31 gennaio 2013

"Racconto di un naufrago" di Gabriel Garcia Marquez




di Gianni Quilici

Un racconto lungo che  scorre via velocemente, travolge e assorbe narrativamente. Può piacere a chiunque: dai bambini delle elementari al più sofisticato dei lettori.

Storia vera raccontata a Gabriel Garcia Marquez, allora giornalista, da un marinaio, Luis Alexandro Velasco, che  era stato trovato moribondo su una spiaggia deserta, dopo essere stato per dieci giorni su una zattera alla deriva nel Mar dei Caraibi, in seguito al naufragio del cacciatorpediniere, del cui equipaggio faceva parte.
Grazie alla “spiccata tendenza all’arte del narrare, alla capacità di sintesi e a una spaventosa memoria” del giovane ragazzo, utilizzato come eroe in Columbia dalla dittatura militare e folcloristica del generale Gustavo Rojas Pinilla, Marquez ci restituisce una storia palpitante in uno scenario nitidamente visivo. Noi viviamo, con il protagonista, una miriade di situazioni: il mare calmo piatto e tempestoso, il sole torrido e il vento gelido, la fame e la sete più atroci, le allucinazioni e la presenza terrorizzante di pescicani, l’oscurità e la perdita di ogni orientamento, il corpo coperto di bolle e di piaghe sanguinolente con le spalle e le braccia scottate…

Un linguaggio fluente e stringato, rapido e cinematografico, tutto azione, dove l’azione –questo è il punto di forza del racconto- è sostenuta psicologicamente da una ricchissima analisi dei mutevoli cambiamenti di stato d’animo del protagonista, nella sua lotta per la sopravvivenza, continuamente sospeso tra vita e morte. Il timbro di voce dell’io narrante emerge, quindi, limpido e vero da chi, trovandosi a vivere in una situazione così estrema, non può che essere autentico, privo di qualsiasi ambiguità, unicamente proteso verso l’esistenza.

Gabriel Garcia Marquez. Racconto di un naufrago. Traduzione di Ignazio Delogu. Editore Riuniti.

La storia del romanzo
“Racconto di un naufrago” raccoglie le quattordici puntate di una storia raccontata da Luis Alejandro Velasco a Gabriel García Márquez e pubblicata nel 1955 sul quotidiano colombiano “El Espectador”, per il quale lo scrittore lavorava come giornalista. La storia rivelava alcune scottanti verità. In particolar modo, emergeva che su un cacciatorpediniere non poteva esserci un carico di elettrodomestici come quello descritto dal naufrago, e che, di conseguenza, questi venivano trasportati in Colombia di contrabbando. All'epoca la Colombia era sotto la dittatura di Gustavo Rojas Pinilla, e il regime fece chiudere il giornale. In seguito a questi avvenimenti, Luis Alejandro Velasco fu completamente abbandonato dal governo e dimenticato da tutti. Tutto ciò non è descritto nel racconto del naufrago, ma nell'introduzione al romanzo del 1970 di Gabriel García Márquez. (da Wikipedia)

30 gennaio 2013

"Ritratti" di Man Ray





di Gianni Quilici

Ritratti  di Man Ray. Un divertimento per lui e intrigante, credo, per molti lettori, su foto sue, di più o meno grande valore, perché in sé contengono l’anima, a volte  la sperimentazione fotografica, perché questi sono ritratti quasi tutti di personaggi famosi, soprattutto, della pittura e della letteratura. In questo libretto troviamo, infatti, Picasso e Matisse,  Virginia Woolf e Henry Miller,  Bunuel e Eisenstein, per citarne solo alcuni.

Man Ray si è divertito a dare un voto alle sue foto: da 1 a 20, come facevano i surrealisti, e come si fa oggi quasi dappertutto; e a dare giudizi ai fotografati, spesso dipendenti dalla simpatia e antipatia verso il personaggio ritratto.

I più interessanti sono forse i giudizi critici o malevoli. Di T. S. Eliot scrive: “Non mi interessa più di quanto io non interessi a lui”. Di Fernand Léger invece: “La sua opera è talmente pesante che sembra tagliata nella massa”. E di James Joyce: “ Un corso di letteratura inglese può aiutare ad apprezzarlo”. Il giudizio più amorevole forse è per Nush Eluard, la moglie di Paul:” Nessuna fotografia potrebbe restituire il fascino e la dolcezza di questa donna”.

L’unica foto a cui dà il massimo foto, 20, è per Juliet Ray, la moglie; 19 per Marcel Duchamp e  18 per André Breton, Erik Satie, Marx Ernst, Tristan Tzara, tutti suoi cari amici.

Immagino che sia uno dei libri non pubblicati in vita, ricavati dalle carte post mortem, come accade per gli artisti che hanno ancora un pubblico. Piacevoli, come schegge libere da quei controlli, che soffocano quella libertà di non avere riguardi, anche se poi non aggiungono e non tolgono nulla ai loro autori.

Il libro costa comunque troppo rispetto alla dimensione delle pagine, ma si può sfogliare, riflettendoci sopra, in poco tempo, in una di quelle librerie aperte alla lettura, con sedie o poltrone, sorseggiando magari una cioccolata calda.

Man Ray. Ritratti. Edizioni A, Abscondita. Traduzione di Guido Alberti. Pag. 73. Euro 12,50  
  

24 gennaio 2013

"Volevo fermarmi ad ascoltare" di Anna Pieroni



Foto di Gianni Quilici
                                                      
Volevo fermarmi ad ascoltare

Oggi ho sentito le ultime cicale
raccontare la storia di questa estate

Volevo fermarmi ad ascoltare
avrei dovuto
ma una ruota girava
e l’altra seguiva
e i pedali andavano
e si portavano dietro il piede
e l’altro seguiva

e le cicale celebravano

Sono passata così
attraverso la porta delle mura

attraverso un improvviso silenzio

Al di là nessun canto
nuvole soffici
un tepore settembrino

Avrei voluto tornare indietro
avrei dovuto

a riprendermi un pezzo
di splendore estivo
di malinconia marina
di sera selvaggia
di stelle cadenti
di ambra e corallo
di turchesi e giada
di erbe profumate
di intese e abbandoni
di passato
passato

Ma una ruota girava
e l’altra seguiva
e io andavo
così
nella traccia obbligata

E non era in mio potere
Fermarmi
             Anna Pieroni



Leggo questa poesia di Anna Pieroni e immediatamente mi colpisce.

Primo: per l'andamento prosaico di chi racconta una scheggia di vita quotidiana che scorre.

Secondo: per il ritmo che i versi quasi subito assumono con l'uso di tutte quelle forme retoriche (l'anafora e l'iterazione, l'alliterazione e l'assonanza ), che danno musicalità e movimento stesso allo scorrere delle immagini.

Terzo: per i contenuti stessi della poesia, che sono-diventano movimento. Si “pedala”, infatti, sia nel paesaggio che muta (la porta delle mura e le nuvole soffici), sia nello snodarsi dei “suoni” ( le ultime cicale e l'improvviso silenzio).

Quarto: la semplicità (apparente) della poesia si fa complessa, senza tuttavia perdere la sua (apparente) semplicità. C'è come un salto filosofico, ma lieve da sembrare quasi involontario.

Ecco, infatti, stagliarsi di fronte a noi in un frenetico succedersi, il Passato, che ha il ricordo, la nostalgia abbagliante dello “splendore estivo”: la malinconia marina, la sera selvaggia, le stelle cadenti le intese e gli abbandoni eccetera, eccetera. E però questo passato è fuggito, non può essere ripreso, così come è appena fuggito (...“una ruota girava/e l'altra seguiva”...) il presente: quel canto delle cicale. Dunque: il passato è passato, ma pure il presente è passato. Ci resta soltanto inevitabilmente il flusso del presente, che tuttavia non può essere fermato, neppure per un istante.
 Ecco fondersi nella poesia canto e immagine in movimento, semplicità e complessità, vita quotidiana e senso filosofico dell'esistenza.

Ma chi è Anna Pieroni? Nel profondo è la sua poesia. Da sempre ella scrive, ma solo da pochi anni ha iniziato “timidamente” a “mostrarsi”. Con risultati anche visibili:  3° Premio Nazionale di Poesia “Giancarlo Galliani” e quest'anno 1° Premio nazionale “città di capannori”. Ma soprattutto Anna Pieroni, mi dice, sta scoprendo in se stessa “nuove forze, nuove passioni, nuovi orizzonti”.  
                                                                                                   Gianni Quilici
                                                                                                                                                                                                               


19 gennaio 2013

Jean Clair, "La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura" di Davide Pugnana





Il museo  non può essere unico 
e uguale ovunque,
secondo generali principi standardizzati, 
ma, nel rispetto di regole tecniche 
riconosciute  le migliori 
dallo studio scientifico 
dei problemi di conservazione degli oggetti,
 deve assumere di volta in volta,
 il carattere che il suo patrimonio 
e la sua storia esigono.
(Franco Russoli, Il museo nella società)


Clair il catastrofista. Clair l’apocalittico. Clair il reazionario. Clair l’anticristo di tutto quanto sia in odore di neo-avanguardia e di aniconismo. Clair il savonaroliano fustigatore di quell’arte contemporanea che va scrivendosi sotto i nostri occhi, mostra dopo mostra, biennale dopo biennale, attraverso poetiche individuali non ancora munite della patente di Storia dell’arte, non ancora mappate; ma, forti di questa sbrigliata imprevedibilità, tanto più seducenti. Clair il conservatore e il nostalgico. L’anacronistico Jean Clair. Questi epiteti condensano alcuni tra i molti luoghi comuni che si sono depositati sulla figura e sul pensiero di questo saggista francese. E non perché Clair sia un ribelle tout court, un pessimista integrale ed arrabbiato per la piega che l’arte sta prendendo nel nostro millennio. L’antipatia che solleva il suo operato e permea i temi della sua scrittura, costantemente avversati dagli intellettuali allineati al potere, assume connotazioni talmente amplificate e morbose da far trasparire una radice molto più profonda: qualcosa che viene percepito dall’egemonia culturale come minaccia pronta a rovesciare, o scoprire, l’inganno delle carte in tavola. Tutta questa mobilitazione non esisterebbe se Clair non si inserisse nel solco di una tradizione di intellettuali scomodi al potere, obliqui e indomabili ad ogni ideologia dominante; tradizione che conta molti nomi di spicco nel panorama novecentesco. Clair reca nel suo atteggiamento verso le grandi questioni della storia della cultura e dell’attualità artistica la cifra identitaria di questa linea che è culminata nel grido ‘corsaro’ di Pasolini del “Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembra regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero.” Queste parole che Pasolini scriveva, nel 1974, per il “romanzo delle stragi”, riecheggiano nell’indignazione saggistica e morale  di Clair sulla “strage dei musei”. Ogni paragrafo de La crisi dei musei è l’assembramento di tessere scheggiate e vaganti, apparentemente senza legami; ma che un’indagine accurata sui fatti e sulla cronaca, sulla tradizione e la storia, sulle concezioni intellettuali e sulle istituzioni museali,  ricompone in un mosaico “coerente”, nel quale vige una logica politico-economica interna alla conservazione e tutela dei beni artistici.   Di tale fattura è lo sguardo intellettuale che Jean Clair sui fenomeni in atto e crude sono le verità che ogni suo saggio porta in superficie. Verità scrutate e cucite sui fatti, talora su eventi di cronaca che passano per lo più inavvertiti. Leggendo le pagine de La crisi dei musei scopriamo dinamiche, disegni di potere, degradi, rovesciamenti di senso che mettono a nudo le leve storte dell’ufficialità culturale. Come Pasolini, Clair è scomodo perché eccentriche - ossia non allineate con il baricentro della leadership militante - sono le sue posizioni. Lo spirito che serpeggia in ogni sua pagina, e che contagia anche il lettore ‘non addetto ai lavori’, ha un nome proprio, che pare essere svanito dal vocabolario dell’etica e dell’agire umanistico del nostro tempo: indignazione. Oggi assai raramente le nostre orecchie e la nostre menti sono pungolate dalla voce di un indignato. Quando ci passa accanto sentiamo che la sua onda d’urto genera una certa tensione liberatrice. Clair l’indignato: è questo l’epiteto che suona più aderente al robusto temperamento culturale e all’implacabile vena di dissenso che anima la ormai trentennale attività di questo saggista, affacciato sulla scena dell’arte dalla fine degli anni Settanta. Francamente, anche nel milieu degli intellettuali italiani si sente la mancanza di questa virtù eclissata che è l’indignazione. Voci che si levano, tuttavia, non mancano, soprattutto nell’ambito della storia e della tutela dei beni culturali, basti riandare con la memoria ad alcune memorabili querelles di Vittorio Sgarbi, di Argan, di Achille Bonito Oliva, di Salvatore Settis sul paesaggio e sulla tutela, legislazione e conservazione del patrimonio dei beni culturali in Italia. Ma è altrettanto vero che, se si parla di indignazione, non si può non rammentare l’inconfondibile stile di Federico Zeri. Come quella di Pasolini e di Sciascia, la voce di Zeri era talmente sottile e incisiva che oggi più che mai ne sentiamo la mancanza. Certamente, Zeri avrebbe sottoscritto le indignate riflessioni di Clair sul destino del museo nell’epoca della globalizzazione e sulla crisi che ha investito un’istituzione che sembrava intoccabile.

Che cos’è diventato il museo? In che cosa lo ha trasformato il nostro tempo? È ancora quell’istituzione capace di farsi strumento di educazione e di interagire con la varietà del pubblico? Quanto ha inciso il primato dell’economia nella gestione delle collezioni? È giusto de-localizzare i musei a scopo di lucro? L’opera d’arte, appartenente ad una collezione, può essere noleggiata, venduta, mercificata? Perché “Louvre” e “Picasso” sono passati dalla sacralità del nome proprio a ‘marchi’ di un museo progettato ai limiti del deserto e di una linea automobilistica? Sono questi gli scomodi interrogativi che attraversano le centosette pagine de La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Skira, Milano, 2008, pp.109, euro 16.

Molti di noi coltivano ancora un’idea poeticamente romantica e sacrale del museo. Quando pensiamo alle stanze del Louvre, alla National Gallery, al Sofia Reina di Madrid, all’Ermitage, al Poldi Pezzoli di Milano, ci vengono in mente i dipinti neoclassici di Giovanni Paolo Pannini, dove in bella e composta conversazione uomini e donne, dame e antiquari, avvicinano i nasi alle tele, si chinano per ammirare, o siedono e discutono sulla bellezza che anime stanze di gallerie silenziose, vertiginosamente gremite di dipinti e sculture. Oppure ci proiettiamo al fianco di Mengs e di Winckelmann mentre, sul limitare della sera, passeggiano e conversano nei corridoi della collezione di antichità, assieme al loro magno protettore, il cardinale Albani; o entriamo nel campo visivo di Diderot e di Baudelaire, mentre osservano e annotano la pittura dei Salons al tempo di De Lacroix e di Ingres, vincendo, nel rigore del metodo, la fatica di “divinare i quadri”. Per molti di noi il museo è un cerchio magico e inviolabile, la soglia di una dimensione spirituale nella quale entrare muti, senza scarpe e in punta di piedi, come in un tempio; e dove dimenticare la prosa della vita quotidiana. È su questo fiabesco stupore misto a venerazione che si apre il saggio di Clair. L’autore ricorda che tra i sette e gli otto anni, in una scuola di periferia, un maestro mostrava, per la prima volta, ad un gruppo di bambini la riproduzione di un dipinto di Matisse. In quel giorno del 1947, la dolcezza ineffabile delle “linee curve” e dei “viola e i verdi del paesaggio di Matisse” si scolpirono per sempre nella pupilla di Jean Clair. Sessant’anni dopo, la stessa penna che copiava il dipinto si tuffa in quei ricordi colorati e riemerge con una feroce e dolorosa consapevolezza: tutto è cambiato e ciò che un tempo era considerato un valore sacro oggi è rovesciato nel suo opposto. L’estasi dell’abbandono ingenuo alla bellezza che rapiva un bambino, e che molti adulti avrebbero scoperto attraverso il museo, è diventato qualcosa da proteggere. In questa sovrapposizione di memoria e presente, di autobiografia e attualità, l’acuta analisi saggistica della crisi del museo è anche la cronaca di un “disincanto”: quel divario che sancisce l’impossibilità del Jean Clair adulto di chinarsi a raccontare al Jean Clair bambino quel “turbamento artistico” che lo aveva segnato davanti ad un dipinto di Matisse. “Cerchiamo il ricordo di quell’incontro unico come di un amore di cui cerchiamo di ritrovare l’emozione.” Al maturo saggista non rimane che assottigliare quella distanza e quel desiderio con la lucida diagnosi della “crisi” che ha travolto il suo mito. Jean Clair ne disegna le infinite propaggini nell’architettura del saggio, scandita in tre capitoli che recano il nome di tre vizi capitali: la Simonia, la Vanagloria e l’Accidia.

Museo, museologia e museografia: breve cronaca di un divorzio?

Nella concezione di Jean Clair - conservatore generale del patrimonio francese dal 1989 - la gestione di una collezione, l’organizzazione di un museo e la tutela di un patrimonio sono priorità da salvaguardare e proteggere. Le sue armi sono gli strumenti elaborati dalla museologia e dalla museografia, termini complementari di ogni ricerca sul campo che intenda costruirsi uno statuto di sistematico rigore. Se la museologia riflette sulla storia della collezione e, attraverso teorie, norme ed esperienza ne definisce lo specifico profilo e il sistema degli oggetti; la museografia dà corpo a questa progettualità, elaborando indicazioni di funzionamento, gestione degli spazi, proposte e soluzioni operative. Il dialogo sincronico di questi due approcci ha plasmato le fisionomie dei più grandi musei del mondo. Ma in tempi di simonia, ossia di compra-vendita e di mercificazione di opere d’arte, anche i ruoli della museografia e della museologia sono minati e quasi vanificati. La loro funzione scientifica è saltata nel momento in cui il museo è stato assimilato ad un’impresa. E non perché il museo sia un’isola astratta ed anacronistica, separata dai mutamenti della storia e della società che lo circondano. Numerosi musei si sono aperti ad istanze di rinnovamento, alle aspettative e alle richieste del pubblico. Hanno accolto, con una disponibilità prima sconosciuta, iniziative di tipo teatrale, musicale e cinematografico, introducendo concetti come “museo per la società” e “museo creativo”. Ma la denuncia di Jean Clair tocca corde più drammatiche. Ad esempio, la gestione dello spazio museale: “Il piacere di visitare un museo ha finito per soccombere alla fatica che si fa per provarlo: la coda, interminabile, poi la ressa, la confusione, il chiasso. Invece del paradiso, un rumore d’inferno, lo stordimento che si può provare in una sala d’attesa o in una piscina coperta […] l’impossibilità di rimanersene immobili davanti a un’opera senza vedere la nuca o il braccio di un curioso insinuarsi incongrui nel proprio campo visivo, senza essere distratti dalle stupide battute scambiate a proposito di un opulento sedere di marmo, senza essere accecati dai flash, e alla fin fine senza essere urtati, spinti, trascinati contro la propria volontà in un flusso ora agitato ora languente.” Stessa sorte tocca al criterio museografico delle fonti di luce sulle opere, profondamente cambiato: “La maggior parte dei musei aveva delle magnifiche vetrate zenitali, come è giusto, che dispensavano una luce uniforme e fredda, capace di ricreare le condizioni di luminosità delle botteghe nelle quali le opere erano state dipinte, la sola che si adatti al cromatismo di un quadro. […] La luce artificiale quindi ha preso il potere ovunque, giallastra, pisciona, irrispettosa dell’equilibrio dei colori.” A questo si aggiunga la disponibilità del Louvre a girare nelle sue sale alcune scene del Codice Da Vinci, affinché poi “un percorso segnalato attraverso il museo permetteva di seguire le tracce del protagonista, con l’eventuale partecipazione, a pagamento, di una guida.” In questo quadro, Clair giunge a parlare del sovvertimento di valori che, fino vent’anni fa, le istituzioni per la tutela dei beni culturali avrebbero additato come fantascientifici. Il caso-limite che percorre come un leitmotiv tutto il saggio è il progetto di dar vita “a un piccolo Louvre nella capitale dello Stato federale degli Emirati Arabi Uniti  - non un museo di copie alla maniera Lascaux-bis, non un museo della pittura occidentale, ma un luogo che si chiami “Louvre”, con delle opere prese a nolo dalle collezioni francesi.”

Il “Louvre” di Abu Dhabi: la crisi come de-localizzazione e mercificazione della collezione

La simonia nel mondo globalizzato ha assunto forme bizzarre. La lettura del saggio di Jean Clair ci squaderna un catalogo degli orrori contemporanei. La concezione museale in mano alle logiche economiche del mercato e la stessa mercificazione delle collezioni ci sta portando verso un quadro distopico (ossia di negazione dell’utopia museale) dei beni culturali. L’esempio del “Louvre” di Abi Dhabi trascina con sé interrogativi inquietanti. Il primo dato della crisi è il progetto di clonazione di uno dei musei più importanti del mondo, sradicato dal suo contesto storico-sociale e calato in una cornice in stile Disneyland. Al suo interno dovrebbero figurare opere “mai esposte” presenti nei depositi del Louvre. E le opere sarebbero cedute a nolo o vendute: un’operazione che va contro tutti i principi della deontologia professionale sui quali si forma il più grande come il più oscuro conservatore di un patrimonio artistico. Lo stesso ICOM (International Council of Museum, organismo dell’Unesco con sede mondiale a Parigi) con parole illuminate ha sancito che: “i musei sono delle istituzioni permanenti senza scopo di lucro a servizio della società e del suo sviluppo, aperte al pubblico. Acquisiscono, conservano, diffondono ed espongono a fini di studio, di educazione e di diletto, le testimonianze materiali e immateriali dei popoli e del loro ambienti.” Ma il risvolto più doloroso di questo progetto di Abu Dhabi è “l’appello” sottoscritto da ben trentanove conservatori del Louvre (poi ritrattato sotto minaccia di licenziamento), in cui si approvavano: prestiti decennali “(trecento opere delle collezioni pubbliche per tre anni; poi duecento per i tre anni successivi; infine cento opere per altri tre anni)”; una programmazione annuale di dieci mostre, rese possibili grazie al prestito di altre opere appartenenti a collezioni pubbliche; la “consulenza dei musei francesi per l’acquisto di opere destinate a costituire la collezione permanente del museo, tutte opere della più alta qualità”. I prestiti a pagamento di opere del Louvre destinate ad una filiale denominata “Louvre”, istituzione de-localizzata ed eretta in un luogo esotico, suona come un tradimento dell’etica e della deontologia museale “che ha per fondamento la gratuità dei prestiti, sola garante della tutela delle opere e di una equa diffusione della cultura.” Scrive Jean Clair: Questo fatto è senza precedenti. Nessuno Stato ha mai alienato le sue collezioni, e neppure le sue competenze, agli interessi di un privato. Il fatto che un passo simile sia stato compiuto obbliga a porsi la domanda sulla quale è incentrato questo libro: il museo, figlio dei Lumi e della Nazione, può sopravvivere alla loro scomparsa?” Il fine di questi progetti è quello di puntare sull’organizzazione e la gestione di musei pubblici, come il “Louvre” nel deserto o altre filiali, secondo i principi di un’impresa privata, preoccupata solo della “gestione dei flussi” e della “gestione dinamica del suo capitale immateriale.”    

“Louvre” e “Picasso”: la desacralizzazione del nome proprio

Nel mezzo della crisi dei musei e della cultura globalizzata, Jean Clair ci dice che non si cedono solo opere di una collezione alla stregua di prodotti da mercato; né si cedono solo a nolo dipinti e sculture collocate in un piccolo territorio lontano, detto Abu Dhabi, speculando su beni artistici come su standardizzati oggetti industriali. E se, messi di fronte a questo atto di inciviltà, pensiamo all’aura infranta delle opere con la quale Benjamin delineava il destino dell’arte nell’epoca della “riproducibilità tecnica”, il concetto ci appare improvvisamente datato e paradisiaco. Perfino il nome proprio dell’istituzione museale viene inglobato nel circuito commerciale. Da cifra identitaria di un museo nazionale, Louvre denoterà il nome di un “marchio”, il cui diritto per l’uso sarà ceduto e depositato per trent’anni al costo di 400 milioni di euro. Qualche anno prima, era toccato ad un nome d’artista: Picasso. “Cederemo quindi  il marchio ‘Louvre’ , come, qualche anno fa, si era ceduto a un fabbricante di auto il marchio ‘Picasso’. Significa supporre che la parola ‘Louvre’ brillerà a sua volta nel buio dell’ignoranza come l’insegna luminosa di una banca o di una compagnia di assicurazioni. In un’economia globalizzata, lo scopo del museo consisterà nel mettere le sue opere al servizio non del pubblico e della memoria visibile del Paese, ma del suo ‘marchio’, così da far guadagnare un punto di crescita all’industria Francia.[…] Non molto tempo fa, Vermeer e la sua Lattaia per commercializzare i vasetti di yogurt, o un autoritratto di Van Gogh per celebrare i coloranti industriali.”
Clair non si ferma a denunciare cambiamenti epocali e disastrosi rovesciamenti nell’ambito della tutela e conservazione del patrimonio museale. La crisi dei musei ha radici nell’ambito dell’economia globalizzata e nel lessico manageriale del mercato. Questa concezione ha travalicato i suoi confini ed è arrivata, a partire dagli anni Novanta e con maggior incidenza dal 2002, all’organizzazione museale. Clair ne parla diffusamente nel paragrafo L’economia dell’immateriale. Il progetto del “Louvre” di Abu Dhabi sottintende non solo la creazione di una faraonica struttura estesa su “un’isola artificiale di 27 kilometri quadrati, con 19 kilometri di spiaggia […] un trentina di alberghi di gran lusso, 8000 ville altrettanto sontuose, campi da golf, tre porti turistici capaci di accogliere un migliaio di barche, una pista da sci con neve artificiale”; quanto la messa in opera di un concetto da diffondere: “l’economia dell’immateriale”. La parola “immateriale” applicata ai beni artistici è un’ennesima contraddizione all’orecchio del conservatore, mentre cade perfettamente in taglio nel lessico finanziario, venendo a rappresentare la “moneta fiduciaria costituita da un’opera d’arte - a partire quantomeno dal momento in cui lascia il luogo in cui è conservata per circolare come un biglietto di banca, per essere reintrodotta in un circuito economico - garantita da pegno in un contratto dall’importo esattamente calcolato.” Il museo come impresa, si è detto; ma si può aggiungere il museo come lussuosa “industria”: sorta di clonazione di un grande Museo Nazionale, dotato di ’marchio’, di “flussi” gestiti al millimetro, di mostre scandite annualmente secondo un numero fisso e con un portafoglio di attivi “immateriali”, ossia di opere prelevate dai depositi e noleggiate per decenni. È la desacralizzazione dei musei e dei principi della conservazione; o meglio è il crepuscolo del Museo in quanto unicum e dell’immobilità della collezione, della sua importanza storica, come da sempre ci insegna la museologia. Il modello di riferimento, ci informa Clair, a livello di “economia immateriale” è la fondazione Salomon Guggenheim di New York, “casa madre di un sistema di filiali, di diramazioni di ‘franchising’, autorizzate a fregiarsi del marchio Guggenheim, a beneficiare della competenza dei professionisti Guggenheim, e che ospitano mostre riunite a partire dalle collezioni del museo d’origine.” In virtù di questo sistema, possiamo trovare succursali a Soho, in Brasile, a Singapore e Hong Kong, fino a Venezia e Berlino. Il peccato capitale della simonia è alla base della mercificazione delle collezioni e della moltiplicazione delle succursali denunciata da Clair; e, nel passaggio al nuovo millennio, ha trovato un’ulteriore accelerazione a contatto con la baumaniana “società liquida” globalizzata. Esportare, monetizzare, gestire, noleggiare, politicizzare e privatizzare sono tessere interconnesse di un lessico finanziario e di un abito mentale che, rotti i confini della loro competenza e giunti a contaminare i musei, si appoggiano sui privati e sulle banche, al punto che le banche e le Fondazioni si fanno promotrici di un mecenatismo umanistico, superficiale ma di notevole lustro mondano.                    

Il lessico della critica d’arte al tempo della crisi: “culturale” e “universale”

La crisi di un’istituzione, radicata e difesa, qual è di fatto il museo rivela la crisi, ben più profonda, di paradigmi umanistici da tempo minati. Jean Clair spinge la sua analisi fino a percorrere la rifondazione semantica di parole proprie del lessico umanistico. Termini come “culto”, “cultura” e “universale” sono passati a significare qualcosa di opposto alla loro etimologia. “Culto” è parola che proviene dall’ambito contadino, riguarda una “componente terrosa, fangosa, agricola” ed è stata poi riconvertita dagli umanisti nel sostantivo “cultura” che segna le conquiste dell’intelletto umano in fatto di civiltà (“il Rinascimento, le scoperte, l’avventura verso mondi lontani, le geografia, l’astronomia”). La regressione introdotta da un sapere globalizzato è l’aggettivo “culturale”, che ha spodestato la parola “cultura”. Scrive lucidamente Clair: “La cultura è una, il culturale è plurale. La cultura è una qualità, un’identità, che unisce e che innalza. Il culturale disperde, sparpaglia, degrada,  ci fa ripiombare nei numeri, con la pesantezza del quantitativo: i beni culturali, le attività culturali, gli attori culturali, gli ingegneri culturali, i giacimenti culturali, le industrie culturali. La cultura, fedele alla sua origine, era il culto, la fondazione del tempio, e,  letteralmente la nascita della ‘con-templazione’, la delimitazione di un luogo sacro nello spazio e la fedeltà a questo luogo. Il culturale è l’esportazione, il commercio, la politica delle banche. Oggi non si incontra più nient’altro che funzionari culturali.” In questo insieme di fenomeni descritti da Clair, “culturale” è tutto quanto si è descritto fino ad ora: la de-localizzazione dei musei, trasformati in imprese; la cessione del nome come ’marchio’; le filiali e le succursali dei musei pubblici; il tradimento di quei “funzionari culturali” che un altro grande saggista francese, Yves Michaud, chiama “i commissari”: i conservatori, i compilatori di cataloghi, i direttori, i curatori, i critici militanti, i mercanti, i collezionisti, i galleristi - gli attori che, attivi sulla scena artistica del nostro tempo, hanno dettato tempi e forme dell’estetica; di che cosa sia ‘arte contemporanea’ e di che cosa non lo sia; di che cosa produrre per essere artisti e di cosa evitare per non apparire attardati classicisti. Nell’orbita del “culturale”, l’opera d’arte entra a far parte del circuito della logica monetaria: tutto si può vendere e noleggiare; tutto può essere contaminato; ogni “contenitore” è una scatola flessibile e polimorfa. Un sinonimo di “culturale” è “universale”, un concetto di cui Clair discute nella sezione centrale del saggio, dal significativo titolo di Vanagloria. Mentre “culturale” serpeggia nella bocca dei ‘commissari’, nelle mostre e nei musei, “universale” ricorre come una nenia ossessiva nella retorica dei discorsi ufficiali, per i quali il museo deve aspirare al raggiungimento di un respiro “universale”, come se l’insieme delle singole opere delle collezioni e delle acquisizioni che le caratterizzano, per profondità storica e sublime qualità, non recasse già in sé il segno di un’intima vocazione all’universalità.     

La perdita delle radici illuministiche: nuova fenomenologia del museo contemporaneo, dal ‘museo - buco nero’ al ‘museo-cenotafio’.

Ma il lemma “universale” non è sempre stato questo guscio vuoto in mano alle logiche economiche, e non sempre ha cozzato sonoramente con “culturale” e “immateriale”. In origine, il termine “universale” faceva parte dell’apparato concettuale e utopistico della cultura illuminista; e nel suo ampio grembo enciclopedico rifulgeva di nobiltà. “Universale” era l’idea di un progresso favorito dalla conoscenza illuminata, dalla sinergia tra sapere umanistico e sapere scientifico esemplata nelle linee pulite e armoniche delle tavole esplicative di Diderot e D’Alembert. “Universale” era un principio insieme ordinatore e morale. “Universale” -scrive Clair - è un termine troppo nobile perché lo si usi per far andar giù la pillola amara della ‘globalizzazione’. Alla fine dell’Ottocento si usava la parola ‘universali’ per connotare le grandi esposizioni, non tanto per sottolineare il numero di nazioni che vi erano rappresentate, quanto piuttosto per nascondere le mire coloniali su quei popoli e quei paesi che ancora non ci trovavano posto. […] La decisione di affittare agli Emirati, per decenni, opere appartenenti alle collezioni nazionali, in nome di un irraggiamento della nostra cultura e dell’universalità dei suoi principi, potrebbe essere inscritta in questa generosa politica di ridistribuzione, di apertura, di diffusione? […] Si può chiamare ‘universale’, ai nostri tempi, un’eteroclita presentazione di opere prelevate, a seconda del bisogno e della disponibilità, nelle collezioni dei musei statali francesi?” Le ultime due domande, purtroppo tutt’altro che retoriche, trovano risposta in alcune configurazioni distopiche del museo contemporaneo, immaginate dal saggista come elementi di una fenomenologia in corso: il museo-foro; il museo-buco nero; il museo-cenotafio. Il “museo-buco nero” fu prefigurato da Goethe, sulle soglie della modernità e davanti al neonato Museo pubblico, ne Il collezionista e la sua cerchia. Goethe intuì che, passando alla collettività, le collezioni avrebbero subito una profonda trasformazione: avrebbero cioè allargato a dismisura i loro confini, calamitando “oggetti diversi”, con un effetto di aumento della quantità a scapito dell’affettività e della cura. Secondo Jean Clair, la “massa magnetizzata”, dall’Ottocento ad oggi, non ha mai smesso di “accrescersi, di appesantirsi”, facendo dello spazio museale un enorme “buco nero” fagocitante, dove “tutto ci entra e niente ci esce”. All’opposto troviamo il “museo-cenotafio”: un monstrum ideato dalle logiche megalomane della globalizzazione. A differenza dello stomaco pieno del “museo-buco nero”, quello del “museo-cenotafio” si lascia ammirare per i suoi spazi vuoti e inanimati, per la sua “architettura sconosciuta e fantastica”, nel cui nudo silenzio il turista d’arte cammina fino a smarrirsi. Lì nessuna grande collezione lo accoglie e lo attornia, come nei quadri di Pannini. “Conta soltanto l’involucro che dovrà essere prezioso, impressionante, fatto di marmo, di granito, di vetro e metallo. Il contenuto? Il contenuto verrà dopo o non verrà affatto. […] ci si muove tra muri enormi, sotto soffitti da vertigine, cercando invano un’opera che, da qualche parte, potrebbe permetterci di fermare lo sguardo.[…] La Rivoluzione aveva inventato la tomba senza corpo, e noi avremo inventato il museo senza opera.  Fra questi due momenti, per poco più di due secoli,  si sarebbe compiuta la vita del museo, dalla sua nascita alla sua scomparsa.”       

Globalizzazione del sistema delle arti, della tutela dei beni artistici e descolarizzazione del pubblico: l’inverno è sceso sui musei.

Il Riccardo III di Shakespeare si apre con il memorabile monologo del protagonista che culmina nella bellissima metafora dell’ “inverno del nostro scontento”: un malessere che, nell’oggi, sembra profilarsi senza consolazione. Il malinconico lamento di Riccardo, “frodato in corpo dalla falsa natura/ deforme, mal finito”, si è propagato nelle epoche successive, nei crepuscoli e nella decadenza delle civiltà. Nel nostre tempo globalizzato, l’inverno dello scontento è sceso anche sui musei, preparato da un autunno di inarrestabile spoliazione delle linfe vitali. Il suo paesaggio, fragile e desolato, è quello ricomposto e descritto nella lente di Clair con infinito dolore e implacabile denuncia. La “crisi dei musei” non si arresta all’incapacità dei conservatori; alla mercificazione e alla de-localizzazione; alla riduzione del museo ad impresa; alla simonia delle collezioni, divisa tra noleggi e vendite di opere; alla confusione dei linguaggi; alla cattiva amministrazione, senza nessi e sintonie con altre istituzioni. C’è, infatti, un altro aspetto che Clair prende in considerazione: la perdita della funzione “educatrice” del museo. Nessuno, vent’anni fa, poteva immaginare che un intellettuale sarebbe tornato a chiedersi “A cosa serve un museo?” Sono domande che decenni di museologia e di museografia hanno contribuito a chiarire e a fissare, elaborando principi sacri e intoccabili come articoli della Costituzione. Ma così non è, se non nella bella illusione che ci soffia dentro l’immagine di un museo come intoccabile isola felice. L’indignazione critica di Jean Clair ci svela un’opposta fotografia del presente. Ci troviamo a dover rimeditare, oggi più che ieri, su interrogativi che sembravano assodati per sempre e su questioni nodali come la mediazione tra l’opera e il pubblico. Il tema museografico della “fruizione” all’interno del percorso museale attraversa il saggio di Clair. Il quale restringe il campo al problema della scarsa conoscenza iconografica: “Se la mancata conoscenza dell’iconografia - l’ignoranza del senso delle opere - impedisce al semplice visitatore di comprendere cosa ha davanti, egli mantiene comunque, nella visita rituale di un museo, l’ingenua convinzione che i quadri o le sculture che vi sono conservati gli parlino direttamente, che comunichino con lui senza che egli debba sforzarsi di comprendere cosa rappresentano. Come per gli oggetti sacri agli occhi dei fedeli, persiste, con effetto immediato si potrebbe dire, una magia dell’arte i cui effetti si manifesteranno a chiunque non appena avrà superato la soglia di un museo. Benefica, con un semplice sfioramento visivo la visione di un dipinto saprebbe essere automaticamente consolante, rassicurante, terapeutica, come lo è sfiorare le dita del piede della statua di San Pietro a Roma.” Il tema sottinteso ma toccato da Clair riguarda uno dei compiti più difficili della museografia: fornire al visitatore gli occhiali di lettura per fruire al meglio l’opera d’arte, a partire dalla sua storia. L’obbiettivo è orientare il pubblico nel passaggio dal giudizio estetico ‘di gusto’ a quello ‘di conoscenza’: ossia, dal “semplice sfioramento visivo” all’educazione estetica. La “crisi dei musei” ha messo in discussione anche questo livello. Tradizionalmente, alla base di ogni visita c’era la mediazione di una figura la cui formazione era forgiata sulla triade che Clair sintetizza in “faticare, studiare, imparare”. Il duro tirocinio professionalizzante garantiva la migliore ‘scolarizzazione’ del pubblico non specialista, distruggendo il pregiudizio della “cieca fiducia nelle virtù istantanee dell’immagine”. Va ricordato, inoltre, che nella storia del museo il potere educatore dell’istituzione si esprimeva anche nel lavoro di copia degli artisti che piazzavano i loro cavalletti nelle sale, per ’imitare’ la lezione dei maestri del passato; pratica questa invalsa ancora in pieno Novecento avanguardistico e oltre. Quando, nel XVIII secolo, le collezioni vennero trasformate in “musei” aperti al pubblico, accanto all’addestramento degli artisti prendeva corpo l’insegnamento dell’arte al pubblico di ‘amatori’ secondo il diletto. Il museo scopre un aspetto che non lo abbandonerà mai più, ma, anzi, ne identificherà uno dei compiti portanti: la vocazione per il pubblico. L’analisi di Jean Clair si riallaccia a questo tema sempre aperto, ma lo pone in relazione alla presenza dell’arte contemporanea nel museo, che spesse volte viene esibita senza adeguate mediazioni di lettura: “Non abbiamo forse investito di un simile privilegio gli artisti contemporanei? In una società anomica ed egualitaria, dove si tratta di negare tutte le differenze mettendo in pericolo l’unità umana, di consacrare tutte le culture, di celebrare il primato dell’identico, l’artista appare più che mai e incoerentemente come un essere a sé stante, un ispirato, un creatore, che gode di un’impunità pressoché totale: rispettato, invidiato, adorato, come il prodotto, non c’è dubbio, di un mutazione genetica della specie, uno che genera i ’capolavori’.”   

La collezione di fronte a “quel trasferimento funesto all’Europa”: il sogno e l’incubo di Quatremère de Quincy

Non fu Goethe il solo scrittore europeo ad essere dotato di portentosa chiaroveggenza. Nella Francia post-rivoluzionaria ad un certo punto uscirono le Lettres à Miranda sur le déplacement des Monuments de l’Italie. Autore: l’archeologo e storico dell’arte Quatremère de Quincy, futuro amico di Antonio Canova, al quale dedicherà un voluminoso saggio. Ancora fresco dello strappo epocale del 1789, Quatremère porta le sue riflessioni sul destino delle opere d’arte. Teniamo presente che alle porte si prepara l’ascesa napoleonica, e la storia del museo è appena ai suoi inizi sulla scia dell’età illuminista, ignara di trovarsi, di lì a poco, di fronte al vero e proprio “secolo dei musei”, l’Ottocento, punteggiato di musei colmi di oggetti sradicati, scaturito dalle campagne napoleoniche. Quando Quatremère scrive le Lettres à Miranda siamo nel 1796: sul crinale, cioè, di due secoli che testimoniano due concezioni politiche e due visioni del mondo, due culture - Illuminismo e Romanticismo - tese tra continuità e rottura. E Quatremère teme soprattutto le rotture. Sente prepotente il senso della conservazione, tanto da sentire il bisogno di elaborare una teoria per la quale un’opera - quella che noi, oggi, chiamiamo bene artistico - “appartiene al luogo che la vista nascere e non può dunque essere sradicata, strappata al suo paese d’origine, alla sua nicchia ecologica” per volontà del potere politico e dell’economia. Se l’opera venisse tolta dal suo contesto storico, essa perderebbe di significato: diventerebbe altro. Diventerebbe, scrive Quatremère, una mostruosa opera “campione”. Questi “modelli del bello” non possono essere ridotti alla stregua di “pacchi di mercanzie”: già nel 1796 egli aveva intuito il pericolo della de-localizzazione della collezione e l’importanza del nodo opera d’arte/territorio. Scrive Clair: “il fine perseguito da Quatremère […] è il principio che fa del paese il museum vero e proprio, ò’unità intatta di una collezione nazionale (come un grande libro, scrive ancora di cui è importante tenere unite tutte le pagine). Non soltanto una collezione è il riflesso della storia di una nazione, ma non si può, in nome di interessi mercantili, strappare impunemente al suo luogo geografico, storico, estetico e sociologico.” Quatremère ha straordinariamente intuito, come poco dopo farà Goethe, il pericolo della dispersione e frammentazione del patrimonio di beni artistici propri di una nazione a fini commerciali: “Quel trasferimento funesto all’Europa, diviene inutile anche per il paese che ne sarà stato il favoreggiatore”. Le parole di Quatremère racchiudono un sogno e un incubo: il sogno di tutela proprio di tutti i conservatori e il timore che il potere lo sovverta. Da qui, le armi intellettuali di chi prende la penna per denunciare, con indignazione, la simonia, mista a superbia e accidia, che è arrivata alle collezioni d’arte, ai depositi dei musei nazionali, come avviene nella modernità globalizzata descritta da Jean Clair: una “crisi” del sistema culturale dove, ancora nell’evoluto nuovo millennio, fare a pezzi una collezione “non è propagare, ma disperdere i Lumi.”       
       

15 gennaio 2013

"L’apologia di Socrate" di Platone




di Gianni Quilici

Ma è giunta, ormai, 
l’ora di andare,
io a morire, voi a vivere.
Chi di noi vada a migliore sorte,
nessuno lo sa, tranne dio.

Ri-leggo l’Apologia di Socrate di Platone e mi chiedo via via se sia attuale. E’ attualissima, mi rispondo per alcune ragioni tra loro intrecciate.

La prima: l’argomentare di Socrate (Platone) è sempre sereno e nello stesso tempo spietato nelle sue profondità, mentre oggi il dire spesso è spietato, ma non argomentato, sovente superficiale e peggio propagandistico. 

 La serenità di Socrate nasce dal fatto (intellettuale) che non ha bisogno di sconfiggere o di negare nessuno, anche se questi (nessuno) lo vogliono “condannato a morte”, essendo colpevole, secondo le loro accuse, perché “perde il suo tempo scrutando i misteri della terra e del cielo, fa passare per buona anche la causa peggiore e insegna agli altri queste cose”.  Anzi, Socrate si pone anche le domande che altri potrebbero porsi, per confutarle.

Nello stesso tempo, però, egli è serenamente spietato, perché demolisce, a volte, con sottile ironia, le accuse a lui rivolte nella loro irrilevanza penale e concettuale. E le demolisce una per una con motivazioni argomentate e convincenti.

La seconda ragione: Socrate non può rinunciare alla sua missione filosofica, la ricerca della verità delle cose, a nessun prezzo, neppure –come succederà – a quello della morte. Per questo imperativo morale, infatti, ha rinunciato a tutti gli interessi materiali privati, trascurando anche la famiglia. Per questo non può scendere ad alcun compromesso. Saputo, infatti, della condanna a morte e avendo la possibilità di chiedere, prima della sentenza definitiva, la pena ritenuta da lui commisurata alla propria colpa, propone ciò che lui ritiene oggettivamente giusto, ma che è una provocazione per gli occhi dei giudici, che uno come lui sia mantenuto nel Pritaneo, sede dove alloggiano a spese dello Stato, cittadini di riguardo, perché chi vince ad Olimpia la corsa dei cavalli”può farvi apparire felici, io, invece, mi adopero, perché lo siate”  
Essere o apparire è una questione da tempo all’ordine del giorno nella società dell’immagine. Così come morire per la verità o, in generale, per una causa quanti oggi sarebbero disposti? O più semplicemente quanti sono oggi disponibili a non vendersi, a non vendere per tornaconto personale idee, valori, dignità personale? E’ bene aggiungere che ci sono stati e ci sono ancora. Politici, intellettuali, artisti che pagano isolamento e povertà,  pur di non rinunciare a se stessi.

C’è tuttavia qualcosa di più invisibile che l’ Apologia di Socrate ci insegna. La verità va cercata nelle sue cause profonde rispondendo a tutti gli infiniti perché. Che cosa succede oggi nell’età della globalizzazione? Che queste cause spariscono sia nelle analisi che nelle proposte, perché richiamerebbero in causa il Potere o i Poteri. Di fronte ad un fatto domina il fatto nella sua immediatezza, nel suo presente. Esempio: di fronte ad una violenza non si ricercano le cause (sociali-antropologiche-politiche), ma si circoscrive la violenza come problema di violenza, ossia unicamente o soprattutto di ordine pubblico. Domina un continuo presente, mentre avanza un presente, che ha cause profonde nella storia e nell’antropologia della storia e i cui segni apocalittici sono ben presenti nell’ambiente, nelle manifestazioni climatiche e nelle risorse nucleari.

Infine: l’Apologia di Socrate è anche una lettura piacevolissima per la luminosità dei ragionamenti e dell’intransigenza morale. Una luminosità, che non pone limiti al mistero della realtà stessa, all’inconoscibile. La morte, dice infatti il filosofo, “ o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o, come si dice, è un passaggio, un mutar di dimora dell’anima da un luogo a un altro” Ancora una volta Socrate dubita, pone due possibili destini ultimi. Che sono quelli, che ancora oggi, si possono prospettare. 

Platone. Apologia di Socrate. Traduzione di Nino Marziano. I grandi libri Garzanti.    

12 gennaio 2013

"Dei cognomi e altre amenità" di Mirta Vignatti

        Come Alice nel paese delle meraviglie, fin da quando vivevo dall'altra parte dell'oceano ho sempre provato interesse per molte realtà tipiche dell'Italia e continuo ad osservarle ancora oggi con divertito candore. Credo tra l'altro che questo paese possa vantare primati ed eccellenze non presenti altrove. 
        Per esempio, esistono altri paesi al mondo con tanta ricchezza e varietà di dialetti? Possono vantare altri paesi nomi di località  così plurisemantici fino al doppio senso, all'ambiguità e al paradosso? E dei cognomi, ne vogliamo parlare? In Argentina, dove è tutto un prevalere di Lòpez, Perez, Rodrìguez ecc., i cognomi di origine italiana sono quelli più carichi di significati e di microstorie. Soltanto nel mio Profesorado di Italiano -un micro campione statistico, ma comunque significativo- c'erano le professoresse Gloria Taglialegne, Carmelina Strazzaboschi, Tina Zappalà e Itala Tirapelle, cognomi sui quali si potrebbe scrivere un saggetto di storia economica o di microeconomie di sussistenza. Per non parlare del cognome -anch'esso di origine italiana- del “violador del centro”, che terrorizzò le studentesse rosarine (14 stupri denunciati) sul finire degli anni '90. Quando i giornali pubblicarono la notizia dell'arresto non potevo credere ai miei occhi: si chiamava Nestor Fica! Un cognome figurale, che era già tutto un programma: croce e delizia del suo destino. E pur essendo in tema, sorvolo sulla immobiliare “Figarota y Asociados”, non vorrei cadere nel turpiloquio. Fino a che, una volta rientrata nel Paese dove il dolce sì suona, è stato tutto un florilegio di Cantalamessa, Diotisalvi, Badalamenti, Contestabile, Bevilacqua, Tagliavini, Scovaventi, Calcaterra, Cacace, Pisciotta, Tardonato, Interdonato e chi più ne ha più ne metta. 
        Notavo che i cognomi seguivano dei filoni tipologici: c'erano quelli religiosi, quelli legati a mestieri, quelli costruiti su caratteristiche anche fisiche del capostipite (probabilmente), quelli ricalcati su nomi del mondo animale (Mosca, Mosconi, Vespa, Formigoni, Vacca, Lupi, Pesce). Quelli che più mi divertivano erano i cognomi relazionati con numeri o quantità: Centonze, Trentalange, Quaranta, fino a toccare l'eccellenza assoluta: Quarantotti Gambini, uno scrittore ahimè dimenticato nonostante l'immaginifico cognome.
         Ci sono poi i cognomi del mondo della politica e delle istituzioni; anche quelli non scherzano. Sorvolando su Bocchino per i motivi di cui sopra, che dire del giurista Bruti Liberati, un cognome che avrà il gradimento del coriaceo ancorchè imperterrito noto digiunatore? E il capo della polizia che si chiama Manganelli? Non è fantastico? 
        Ma la vera miniera dei cognomi che si prestano a possibilità combinatorie e a creare micro storie è l'album delle figurine Panini (quelle dei calciatori). Volendo si potrebbe creare una Top 11 da urlo: Taglialatela in porta, in difesa Troìa e Lerda (da ringraziare la comprensione del Tribunale che ha gratificato di un accento il primo e di uno scarto consonantico l'altro). Mi scompiscio dalle risate immaginando la voce di Bruno Pizzul che si collega: “Clamoroso al Cibali! Davanti a un pubblico ammutolito, l'arbitro espelle Lerda. Espulsione dolorosa ma necessaria.” Poi al centrocampo -e con la fascia di capitano- Martiradonna (quante storie losche nasconderà mai questo cognome?), affiancato da Frustalupi e da Basta. All'attacco vedrei Incocciati, Carnevale e Immobile, che a dispetto del suo cognome corre come un treno per tutto il campo. L'allenatore della squadra sarà Mangia. Lamela in panchina (è argentino). 
        Infine, un piccolo aneddoto localistico. Come forse qualcuno saprà, a Lucca c'è un prodotto dolciario tipico, il “buccellato” (“A Lucca non sei stato se non provi il buccellato”), e la storica pasticceria che ne vanta la migliore produzione è quella dei Taddeucci. Be', non ci crederete, ma nella squadra di calcio della Lucchese giocavano fino alla passata stagione un certo Buccellato e un certo Taddeucci. Un po' come se nell'Inter giocassero insieme Panettone e Motta. Roba da matti! E a proposito di Motta: credo che sia un giocatore tuttora in attività ma non so in quale squadra sia finito; 2 o 3 anni fa fu acquistato dalla Roma. Al suo esordio all'Olimpico i tifosi della curva sud lo accolsero con uno striscione con su scritto: “Buondì Motta”. Semplicemente stupendo.

"Sogni di sogni" di Antonio Tabucchi



di Gianni Quilici

                 Sono dei racconti, che, immagino, devono aver creato felicità a Antonio Tabucchi via via che li realizzava. Come enuncia il titolo, infatti, sono racconti di sogni. Sogni di sogni, perché a realizzarli sono artisti, ed anche Dedalo lo è nel suo essere mitico, che oltre a sognare ad occhi chiusi hanno sognato ad occhi aperti.
 Li trascrivo, perché l’informazione è essa stessa, in questo caso, un immaginario. E quindi Dedalo,  Ovidio, Apuleio, Angiolieri, Villon, Rabelais, Caravaggio, Goya, Coleridge, Leopardi, Collodi, Stevenson, Rimbaud, Cechov, Debussy, Toulouse-Lautrec, Pessoa, Majakovskij, Garcìa Lorca, Freud.

                La felicità che intravedo in queste pagine nasce da un’immaginazione spesso mirabolante ( ho pensato, a volte, a Collodi) con un’ aggiunta, in questo caso, decisiva: questi sogni sono legati ad una conoscenza profonda di chi li ha fatti. Rappresentano folgorazioni dell’inconscio: ossessioni e felicità, situazioni esistenziali e destini specifici. Essendo sogni non hanno la linearità cronologica, ma sorprendono per i continui mutamenti spaziali e narrativi, che rovesciano, stravolgono, illuminano. E’ questa capacità di lavorare visivamente sull’inconscio che consente a Tabucchi di raggiungere due risultati: fornirci un ritratto profondo dell’autore sognante e darcelo attraverso racconti liberi da inquadrature didattiche e pedagogiche, immersi, al contrario, nell’imprevedibilità degli istinti storicamente determinati.

                I sogni sono tutti di buon livello e alcuni  forse sono “piccoli capolavori”. Penso ai sogni di Apuleio, Angiolieri, Stevenson, Majakovskij, Garcia Lorca, alla bellissima chiusa di Rimbaud.
                
               Prendiamo, per esemplificare, il sogno di Majakovskij. 3 aprile 1930, ultimo mese di vita del poeta. Da un anno sogna di trovarsi sulla metropolitana di Mosca, ha sempre amato la velocità, il futuro, ma ora ha l’ansia di scendere e rigira un oggetto che tiene in tasca. Una vecchietta ha paura di lui. Ma io sono solo una nuvola, la rassicura. Scende alla prima stazione, va alla toilette, tira fuori il pezzo di sapone che aveva in tasca, ma non riesce a far andare via lo sporco dalle mani. La polizia politica lo vede, lo ferma, lo perquisisce, trova la saponetta, lo porta al tribunale sotto la stazione e lui viene condannato seduta stante alla locomotiva, perché colto in flagrante delitto “portava in tasca l’oggetto della sua losca attività”. Viene spogliato e vestito di una blusa gialla, portato su una locomotiva sbuffante con un boia con il cappuccio e uno scudiscio, attraverso immense campagne e pianure e viene costretto a recitare versi di celebrazione e di retorica, mentre la gente, distesa per terra con i ceppi ai polsi  alza i pugni e lo maledice e maledice sua madre. “Allora” termina Tabucchi “Vladimir Majakovskij si svegliò e andò in bagno a lavarsi le mani”.

             Un sogno terribile, che rappresenta un’epoca e una condizione, con un finale secco come conseguente continuazione del sogno, un sogno la cui simbolicità è più realistica della realtà stessa.  

Antonio Tabucchi. Sogno di sogni. Sellerio editore Palermo. Pag. 86.       

"La caccia alle streghe" di Luciano Luciani



Una macchia incancellabile sulla coscienza europea


Ancora alla fine del XV secolo la credenza nella stregoneria era un fenomeno episodico e in genere legato a situazioni locali di conflitto culturale e religioso: con la Bolla papale Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII Cybo (1484 – 1492) e con il libro il Martello delle streghe dei due inquisitori domenicani Institor e Sprenger – “la più antica grande enciclopedia stampata di demonologia” (Trevor Roper) – l’accanimento persecutorio nei confronti di quanti vengono individuati come partecipi del mondo misterioso delle forze occulte si fa organizzato, metodico, scientifico.
La stregoneria è ormai equiparata ad una ideologia diffusa e radicata, pericolosa per le sorti stesse della religione e della società. Di conseguenza vanno puntualmente precisati il deterrente e le contromisure con le quali fare fronte alla minaccia che incombe sulla cristianità, che si somma e si intreccia con le altre sfide mortali portate alla vera religione e all’ordinato vivere civile: l’Islam alle porte, la lacerazione del Cristianesimo tra cattolici e protestanti, le guerre di religione e per il dominio europeo tra Francia e Spagna con il loro triste corollario di saccheggi, violenze, carestie, epidemie…

Caccia alle streghe o alle donne?

Tormentato lo scenario sociale in cui la demonomania si inserisce: l’insorgenza delle masse rurali in Germania e Francia contro secolari rapporti di proprietà, la miseria del popolo minuto delle città, gli aumenti dei prezzi e i fenomeni inflattivi, inspiegabili per la mentalità del tempo, dovuti all’afflusso dei metalli preziosi dai paesi extraeuropei, costituiscono i lineamenti di fondo di un’epoca solo sfiorata dalla ragione rinascimentale e percorsa invece da odi politici, fanatismi religiosi, convinzioni intolleranti. Ne facevano le spese i portatori di culture minoritarie, di ideologie “deboli” e di saperi parziali: appunto la stregoneria e la fede nel mondo magico nei suoi rituali e nelle sue pratiche da sempre padroneggiati e gestiti quasi esclusivamente dalla componente meno forte della struttura sociale, le donne. Ad esse si guarda con sospetto perché “fanno nascere i bambini dei poveri, vanno a cercare gli alimenti selvatici e le erbe medicinali che sfuggono all’occhio dei padroni, curano i malati e i feriti, combattono i parassiti, preparano le liscive di cenere e di bacche oleose… sono le Sibille che si rifugiano nelle grotte per sfuggire alle persecuzioni, sono le veggenti e le fattucchiere che contrappongono simboli dialettici di realtà produttive all’autoritarismo patriarcale dei padroni, sono le guaritrici, levatrici, ostetriche, erboriste, conciaossa, veterinarie, naturaliste, astrologhe, metereologhe, farmaciste e medichesse, chirurghe…Sono tutte le streghe contro le quali si scatena il potere…e la strage delle streghe si prolunga nei secoli che vedono sorgere la scienza moderna”. (J. Lussu)
Si può forse spiegare così il feroce antifemminismo che segnerà tutto il triste periodo della caccia alle streghe. Già nei manuali di stregoneria tale motivo appariva nella sua più piena evidenza: in un trattato di demonologia del 1400 così si esprimeva il domenicano J. Nider, “non cesso di stupirmi come il sesso debole osi spingersi a cose così temerarie”, mentre il Martello delle streghe – 39 edizioni alla metà del XVII sec. per 50.000 esemplari diffusi tra uomini di chiesa e giudici cattolici e protestanti – così si interrogava “…perché nel sesso tanto fragile delle donne si trova un numero di streghe tanto più grande che fra gli uomini?”

La prima ondata persecutoria

La prima terribile ondata di persecuzioni muove appunto dalla fine del XV sec. per perdere momentaneamente di virulenza solo attorno al 1530. Tocca gran parte dell’Europa: in Italia i territori di Bergamo, Brescia, la Valcamonica, la zona del Tonale, la Valtellina, il Tirolo e al di là delle Alpi la Germania renana ( dove operano come inquisitori i due autori  del Martello delle streghe, elaborato proprio sulle risultanze di queste esperienze), la Stiria, i Pirenei.
Cresce a livelli paranoici il potere dell’Inquisizione, in modo particolare quella spagnola che nel suo furore integralista non distingue più ormai tra eretici e adoratori di Satana, tra stregoni ed ebrei. Tra la fine del XV e l’inizio del XVI sec., la repressione cattolica superò tutti gli orrori di cui pure quei tempi non sembravano per niente avari. Alle epurazioni promosse da Tommaso Torquemada (1420 - 1498), confessore di Ferdinando II il Cattolico e di Isabella di Castiglia, dal 1483 Grande Inquisitore di Spagna, sono attribuite almeno 10.000 vittime l’anno per un quindicennio, mentre l’Inquisizione italiana nella sola Lombardia nei primi trent’anni del secolo, sotto l’accusa di stregoneria avrebbe mietuto almeno 25.000 vittime.
Non c’è angolo di Europa, cattolica o protestante che venga risparmiato: la responsabilità nella recrudescenza delle persecuzioni registratasi nel decennio 1560 -1570 “non è esclusivamente dei protestanti o dei cattolici, ma di entrambi: o meglio della lotta tra costoro… Lo scontro frontale tra cattolici e protestanti che esprimevano due forme di società reciprocamente incompatibili, riporta gli uomini all’antico dualismo tra Dio e Satana, e lo sconcio serbatoio d’odio che sembrava stesse prosciugandosi, venne rapidamente riempito…” ( Trevor Roper )

“Non lascerai vivere la strega”

Anche la intransigente conformità dei luterani alla Bibbia – nell’Esodo 2218 è scritto “non lascerai vivere la strega” – determina stragi simili a quelle che segnano tristemente il mondo cattolico. Intere regioni dell’Europa protestante risultano spopolate dalla ferocia persecutoria della stregoneria dei riformati, ossessionati, al pari dei cattolici, dal fantasma della stregoneria. Anch’essi avranno il loro Torquemada nella figura del terribile giudice Carpzovius, che avrebbe firmato personalmente almeno 20.000 sentenze di morte.
Eccessive tali cifre, lievitate nel calore delle polemiche religiose? Forse: certo è che nella Germania del XVI sec. che aveva conosciuto prima la diffusione della Riforma e la resistenza cattolica poi, la controffensiva della Chiesa di Roma guidata dai Gesuiti e l’opposizione protestante, si ebbero da una parte e dall’altra dei veri e propri eccidi. Bastino alcuni esempi: se nel 1582 i protestanti mandano sul rogo 133 streghe a Quedlingburg e 300 tra streghe e stregoni ad Ellwangen, i cattolici non sono da meno arrivando a bruciare tutte le donne di due villaggi alla periferia di Treviri nella regione del Palatinato, oppure inquisendo per stregoneria talmente tanta gente che nella città bavarese di Bamberga fu necessario costruire nuove carceri appositamente per la detenzione di quanti erano accusati di pratiche diaboliche.
Neppure la Francia del ‘500 fu risparmiata dalle stravolte manifestazioni della caccia alle streghe: questa era già iniziata negli anni di re Francesco I di Valois (1515-1547) e aveva trovato ulteriore alimento nello scontro politico-religioso tra cattolici e ugonotti. Inquisizione e giustizia secolare facevano a gara nel perseguitare i culti del mondo magico che dovevano essere ampiamente praticati e diffusi se nel 1575 l’Inquisizione calcolava che nel solo regno di Francia vivessero e operassero più di 100.000 tra streghe, stregoni, fattucchiere e maliarde. E’ in questo periodo che nel solo distretto di Saint Claude un magistrato, il famigerato Boguet, fece bruciare oltre 1500 streghe, mentre nella cattolicissima Lorena un altro procuratore generale, il Remy, riuscì a far condannare a morte almeno 1000 persone.