchi, dove ci sono le strutture sportive. Sapevamo che lì, intorno al baluardo c’era un ingresso. Siamo arrivati e abbiamo visto il Pallone, ampio, che finisce in una stradina stretta. Tanto è vero che, io lo sapevo da mia madre, quando c’erano i raid aerei i cittadini lucchesi e i dipendenti della Manifattura si rifugiavano là dentro. Allora siamo entrati con le biciclette in mano e lo spettacolo che abbiamo visto era questo: tanta gente giovane, vecchia, donne, bambini, sistemata con brande, brandine, carrozzine, utensili da cucina e per accendere il fuoco. Abbiamo percorso tutto il Pallone del Baluardo San Paolino uscendo in Lucca dalla parte opposta. Da qui siamo andati diretti alle Scuole Elementari in piazza Santa Maria Bianca perché ci avevano detto che c’era uno dei centri del Comitato di Liberazione da cui avere informazioni. Qui ci assegnarono subito un incarico: recarci da don Giurlani, parroco di Pelleria, il quale sin dall’8 settembre si era messo in mostra per la sua attività antitedesca e antirepubblichina, ospitando gente, trovando sistemazioni a molti. Addirittura, ero presente io, quando, nei primi giorni dopo l’8 settembre in casa sua furono nascoste le armi che la gente aveva preso per utilizzarle come poi avvenne. Negli ultimi tempi su don Giurlani si avvertiva, pesante, la pressione delle autorità repubblichine e di conseguenza il Comitato di Liberazione Nazionale aveva deciso di farlo sparire e per questo lo avevano mandato a rifugiarsi nella chiesa di San Pietro a Vico. A due passi dal grande mulino. Siamo andati a trovarlo il giorno dopo: don Giurlani era tutto contento che ci avessero mandato a richiamarlo, ma aveva ancora paura di tornare in città. Ci disse di riferire che tornava volentieri ma dovevano venire a prenderlo con 2 – 3 partigiani per sicurezza. Allora noi torniamo alla scuola per riferire ciò che ci era stato detto. Ci dissero di lasciare il nostro nome per comparire come partigiani o collaboratori alla liberazione, ma noi rispondemmo che avevamo semplicemente fatto questa cosa e non volevamo apparire per quello che non eravamo o per quello che non avevamo fatto.

23 febbraio 2010

"L'ubicazione del bene" di Giorgio Falco


di Luciano Luciani

Nove racconti scritti ora in prima ora in terza persona con protagonisti diversi ma, in fondo, uguali: uomini e donne senza qualità, trenta/quarantenni, figli del nostro tempo alle prese con un quotidiano color “grigio desolazione”. Coppie giovani di recente formazione, ma già ‘scoppiate’; villette a schiera; mutui da pagare incombenti, ossessivi, minacciosi; lavori retti da logiche aziendali giapponesi, quando non vagamente naziste… Ma, al di là del legame tematico, queste nove storie sono collegate organicamente tra loro dallo scenario in cui si svolgono: Cortesforza, un posto immaginario ma reale della Padania dei nostri giorni. L’Autore ce lo descrive puntigliosamente, utilizzando il linguaggio dei consulenti tecnici del tribunale di Milano che si occupano dei pignoramenti delle case di chi non arriva a pagare il mutuo. Qui è ubicato il bene, inteso come dato immobiliare, e, antifrasticamente, come male morale.

È qui che il disamore dei tempi nostri trova il suo brodo di coltura.
Una periferia allargata che non è più campagna e non è ancora città. Stradine, stradone, campi e cortili, agglomerati in cui, attorno ad antiche residenze contadine, spuntano disordinatamente negozi, garage, fabbrichette, centri commerciali, villette a schiera e condomini realizzati in fretta e furia in pretto stile “palazzinaro spinto”, inframmezzati da lande desolate occupate da capannoni industriali in disuso e abbandonati da anni. E poi raccordi, scorrimenti veloci, circonvallazioni… Luoghi “non luoghi” abitati da TIR, da SUV, da fuoristrada di città. Tapis roulant di uomini e merci.

L’ex Bel Paese è pieno di posti così al Nord come al Sud, come al Centro, Toscana compresa.

Un paesaggio irrimediabilmente bruttato da un’urbanizzazione dissennata che non ha mai risposto, non dirò a una ragione estetica, ma a una ragione qualsivoglia, che non sia quella della speculazione e di un profitto immediato e rapace.
Cortesforza potrebbe essere Garlasco, oppure Erba, scenari delle più disperanti, perché assurde, storie di cronaca nera di questi ultimi anni. E poiché, come sappiamo, il sonno della ragione genera mostri, mostruose sono le figurine che Giorgio Falco ritaglia sul teatrino delle sue storie: famiglie in crisi; uomini o donne sprovvisti di passioni vere; un’umanità straziata anche perché convinta, fino in fondo, che la loro sia l’unica forma di esistenza possibile. Relazioni algide, mai segnate dalle emozioni e sempre filtrate dall’inventario dei mediocri beni posseduti o desiderati ben rese attraverso i gelidi dialoghi tra i personaggi che lasciano trapelare solo vite banali e dolenti.

Nei racconti di Falco il cosiddetto hinterland del benessere rivela come il ceto medio diffuso, la piccola borghesia e la microborghesia che popolano il nostro mondo satollo e benestante, abbiano perduto, se mai l’hanno avuti, moralità e valori.
Tutto questo l’Autore lo ottiene con una scrittura secca, scabra essenziale, ricca di tecnicismi, di gerghi professionali, da quello aziendale a quello dei commercialisti e dei periti: una scrittura che non di rado si fa stranita, stralunata, a significare gli impazzimenti individuali e collettivi che segnano sempre più spesso i nostri giorni: fallimenti che si consumano nei modesti metri quadri di una villetta unifamiliare; piccole ma dolorose derive quotidiane; apocalissi minime su scenari suburbani…

Questo racconta la penna, affilata come un bisturi, di Giorgio Falco: secondo moduli narrativi che la critica al suo libro ha voluto spesso, e anche con qualche ragione, ricollegare a Carver, il padre riconosciuto del minimalismo letterario, la corrente che fa dell’asciuttezza propria del racconto breve la modalità di un atto narrativo che procede più per sottrazione, che preferisce lasciare intuire piuttosto che svelare.

D’accordo su Raymond Carver, ma io direi anche Federico Tozzi per la crudeltà e Bianciardi, il grande Luciano Bianciardi per la disillusione e il ripiegamento.

Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, Einaudi Stile libero big, pp141, Euro 16,00

20 febbraio 2010

"Viaggio in Requiem" di Francesca Caminoli


di Gianni Quilici

Il libro di Francesca Caminoli è un diario-viaggio alla ricerca del figlio perduto. Per afferrarne un po' il senso proviamo a leggerne l'inizio.

3 marzo 2005
Oggi è il mio compleanno e Guido mi ha mandato un bel regalo: la neve. Nevica oggi a Lucca.
Domani è il suo compleanno, ma lui non ci sarà. Per questo mi ha mandato una neve. A lui piaceva molto la neve. Mamma senti, c'è l'odore della neve, a volte lo diceva già ad ottobre. Mi ha mandato la neve perché non poteva mandarmi un regalo. Lui è lontano, è andato via. Si è suicidato il 12 settembre dell'anno scorso, sei mesi fa. Si è buttato dai bastioni del castello di Otranto. All'ora del tramonto. Nel blu. Aveva il mare davanti, aveva il cielo davanti. Guido amava le cose belle”.

Già da queste poche righe iniziali, ma soprattutto nel proseguo, si intuisce che per capire nel profondo questo libro-diario occorre avere amato davvero, amato così tanto da rimanere “ossessionati” da questo amore. Altrimenti si può soltanto percepire il dolore, ma alla fine forse “consumarlo”.

Guido, il figlio amato, si è suicidato, “si è sacrificato” scrive l'autrice “per fare stare meglio il mondo” come asseriva lui stesso. E Francesca Caminoli un anno dopo studia un percorso che la porti ad Otranto il 12 settembre, proprio lì sui bastioni del castello, al tramonto, verso le cinque e mezza.
Così il 2 settembre parte in macchina da sola e la sera stessa, senza averlo preventivato, “in una piccola camera d'albergo sui Monti Sibellini si ritrova a dialogare per iscritto con lui, ad annotare pensieri, cose viste, sensazioni con lui”

Il diario è, quindi, anche uno di quei meravigliosi viaggi nell'Italia minore, più appartata ed intima, dove si sente ancora respirare il palpito delle cose autentiche: il Piano Grande nei Monti Sibellini, l'Aquila e il Gran Sasso, Santo Stefano di Sessanio e la Valle dell'Orfento, Trani e Castel del Monte, Lecce e infine Otranto; poi ci saranno Gallipoli e Matera, le Dolomiti lucane e Venosa...

Quando ella ritorna, dopo tanti giorni, sull'autostrada Napoli-Roma scrive:
“Mi sembrava di essere entrata in un altro mondo, come se ci fossero due italie, una dove tutto va ancora adagio, dove incontri una macchina ogni tanto, aquile e zampognari, dove riesci a pensare. Un'altra dove tutto è caotico, ammassato, macchine su macchine, case su case, persone su persone...”

Ma l'elemento di forza di questo viaggio è il colloquio con il figlio, fatto di domande e di pesanti interrogativi (Da dove venivano, Guido, il tuo insostenibile dolore e la tua insostenibile sofferenza? Quante volte me lo sono chiesta senza riuscire a darmi una risposta. E non mi bastano le cose che mi dicevi, il tuo poterci fare del bene da un altro mondo, il tuo non volere stare più qui. Questo era il dopo, ma il prima, il prima da dove veniva?), di constatazioni (Tu sei stato prima il bambino, poi il ragazzo, poi il quasi uomo, anzi l’uomo, che sempre mi ha obbligato a guardare e a guardarmi nel profondo.), di critiche e autocritiche, di ricordi struggenti e soprattutto del bisogno di segnali inviati dal figlio della sua presenza, del suo esserci ancora. (Guardo i girasoli e guardo il prato. E all'improvviso tu sei lì,sei etereo come nella mia visione che ti ho raccontato, ti alzi, mi sorridi, vieni da me e mi abbracci.Mi abbracci le spalle e la testa, io seduta e tu in piedi. Non dici niente, ma non importa, sei lì, la tua presenza parla per te).

E' un colloquio-rapporto di tipo mistico?, ci si potrebbe chiedere.
E' una fusione tra mistico e realistico, in cui il mistico diventa reale, perché la presenza di Guido nasce da ricordi, immagini, suggestioni così forti che si propongono e ri-propongono, al di là della volontà della scrittrice, come dati reali, che fanno parte dell'immaginario più intimo e più sconvolgente e, quindi, più vero dell'autrice. E qui, in questi colloqui, Guido viene rappresentato nella forza delle sue idee, nella vivezza di certe immagini, nella suggestioni di certi luoghi.
Le parti più alte del libro sono, infatti, quelle in cui si viene a creare quasi una simbiosi tra la mamma-il figlio-il luogo. Si pensi alle pagine su Otranto, ma soprattutto a quelle su Matera.

Ma c'è un altro elemento ancora che forse si tende ad escludere, associandolo troppo all'autrice stessa: il figlio, Guido Veronesi. Guido non lo conoscevo, ho visto soltanto la bella immagine di un suo dipinto in copertina (e un'immagine non ha la forza materica di un dipinto) e una sua poesia, posta come epigrafe all'inizio.

Essa dice:

"Nell'istante
in cui la necessità
incontra la bellezza
trovo lo spazio
che tutti i sensi
in sé raccoglie”

Nella poesia ci sono i due elementi che un filosofo-psicologo come James Hillman e un politico-poeta come Nichi Vendola considerano essenziali per la politica degli anni a venire: la necessità (l'acqua, il mare, la terra e il fuoco) e la bellezza (la poesia che attraversa tutto). Qui in pochi essenziali versi Guido Veronesi le raccoglie e le illumina nello spazio forse più alto dato a noi umani: la creazione. Questi versi soltanto basterebbero per sentire il rimpianto del suo non esserci più, delle potenzialità che aveva di potersi esprimere ancora.

E c'è un altro aspetto, secondario nell'economia del romanzo: il modo e il luogo della sua morte, che egli ha voluto e che ha scelto. Otranto, il bastione del castello, il mare, il cielo, il salto, il prato. Una scelta aperta, ariosa. Una scelta estetica. Ho pensato a Carmelo Bene, il massimo esteta forse del novecento e non solo italiano, al suo romanzo-film Nostra Signora dei Turchi, che si svolge, in buona parte, a Otranto tra il castello, la cattedrale, il mare... E mi sono chiesto: “Guido avrà conosciuto Carmelo Bene, lo avrà, in qualche misura amato...”


Francesca Caminoli. Viaggio in requiem. Milano, Jaca Book 2010, pp. 117. Euro 12,00.

Francesca Caminoli è nata a Lecco nel 1948. Giornalista professionista, ha lavorato a Milano in quotidiani e periodici fino al 1982, poi si è trasferita a Lucca. Ha pubblicato Il giorno di Bajram, Il Grandevetro/Jaca Book, 1999, e per la stessa casa editrice La neve di Ahmed (2003) ripubblicato da Paravia Bruno Mondatori nel 2006.
Negli ultimi anni ha realizzato un giornale in Nicaragua con i ragazzi di strada del progetto Los Quinchos, con cui collabora. Con il ricavato della vendita delle incisioni del figlio, scomparso nel 2004, ha aperto una piccola scuola di pittura per i ragazzi del progetto.

"Una domenica a corte di Re Travicello" di Maurizio Antonetti


di Luciano Luciani

Capannorese doc e radicato da sempre in quel di Segromigno, Maurizio Antonetti, coltiva la scrittura da oltre vent’anni e, come confermano critica, lettori e qualità delle sue pubblicazioni, con riscontri sempre positivi. Di qualche interesse, poi, il fatto che tragga spesso stimoli e suggestioni dalla sua attività di biologo che rielabora con un’originalità di temi pari alla competenza stilistica.

Come accade in questo Una domenica a corte di Re Travicello - Compendio di paleoandrologia dove si ipotizza un mondo prossimo venturo in cui si è compiuta un’incruenta e definitiva rivoluzione di genere. Ovvero, le donne, scoperto come garantire la riproduzione fecondando l’ovulo con il nucleo di un altro ovulo anziché con quello di uno spermatozoo, hanno imparato a fare a meno dall’elemento maschile. E così, prescindendo, prescindendo, il genere maschile umano si è estinto, mentre l’altra metà del cielo si è appropriata dell’intera volta celeste. Pacificamente le donne hanno riorganizzato l’assetto geopolitico internazionale e avviato profonde riforme sociali: senza trascurare la religione e la morale governate, queste ultime, fin dal 2279 dai principi contenuti nella celeberrima lettera enciclica Muliebris Ecclesia Nova di Papa Giovanna I.

L’Unico Maschio sopravvissuto, frutto di una sofisticata ricostruzione genetica multirazziale, resa possibile dall’esistenza di banche genetiche costituitesi prima della rivoluzione sessuale, ricopre la carica onorifica e simbolica di Monarca Istituzionale. Vive nella reggia di Versailles, scenario di un’altra, remota rivoluzione, e ha come unico compito quello di mostrare ai turisti, soprattutto gite scolastiche dei licei femminili, come funzionavano la sessualità e la riproduzione di una volta.

Un reperto museale con un duro lavoro da svolgere, rispetto al quale il nostro sovrano non sempre si rivela all’altezza: “Quando la Sexy-sveglia trillò il suo buongiorno a base di sussurri e gridolini erotici, Sua Maestà Vir XIV si svegliò con un’erezione più flaccida del solito.”

Inizia così il romanzo di Maurizio Antonetti che rielabora con un’ironia ora lieve ora più pungente e graffiante argomenti scientifici da almeno 15/20 anni tutt’altro che peregrini. Come confermato da uno studio apparso sulla prestigiosa rivista inglese “New Scientist” e ripreso dalla edizione on line del quotidiano “Daily Mail” del 31 gennaio 2008: scienziati britannici della Newcastle upon Tyne University hanno messo a punto una tecnica per trasformare le cellule del midollo osseo della donna in spermatozoi con il risultato di tagliare fuori l’uomo dal processo di concepimento.

La realizzazione della prospettiva ‘estrema’ dell’autofecondazione femminile è alle porte e Antonetti ne dipana alcuni possibili sviluppi: seria, serissima, la materia, ma lo scrittore lucchese, con una misura tutta toscana, sceglie programmaticamente di evitare la tradizione anglosassone degli incubi wellsiani, orwelliani, ballardiani e opta per una storia intelligentemente maliziosa, ricca di trovate argute e di rimandi al nostro difficile presente. Che, sia detto per inciso, non appare tanto peggiore della società monosessuale che ci aspetta tra, più o meno, mezzo millennio.




Maurizio Antonetti, Una domenica a corte di Re Travicello - Compendio di paleoandrologia con 14 tavole di Jessica Lagatta, I Libratti, Trasciatti Editore (www. trasciatti.it), pp. 112, Euro 12,00

"Diario di un podestà antifascista" di Giovanni Celati


di Luciano Luciani

La sensazione di essere di fronte a pagine originali e diverse si prova fin dal titolo: Diario di un podestà antifascista. Quasi un ossimoro, perché chi conosca appena un po’ la storia di quei tempi sa che podestà e antifascista sono due termini in evidente opposizione tra loro.

Durante il fascismo, podestà era il nome, ripreso dalla tradizione dei comuni medievali, con cui s’indicava il capo dell’amministrazione comunale, in sostituzione del termine sindaco: quindi, non si dava, non poteva darsi un podestà antifascista…

Eppure accadde, a Coreglia Antelminelli in provincia di Lucca, nei mesi terribili tra il giugno e il dicembre 1944 in un tempo di guerra e di stragi: una per tutte, proprio lì a due passi, Sant’Anna di Stazzema.

Questi i fatti: nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1944 una decina di partigiani della XI Zona militare della formazione di “Pippo”, blocca la via d’accesso al paese e sequestra il segretario comunale, un appuntato dei Carabinieri, un paio d’impiegati e, soprattutto, il Commissario prefettizio.
Il Comune rimane senza una guida e tocca proprio all’uomo di legge, antifascista che più antifascista non si può, sfollato con la famiglia a Coreglia, farsi carico dei duri doveri dell’amministrazione, in un tempo di ferro e fuoco. Gelati podestà è il difficile punto d’equilibrio di un complicato sistema di rapporti di forza: fascisti che si preparano una via di fuga; antifascisti preoccupati delle sorti di una comunità altrimenti allo sbando e già impegnati a predefinire il “dopo”; tedeschi e partigiani, gli uni e gli altri interessati a un’area sostanzialmente disarmata per potersi dedicare a fronti più ‘caldi’ e impegnativi.

Detto così sembra facile, ma non lo fu per nulla. Non lo fu certo per l’uomo a cui toccò in sorte la mediazione quotidiana, già difficile in tempo di pace, figuriamoci con la Linea gotica che correva a pochi chilometri, i tedeschi e i repubblichini sempre più incattiviti per la direzione ormai presa dagli eventi bellici, i partigiani galvanizzati e gli Alleati a pochi chilometri.

Fu abile Gelati. E lo soccorse, probabilmente, l’uso sapiente della parola, propria dell’uomo di legge che tanti successi forensi e professionali doveva garantirgli negli anni successivi alla guerra.

L’uomo parla bene, ma, soprattutto alle qualità di misura e prudenza unisce un’altra grande dote: quella di riuscire a sollecitare, a evocare sempre nei suoi interlocutori la comune umanità. Dietro le divise, dietro le appartenenze ideologiche o politiche per Gelati c’è sempre un uomo, che, proprio perché tale, non può non condividere i comuni affanni e le comuni preoccupazioni, i problemi e le soluzioni da offrire a quei problemi, se ragionevoli e sensate.
È questa la sua forza, la sua scommessa che si rivelerà vincente lungo sei estenuanti mesi di gestione della cosa pubblica coreglina.

Ma chi era Giovanni Gelati?
Classe 1910, di estrazione borghese (è figlio di un direttore di banca, combattente nella Grande Guerra e dichiaratamente fascista), studia presso i Barnabiti di Firenze nel prestigioso collegio “La Querce”. Repubblicano convinto ma credente, Giovanni, rafforzerà le sue convinzioni contrarie al regime… per amore. Nel 1936, infatti, sposa Lydia Cardon, figlia del dottor Alfredo, fondatore del gabinetto di analisi dell’ospedale di Livorno. Socialista e, in quanto tale, nella città di Costanzo e Galeazzo Ciano oggetto, lui e la sua famiglia, delle particolari attenzioni dei fascisti livornesi. Laureatosi a Pisa, praticante a Firenze, ma privo di tessera fascista e, per di più, ormai parente di un suocero sovversivo, il giovane Gelati è costretto a una soluzione professionale di ripiego.

Gestirà, infatti, la Libreria Belforte, in via Ricasoli a Livorno: i proprietari, infatti, sono ebrei in un tempo in cui a loro non è consentito condurre direttamente i propri affari. Va senza dire che i locali di quella libreria diventeranno un piccolo territorio liberato per antifascisti, afascisti, oppositori e antipatizzanti di un regime, che, tre anni di guerra, fecero rovinosamente implodere dall’interno.

E sarà il popolo italiano a pagare con sangue e rovine i debiti contratti dal fascismo.
Si infittiscono i bombardamenti sulla città. Livorno è colpita alla fine di maggio e di giugno, ma proprio dalla primavera del ’43, il previdente avvocato aveva deciso di trasferire la famiglia, moglie e figlioletta di due anni, Giovanna, a Coreglia, già luogo ameno di vacanze estive negli anni immediatamente precedenti. Sembra una scelta avveduta, ma il fronte sta salendo e i Tedeschi cominciano ad arroccarsi lungo l’Appennino in previsione di tempi peggiori. Nel giugno ’44 anche a Coreglia finisce la pace e l’avvocato Gelati, su mandato degli antifascisti lucchesi, si troverà alle prese con la sua causa più difficile e complicata.

Grande merito del libro è quello di farsi leggere, ancora oggi, con piacere e, nonostante la tragicità dei tempi e degli eventi, direi, con pieno divertimento: sì, perché il nostro podestà antifascista scrive bene, in una bella lingua toscana intrisa d’ironia e autoironia a dimostrazione che gli eroi più veri sono sempre quelli che non si prendono troppo sul serio. A questo proposito meritano davvero alcuni passaggi: penso alle velocissime battute in cui la mamma di Gelati, in occasione del sequestro del Commissario Prefettizio rimane affascinata da quei bei ragazzi, i partigiani, che erano scesi dalle montagne. Un particolare che non sarebbe dispiaciuto a Beppe Fenoglio.

Oppure la polemica, amichevole ma serrata, con le “barbe” antifasciste di Coreglia, Luigi Velani, Natale Mancini e Rodolfo Martinelli, i tre Re Magi della democrazia lucchese a venire, che Gelati intanto arruola “tra quanti, per vocazione, fanno il mestiere di esigere il dovere degli altri”.

Oppure le discussioni, stringenti, ricche di una vivacissima dialettica con i comandanti tedeschi che si alternano nella piazza di Coreglia: il nostro Podestà, senza cedere di un millimetro nelle proprie idee, ottiene sempre di convincere i tedeschi, in armi e bellicosi come può esserlo un esercito di occupazione, a pratiche miti e civili. Oppure i testi dei bellissimi manifesti con cui Gelati dialoga con la popolazione, espone le sue difficoltà, si impegna in prima persona, chiede collaborazione per dare da mangiare a tutti: è la “battaglia del grano” di Coreglia.



Giovanni Gelati, Diario di un podestà antifascista. Coreglia Antelminelli Giugno – Dicembre 1944, prefazione di Alberto Cavaglion, introduzione di Giorgio Bernard, copertina di Antonio Possenti, collana I racconti, Salomone Belforte editore, Livorno 2009, pp.130, Euro 14,00

13 febbraio 2010

“Passione semplice” di Annie Ernaux


di Gianni Quilici

L'amore come ossessione.
L'amore di una donna per un uomo.
Lui è uno straniero e sposato, che ogni tanto si fa presente.
L'amore è l'attesa.
L'attesa è feroce, ossessiva, cancella ogni pensiero, assorbe ogni realtà.
Questo amore è rappresentato per quello che è. Senza infingimenti. Senza coperture. Dapprima “scritto” per sé, come antidoto. Poi come desiderio di condividere.
E' un'autobiografia lineare, senza contrasti. Non c'è, infatti, rapporto tra il sentire e poi il riflettere, lottare, mutare. Non c'è contrasto, perché non ci sono altre possibili scelte. Solo dolore che copre tutto.

Ha senso una pubblicazione o doveva (dovrebbe) rimanere privata?
Ha il senso di una confessione forse spudorata, ma sincera, che non può, non vuole nascondersi. Questo è un pregio. L'altro di essere sufficientemente breve, essendo il romanzo senza un vero sviluppo.

Annie Ernaux. Passione semplice. Passion simple. Traduzione di Idolina Landolfi. Pgg. 73. Rizzoli.

"Il clown" di Athos Bigongiali


di Luciano Luciani

“Un clown ad Auschwitz, disse! Che storia! Conosco gente che farebbe carte false per averla.”
E’ una battuta di Flora, ex attrice, riciclatasi in età matura come agente cinematografica dei suoi colleghi di una volta e, in tre parole chiave, - clown, Auschwitz, storia - riassume tutta la complicata alchimia del romanzo di Bigongiali.

C’è la comicità del clown, il personaggio comico per eccellenza del mondo circense, e c’è Auschwitz, il campo di concentramento tedesco nella Polonia sud-occidentale, 60 km ad ovest di Cracovia: ovvero l’inferno totale, l’orrore assoluto, la tragedia “senza se e senza ma”. Il luogo delegato dai vertici nazisti all’annientamento degli ebrei europei, dei prigionieri russi, degli oppositori politici, zingari, omosessuali e non solo: e quindi l’oscenità delle camere a gas, lo Ziklon B, le fosse scavate tra i boschi, la tragica contabilità finale che, solo ad Auschwitz, giunse a 1 milione e 100 mila morti.

Tra queste due polarità, il comico per eccellenza e la tragedia assoluta, le linee di forza di una storia. Una vicenda complessa, quella di Helmut Doork o Helmut il Grande, clown tedesco di qualche fama ma ormai in disarmo, che non fa più ridere nessuno e che si è messo a bere. Nel bistrot di una Parigi ancora occupata dai tedeschi, Helmut Doork si ubriaca e prende di mira Hitler, lo sbeffeggia, ne fa l’imitazione. La Gestapo, sempre vigile, lo arresta e lo spedisce in un campo di rieducazione. Le prime tappe di un annichilimento dell’anima che lo porterà ad esibirsi di fronte ad un nuovo pubblico, i bambini del campo: “aveva preso a seguirli dovunque, la mano pronta a truccarsi il naso di rosso, finché un giorno per puro caso si era trovato ad accompagnarli sul treno che stava giusto per partire, destinazione ignota” (p.142). Auschwitz, probabilmente.

Aiutante - carnefice di bambini o vittima lui stesso, Helmut Doork, destinato a sparire insieme ai suoi piccoli disperati spettatori? Angelo pietoso delle sofferenze estreme dei più deboli tra i perseguitati, a cui intende regalare un ultimo sorriso, o mostruoso pifferaio di Hamelin, complice del Boia e del Male?
Il libro non offre risposte sicure. Forse l’uno e l’altro…

Ma questo è solo il prologo del romanzo di Athos Bigongiali, autore abituato a selezionare una scheggia di storia recente per intriderla di un sapiente mix di fantasia e realtà, di invenzione e documento e quindi raccontarla come vera, secondo il punto di vista di personaggi minori, marginali, e secondo le movenze della ballata epico - lirica di impronta popolare.

Solo il prologo, abbiamo detto: sì, perché il romanzo di Bigongiali non appartiene al genere “concentrazionario” o alla narrativa documentaria sull’Olocausto. L’Autore ancora una volta ci sorprende per il suo punto di vista diverso ed eccentrico, quello chiarito nella Nota che precede il Capitolo I, secondo cui nel 1971, Jerry Lewis, il celeberrimo nipote Picchiatello del cinema comico americano degli anni Cinquanta e già allora considerato un maestro del cinema, decide di girare un film sulla vicenda di un clown tedesco, svanito nel nulla, nel buco nero del campo di sterminio.
Un film tragico e sfortunato che, come raccontano poche avare note di cronaca, procurò all’attore non solo enormi problemi finanziari, ma soprattutto un’angoscia interiore ed esistenziale che non si è mai placata negli anni.

Tanto che Lewis non ha mai voluto parlarne diffusamente, limitandosi solo ad accennare, e piuttosto malvolentieri, a un lavoro da lui diretto ed interpretato, mai del tutto portato a termine, mai rielaborato, mai proiettato. Un film fantasma, affondato da polemiche e litigi con i produttori e gli autori del soggetto; da una selva di vincoli e divieti, che probabilmente impedirono al film, che però esiste, di raggiungere il pubblico. Un film maledetto con al suo centro un personaggio altrettanto maledetto, il cui mistero, quello della sua vita e della sua morte (si salvò? passò per il camino? collaborò col boia o tentò davvero di far sorridere sull’indicibile?) è progressivamente e dolorosamente ricostruito, riesumato quasi controvoglia, dal protagonista del romanzo, Raul Piccolomini, controfigura di Jerry Lewis e suo istruttore in materia circense. nel corso della tormentata lavorazione del film. Raul Piccolomini, ovvero uomo piccolo, in contrapposizione ad Helmut il Grande, anch’egli un solitario saltimbanco ormai avviato ad un definitivo viale del tramonto, un vecchio artista da casa di riposo.

Il mistero del film rimanda e si specchia nell’indecifrabile personaggio ispiratore: un clown ambiguo, elusivo, sfuggente che rende tali anche gli altri due clown, Jerry. Lewis e Raul Piccolomini: “Ma la storia di Doork è quella originale, no? E’ la matrice di tutte le altre e forse non solo di quelle dei clown.” (p.193)

Ovviamente fittissimi tra le pagine i richiami cinematografici e le citazioni; disincantata la descrizione del mondo del cinema con le sue durezze e i suoi compromessi, i suoi personaggi precari e avventurosi.

Ma i risultati migliori Bigongiali li ottiene dalla descrizione di certe ‘terre di mezzo’: il rimanere perennemente in bilico tra verità storica ed invenzione; il continuo oscillare tra la dimensione provinciale, Pisa, che cominciamo a scorgere dalla stazione di San Rossore e rivediamo spesso dall’ottica minima di una pensioncina familiare e gli scenari delle grandi metropoli europee: Parigi, Stoccolma; gli spostamenti nel tempo tra uno ieri, gli anni della guerra, resi cupi e terribili dalla ‘banalità del male’ e una quasi contemporaneità, gli anni settanta, descritti in maniera storicamente credibile attraverso azzeccati particolari narrativi: gli studi cinematografici di Tirrenia, l’estate della costa tra Pisa e Livorno, le manifestazioni contro Nixon e per il Vietnam…

Tutto immerso in una scrittura che tende a dare alla vicenda un tono quasi da fiaba, dove terza persona e monologo interiore, realtà, memoria e sogno si intrecciano con grande abilità affabulatoria, il cui merito maggiore è quello di non voler dire tutto, lasciando al lettore l’ultima, amara, conclusione.


Athos Bigongiali, Il clown, Giunti, Firenze, pp. 200, E. 12,00

11 febbraio 2010

“Un romanzetto canaglia” di Roberto Bolaño


di Gianni Quilici

Non c'è mai niente di banale in questo “romanzetto canaglia”, ultimo lavoro dello scrittore cileno Roberto Bolaño, morto a soli 50 anni nel 2003 in un ospedale di Barcellona, in attesa d'un trapianto al fegato. E' come se scrivendo Bolaño cercasse di sorprendere se stesso e quindi il lettore, andando spesso oltre le possibili scelte che alla protagonista, di volta in volta, si prospettano.

Con una immaginazione, quella che lo scrittore dona alla ragazza, che si trova continuamento in bilico tra reale e irreale, rimanendo sempre nel campo delle possibilità, ossia del realismo.

Un esempio: “Quella sera tornai a casa senza piangere, una cosa che mi stava accadendo negli ultimi giorni. Era come se uscendo dal lavoro entrassi d'improvviso in un tunnel di vento che mi faceva piangere senza motivo. Un tunnel che al principio agiva in modo naturale, provocando subito il mio pianto, ma che negli ultimi giorni, invece che abituarmi, mi ispirava una tristezza enorme, una tristezza che potevo affrontare solo piangendo. Ma quel giorno, come se presentissi che a partire da allora la mia vita avrebbe fatto un giro a trecentosessanta gradi, non piansi. Mi infilai gli occhiali da sole, uscii dal negozio, entrai nel tunnel e non piansi. Neppure una lacrima”.

Si capisce, pure, che c'è una mediazione tra l'io narrante (la ragazza protagonista) e lo scrittore. Da una parte lei non sa e non vuole spiegarsi le ragioni del suo comportamento e delle sue visioni; dall'altra, Bolaño le presta occhi e lingua per esprimere ciò che vede e sente. Mi pare che un'operazione simile sia stata fatta anche da Alberto Moravia in La Romana.

Così quando lei scrive: “Ricordo pure l'imbrunire, un imbrunire dai toni rosati e ocra che si intrufolava sino in fondo al negozio, ma senza riuscire mai a toccarmi” la mediazione dello scrittore è di tipo poetico, perché facendosi egli quella ragazza ci trasmette una sensazione intima e precisa, che è vicina alla poesia, in quanto così è stata vissuta da lei.

La questione che mi sono posto è: quanto c'è di ispirato di vero (scrivo “vero” pure nella falsità di qualsiasi storia), quanto invece è grande abilità immaginativa, narrativa e poetica di Bolaño? Interrogativo che lascio sospeso.

La storia è ambientata a Roma, dove l'editore spagnolo aveva invitato Bolaño appunto per scriverci un romanzo. Quattro i protagonisti, raccontati dall'unica ragazza del gruppo. Gli altri tre disoccupati e emarginati - uno di essi è suo fratello – vivono con i suoi soldi di “parrucchiera” in attesa del colpo che cambierà loro la vita... Destinatario del colpo un ex campione di culturismo, un ex attore, Maciste, ora cieco...


Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia (Sellerio editore, Palermo 2005, traduzione dallo spagnolo di Angelo Morino, pp. 95, euro 8,00)

" Nacqui Settimino " di Sandro Bartolini


di Luciano Luciani

Un indomito io narrante contro il potere dei padroni
Bracciante dell’istruzione, Carlo Solatii insegna a leggere e a scrivere ai figli degli operai e dei tecnici italiani che lavorano nei cantieri africani delle Multinazionali Grandi Opere. Guadagna benino, il lavoro gli piace, ma i doveri familiari lo riportano in patria: la moglie Susanna gli ha messo al mondo l’erede e la famiglia nuova e quelle d’origine, di lei e di lui, lo reclamano. Deve trovarsi un’occupazione dignitosa nel Bel Paese e mantenere decorosamente sposa e figlioletto. Un passaggio esistenziale importante, che il nostro Carlo Solatii, nomen omen, affronta con il consueto ottimismo, consapevole e ragionevolmente soddisfatto dei suoi recenti obblighi di sposo e di padre. Così, nella civile Toscana, si trova un’occupazione presso la Vernici Palmiri e Togni, azienda, come si suol dire, leader del settore. Sceglie, Carlo, di buon grado, di sacrificare una parte, neppure piccola di sé riciclandosi a tappe forzate. Da docente con a propria disposizione gli sterminati territori dell’Africa e della cultura a impiegato in ditta né piccola né grande, allineato e coperto, zelante e disciplinato, ligio che più ligio non si può ai destini aziendali: “Dimenticata l’Africa e gli studi umanistici, avrei seguito la logistica. Barattoli! Barattoli! Barattoli! Diluenti, vernici, smalti, colore giallo, grigio, bianco 500, la vita era questa, mi bruciava il culetto ma decisi di tenere duro!”

Ma quell’infiammazione, sia pur metaforica, alle parti basse non è piacevole e, soprattutto, il sangue non è acqua: e allora accade che nell’ancor giovane Carlo, un poco alla volta, riaffiorino memorie familiari mai sopite. Ricordi di esistenze minori - il padre, uno zio, cugini, altri parenti più o meno lontani… - forse anche minime ma sempre vissute nel segno di un’etica del lavoro coniugata con antiche idee di democrazia, di partecipazione, di rispetto dei diritti e delle regole. Della convinzione antica che la Storia non va mai subita passivamente ma sempre contraddetta nelle sue logiche di potere e oppressione, pagando magari anche dei prezzi, ma ritagliando per sé e per gli altri spazi di contrattazione e di libertà per lasciare ai propri figli un mondo appena appena migliore. Nel codice genetico di Carletto ci sono i mezzadri della Maremma e i minatori di Ribolla, gli operai delle acciaierie di Piombino e i chimici di Rosignano: un pezzo, e che pezzo!, della storia del contrasto di classe nel Novecento.

Così, fedele alla sua storia familiare, che, come un fiume carsico fa continuamente la sua apparizione tra le pagine del romanzo, il nostro modesto eroe pensa bene di candidarsi come rappresentante degli impiegati alle elezioni per la Rappresentanza sindacale unitaria… Mal gliene incoglie, ovviamente, e la lettera di licenziamento, che gli arriva dopo un’estenuante melina, è quasi una liberazione.

Una storia semplice, quella che racconta Sandro Bartolini alla sua seconda prova narrativa dopo la buona accoglienza riservata al suo romanzo d’esordio, Villaggio mare blu, che ha il grande merito di riproporre al pubblico dei lettori un tema desueto: quello del lavoro, dei suoi protagonisti, dei suoi problemi, organizzativi e umani. Il lavoro inteso non solo come strumento per ottenere una fonte di reddito, ma l’elemento centrale per l’organizzazione del proprio futuro, per la stessa idea che ogni individuo realizza di se stesso,

Raccontata con uno stile personalissimo, ilare e incalzante, Nacqui settimino ci propone una narrazione densa di valori (la famiglia, il lavoro, l’amicizia, la solidarietà…), mai moralisticamente accettati e suggeriti, ma sempre rielaborati secondo un’angolatura, tutta toscana, fatta di ironia e autoironia.

E poi queste pagine ci regalano uno straordinario, simpaticissimo protagonista: un io narrante che occupa tutta la scena, perennemente in movimento, mai domo neppure quando i rapporti di forza lo vorrebbero acquiescente e subalterno. Carico di vitalità e di un’energia capace di illuminare tutti gli altri personaggi – familiari, amici, colleghi di lavoro, sindacalisti e padroni – il romanzo di Bartolini raccoglie in sé la tradizione della narrativa toscana più vivace e ariosa, da Renato Fucini a Luciano Bianciardi, il modello privilegiato a cui per lingua, contenuti, situazioni e finale agrodolce sembra ispirarsi programmaticamente l’Autore.

Sandro Bartolini, Nacqui settimino, Stampa alternativa, Viterbo 2009, pp.179, Euro 13,00

NOTE BIOGRAFICHE
Sandro Bartolini è nato a Guardistallo (Pi) nel 1956.
Intorno alla metà degli anni Sessanta si è trasferito con la famiglia a Spilamberto, in Emilia, dove ha lasciato un pezzetto di cuore.
Vignola, Bologna e Pisa i luoghi della sua formazione intellettuale, Cecina di quella umana. Attualmente vive con la famiglia a Lucca.
Ha svolto innumerevoli lavori, anche saltuari: pizzaiolo, carpentiere, bracciante… Oggi svolge un lavoro amministrativo presso la CGIL di Lucca. Ha pubblicato un racconto nell’antologia Poesie e brevi racconti, a cura dei comuni di Cecina e Rosignano Marittimo. Un suo scritto è apparso sulla rivista Sagarana. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, Villaggio mare blu, Il Grandevetro edizioni.

08 febbraio 2010

"Il fidanzamento del signor Hire" di Georges Simenon


di Gianni Quilici

Ho letto fino a questo momento soltanto una decina di romanzi della sterminata produzione di Georges Simenon.
I Maigret con piacere, ma senza esserne conquistato; alcuni dei romanzi senza il celebre commissario, mi si sono, invece, scolpiti: I pitard, Il treno e questo, Il fidanzamento del signor Hire.

Di questo romanzo mi aveva colpito il film, L'insolito caso di Mr. Hire di Patrice Leconte, soprattutto nella figura realistica ed insieme simbolica, di Mr Hire, interpretato con grande efficacia da Michel Blanc.

Cosa mi ha intrigato, allora, di questo romanzo?
La figura del signor Hire, che è, senza ombra di dubbio, il perno su cui ruotano gli altri tre aspetti centrali: l'attrazione fantasmatica, la domestica Alice; l'ambiente umano gretto e facilmente accusatorio, che fa da sfondo corale, situato dentro e fuori la Porte d’Italie, tra Parigi e la periferica Villejuif; e la pioggia, una pioggia ossessiva, continua da diventare anche essa simbolica della mancanza di orizzonti, di prospettive.

Il signor Hire sembra a prima vista una macchietta, un burattino, un personaggio grottesco, su cui si può sorridere: un piccolo ebreo, grasso, come se non fosse fatto di carne ed ossa, volto cereo su cui sbucano due baffetti che sembrano disegnati con la china. Un personaggio da fumetti, perché, oltretutto, rigido, di una rigidezza meccanica, nella quale pare quasi non spiri vita.
Per questo suo aspetto schivo da risultare misterioso, e per lo stesso “ suo modo di muoversi” che ha “ qualcosa di equivoco”, egli viene considerato dai vicini come non inquadrabile, diverso. Ecco perché, quando viene scoperto il cadavere di una prostituta, orrendamente mutilato, subito i sospetti convergono su di lui. L'ideale capro espiatorio, su cui riversare rancori e paure.

Ma il signor Hire è tutt'altro che un burattino. Nasconde dietro la rigidezza l'incapacità o una pesante difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti. Sentimenti, che lascia trasparire dallo sguardo. Ogni sera, infatti, il signor Hire scruta dalla sua finestra di camera Alice, la giovane e florida, morbida e sensuale dirimpettaia, che si spoglia esibendosi ambiguamente davanti agli occhi suoi.

Questo blocco dei sentimenti Georges Simenon ce lo presenta magistralmente sia nelle (possibili) cause: la sua storia che, sia pure a brandelli, emerge nell'interrogatorio con il commissario (i trascorsi delinquenziali, le frequentazioni di prostitute); sia nei suoi comportamenti quando la ragazza, Alice, lo va a trovare nella sua stanza , disponibile anche ad offrirgli il proprio corpo.

E' uno dei capitoli magistrali del romanzo, perché mai come nel rapporto diretto con la ragazza emerge la sua incapacità di “toccare” di “abbracciare”, perfino di parlare, perché dopo che lei ha raccontato, confessato, pianto, implorato, “Sono stato molto infelice!”, è l'unica frase che riesce a pronunciare.

Ma questa possibilità -la possibilità di farsi una vita con la ragazza- lo porta a progettare e ad agire, quasi fuori di sé, preso dalla gioia irrefrenabile di un avvenire radioso, mai avuto e che, ancora una volta, non avrà.

La conclusione è narrativamente “geniale”: una visione molto cinematografica del succedersi dei fatti diventa anche sentimento beffardo e atroce di una parabola umana, che nei suoi risvolti generali ci riguarda tutti.

C'è, inoltre, un capitolo delizioso, il sesto, quando egli si reca al “Bowling Voltaire club”. Qui il signor Hire si trasforma, diventa il protagonista. Qui il signor Hire, osservato dagli altri giocatori in religioso silenzio, si raccoglie, misura, calcola, elabora, scatta e lancia la palla ogni volta abbattendo i birilli “nove su nove per cinque volte”. Un capitolo in cui le abilità del signor Hire si fondono con la gara facendolo diventare agli occhi dei frequentatori del locale non un possibile reprobo, ma una misteriosa persona, “un alto funzionario di polizia” così pensano, per ironia della sorte, nel club un po' tutti.

Georges Simenon. Il fidanzamento del signor Hire. ( Les fiançailles de M. Hire). Traduzione di Giorgio Pinotti. Adelphi. Pagg. 146. Euro 15.00.

03 febbraio 2010

"La rizzagliata" di Andrea Camilleri


di Maddalena Ferrari

La rizzagliata, ossia il lancio e la raccolta della rete da pesca, è metafora di una manovra operata da chi ha potere e lungimiranza strategica e in ogni circostanza sa scegliere, senza alcuno scrupolo, le operazioni da attuare per rinsaldare o ampliare il proprio dominio.
Questa manovra complessa e articolata coinvolge realtà politiche ed economiche, magistratura e sistema di informazione, relazioni sociali e personali, persino rapporti d'amore.

In un quadro cupo, che non lascia vie di scampo, si muove il protagonista del giallo di Camilleri, Michele Caruso , direttore del telegiornale regionale della RAI , insidiato nel suo ruolo da un collega, con la cui moglie egli ha una relazione.
Michele è uomo che cerca di mantenere la barca pari, sforzandosi di giostrare le notizie senza dare noia ai potenti; e questo, nonostante una incoercibile curiosità per appurare il vero.
E' sposato, ma separato, con la figlia di un senatore di destra, ex-DC, prestigioso ed influente, che l'ha aiutato a fare carriera. Lei l'ha lasciato per un altro; lui l'ama ancora.

La storia comincia con un delitto ( simile a quello di Chiara Poggi a Garlasco, al quale lo scrittore dichiara di essersi ispirato ), per cui viene arrestato il fidanzato della ragazza trovata uccisa, figlio di un esponente importante del centrosinistra, ex-socialista.

Il nostro eroe, ma non troppo, si muove in un intrico di relazioni e colpi di scena, autorità più o meno autorevoli, boss, scagnozzi e una figura di informatore, fisicamente repellente e “quindi” sfortunato; ma due sono le cose che soprattutto gli stanno a cuore: l'amore per la moglie e la propria sopravvivenza, fisica e sociale.

La trama è abbastanza aggrovigliata e tra i numerosi nomi di personaggi, che in alcune parti del romanzo rimangono appunto puri nomi, muovendosi in una struttura narrativa ridotta all'osso, e il dialetto usato come di consueto dall'autore, sia pure con eleganza e sensibilità “musicale”, si affievolisce a volte il coinvolgimento del lettore e si perde un po' il senso del racconto. E se risultano gradevoli gli episodi gastronomici, topoi di numerosi noir, e non solo di Camilleri, e quelli erotici, non possiamo sfuggire all'impressione del mestiere; le belle donne, poi, sono tutte uguali...

Andrea Camilleri si conferma comunque un narratore di razza di quella Sicilia, dove si intrecciano società civile, politica, vecchia e nuova, e mafia; un narratore, qui particolarmente disincantato, che tiene puntigliosamente in mano le fila del racconto, trasmette la fisicità ( la mediterraneità ) delle persone e degli ambienti ed è capace di creare momenti di intensità figurativa e plastica, come l'episodio, visto attraverso gli occhi del protagonista, dell'agguato all'informatore, con quelle ombre che si muovono e si agitano nella notte, in lontananza.

Andrea Camilleri. La rizzagliata. Sellerio editore Palermo. Pgg. 210. Euro 13.00.

"Viaggio in requiem" di Francesca Caminoli


di Liliana Di Ponte

“C’è solo una cosa peggiore della morte di un figlio. Che voglia morire”. La citazione, tratta dal film Mare dentro di Amenabar, che apre il libro di Francesca Caminoli, Viaggio in requiem, immette subito nel cuore di quest’opera e ne anticipa il tema.

E’ il diario di viaggio di una madre che ripercorre, da sola in auto, la strada che giusto un anno prima suo figlio Guido forse ha percorso per arrivare sul bastione del castello da cui, a 26 anni, ha messo fine alla sua vita. Un diario lungo diciassette giorni, tanti le occorrono per attraversare un pezzo d’Italia, da Lucca ad Otranto, diretta ad un appuntamento con lui – 12 settembre, ore 17.30 circa – per poi salutare quei luoghi e ripartire.
E’ un viaggio lento questo della madre, lungo strade secondarie di un’Italia minore e ricca di suggestioni – i monti Sibillini, il Gran Sasso, L’Aquila, la Maiella, Trani, Castel del Monte, Lecce e infine Otranto – attraverso borghi e paesaggi magici, definito nella meta da raggiungere, ma un po’ casuale nel percorso (Chissà se anche tu sei passato da qui, nel tuo viaggio verso la Puglia l’anno scorso, ed esattamente qui hai sentito più vicina la pace che andavi cercando. ).

Le deviazioni e le soste – per mangiare, per dormire, per riposare – sono originate dal cartello allettante di un’osteria o di un albergo, da un panorama inatteso, da un segnale turistico, in uno smarrire e ritrovare la strada che diviene metafora di quel perdersi e ritrovarsi che è parte integrante del dolore.

Il diario della madre è un colloquio ininterrotto con se stessa e con il figlio, un interrogarsi sul loro rapporto (Tu sei stato prima il bambino, poi il ragazzo, poi il quasi uomo, anzi l’uomo, che sempre mi ha obbligato a guardare e a guardarmi nel profondo.), con domande destinate a non avere risposta (Da dove venivano, Guido, il tuo insostenibile dolore e la tua insostenibile sofferenza? Quante volte me lo sono chiesta senza riuscire a darmi una risposta. E non mi bastano le cose che mi dicevi, il tuo poterci fare del bene da un altro mondo, il tuo non volere stare più qui. Questo era il dopo, ma il prima, il prima da dove veniva?).

Ma ci sono anche i ricordi sereni di vacanze, della passione (e bravura) artistica di lui, dell’affetto di tanti amici da cui è sempre stato circondato.
E così il viaggio si snoda lentamente verso il Sud e, via via che si avvicina alla meta, cresce nella madre la tensione e il desiderio di questo appuntamento, mentre qua e là emergono tracce che vengono lette come segnali, forse inviati dal figlio, per aiutarla a capire il percorso che la sua mente aveva intrapreso (La tua delirante convinzione che le nostre famiglie fossero ebree, il tuo riconoscere in ognuno di noi la discendenza e l’appartenenza a una e l’altra delle dodici tribù di Israele mi ha portato per mano nel cuore dell’antica Judecca […]).

Il colloquio tra la madre e il figlio si fa più serrato, quasi a preparare la madre al congedo definitivo (Mi avevi chiesto più volte l’autorizzazione al suicidio. A volte me lo chiedevi con voce da bambino “mamma, ti prego”. Non te l’ho mai data e tu sapevi che non te la potevo dare. O forse invece te l’ho data? Perché tu sapevi anche che non ti avrei rinchiuso a vita in una prigione fisica o chimica pur di averti con me. [...] Così ora l’unico pensiero che forse puoi leggere nella mia testa vuota di pensieri è che adesso ti do l’autorizzazione che non ti ho mai dato, che adesso ti lascio andare.).

Arriva infine il giorno dell’appuntamento: 12 settembre, ore 17.30 circa, bastione del Castello di Otranto, il momento atteso e temuto. (E all’improvviso tu sei lì, sei lì etereo come nella mia visione che ti ho raccontato, ti alzi, mi sorridi, vieni da me e mi abbracci. […] Sento il tuo amore. Non so se io, confusa come sono, riesco a trasmetterti tutto il mio […].Sto per andare via, ma faccio pochi passi e ritorno al bastione. Mi risiedo sul muretto. Per un attimo. Poi vado. Adesso so che tu non sei più lì.).

Sono pagine, queste del diario, che traspirano dolore ma anche una serena vitalità, asciutte e lontane da qualsiasi retorica o autocommiserazione, che si leggono in punta di piedi, se si può spiegare così la sensazione di introdursi, da estranei, in una storia così intima e vera da avere paura di disturbare. Ma poiché è stata pubblicata – anni dopo quell’avvenimento – è diventata anche di chi la legge, perché ci riguarda tutti, al di là della viva partecipazione e dell’inevitabile commozione che suscita.

Ci riguardano i conti che quasi mai facciamo – se non costretti dagli eventi – con la morte, e la consapevolezza che non saremo mai pronti ad accettarla, distratti come siamo a vivere come se dovesse essere per sempre.

Ci riguarda la solitudine che accompagna il dolore e che sembra definitiva e senza scampo.

Ci riguarda il tempo che nonostante tutto passa e, contro ogni volontà, ricrea abitudini ed equilibri, sia pure provvisori.

In questo Viaggio in requiem che anche noi abbiamo fatto, tappa dopo tappa, non siamo noi che abbiamo accompagnato Francesca Caminoli, ma è lei che ha indicato a noi un possibile percorso, perché forse “la condivisione di un lutto può essere di conforto agli altri oltre che a se stessi”.

Francesca Caminoli, Viaggio in requiem, Milano, Jaca Book, 2010, pp. 117, € 12,00.