25 giugno 2019

"Le mie stanze" di Maurizio Guccione

di Luciano Luciani
 

Io lo so quello che accade intus in animo a Maurizio. Quanto avviene dentro di lui, in interiore homine, quando le parole, quelle della vita quotidiana, della normale comunicazione, quelle che usiamo tutti i giorni per le relazioni necessarie con gli altri, sembrano acquisire un nuovo status in termini di forma, colore, spessore, significato, intensità, senso... 
Quando le parole sembrano farsi più affiatate, equilibrate, armoniose. Con la musica dentro. Allora si organizzano tra loro in piena autonomia, quelle parole, si  affollano dentro - la testa, il cuore, la pancia - e spingono, pressano, premono per voler uscire... 

È la poesia, bellezza! Non succede a tutti e neanche sempre, e neppure troppo spesso: ma solo ad alcuni, ogni tanto, ed è uno stato di grazia di particolare dolcezza e rara intensità che sortisce effetti che di solito i fortunati riportano sulla carta e li chiamano versi, testi poetici, liriche, componimenti... Nessuno - sostiene il grande Borges - comprende davvero sino in fondo ciò che gli è stato concesso di scrivere.  E forse proprio per questo elemento di mistero, scriviamo e scriviamo e - tutto o in parte - quello che mettiamo sulla carta, nero su bianco, lo conserviamo. Per noi stessi, ma non solo; amiamo anche parteciparlo agli Altri, a quanti, almeno a nostro parere, diano prova di essere in grado di cogliere il particolare stato d'animo che ci ha portato al verso, alla carta, alla costruzione poetica.
 

Maurizio Guccione appartiene alla schiera, meno numerosa di quanto comunemente si pensi, dei creatori di versi, un uomo di penna larga, convinto, a ragione secondo me, che che niente possa essere inutile a un poeta; che la poesia sia per ogni dove, e che - come un minerale pregiato, un metallo prezioso -  la si possa estrarre da per tutto per aiutarci a che "che la gioia sia aggraziata e il dolore augusto, che l’infinito abbia forma" (Forster). Per questo poeticamente e in maniera del tutto personale Guccione può reinterpretare, con tanta illuminata finezza, luoghi e amori, memorie e interrogativi ancora aperti, scherzi e passioni, civili ed erotiche.
 

Forte della sue esperienza e maturità di uomo e di poeta Maurizio può affrontare con sottile distacco perfino il tema eterno della rosa, sacro ai poeti di tutti i tempi, oppure permettersi, di quando in quando, l'elaborazione in versi di temi più forti di storia e di memoria, temi civili. Senza pesantezze, però, perchè in tutta la silloge, anche quando gli argomenti si fanno impegnativi, non manca mai un velo d'ironia o di autoironia segnalato dalla ricerca di una rima o di un'assonanza interessate ad un'azione scherzosa, a un gioco poetico, a un intelligente divertissement. L'uso dell'ironia come filtro perla comprensione del mondo è un'operazione ben presente all'Autore della raccolta che, da provato funanbolo della parola e del testo, sa sempre come riportare "in più spirabil aere" tensioni eccessive, sofferenze altrimenti lancinanti, atmosfere fin troppo rarefatte al punto da sfuggire al governo anche del migliore inventore di versi. 

Tanto migliori e più graditi agli occhi di noi Lettori, se essi  sapranno offrirci una poesia semplice, fruibile, capace di comunicare ancor prima di essere capita. Come quella di Maurizio, appunto, "ragione cantata", che non rinuncia mai ad affermare le fondamentali verità umane che devono servire di pietra di paragone al nostro giudizio e a quello degli uomini del nostro tempo.
Maurizio Guccione, Le mie stanze – Poesie, collana Nodino/ Poesia che salva la vita, La Grafica Pisana, 2019

14 giugno 2019

“Le distrazioni del viaggio” di Annalisa Ciampalini



di Gabriella Pison

La magia del titolo “Le distrazioni del viaggio” mi trasporta immediatamente in un viaggio esistenziale e introspettivo dell’Autrice, dove si sente l’eco dello spirito dei nostri tempi, quel desiderio di interrealtà, di essere e non essere nel tempo e nello spazio, essere offline e al contempo online, per mutuare dei termini molto adoperati oggi. Non per irresponsabilità, ma proprio per il bisogno di entrare nella propria anima, metterla a nudo, sentire quello che sta dentro di sé e fuori di sé:  ciò che mette in luce la poetica della Ciampalini è il suo mondo lirico di emozioni e suggestioni, in un iter dello spirito  che ha il sapore della purificazione.
Nei suoi versi c’è il suo respiro, il suo spirito, frutto della sua esperienza, del suo vissuto, della sua riflessione metafisica, che esige di comprendere l’universalità dell’anima, attraverso la spinta interiore della coscienza e di intuirne i meccanismi, le regole in un messaggio che non esiterei a definire ontologico

…Il sussulto prima della frammentazione
tornerà nella terra e negli organi di tutti.
  
Si tratta di una scrittura epistemica, intesa come scrittura intenzionale perseguita attraverso l’abitudine a porsi domande significative, un viaggio nella conoscenza,  nelle nostre radici più profonde, uno scavo in cui ci possiamo riconoscere, in cui diventa possibile intuire le dinamiche del nostro essere e del nostro divenire e che suscita emozioni, sconvolge convenzioni ed aspettative,  enfatizzando sempre le  interazione tra i binomi indissociabili parole-suono e spazio-scrittura, atta ad assicurare una sua dialettica al testo nel suo insieme, capace di far sì che ognuno di noi, leggendo la sua poesia, possa  comprenderne il significato valoriale e farlo proprio. L’esistenza umana è un grande viaggio nel mare della conoscenza, per Annalisa conoscere è una sfida sul destino ultimo delle cose, una ricerca di risposta alla sua solitudine metafisica, anche se le è concesso, grazie alla sua poesia,  di trasferirsi in un altro mondo, parallelo e ricchissimo di musicalità e tensione verso l’assoluto, dove diventa possibile comunicare in liberi orizzonti, senza timore di venir scoperti, senza una maschera e dove il dolore si metabolizza: il suo è un viaggio di libertà nelle radici più profonde del Sé in una polifonia dì immagini di grande vivezza espressiva, che ci tengo a riportare:

Se l’infinito è qui, se pensiamo
sia qui, nello spazio del finito,
sono morti i viaggi in treno  
quelli che portavano verso amori lontani.

E se inevitabilmente il mio pensiero va a “viaggiatori temporali” di Godel ,  a quella  macchina del tempo che è "Universo rotante", dove un ipotetico viaggiatore spaziale potrebbe compiere viaggi nel proprio passato, Annalisa, quasi sulle sue tracce, proprio per la sua conoscenza matematica, cerca di chiarirsi e illuminare,  anche col metallico linguaggio della logica formale, febbrili spiragli sui misteri che circondano uomo e universo,  tanto da apparire talora  come giunta da un' altra dimensione e bene lo si sente in questi versi:
Tornerà l’aritmia dell’inconcepibile
e il momento vuoto, come scordarsi d’esistere.
Il sussulto prima della frammentazione
tornerà nella terra e negli organi di tutti.
Continueremo a non vedere lo spazio
che s’incurva …

Dimensione che avverte gli echi di Chomsky, a lei – amante delle strutture del linguaggio- tanto vicino per studi, che le suggerisce, con la  sua sesta regola , offlabel in questo caso forse, che l’aspetto emotivo vale molto più della riflessione, con  l’intento di sfruttare l’emozione per provocare un corto circuito su un’analisi razionale: il tessuto linguistico delle sue composizioni, icastico e luminoso, ne risente, contraddistinguendo le sue liriche di una tensione spirituale, cui si ha la sensazione che l’Autrice non voglia abbandonarsi, forse lacerata dal timore  di perdersi in soste e divagazioni, che l’allontanino dalla realtà. L’uso del registro emotivo, permette invece di aprire la porta di accesso all’inconscio, liberare idee, desideri, paure e sogni, inducendo anche ad una crescente spinta escatologica della scrittrice, con versi limpidi e densi, verso il sublime della Poesia, strumento di perenne resurrezione:

Poi la luce irrompe nelle fronde
e ci alziamo del tutto ricomposti
come se fragilità non fosse ogni nostra vena
e l’intero disegno del giorno.

Leibniz si chiedeva:  “Perché esiste qualcosa anziché niente?” e la Ciampalini tiene il lettore in sospeso tra moduli personali e coinvolgimenti oggettivi, partoriti da un’anima cosciente del fatto di esistere. Sappiamo che pensiero e linguaggio sono composti di elementi semplici come infine è semplice l’uomo stesso, la natura e senza timore di apparire blasfema, anche la divinità. E se ciò significa che il semplice è alla base della complessità, secondo un principio elementare della fisica matematica, proprio su questo principio si è sviluppato il concetto di monade  leibniziana, che esprime sia l’unità dell’ente che  la sua unicità e differenza, caratterizzata da  un cambiamento continuo, una sorta di interna creazione perpetua che la rende una e mutevole, una e irripetibile, a testimoniare la continua instabilità della condizione umana, come nei versi della Poetessa:

Cercano il potere del sonno, un’immensa
 garza bianca che curi la memoria,
una quinta tra gli occhi e il cielo nudo.
Una migrazione dolce, impercettibile
spostamento del baricentro.
 
                                                                  Annalisa Ciampalini

La nostra Autrice sa bene, sul filo di una precisa coerenza, di destreggiarsi tra il buio di un orizzonte lontano sfumato e per questo ignoto, e la vivezza, la lucidità dei suoi versi, sottraendosi all’omologazione di qualsiasi appartenenza a correnti letterarie contemporanee, fa sua un’ amalgama narrante, una poetica intensa e coinvolgente, di squisita sensibilità nella sua ossimorica complessità, che non si accontenta della semplice parola, ma cerca di  coglierne le significanze ctonie  e le infinite accezioni dell’essere.

….Conteremo soltanto le ore di luce, nel buio

… L’aria si posa sulle nostre teste chine/ ci battezza tutte con lo stesso nome

Sì, perché il metamessaggio che si avverte, il non detto, risuona della filosofia di  Ricoeur: “Siamo un ipse” e dunque “non un idem”: Annalisa è un ipse, un soggetto che oscilla perennemente tra la tendenza all’uscire fuori di sé aprendosi all’altro e il bisogno di una chiusura stabilizzante, rassicurante. In realtà è immersa in un’esistenza di cambiamenti, di inquietudini e il filosofo  offre una chiave di lettura del suo percorso, del suo viaggio, delle sue fermate, della sua interiorità di valori profondi. Proprio perché la sua solitudine l’ aiuta a osservare i minimi mutamenti del mondo, senza mai ripiegarsi su se stessa, e la stimola a raggiungere le radici più profonde dell’essere: tenendo insieme interpretazioni contrastanti, facendole dialogare tra loro, vera fonte di ricchezza per la libera creatività del pensiero, muovendosi agilmente nell’anima mundi dell’universo:

Sarebbe altro a voler esistere
in una cecità senza fine.
Altri i momenti, nulle le direzioni.
Impossibile starne fuori.       

“Il simbolo dà a pensare”: con questa celebre espressione Ricoeur sottolinea il carattere fecondo e donativo del simbolo, che- costituendo un senso immediato- si dà come stimolo al pensiero: così nella silloge della Ciampalini, questa continua riflessione tra visibile e invisibile, tra metafora e realtà, tra evocazioni asciutte delle cose, si coglie la necessità emotiva di far parlare un alter ego, la poetessa stessa, che ricorrendo però alla forza dei sintagmi e delle immagini epifaniche, libera il suo pensiero e lo rende fluido, quasi che le forme fenomeniche della scrittura la preservassero da mostrarsi nella sua nudità.
Dai misteriosi anfratti dell’essere, in una sorta di riserbo pudico, nella preoccupazione magari di apparire stonati, di essere fraintesi, oltrepassando i confini dell’esperienza individuale, percorre i sentieri di ricerca della Luce, del superamento dell’Io, per avvicinarsi alla Verità, a ciò che ci fa essenziali: riconosco nei suoi versi la donna che ha fatto i conti con le illusioni, sue e degli altri, e che ha visto l’insostenibile fatuità della materia, rifuggendola quando possibile, tanto da ricordarmi il Malte di  Rilke – autore a lei caro- nella  ricerca incessante del significato della vita in un’efflorescenza di immagini di sottile psichismo, dove mette arte e cuore :

Il lamento
del lupo alle finestre quando rincasare
è solo un nocciolo di legno e i gesti
si fanno bruni, e stanno tutti tra le mura.

Leggere le liriche di Annalisa significa entrare nel suo mondo complesso e variegato, studiarne gli elementi portanti uno ad uno senza perdere il filo sottile che li unisce: la logica e il simbolo dunque, il cogito e l’espressività del cosmo, il desiderio, l’immaginario, la chiave di accesso verso il sacro, verso la vera poesia.

Per Popper nel  Contesto della scoperta non è più sufficiente l’uso univoco del linguaggio e la sua cristallizzazione in definizioni e assiomi immutabili, così la Ciampalini nella sua ricerca poetica, esistenziale, linguistica, non elude la  spontaneità, ma la arricchisce di valenze, in limite tra metafora, utopie, allegorie e suggestioni, lontana da ogni sperimentalismo verbale e  fa percepire un equilibrio del Creato, dove tutto è in divenire, atomi in flusso eracliteo, un legame tra le cose nel tempo e il nostro pensiero, tra le immagini e i gesti, tra il paesaggio dell’anima e quello della terra, della sua immobilità. E se il filosofo austriaco ritiene che  la realtà sia che  “noi siamo attivi, noi esploriamo di continuo, lavoriamo costantemente con il metodo del tentativo e dell’errore”, l’Autrice prende forza da un substrato di rigore e logica, che le è congeniale, ma verifica nel suo paesaggio poetico una sorta di turbamento, che deriva dalla dialettica tra le istanze cerebrali e il mondo dei sentimenti, degli affetti , le emozioni vere, il colorismo magico della Natura, regalandoci pagine innervate di enfasi lirica.

… Anche il paesaggio partecipa e muta

… Se ne andranno le albe disadorne / se ne andranno in una finzione remota

La scrittura diventa catartica per la nostra Autrice, una modalità forse per lenire dolori e sofferenze, i disagi irrisolti della nostra vicenda umana e con armonie di forme e contenuti ci consegna, alla fine del viaggio, non sempre in linea retta, la molteplicità del reale, le profondità della sua visione, della sua analisi interiore, senza falsi sentimentalismi, in una ermeneutica della conoscenza che ci induce ad approfondire la sua scrittura.

Annalisa Ciampalini. Le distrazioni del viaggio . Samuele Editore, 2018. Prefazione di Monica Guerra
Gabriella Pison
Warmbad, 9/VI/2019

















12 giugno 2019

"Danze e Volo d'uccelli? " foto di Gianni Quilici


                               foto Gianni Quilici

Dialogo con l’autore

 di Silvia Chessa

Questa foto è davvero fantastica !

G. Q. Perché fugge nella sua indeterminatezza? 
 S. C. No, forse perché, grazie alla sua indeterminatezza, si auto qualifica benissimo e si distingue da tutte le altre.

Cioè, spiegami.  
Per farti capire dovrei partire da un concetto riletto due giorni fa, è di Roberto Cotroneo: " quasi mai l'autore ha un'idea precisa di quello che andrà a raccontare. Spesso ne sa poco. Ancora più spesso non ne sa quasi nulla. Come è possibile questo ? È possibile perché la scrittura è una forma di svelamento di se stessi (da un lato) e a se stessi (dall'altro)".

Quindi mi stai dicendo che questa foto svela me in quanto fotografo, da un lato, e dall'altro svela me a me stesso?   
Sì e no; voglio dire questo ma anche altro .. Voglio dire che siamo sovraccarichi di primati tecnologici e macchinette fotografiche super potenti dalle capacità di definizione strabilianti e qualità tecniche - sia degli strumenti che dei fotografi - elevatissime, ma tutto ciò è spesso esibito, direi quasi in modo sfacciato e invadente.Qui invece la qualità del mezzo fotografico e la perizia di chi lo utilizza è piegata, messa al servizio di un sentimento.

E quale sarebbe questo sentimento, per te?  
Quel sentimento è la cultura della vita, di una energia universale dove tutti siamo chiamati ad immedesimarci, a farci trascinare ... è un gesto che richiama nella sua iconografica e sfocata potenzialità mille altri gesti e mille altri momenti, ma è al contempo unico e speciale.

Perché speciale?    
Perché trascina e suscita suggestioni, ricordi, connessioni, da fare, o disfare. Insomma è qualcosa che semina emozioni, rimesta  nel fondo dei ricordi. Il dove, il chi, il quando potrebbero spostarsi a piacimento, non si cattura il dettaglio, non si consentono coordinate. Eppure ..

Eppure?  
 Eppure mi sono venute in mente una serie precise di cose
foto di Gianni Quilici
 Tipo?  
Tipo il quadro della danza di Matisse, oppure Silvana Mangano che balla il Mambo nella indimenticabile scena di "Anna" ( citata anche da Nanni Moretti), e gli uccelli -per i quali sarebbe banale citare Hitchcock - mi hanno trasmesso inquietudine ma anche attrazione, e senso di libertà. Insomma credo tu abbia catturato l'energia vitale di un momento unico ed irripetibile e, come un pompiere chiamato a spegnere un incendio dove bello e orribile si fondono (e qui  il pensiero va alle terribili scene di Notre Dame che va a fuoco), tu abbia sentito in quell'istante di non volere agire direttamente sull'elemento fuoco, di non poterlo, o volerlo, mettere a fuoco ma semplicemente farti parte di quel tutto in perenne movimento, subirne l'impressione dandone testimonianza, per impressioni.

Gianni Quilici. Danza. Festa dei Popoli a  San Concordio, Lucca.  giugno 2019

Gianni Quilici. Volo d’uccelli? Lanzarote, gennaio 2019

07 giugno 2019

"Qualcuno la chiamava Mistinguett" di Luciano Luciani


Nell’estate del 1950 i gestori del “Colle Oppio”, allora il massimo teatro romano all’aperto, annunciarono l’apertura della stagione con un numero eccezionale: Mistinguett. Grandi cartelloni a colori tappezzarono Roma per informare dell’evento. Ma la sera del debutto nello spazioso giardino c’erano, sì e no, trentacinque persone: quindici paganti e venti imbucati.
La modestissima troupe, composta di qualche ballerina, un paio di cantanti, un presentatore e un fantasista, dichiarò fallimento lo stesso giorno. Nessun altro impresario teatrale volle firmare il minimo impegno per un giro in qualche altra città d’Italia, anche nella più abbandonata delle province. L'ambasciata di Francia rifiutava qualsiasi contributo e quindi quattrini per ritornare a Parigi non ce n’erano. Nè per rimanere: gli alberghi minacciavano di sequestrare i bagagli personali e nessun ristorante era disposto a far credito.
Mistinguett, seduta su una sedia al centro del palcoscenico vuoto, piangeva a dirotto e nessuno le si avvicinava per consolarla. La quasi ottantenne “Regina del music-hall” chiudeva la sua carriera abbandonata dal pubblico e dagli impresari.


Qualche ora dopo, il maestro Mario Ruccione (1908 - 1968), il musicista di Luciano Tajoli e Claudio Villa - oltre che sino a pochi anni prima fortunato canzonettiere del regime fascista - invitava i componenti della piccola formazione a mangiare in una trattoria lì vicino e si faceva promotore fra gli artisti romani di una colletta che permettesse il ritorno in Francia di “Miss” e di tutti i suoi compagni di lavoro.
Quella di Roma fu l’ultima comparsa in scena della famosa cantante e danzatrice francese, nata circa 75 anni prima a Montmorency, nei pressi di Parigi, da un modesto tappezziere di provincia e da una sarta a giornata; la disastrosa tournée romana chiudeva una carriera di trionfi e una vita movimentatissima.

Venuta al mondo  nell'Ile de France, a Enghien-les-Bains, come Jeanne Bourgeois, nome comunissimo in Francia, da ragazzina, la piccola Jeanne a dodici anni vendeva fiori davanti al Casino, alla pari di un'eroina pucciniana o chapliniana: non sapeva ancora cantare, ballare o recitare, ma il teatro l'attirava con una forza irresitibile.
In famiglia fu deciso allora di farle impartire qualche lezione di canto a Parigi. E fu un certo Boussagnol che s’incaricò di educare la vocetta di quell’allieva turbolenta e niente affatto malleabile. La ragazzina aveva tredici anni quando iniziò i primi vocalizzi; a quattordici debuttava nel coro della chiesa di Montmorencey come solista in mezzo a una folla di suoi coetanei.


Seguitò nello stesso tempo a frequentare le lezioni, perché cantare le piaceva. Andava tutti i giorni avanti e indietro dal suo paese a Parigi, portandosi sottobraccio le musiche e la colazione. Era bionda, stopposa di capelli e aveva i denti leggermente in fuori. Un operaio, suo compagno di viaggio ogni mattina, disse che somigliava in tutto a un’inglese e cominciò a chiamarla “Miss Tinguett”. Quel soprannome doveva diventare il suo nome d’arte ed era destinato, in futuro, a brillare a lettere cubitali al di qua e al di là dell'Atlantico.


Il debutto avvenne al “Trianon” di Place d’Anvers quando aveva appena sedici anni. Uscì sul palcoscenico vestita da contadinella e cantò una canzone patetica. A dir la verità non riportò un grande successo; anzi, la maggior parte del pubblico non la notò nemmeno. Ma la piccola Jeanne, ormai già Mistinguett, era caparbia e voleva arrivare a tutti i costi. Così quando seppe che all’”Eldorado” avevano bisogno di una “gommeuse excentrique”, si presentò con la sua tradizionale faccia tosta. Fu accettata e un paio di sere dopo debuttò. Fu in quel teatro che conobbe Maurice Chevalier, poco più che  adolescente: lo stesso che doveva diventare un giorno il suo più grande amore e, più tardi, il “Maurice national”.

Rimasta senza ingaggio, mentre si recava a cercare lavoro al “Moulin Rouge”, grazie a un formidabile paio di gambe – lunghe e dritte che terminavano in due caviglie seducenti valorizzate da tacchi vertiginosi e scarpette con laccetto charleston - fu notata da Max Dearly che necessitava  di una partner per il suo “valse chaloupée”, una danza apache, su musica di Hoffenbach, che aveva in mente da tempo.
Fu il primo successo. Quella sua aria leggermente dolorosa, quel suo aspetto di donna ingenua e perfida, torturatrice e vittima, brillante e maliziosa, si addiceva perfettamente al ballo che i due eseguivano e piacquero al pubblico che applaudì entusiasticamente.



Con Dearly, Mistinguett rimase parecchi anni; poi passò alle “Folies Bergère”. E qui ritrovò Chevalier ed ebbe inizio il grande amore della sua vita. Una love story che iniziò con una rissa: in una viuzza vicina alle “Folies”, Maurice fece a pugni con l’attore Jean Dax che finì a terra col volto tumefatto. Chevalier si era azzuffato per difenderla dalla corte dell’altro, e anche il suo volto, dopo la lotta, era pieno di ecchimosi. Mistinguett lo ringraziò, gli curò le ferite e s'innamorò di lui.

Era il 1913. Già la minaccia della guerra si profilava all’orizzonte. Chevalier  è richiamato alle armi e inviato in una guarnigione del sud. Mistinguett non sopporta la separzione e si adopera con tutti i mezzi per far trasferire il suo uomo a Fontainebleau. Ci riesce, ma la gioia fu di breve durata. Al primo colpo di cannone, l’attore dove partire per il fronte, dove, ferito, è fatto prigioniero. Un' angoscia terribile per la soubrette. Ma era una donna volitiva, e la sua brillante carriera l’aveva portata a servirsi di di una larga rete di potenti relazioni. A Parigi, qualche anno prima, aveva conosciuto personalmente Alfonso XIII, il re di Spagna, e pensò subito di rivolgersi a lui per un aiuto. Ci vollero due anni di insistenze e di lotte; un tempo durante i quali “Miss”, pur continuando a lavorare in coppia con altri partner,  non cessò mai di pensare al suo uomo; due anni di lettere, di suppliche, di viaggi, di implorazioni, di peregrinazioni perché Chevalier, ammalato e malridotto, potesse ritornare, nonostante la guerra ancora in corso, alla sua Parigi e alle tavole del palcoscenico. È così che i due, prima della fine del 1917, possono debuttare, in coppia al “Casino de Paris”, nella rivista Laissez-les tomber. Il titolo com’è evidente si riferisce alle bombe che cadevano frequenti sulla capitale francese. Anche la sera del debutto, proprio al momento dell’uscita della coppia in scena, il sibilo delle sirene annunciò l’allarme aereo. Ma nessuno degli spettatori si mosse dalla sala e lo spettacolo continuò, nonostante gli aeroplani tedeschi stessero volteggiando in alto, i sibili delle bombe e il mitragliamento dei caccia francesi.

Mistinguett aveva un carattere difficile; passava con rapidità dall’ira alla gioia e non permetteva a nessuno di contraddirla. Era autoritaria e prendeva il proprio mestiere maledettamente sul serio.
Maurice lo aveva creato lei; era stata lei a farne un artista completo; era merito suo se egli aveva abbandonato il costume da apache in scena per il frack. Lei lo aveva costretto a indossarlo per mesi, tutte le sere e a camminarle davanti, in strada, perché potesse correggere la sua andatura dinoccolata e imparare a muoversi con disinvoltura: voleva farne un grande ballerino e un attore, non un cantante.
La separazione definitiva tra i due avvenne per un banale diverbio tra artisti di teatro, allorché in occasione dell'esordio di una nuova rivista, si trattò di mettersi d’accordo sulle misure dei due nomi in cartellone. Ambedue avevano il teatro nel sangue, erano immensamente orgogliosi e anelavano troppo al successo per accettare qualsiasi forma di subordinazione. Chevalier si staccò da quel sodalizio artistico e amoroso e accettò un altro contratto.


Mistinguett lo attese ancora e ancora, ma ormai per l’uomo l'amore era ormai finito.  Anche a differenza d’età - quasi 15 anni d'età separavano l'una dall'altro -  cominciava ad avere il suo peso e, mentre l’una era soltanto un’istintiva, che non aveva mai tenuto a migliorare la propria cultura, l’altro si era andato affinando giorno per giorno, in una continua ricerca di miglioramento.  Quando “Miss” capì che ogni tentativo di riavvicinamento sarebbe stato inutile, dopo aver assicurato le proprie gambe per un milione di dollari  partì per gli Stati Uniti. I suoi trionfi americani sono del 1922, con  Mon homme, una canzone che sarebbe in breve divenuta celebre in tutto il mondo, e con lo spettacolo Innocent Eyes che fece sognare mezzi States. Intanto faceva la sua comparsa il secondo grande amore della sua vita: Earl Leslie, un ballerino americano già partner delle Dolly Sisters, un duo di ballerine americane, Rosy e Jenny, gemelle di origine ungherese, che ebbe uno straordinario successo di pubblico sulle scene di Londra e Parigi nel primo dopoguerra: un magnifico giovane di venticinque anni sul quale la vivacità e il temperamento della soubrette incisero profondamente. I due si erano conosciuti qualche tempo prima al “Casino de Paris”, dove lavoravano insieme; il viaggio negli Stati Uniti segnò la fase più bella della loro relazione. 


Doveva essere un’altra futura grande stella del cinema, Viviane Romance, allora soltanto una comparsa, a rubarle l’ultimo uomo della sua vita. Mistinguett, quando s’accorse che tra i due c’era del tenero, volle far pesare la propria autorità sulla ragazza affibbiandole una forte multa al primo futile motivo che le si presentò. L’altra, il cui carattere non era da meno, invece di subire in silenzio, scattò come una vipera e chiamò “vecchio cammello” la rivale.  Da qui all’avventarsi l’una contro l’altra e a graffiarsi a sangue fu un attimo
 – Verrò un giorno a ballare sulla tua tomba!– le urlò la giovane rivale nell’andarsene.  Comunque anche il suo Leslie se ne andò con un'altra, una ballerina tedesca, una certa Fia e un paio d’anni dopo ritornò in America conducendo con sé una ragazza sposata a Vienna. 


Il nuovo partner di Mistinguett, Lino Carenzio, fu soltanto un compagno di lavoro. Una tournée nel Sud America ebbe uno scarso successo e segnò una non lieve passività finanziaria per il suo impresario. Tornata in Francia, “la Regina del Music Hall” ricominciò a esibirsi al “Moulin Rouge”, ma il suo nome in cartellone non costituiva più il richiamo di un tempo, né bastava la sua straordinaria vitalità - più che settantenne ballava il boogie-woogie in scena - a renderla l’idolo di una volta agli occhi del pubblico.


Il nome di Mistinguett era definitivamente tramontato. L’ultimo atto doveva vederla piangente, a Roma, accasciata su un baule, sul palcoscenico del “Colle Oppio”.