30 giugno 2015

" Non è che l'inizio" di Gianni Quilici




foto di Lucia Del Sarto
di  Pierangelo Scatena 

             Leggo il libro “Non è che l’inizio” di Gianni Quilici. La lettura scorre via veloce, lineare. I periodi sono chiari e ben connessi; la storia è avvincente, si ha voglia di continuare, di inseguire fino in fondo senza interruzione le dieci giornate della narrazione.

             E’ un racconto esistenzialista (non è casuale che l’autore vi abbia apposto per esergo una frase di Sartre). Sono dieci giorni nella vita di un giovane adulto, insegnante precario, colto, impegnato, ricco di vita e di desideri insoddisfatti.

              Come è inevitale in un’opera prima, c’è una forte componente autobiografica nella figura del protagonista, Zeta, che narra in prima persona. Vengono descritti alcuni avvenimenti: gli incontri, gli scontri, i pensieri, i sogni e i sentimenti. In particolare: alcuni incontri sessuali con due figure femminili volutamente tra loro abbastanza indistinguibili perché non importanti nel vissuto sentimentale del protagonista, l’esperienza di una breve supplenza in una scuola media che non appare all’altezza del suo compito educativo, il progetto di una manifestazione politica che non si concretizza perché proposta a un Partito Comunista che sta definitivamente chiudendo la sua storia di soggetto sociale del cambiamento.  Le vicende si svolgono nel fatidico anno ’89; le situazioni tendono a ripetersi, inevitabilmente del resto perché gli eventi si consumano nell’arco di pochi giorni.

            Il racconto procede come in una serie di sequenze filmiche: scene che si alternano e si ripropongono nella continuità di un tempo che appare, fino quasi al termine, senza prospettive, e che mi fanno pensare, anche per la cultura cinematografica dell’autore, a certi registi della “nouvelle vague” francese degli anni ‘60 (Godard per esempio, o Rhomer).
Tutto è detto, il vissuto del protagonista è rappresentato interamente, niente viene nascosto, neppure i fatti più personali che attengono all’espletamento delle funzioni fisiologiche quotidiane. Mi viene in mente il flusso di coscienza di Molly Bloom alla fine dell’Ulisse, che però e molto più frenetico e caotico.

           Ma c’è qualcosa che non mi torna. Tutto sembra troppo semplice. Rifletto. Le cose cominciano così a presentarsi più complesse di quanto appaiano a una attenzione superficiale. Sento tra l’altro che questa storia mi riguarda, riguarda una generazione che ha visto in quel periodo il definitivo fallimento delle ultime speranze di cambiamento collettivo e individuale.

             Mi stupisce la forte componente erotico-sessuale che sembra prevalente, anche a rischio di un certo squilibrio. Certo - mi dico - si tratta di un giovane, è quindi normale la carica di erotismo che gli occupa la vita. Ma il sesso qui è perseguito con una ossessività compulsiva feroce e quasi oscena, come dovesse riempire il vuoto di altre assenze.

              Faccio un esperimento. Provo a leggere, utilizzando la metafora erotico-sessuale, anche gli altri eventi non direttamente legati al sesso. Del resto la sua presenza mi appare tanto forte da poter dare colore anche al resto del racconto. Temo però che una simile lettura sia troppo personale, insomma che sia io quello ossessionato dal tema del sesso e che tende perciò a ingigantirlo oltre la misura della narrazione; ma poi ricordo la mia convinzione che ogni opera artistica, letteraria o figurativa, mostri d’essere tanto più valida ed efficace quanto più riesce a muovere le emozioni del lettore, a indurlo a proiettarvi anche il proprio pensiero e la propria immaginazione. Così mi assolvo e vado avanti.
          
               Vista attraverso la metafora sessuale la breve esperienza di insegnamento del protagonista a cosa potrebbe assomigliare? Ma è evidente: a un “coitus interruptus”, a un rapporto che cessa proprio nel momento in cui sta per realizzarsi, in qualche modo, la possibilità di una soddisfacente relazione (nel caso educativa).

          A sua volta l’esperienza della iniziativa, proposta e non realizzata, con il Partito Comunista locale assume l’aspetto di una frustrante “impotentia coeundi”: è impossibile avere un rapporto, anche sessuale, con qualcuno che ormai non ci piace, non ci dà più stimoli sufficienti (nel caso politici).
         
       Questo gioco mi diverte, perciò tento mentalmente un’altra operazione, compio un cambiamento nella metaforizzazione; applico la metafora dell’insegnamento alle altre situazioni del racconto. 

        Così la proposta di iniziativa (pedagogica?) di Zeta al partito fallisce,viene rifiutata, più che per insufficienza concretizzatrice del protagonista, per disattenzione e incapacità di ascolto da parte dei membri della federazione. E’ comunque una proposta ormai troppo ambiziosa per la realtà politica di “alunni” stanchi e indisciplinati, con il cervello da un’altra parte e che se ne fregano della lezione.

         Le vicende erotico-sessuali, nella loro ossessiva ripetitività, mi appaiono allora simili all’azione quotidiana di un educatore che replica continuamente la stessa lezione senza mai riuscire a coinvolgere gli alunni. Un processo di formazione quindi che non raggiunge mai il risultato sperato, e viene sempre di nuovo riproposto con una coazione a ripetere tipica della “sex-addiction” (una forma di ipersessualità patologica simile alla dipendenza da droga).

           Vado avanti, cambio di nuovo metafora utilizzando a tale scopo la frustrazione politica: il fallimento della proposta di Zeta si riflette, dando loro significati analoghi, anche sulla fine irrisolta dell’esperienza nella scuola e sull’inappagata coattività delle esperienze sessuali. 
         E’ bene però che chiuda con questo gioco circolare delle metafore, rischia di essere riduttivo rispetto allo spessore e alla complessità del romanzo.
Comunque questa intercambiabilità del senso mi è servita a capire quanto tutte le esperienze vissute dal protagonista, nell’arco dei dieci giorni, siano avvertite dallo stesso come insoddisfacenti, inconcluse, e anche inutili; inadeguate a dare senso all’esistenza. Sono tutte caratterizzate e accomunate infatti, anche se in modo diverso, dal fallimento e dalla delusione.  Ma proprio tutte?
         Ci sono alcuni aspetti del racconto che mi emozianano più a fondo e che lo arricchiscono di contenuti che mi coinvolgono in maniera quasi diretta, forse perché appartengono anche alla mia esperienza interiore.
        
                          foto Gianni Quilici
 

Intanto la presenza di una città, Lucca, magica e incantata, come sa bene Gianni che la ritrae spesso in fotografia, col piacere di sublimare in immagini la pulsione voyeristica per ciò che in modo sensuale ci attrae . Infatti ognuna delle dieci giornate del racconto è introdotta da una foto di qualche angolo o scorcio della città. Peccato però che la carta di un libro sia poco adatta a rendere pienamente la qualità delle immagini fotografiche che Gianni ci ha abituato ad apprezzare.

            Comunque  Lucca c’è. Si avverte costante la sua presenza. Rappresenta molto di più che lo sfondo del racconto, la sua è una dimensione di vita. Per chi, come me, ha trascorso in questa città l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza non può che condividere l’appassionata aderenza dell’autore alla meraviglia delle sue architetture, strade, piazze, chiese, vicoli e quant’altro ci è stato lasciato in retaggio quasi incontaminato (intendo l’ambiente fisico-artistico della città, non quello socio-culturale che meriterebbe ben altre considerazioni).
         Ma c’è un’altra presenza forte nel racconto, direi prevalente nell’anima del protagonista. E’ una fanciulla, l’unico personaggio degno di avere un nome personale (gli altri sono definiti con soprannomi o specificati dalle loro funzioni): “Eloisa”. E’ un nome, tra l’altro, che è entrato a far parte dell’immaginario erotico collettivo (come quelli di Isotta e Francesca).
Nel racconto mi sembra che Eloisa rappresenti, anche simbolicamente, ciò che può dare senso all’esistenza, qualcosa che il protagonista cerca inutilmente nei frustranti accadimenti delle sue esperienze quotidiane. Qualcosa che rassomiglia all’amore: un “amore” che, pur contenendolo, va al di là del desiderio sessuale. Con Eloisa il rapporto sessuale non si realizza, almeno nei limiti del racconto, e il personaggio resta sfuggente, avvincente e indecifrabile, come sempre lo è anche l’amore. Presenza/assenza assiduamente cercata, non sempre trovata e mai definitivamente conquistata. Ma la sua relazione con Zeta, inconclusa, è l’unica che può avere una evoluzione, che è aperta alla “possibilità”.
          
          Capisco allora che quella dell’apertura al “possibile” è forse la giusta cifra di lettura, l’interpretazione di fondo che mi si offre del libro di Gianni.
Esistono nel reale possibilità inespresse, latenti, che aspettano di essere scoperte e attuate per realizzare un futuro migliore. La categoria del possibile  - ci sta dicendo l’autore - supera quella della realtà, si situa a un livello più alto. Esiste sempre attorno alla vita di ognuno una nuvola di possibilità che aspettano di avverarsi e che caratterizzano l’essenza stessa dell’essere e dell’esserci dell’uomo; spetta a noi di liberarle e svilupparle individuando le potenzialità nascoste dell’esistenza.
         Nel racconto è la relazione del protagonista con Eloisa che simboleggia, nella sua indeterminata ma aperta potenzialità di sviluppo, la categoria del possibile e che rende quasi ottimistica la conclusione del libro, fino ad esprimersi nella densita lirica di una poesia che innalza al canto l’accettazione vitalistica della condizione umana.
Non saprei altrimenti spiegare l’erompere, nell’ultima pagina, di una gioia e di un’esaltazione che potrebbero sembrare gratuite e immotivate, ma che invece segnalano la scoperta che tutto è ancora possibile, che, nonostante i fallimenti, le delusioni e l’insoddisfazione della quotidianità, il futuro è ancora da scrivere, che si può ancora “osare tutto”.
         Personalmente non condivido l’ottimismo di Gianni (sono un po’ più nichilista), ma questo non ha niente a che fare con la qualità del libro che, trattandosi oltretutto di un esordio letterario, mi sembra sorprendentemente ricco e maturo. 
         In definitiva Gianni ha condensato, con notevole senso del limite narrativo, nei dieci giorni di una vita la storia della conquista, tormentata e sofferta, di un “amore” (non vedo quale altra definizione dare) che oltrepassa la contingenza particolare degli eventi, lungo un percorso che arriva a sciogliersi e risolversi nella dimensione di un’idea universale dell’esserci umano.
E’ dentro questa dimensione dell’amore che Zeta accetta infine di gettarsi, come dentro una poesia.
        
        Vista la qualità dell’esordio, spero che il titolo “E’ solo l’inizio” che Gianni Quilici ha dato al suo libro non sia  soltanto una citazione dal maggio francese, ma una promessa.

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. € 13.00





29 giugno 2015

"Gli amici che non ho" di Sebastiano Mondadori



di Dafne

Un romanzo accattivante e forte, una prosa sempre in bilico fra lirismo e prosaicità, una narrazione esistenziale dove è la vita che morde
E’ un libro intenso, potente, esistenzialista. Leggerlo eccita la mente per la sensazione di “niente da perdere” che viene rimandata dal protagonista, Giuliano Sconforti. L’apparente indifferenza e superficialità dello Sconforti nasconde, e lo capiamo presto, un’intensità di vita ed un anelare ad essa che ci raggiunge quasi  inconsapevolmente.

La cifra del romanzo è’ l’inconsapevolezza del dove verremo condotti dalla scrittura. Una scrittura fluida, veloce, a tratti esaltante: non fatichiamo ad entrare nella profondità che sottintende. Veniamo emotivamente trascinati da una storia che non ci riguarda, che non ci può accadere ma arriviamo fin nel sottosuolo dell’animo dello Sconforti, e con lui articoliamo i pensieri: misteriosamente lo Sconforti ci raggiunge.

I ricordi, la nostalgia, i rimpianti ed i rimorsi, l’amore, il sesso, l’indefinitezza, la vigliaccheria e gli eccessi, ma è la misoginia sottotraccia l’aspetto più difficile da spiegare. In ogni caso, al di là dell’amarezza e della malinconia striscianti, esce fuori dalle pagine un forte senso di riscatto.

Un libro fortemente sentimentale dietro veli di cinismo e  sarcasmo e a tratti poetico per la specificità, ricercatezza e profondità della parola. Sempre comunque in bilico fra lirismi e volgarità. L’autore ha una originale immaginazione metaforica che produce, durante la lettura, associazioni mentali nuove: può accadere che da  apparenti complessità in cui possiamo inciampare, si liberi un’intuizione che fa chiarire pensieri interiori.

Un romanzo per uomini e per donne: la sensibilità femminile è soddisfatta dalle sfumature e dalle articolazioni di pensiero e da frasi esteticamente appaganti. Il punto di vista maschile è soddisfatto, credo, dall’irruenza e dalla goffagine degli accadimenti – dove la praticità della vita sembra sempre prelavere rispetto al sottofondo di emozioni – nonchè dalla scrittura anche arrogante e più che vivace.
E per tutti vale quello strano ed inspiegabile parteggiare per un uomo che all’egoismo ed all’impulsività unisce un qualcosa di disdicevole. Potere della letteratura?

Un libro da leggere, certamente, più di una volta tanto è il materiale descritto, tanto svelta e trascinante la lettura da farci pensare, una volta terminato, che c’è dell’altro e dobbiamo ricominciare !

Citazione: “Quanta libertà dalla certezza di essere fraintesi”

 Sebastiano Mondadori. Gli amici che non ho. Codice edizione, 2015. Pag. 264. Euro: 14,90 €

28 giugno 2015

“Non è che l’inizio” di Gianni Quilici





                                                              foto Gianni Quilici
di Camilla Palandri

Commentare un libro letto è sempre un atto soggettivo perché in fondo in ogni narrazione cogliamo ciò che è più affine al nostro modo di sentire e ogni punto di vista è un frammento che mette in evidenza alcuni aspetti e nello stesso tempo contribuisce alla realizzazione di una visione più ampia ed articolata.

Ciò che più colpisce in questo romanzo è il ritmo della narrazione, veloce e incalzante come i pensieri del protagonista, in continua evoluzione, in un crescendo.
C’è un senso di tensione costante, legata all’inquietudine che anima il personaggio , al suo bisogno incessante di mettersi in gioco , trovare nuovi stimoli e nuove dimensioni.

Il mondo esterno è lo sfondo entro cui questa ricerca interiore si svolge; i personaggi non hanno troppo spessore perché Zeta è l’unico vero personaggio, le sue oscillazioni nei contrasti, le sue aspirazioni, il suo bisogno di vivere intensamente il proprio tempo.

Le immagini si susseguono rapide, bel delineate, con pochi tratti, come brevi pennellate che arricchiscono di colore il racconto.

Molto incisivi i dialoghi e l’uso del tempo presente; rendono la narrazione viva e fanno sentire più partecipi, come se tutto avvenisse nel momento stesso in cui si legge.

Zeta appare un uomo costantemente in fuga da se stesso e dominato dal desiderio di trovare una collocazione all’esterno per affermare il proprio Io.

La città ,come tutto, è vissuta in modo ambivalente, da una parte luogo di appartenenza , dall’altra limite al desiderio di spaziare.

L’Altro che si manifesta in vari aspetti e nelle diverse relazioni, è punto di confronto e scontro, metro di misura per valutarsi e da lì ripartire nella propria ricerca.

Si avvertono il bisogno continuo del protagonista di suscitare interesse e attenzione ,quasi una sorta di compensazione per i propri bisogni più celati.

Il linguaggio, spesso usato in modo ossessivo, amplifica gli intimi eccessi del protagonista.

E’ un romanzo introspettivo che parla delle mille impressioni che nascono dentro e cozzano spesso contro una realtà non sempre pronta ad accoglierle, il racconto di una solitaria lotta esistenziale che lascia aperto il finale perché il viaggio di esplorazione continua.

Gianni Quilici. Non è che l’inizio. Tra le righe libri. Euro 13.00

"La sindrome di Munchausen per procura. Malerba: storia di un'infanzia” di Boum Roos



Uccisa per odio disegno di Maurizio Barraco

di Cosima Di Tommaso

Chi è dunque la vittima? Chi è il carnefice? Il racconto che si dipana è scioccante, prende il lettore fin nelle midolla e lo “beve” in un sorso solo, come fosse un bicchiere d’acqua. Ma un bicchier d’acqua non lo è affatto!

La Sindrome di Müncausen per procura, poco nota, perché poco se ne parla (ahimé) è molto più diffusa nella società, di quanto non si creda. E’ una biega e subdola forma di violenza (psicologica in primis e non solo) perpetrata a danno di bambini e non sappiamo, da adulti (se ci arriveranno ad esserlo) che ne sarà di loro. La loro psiche è devastata e, non di rado, anche il loro corpo viene segnato in maniera indelebile.

Cos’è la Sindrome di Müncausen per procura? È tutto il male che può venire, che si possa immaginare, da una fonte che universalmente dovrebbe invece essere, luogo di accoglienza e amore (luogo comune): LA MADRE.

Sì, sì, certo, chi la perpetra è un individuo malato. Bene, allora abbia perlomeno il buon gusto di non fare figli in tempo! E poi, la vittima chi è? Il libro, pur non essendo un romanzo, si legge come se fosse tale: va letto, tutti dovrebbero leggerlo e sapere (magari per prevenire!). Cosima di Tommaso Disegno: Maurizio Barraco, (Uccisa per odio)
                                                                         
Boum Roos, "La sindrome di Munchausen per procura. Malerba: storia di un'infanzia", Franco Angeli Ed., 2014


25 giugno 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



                                                                 Gianni Quilici, 2015

                             I dolori del giovane satiro

di Riccardo Dalle Luche
     Credo sia cosa saggia, oltre che etica, non scrivere recensione dei libri degli amici, quindi non lo farò, ma mi limiterò a liberoassociare sulle pagine di questo romanzo di formazione, questo apparente diario giovanile, questo “EcceBombo” di Gianni Quilici, “Non è che l'inizio” (Tra le Righe, Lucca, 2015).

L'Io narrante è, in tutta apparenza, in tutta verosimiglianza, lo stesso Quilici, alle prese con le sue intemperanze erotiche (che si risolvono perlopiù in bunueliane frustrazioni pulsionali), con il suo impatto tragicomico con il mondo della scuola (nulla mi pare cambiato venti e più anni dopo), infine, con la fine del Comunismo, contrassegnato dal celebre cambiamento di nome proposto da un tizio ormai dimenticato che si chiamava, ahimè per lui, Achille Occhetto.
Questi temi sono intrisi visivamente e, talora, linguisticamente, di una Lucca vissuta, ricreata soggettivamente e amatodiata, come ogni posto che realmente si abita.

 Se così fosse potremmo parlare di una sorta di provinciale “ricerca del tempo perduto”, e perfino, soprattutto per il continuo, non mediato, stream of consciousness osceno, di un corpo gettato nella lotta in memoria dell'ultimo Pasolini, in una versione maschilista degradata degna delle Case del Popolo del fu Roberto Benigni di “Berlinguer ti voglio bene”, il suo unico capolavoro.

Ma forse la nota passione cinefila di Gianni, che qui riappare qua e là, soprattutto nell'esilarante e geniale esercizio imposto ai ragazzi di scuola, di mettere in cinema una poesia di Carducci, ci può consentire di uscire da questa illusione di corrispondenza verosimigliante, cioè che Zeta sia davvero Gianni nei suoi satireschi anni giovanili, mentre invece stiamo solo leggendo un romanzo, forse un esercizio di romanzo, cioè l'esercizio di uno che vuol provare a scrivere un romanzo e per farlo, come un compito di scuola, finge di parlare di sè.

Visto così, tutto quanto narrativamente ci viene proposto acquista l'irrealtà tipica della fiction e del cinema d'autore: mostrare qualcosa per parlare d'altro.
 Su questa strada meno ingenua ci mettono: 1) le “foto d'autore” che intercalano il libro e che con il libro non hanno nulla a che spartire, se non l'ambientazione lucchese, immagini che giocano soprattutto con la luce e le ombre e sul contrasto tra gli esseri viventi e la materia rocciosa di cui è fatta la città; 2) la poesia finale, un inno all'esistenza, che potrebbe essere il vero argomento di cui tratta il libro, vista la sostanziale futilità di tutti gli eventi (più spesso “non eventi”) che vi vengono narrati.

Naturalmente anche seguendo l'ipotesi della fiction, c'è molto di vero nell'umanità (e nella femminilità) che attraversano tutte le pagine del libro che, mi viene da dire, si legge come un film del quale restiamo ansiosi di conoscere, truffautianamente, il sequel.

Gianni Quilici. Non è che l’inizio. Tra le righe libri. Euro 13.00

15 giugno 2015

“Due libri di Fulvio Roiter fotografo” di Gianni Quilici




Vado nella libreria caffè della città. Ordino un latte caldo e scelgo un libro. Un libro di foto di Fulvio Roiter, da poco uscito.
Fulvio Roiter l’avevo mentalmente classificato tra i fotografi “estetici”, poi dirò perché, relegandolo tra i fotografi minori.
Apro il libro, sorseggio il latte e mi do un compito: per ogni immagine cercare un nome il più sintetico possibile seguendo una stessa banale proposizione, ossia: “Foto come…”, senza pensarci troppo, perché ho poco tempo di fronte a me. Giocare, insomma, come spesso si fa, in TV o sui giornali, perché non si ha tempo da perdere, si deve essere veloci e sintetici, il pubblico-spettatore può cambiare canale.

Ecco alcune di queste definizioni, slegate dalle foto stesse.
Foto come grafica, come contrasto cromatico, come attimo che se ne andrebbe, come scomposizione e ricomposizione, come luce pronta a esplodere, come lavoro, come arte della natura, come prateria onirica, come geometria, come sbuffo, come apparizione, come ingenuità del sorriso, come arcaica fantasia, come involucro affettivo, come nudità plastica, come giocosità, come felicità dello sfondo, come malinconia, come foto verità, come increspature, come luce acquea, come dettaglio dorato, come visione sognante, come felice perdizione, come felicità del colore, come eleganza dello spettacolo, come realismo astratto, come iperrealismo, come memoria della storia, come quotidiano vivere, come ritualità, come statue viventi, come cogliere al volo bellezza, come rivedere ciò che si vede spesso, come stupefazione, come universo…
Sintesi finale: un libro di foto che mi ha convinto e coinvolto molto.




Nella mia libreria trovo dopo un libro di Roiter, letto, ma di cui mi ero dimenticato anche la presenza  Fulvio Roiter fotografo, con un saggio introduttivo di Alberto Moravia. Leggo il saggio.  Rimango stupito. Moravia introduce Roiter criticando, in modo chiaro e affettuoso, il punctum di Barthes, di cui parla nel libro La camera chiara, molto citato quando si discute di fotografia, 

Scrive Moravia:
“Roland Barthes, nel suo saggio sulla fotografia La camera chiara fa una affermazione che è l’esatto contrario della mia. La fotografia non gli interessa per contemplarla studium, ma per soffrirne punctum. In altri termini gli interessa a partire dal momento che cessa di essere insignificante e lo colpisce o meglio lo punge con un significato. Che dire di questo punto di vista? Direi che è sociale e affettuoso (Roland Barthes, un po’ come Proust, vuole recuperare il passato) ma che non è veramente contemplativo, giacché si può contemplare soltanto ciò che è irriducibilmente misterioso”.                                                                      

Ora queste considerazioni di Moravia mi paiono, forse meno suggestive, ma più profonde e convincenti di quelle del grande semiologo francese, ma su questo ci ritornerò in un’altra occasione. Mi chiedo, invece, quando verranno raccolti questo e molti altri interventi che Moravia ha scritto, oltre che introduzioni a libri,  su riviste e quotidiani. Me lo chiedo, perché Moravia può essere discutibile come tutti, ma le sue osservazioni sono sempre interessanti e spesso originali e sorprendenti.

Sfoglio e leggo poi il libro di Roiter, che è diviso in sei sequenze di 12 foto ciascuna: l’acqua, la terra, il paesaggio, l’uomo, l’architettura, il villaggio. Alla fine di ogni sequenza, Fulvio Roiter fornisce il massimo di informazione possibile, sulla sorta di appunti che egli stesso prende lavorando. Informazioni non solo tecniche, ma espressive, che raccontano i tempi e le attese, i rischi e le scelte, i tentativi fatti prima dello scatto, lo scatto principe.

 Le foto sono formidabili, perché la ricerca della bellezza delle immagini, nella scelta del soggetto da inquadrare, nella luce e nei contrasti, diventa allo stesso tempo grandezza del senso. Certo Roiter è un esteta, ama il bello e la perfezione, ma questa ricerca non è mai fine a se stessa; produce, come osserva Moravia, un senso di mistero per la complessità e gli echi che sottende.

Fulvio Roiter. Infinita passione. Electa.

Fulvio Roiter fotografo con un saggio di Alberto Moravia. Dagor Books.