28 novembre 2014

" Intervista a Teresa Cinque" di Mira Giromini



L’arte che fa bene

Ho incontrato l’artista Teresa Cinque, donna originale e sensibile, le ho fatto alcune domande sul suo lavoro.

Entro subito nel cuore della tua forma artistica, le stoffe, da dove nasce l’idea di utilizzare diversi tessuti ritagliati e poi farne delle installazione?
Il mio lavoro con i tessuti nasce da un’idea pura.
Qualche giorno fa in radio ho sentito la citazione di un poeta che diceva “ il primo verso te lo da Dio poi tutto il resto è lavoro”. In effetti mi è accaduto così: l’idea originaria è arrivata da sola poi l’ho sviluppata e quello è stato il mio lavoro d’artista. Il nucleo base dell’idea non è tanto qualcosa che fabbrichi ma qualcosa che ricevi, percepisci o avverti. Dunque l’idea arriva quando meno te lo aspetti, non la puoi controllare, poi sta a te portarla avanti. Tutto quello che uno può fare è cercare di creare le condizioni di vita ed esistenza dove ci sia sufficiente apertura verso le cose, la natura, l’aria.
Dunque una sera stavo pensando a degli oggetti d’arredo (abajur, mobiletti) e li ho visualizzati come siluette di stoffa. I primi tentativi li ho fatti con il feltro, che però non era stabile una volta tagliato, quindi soddisfaceva la sensazione tattile che cercavo ma non funzionava. Ne è scaturito un processo di ricerca e messa a punto tecnica che si è sviluppato negli anni.
Tengo a precisare che non è il mio unico canale espressivo ma sicuramente quello più importante. Più lo sviluppo e più ne vedo il potenziale. Credo che sia qualcosa a metà tra il linguaggio e la tecnica. E’ una modalità espressiva che non avevo trovato prima: non è pittura, non è disegno, non è scultura. Anche se tecnicamente è scultura, per quanto sottile. Così per pacificarsi con la terminologia, si parla di installazioni, parola molto utile e pertinente nell’ambito dell’arte contemporanea.

I tuoi temi sono il quotidiano che ti circonda: il tuo guardaroba, gli oggetti d’arredo ma soprattutto la natura (alberi e foglie), non posso chiederti cosa preferisci tra questi ma ti chiedo a quale tra i progetti che hai realizzato fin ora sei più affezionata e perché.
Si è vero l’ispirazione mi viene da cose che trovo vicino a me. Mi piace scoprire la bellezza in quello che ho intorno, vederla rivelarsi e cercare di trasmetterla.
E’ difficile dire a quale progetto sono più affezionata perché il sapore che trovo in ciascun lavoro è diverso e simile a un tempo.
Il chandelier #1 in gobelin è un’opera che amo particolarmente. Essa accoglie in sé qualcosa della ramificazione dell’albero, le forme sinuose e sensuali dei bracci del candeliere è come se fossero piene di vita così come i rami di un albero e insieme c’è la rievocazione di uno sfarzo pomposo, monumentale, inevitabilmente decadente.
Il soggetto con cui lavoro di più ultimamente è quello degli alberi. La natura è una fonte inesauribile, gli alberi e i boschi forniscono infinite possibilità di sperimentare e giocare con le loro siluette e le loro combinazioni.
Attualmente poi sto sviluppando un progetto con le Rovine che sono per me un tema molto attuale legato alla bellezza ed alla fragilità. La rovina non la intendo tanto come memoria del passato, ma per quello che è adesso, nella contemporaneità, scultura, architettura viva. Mi interessa la rovina per ciò che comunica: il senso del cambiamento, il segmento temporale di un mutamento costante, insieme alla delicata bellezza. Per questo tipo di lavoro scelgo tessuti fioriti e sete a volte sottili, raffinate, consunte.

Nel tuo particolare lavoro artistico ci sono tante figure professionali come l’arredatore e la sarta che entrambe hanno in comune il disegno, quanto è importante per te il disegno nei lavori che fai?
Il disegno è per me la cosa più importante, è la base di tutto. Non sono un’arredatrice, non sono una sarta, vengo da una formazione del tutto diversa: ho fatto il liceo artistico e poi ho studiato Storia dell’Arte all’Università di Pisa. La mia formazione sul piano tecnico è ecclettica anche se amo più di tutti il disegno.
Quando ho cominciato a mostrare i primi di questi di lavori qualcuno ha detto, se si trattava della riproduzione di oggetti di design: “sei una designer”. Voglio chiarire che è come se a un fotografo che mostra lo scatto di un frutteto dicessero: “sei un botanico” o a un pittore che riproduce un nudo dicessero: “sei un medico”.
Io parto da una posizione di libertà di espressione e poi qualcuno ne può vedere oggetti d’arredo o anche decorazione. Non importa. Io mi sento libera artisticamente di fare ogni pezzo come deve essere fatto e sviluppare questo tipo di linguaggio-tecnica senza preoccuparmi dei giudizi e delle funzioni che può avere. Anche un quadro nasce per essere quadro poi può anche abbellire e decorare una sala ma è una funzione secondaria e non necessaria all’opera d’arte in sé.

Le tue installazioni sono site-specific?
Si spesso mi capita, anzi le richieste sono spesso legate ad uno spazio e quindi lavoro su quello.  Avere un ambiente su cui lavorare è un limite che si rivela stimolante e può portare anche dove non si andrebbe senza quel tipo di condizione.

Certi tuoi lavori hanno un che di terapeutico, come per esempio il Kit dell’autunno, è vero?
Quel progetto nasce in un momento di grazia. Anche in questo caso l’idea è arrivata e basta. Camminavo da sola in una bella giornata d’autunno tra le foglie. Il lavoro è nato come risposta alla generosità della natura, le foglie in autunno sono così abbondanti, colorate, coprono le strade, i viali, i boschi. Ho voluto provare a contribuire anch’io a questa generosità giocando sul fatto che normalmente le foglie vengono eliminate e spazzate via dalla casa, dal giardino, dal terrazzo, invece, fatte di carta velina, le ho riportate in casa.
Normalmente regalo il Kit che, per me, è nato come un dono.
A proposito del concetto di terapeutico, guardando i miei lavori mi è stato detto, più di una volta: “le tue opere mi fanno star bene”. Inizialmente questo tipo di affermazione mi turbava, condizionata da fatto che nell’arte contemporanea c’è la tendenza ad esaltare molto la problematizzazione, la provocazione, sembra che l’opera debba porre dei problemi, dei dubbi, e lavorare su un piano cerebrale. Mi sono chiesta: una cosa che ti fa star bene è forse naife ed ingenua? Forse lo è, forse no. Con il tempo ho capito però che era un ottimo risultato ed un complimento. Un po’ come nella letteratura in cui si sente una tensione verso il bene e il bello ed anche una armonizzazione delle due cose che tendono a coincidere. Per me è naturale lavorare intorno alla bellezza che, ovviamente, non è una categoria solo estetica.

Quali sono i tuoi Maestri d’arte a cui guardi mentre lavori?
Sinceramente non ci ho mai pensato, ti ringrazio della domanda.
La prima che mi viene in mente è una scrittrice. Cristina Campo, scrittrice italiana del ‘900, forse una delle più importanti. Lavora molto sul tema della bellezza in senso anche mistico e riesce con un linguaggio incredibilmente raffinato ed attento a ritagliare immagini addentrandosi in un territorio non facile e poco propenso a definizioni finali tenendo in uno squisito equilibrio il dire e il non dire, il suggerire e l’indicare.
Poi mi piace Miranda July, artista contemporanea americana, cantante, performer, si è espressa prevalentemente con il cinema come attrice e regista. Le sue sono opere godibili e deliziose, ricche di ironia e poesia. Essa ha nutrito il mio percorso e il mio lavoro.
Ancora una regista Jane Campion, ha realizzato film famosi e meno famosi, io sono riuscita a vedere tutto, l’ho molto seguita. La sua creatività ha una connotazione decisamente femminile ed il suo sguardo sul mondo e sulle persone è uno sguardo benevolo. Le sue opere sono straordinariamente belle perché in fondo c’è una tensione duplice verso la bellezza e insieme verso la verità.
Infine Natalia Ginzburg, potrei definirla la maestra “del basso profilo”, veramente il genio delle piccole cose. Scrive con umiltà, con un ritmo piano e armonico e con una capacità di penetrare i concetti e di raccontare le storie, insieme profonda e mai  monumentale. La sua è una voce è sempre modesta che mi mette a mio agio.

Dunque due scrittrici e due registe. Come mai il cinema?
Il cinema è per me una fonte importante che probabilmente ha contribuito alla mia formazione come educatore alla bellezza.

Posso chiederti un’anteprima sul tuo prossimo lavoro, su cosa stai lavorando?
Si, sto lavorando ad un progetto che presenterò a Milano, il 14 Dicembre, si tratta di una collaborazione con Rubelli, produttore a Venezia di tessuti italiani di altissimo pregio. Insieme con un gruppo di architetti, lo studio Bollini, realizzerò un’installazione su una parete di 8 m alta 3,50 m. Si tratta di un bosco di pioppi realizzato con un tessuto luminescente di Rubelli, su un fondo blu notte, si chiamerà “Bosco di notte”. Si tratterà di qualcosa di diverso, io generalmente lavoro sul muro, normalmente bianco, come sfondo delle mie installazioni mentre in questo caso avrò un muro scuro. Il colore scuro tende ad indietreggiare, mi auguro che in questo caso dia maggior illusione di profondità e spazialità. Vedremo come evolverà il lavoro; ogni volta si tratta di un salto nell’ignoto: un’installazione la si vede solo quando è finita e montata.
Auguri Teresa e Buon lavoro!
www.teresacinque.it

"La meritocrazia" di Luciano Luciani



Attenti al merito !


Che palle! Perdonate il linguaggio, come dire?, alquanto espressivo in antico cinese mandarino, ma davvero non se ne può più. Di cosa? Della ricorrente, battente insistente esaltazione, acritica e indiscriminata, della cosiddetta meritocrazia. 

Un’infatuazione che unisce tutti: conduttori televisivi, uomini e donne della politica, sedicenti intellettuali, orrendi protagonisti della televisione-spazzatura, renzisti e berluscastri… Tutti, indistintamente, arrapati dell’ultima trovata dell’ideologia liberista, il merito: per cui, quando su qualsivoglia problema non hai più argomenti sensati, allora è il caso di sbattere giù un po’ di meritocrazia e sei sicuro di aver fatto la tua bella figura. E, invece, è una cazzata, o per dirla colta, una tautologia, ovvero un’affermazione che non contiene in sé nessun carattere informativo. Solo una parola di uso e abuso recente, recuperata per giustificare i privilegi di alcuni, sempre i soliti, alle spalle di altri, anche quelli sempre i soliti, ribadendo ad libitum una sorta di differenziazione razziale tra esseri inferiori e superiori.

Avete mai notato la spiccata tendenza dei presunti, autonominatisi meritevoli alla ereditarietà delle cariche? Provate a dare un’occhiata alle nomenklature: quella universitaria in primis, poi la giornalistica, la televisiva, la politica, quella dei Consigli d’amministrazione… Troverete mogli e figli, fratelli e sorelle, cognati e nipoti dei Potenti in una commovente riscoperta della famiglia allargata e patriarcale. E poi gli amici e gli amici degli amici e i congiunti dei primi e dei secondi, Capacissimi di strologare, quando capita, di merito e meritocrazia, un territorio popolato per lo più di arroganti e competitivi, boriosi e aggressivi. Un luogo che mette al bando i gentili e i tolleranti, gli affabili e i sensibili…

No, davvero, meritocrazia non fa rima con democrazia e lo aveva già compreso G. G. Belli cento e ottanta anni fa:


Er merito

Merito dite? Eh ppoveri merlotti!
Li quadrini, ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli sò bboni, sò bbelli,
sò ggrazziosi, sò ggioveni e ssò ddotti.

A l’incontro noantri poverelli
tutti schifenze, tutti galeotti,
tutti ddegni de sputi e de cazzotti,
tutti cucuzze in càmmio de scervelli.

Fa ccomparì un pezzente immezzo ar monno:
fussi magàra una perla orientale,
Presto cacciate via sto vagabonno.

Tristo chi sse presenta a li cristiani
scarzo e ccencioso. Inzino pe le scale
lo vanno a mozzicà ppuro li cani.

Giuseppe Gioachino Belli 
                                            3 aprile 1836 



11 novembre 2014

"Il gregge proletario: la pena e la paura" di Luciano Luciani





Le origini del welfare

Da Londra a Parigi, da Berlino a Milano per tutta la seconda metà dell’Ottocento la letteratura e le arti figurative europee raccontano di un mondo degradato e subalterno popolato di affamati e pellagrosi, malarici e sifilitici, tisici e alcolizzati, e gli ambienti che li raccolgono: carceri, ospizi, ospedali, manicomi, lupanari… Gli umili manzoniani, tutti caratterizzati da una loro specifica dignitosa individualità, si sono trasformati in moltitudine, indifferenziata, minacciosa, ingovernabile: i sentimenti di pena e comprensione per le sofferenze del gregge proletario si mescolano con uno stato d’animo di timore per l’irriducibile contraddizione sociale di cui esso è portatore. Negli ambienti più retrivi del conservatorismo italiano tornerà spesso a farsi strada l’idea della repressione e della stretta autoritaria come il modus operandi più adeguato per contenere la pressione della questione sociale.

I settori liberali della borghesia del nostro Paese appena riunificato, però, quelli culturalmente e politicamente più impegnati nella costruzione di forme di direzione egemonica della società (la scuola, innanzitutto, ma anche un moderno sistema di assistenza) si indirizzeranno in maniera diversa, cercando, con fatica e contraddizioni, di intraprendere la “via che ha già cominciato a percorrere l’Inghilterra, quella cioè delle grandi riforme sociali. E nel dir ciò, noi ripetiamo un giudizio, che è stato espresso dallo stesso Carlo Marx, uno dei fondatori dell’internazionale quando disse che solo l’Inghilterra aveva trovato la strada per salvarsi dal pericolo che minaccia tutta l’Europa” (P. Villari).

Così, all’indomani dell’unità territoriale italiana raggiunta nel 1861 e completata con la proclamazione di Roma capitale nel 1870, nel favorevole clima culturale sollecitato dal positivismo, numerose inchieste e indagini promosse da enti e istituzioni pubbliche rivelarono all’opinione pubblica come i problemi elementari dell’esistenza di larghe masse della Penisola fossero ben lontani dall’essere risolti e le condizioni subumane in cui vivevano ancora tante aree del nostro Paese: si moltiplicarono allora, le associazioni di beneficienza, laiche o cattoliche, che, ex novo o potenziando strutture già esistenti, promossero orfanotrofi, asili notturni per i senzatetto, ospizi per vecchi, ricoveri per ragazze madri o per l’infanzia sofferente, cucine economiche…

Il modello inglese e quello tedesco

Il modello più seguito era quello che proveniva dall’Inghilterra dove, per porre termine al caos determinato dall’azione non coordinata delle numerose associazioni caritative, si era costituita nel 1869 la Society of Organising Charitable relef and Repressing, più tardi trasformata in Charity Organisation Society. Sul movimento filantropico italiano ai suoi esordi non mancava, però, di esercitare un certo fascino anche l’esperienza tedesca che, negli anni del cancellierato di Ottone di Bismarck, aveva introdotto un sistema di assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi della povertà: le assicurazioni contro le malattie, 1883; gli infortuni sul lavoro, 1884; la vecchiaia, 1889: leggi precedute dalla premessa secondo la quale l’interesse dello Stato per i bisognosi “è un postulato necessario di politica conservatrice, allo scopo di far penetrare nelle classi senza fortuna, che sono le più numerose e le meno istruite, la convinzione che lo Stato è una istituzione benefica e indispensabile”. Tra le borghesia intellettuale tedesca,e in vasti settori di quella europea, si diffonde l’idea di un socialismo paternalistico, calato dall’alto, non rivoluzionario, alieno dalla lotta di classe, pacifico e in grado di impedire l’affermazione del proletariato, prevenendo quelle che erano annunciate come le sue necessarie conquiste.

Un’internazionale borghese e solidale

Obiettori di coscienza, organizzatori di leghe operaie, missionari tra gli affamati, i detenuti, le prostitute, alfabetizzatori di plebi rese opache da un’ignoranza secolare, soccorritori di vittime delle calamità naturali o dei corpi in uniforme stroncati dalle armi bianche o da fuoco costituiscono, nel corso del secolo delle rivoluzioni nazionali e liberali e dell’acuirsi della questione sociale, un’internazionale solidale e, per tanti versi, provvidenziale: magari confusi i loro programmi, oscillanti tra slancio idealistico ottocentesco, sincera pietà per condizioni di vita indegne di popoli civili e genuina adesione alle lotte per i diritti, spesso però efficaci le loro pratiche sociali e capaci di dare risposte concrete a bisogni diffusi e a urgenze improcrastinabili. Alcuni nomi tra i molti che, agendo più o meno consapevolmente nel solco della “religione positiva di Auguste Comte (1798–1857), operarono nei fatti per sostituire l’umanità a Dio: l’inglese Florence Nightingale, “la fanciulla con la lampada”, che riorganizzò i servizi infermieristici dell’esercito inglese impegnato nella guerra di Crimea (1854–1856) e che, sulla base di quella esperienza rimasta memorabile presso l’opinione pubblica europea, modernizzò in seguito anche gli ospedali civili della Gran Bretagna; lo svizzero ginevrino Henry Dunant, (1828–1910) “l’avventuriero della carità”, che, dopo aver conosciuto de visu l’alba di orrore successiva alla battaglia di Solferino, (1859) impegnò il resto della propria tormentata esistenza per la costituzione di una Società internazionale di soccorso tra i combattenti di ogni esercito, la Croce Rossa, (1864); il russo Nicolaj Ivanovic Pirogov (1810–1881), illustre figura di scienziato, chirurgo, educatore e uomo pubblico; l’italiano Ernesto Teodoro Moneta (1838–1918), prima garibaldino, poi direttore del quotidiano radicale e progressista milanese “Il secolo” e quindi premio Nobel per la pace nel 1907; la praghese, di origine aristocratica, Bertha von Suttner (1843–1914), la “strega della pace” come era sprezzantemente definita dagli ambienti nazionalisti e sciovinisti di tutta Europa, scrittrice, giornalista, segretaria di Alfred Nobel ed ella stessa premio Nobel per la pace nel 1905. Senza dimenticare il quotidiano, silenzioso impegno della Società degli Amici, i Quaccheri che per primi in Europa presero coscienza delle tragiche condizioni di vita dei poveri, vero e proprio “popolo dell’abisso” ridotto quasi a una razza a sé: cacciati dalla terra, obbligata al lavoro nelle manifatture, abbrutiti dalla fame e da ogni altra miseria materiale e morale.

Nel nostro Paese, nella faticosa impresa di trasformare il nuovo organismo unitario nella casa comune di tutti gli italiani, considerata come le coerente continuazione delle battaglie per l’unità e l’indipendenza, ritroviamo non pochi uomini e donne del Risorgimento: preoccupati alcuni che la guida e il governo della società rimangano saldamente nelle mani della borghesia moderata, altri, in genere con un passato mazziniano e di partecipazione al volontariato garibaldino, impegnati nella ricerca di forme più elevate di giustizia sociale e già disponibili alle suggestioni e ai programmi del proto socialismo


08 novembre 2014

"A quattro anni dalla scomparsa di Giuliano Parenti" di Luciano Luciani






L’uomo che coltivava la bellezza

Quattro anni fa, in una piovosa giornata di novembre, nella sua casa capannorese di Pieve san Paolo, si spegneva Giuliano Parenti, intellettuale civilmente impegnato, grande affabulatore, profondo conoscitore della poesia del Novecento, artista estroso e innovativo, raffinato microeditore e formidabile educatore a tutte le lezioni della bellezza.

Sensibile al fascino del teatro, Giuliano aveva firmato oltre quaranta commedie premiate in concorsi nazionali e pubblicate su riviste teatrali italiane e straniere. Suoi testi rappresentati presso i principali teatri della penisola, radiotrasmessi dalle reti Rai, Rsi Svizzera e teletrasmessi dalla TV di Stato della ex-Jugoslavia avevano conosciuto le importanti regie di Richard Gordon, Raoul Farolfi, Ruggero Jacobbi, Andrea Camilleri, Silvio Spaccesi. Un suo atto unico, Pelone, è stato pubblicato nell’antologia Nuovo teatro italiano dell’editore Vanni di New York.

Scrittore lucido e corrosivo nel 1995 ha vinto il premio “Narrativa Studio 12” per un racconto lungo. Nel 2001 Jaca Book di Milano ha editato il suo romanzo Uliess, lettore d’immondizia, poi presentato a Mantova in occasione del Festival della Letteratura. Nel 2007 sono stati pubblicati i Racconti col fiato corto e nel 2008 è uscito, Per amore o per finta, romanzo in cui, senza facili moralismi e sempre col sorriso sulle labbra, Parenti passa criticamente in rassegna i vizi, le incoerenze e le insensatezze del nostro tempo.

Costantemente attento ai temi della formazione delle giovani generazioni, nel 1972, insieme all’ex –alunno Patrizio Roversi, Giuliano costituì il gruppo “Giochiamo davvero” con il quale effettuò un centinaio di’interventi presso scuole e comunità, esperienza poi raccolta nel libro Giochiamo davvero, pubblicato dalla casa editrice Emme di Milano. Dal 1979 al 1985 è stato responsabile del Laboratorio multimediale presso la Scuola sperimentale “Dante Alighieri” di Mantova. Ha lavorato come animatore presso la Comunità per il recupero dei tossicodipendenti “Emmaus” di Foggia e “Porta aperta” di Casale di Roncoferraro (Mn) e nel 1976 ha collaborato all’ideazione e realizzazione della “Città favolosa” insieme a Gianni Rodari, Tonino Casula, Toti Scialoja, Sauro Marianelli, Pinin Carpi, Bruno Munari e Donatella Ziliotto. In occasione del dibattito sulla legge Basaglia ha partecipato alle attività di animazione “Orlando a Dosso” sia presso l’Opg di Castiglione delle Stiviere, sia nel territorio lucchese. Dove il prof. Parenti ha guidato per oltre dieci anni partecipatissimi laboratori di poesia per il Liceo scientifico “Majorana” di Capannori, l’Istituto tecnico “Benedetti” di Porcari; il Comune di Capannori; il Centro Socio Culturale Anziani “Chiavi d’Oro” di Lucca; per gli operatori del disagio mentale Enaip di Lucca

Suoi lavori di pittura, grafica, scultura e fotografia sono stati esposti in mostre organizzata dal Centro Documentazione Arti del comune di Carpi (Mo), presso la Galleria Ducale di Mantova e il Laboratorio Arti Visive di Foggia. Nel 2007 il Centro Socio Culturale Anziani “Chiavi d’Oro” di Lucca ha allestito una sua personale intitolata “Omaggio a Giuliano Parenti”, iniziativa reiterata nel mese di maggio dell’anno successivo nell’atrio del Palazzo comunale di Capannori. Senza dimenticare che per sei edizioni del Premio nazionale di poesia ‘Città di Capannori’ Giuliano Parenti è stato un presidente di giuria affabile, ironico, straordinariamente equilibrato e competente. E Capannori, nel cui territorio Giuliano ha vissuto l’ultima parte della sua esistenza, grata, gli ha voluto dedicare una sala di lettura, quella dei libri per ragazzi, presso il Centro culturale Artemisia.

A un anno dalla scomparsa la casa editrice La Meridiana ha pubblicato Il piccolo audace Frrr. Storia di un pesce fuor d’acqua, una sua favola di formazione per bambini di tutte le età illustrata dalla splendida grafica di Antonio Torquato Lo Mele.

A quattro anni dalla sua scomparsa vogliamo ricordare questo nostro Amico, colto e affabile, per ribadire quanto ci manchi il suo sguardo lucido e disincantato, la sua incontenibile creatività, la sua, di cuore e di testa, giovinezza.


05 novembre 2014

" Stimavo molto Marinella . . ." di Alida Bondanelli



Zerlinetta 
mia garbata...

L'avevo stupita e un po' conquistata, una sera, all'inizio della nostra conoscenza, “sfoderando la mia cultura teatrale”... avendo osservato che aveva utilizzato il nome Zerlinetta per il suo indirizzo internet le dissi che mi piaceva il suo pseudonimo era bellissimo!... come era bellissimo il Don Giovanni*!

Ho conosciuto Marinella Lazzarini 6-7 anni fa... avevamo diversi cari amici in comune, partecipavamo allo stesso gruppo di lettura e poi ci siamo ritrovate anche - accomunate dalla stessa rabbia, dallo stesso desiderio di giustizia e di cambiamento culturale – nella stessa denuncia e lotta contro il femminicidio e la violenza...
La ricordo con la sua voce roca e intrisa di dolore e determinazione mentre parla con la mamma di Vanessa Simonini uccisa a Gallicano...

Stimavo molto Marinella, tenevo molto al suo giudizio dopo le letture, sia quelle del gruppo di lettura, sia quelle fatte con SeNonOraQuando Teatro...
e lei lo sapeva...
e sapeva essere critica con me e allo stesso tempo incoraggiante... bastava uno sguardo...
credo che ad un certo punto sia stata proprio lei a domandarmi durante una delle nostre riunioni perché io non volessi leggere mai...

Quando il 13 maggio scorso a Barga per lo spettacolo fatto con i ragazzi delle scuole ho chiesto di leggere “Chiamatemi strega”-  il brano che lei amava leggere - già lo sapevo che non stava proprio bene...
E così quel pomeriggio nel buio di quell'aula magna, in un qualche modo glielo ho dedicato... anche se penso non lo abbia mai saputo...
perché le volevo bene, le voglio bene... ciao bella ciao!

* Scena XVIII
Zerlina
(Tra quest’alberi celata si può dar che non mi veda.)
Don Giovanni(che la prende)
Zerlinetta mia garbata,
t’ho già vista, non scappar!
Zerlina
Ah! lasciatemi andar via.
Don Giovanni
No, no, resta, gioia mia!
Zerlina
Se pietade avete in core...
Don Giovanni
Si, ben mio, son tutto amore; vieni un poco in questo loco! Fortunata io ti vo far!
Zerlina
(Ah! s’ei vede il sposo mio, so ben io quel che può far! ecc.)
Don Giovanni (aprendo la nicchia vede Masetto)
Masetto!
Masetto
Sì, Masetto!
DonGiovanni
E chiuso là, perché?
La bella tua Zerlina
non può, la poverina,
più star senza di te!
Masetto
Capisco, sì, signore!

03 novembre 2014

" Tomas Milian Monnezza amore mio " di Manlio Gomarasca



di Gordiano Lupi

Manlio Gomarasca trasforma in realtà il libro della sua vita, promesso ai fan di Tomas Milian da almeno quindici anni, dai tempi in cui Nocturno Cinema era soltanto una fanzine

Monnezza amore mio - strutturato come un dialogo tra il personaggio e l’attore - è frutto dei ricordi di Milian e della sua volontà di raccontarsi a ruota libera, ma è soprattutto merito di una scrittura nitida e ammaliante di Gomarasca che ti obbliga a continuare nella lettura come se tu sfogliassi un thriller. 

Tomas Milian da buon cubano racconta la sua verità, com’è giusto che sia, perché il libro è la sua biografia, non un saggio di cinema. Una verità che non piacerà a Dardano Sacchetti e Umberto Lenzi, che per anni si sono disputati la paternità del Monnezza, perché l’attore afferma di essere l’inventore del personaggio, di aver scritto dialoghi e battute, di aver ideato look, smorfie, parolacce, rime baciate, imprecazioni. 

Peccato che nel libro non ci sia spazio per Ferruccio Amendola, doppiatore che ha contribuito al successo di Milian, mentre Bombolo e Quinto Giambi sono citati a dovere. 

Per il resto, non manca niente: il suicidio del padre, l’Actor’s Studio, il successo italiano, il triste ritorno negli Stati Uniti. Pagine che raccontano la bisessualità, il rapporto con la famiglia e con un figlio riconquistato dopo un breve abbandono, il consumo di droga, la crisi provocata da alcol e cocaina, la vocazione mistica e il viaggio in India.

Monnezza amore mio è un libro che mi fa tornare alla memoria la quantità industriale di pellicole viste da ragazzetto in un cinema di seconda visione della mia città. Quella sala, che io ricordo bellissima ma che forse non lo era, si chiamava Cinema Teatro Sempione e la domenica era presa d’assalto da frotte di ragazzini che facevano la ressa al botteghino per acquistare il biglietto. C’ero anch’io tra quei ragazzini, ricordo che ci davamo botte, spinte e calci per entrare e aggiudicarci i posti migliori. Prima di entrare in sala si doveva far provvista al banchetto della signora che vendeva semi, noccioline, duri alla menta, stringhe di liquirizia… Il posto in galleria era il più ambito, ché le bucce dei semi e delle noccioline erano armi di prima scelta per bersagliare quei poveracci della platea. Al Sempione proiettavano due pellicole alla volta, entravi alle tre del pomeriggio e ne venivi fuori che era ora di cena. Di solito passavano film di genere, da sala di seconda visione, un ricordo del passato, sono locali scomparsi, uccisi dalla televisione. 

Al Sempione mi sono visto il ciclo storico di Godzilla, il peplum all’italiana, spaghetti-western in quantità industriale, poliziotteschi che non vi dico, horror di Bava, Freda, Fulci, D’Amato, pellicole comiche di Totò, Franco e Ciccio, Gianni e Pinotto. Tutto quel che piaceva a noi ragazzini degli anni negli anni Settanta lo programmavano al Sempione. 

Mi fa una rabbia oggi passare per Corso Italia, che sarebbe la strada principale del luogo dove vivo, e vedere che al posto del Sempione c’è una profumeria. Del Sempione è rimasta la facciata, il ricordo di quel che era, l’insegna è la stessa ma dentro vendono profumi invece che emozioni. E mica è la stessa cosa. Quando ne discussero in Consiglio Comunale non ci fu un assessore contrario, non uno a dire: “Il Sempione sarebbe proprio un bel cinema d’essai”. Nessuno. Va bene, andiamo avanti così. Facciamoci del male, direbbe Nanni Moretti.

Ho scoperto Tomas Milian proprio sulle scomode panche di legno del Sempione. Dal 1968 al 1972 lui era alle prese con lo spaghetti-western e io ero un ragazzino di otto - dodici anni che la domenica andava al cinema con la nonna, grande divoratrice di cinema. Io amavo quei film, mi emozionavano, mi facevano sognare. E poi ero convinto che fossero americani, mica me ne intendevo di cinema, mi bastava vedere film d’avventura. Un bel giorno fu mio padre a distruggere il sogno. Mi venne a dire che erano spaghetti-western e che li giravano in Sardegna, quando andava bene in Spagna, ma in America e in Messico proprio no, erano posti che i registi non avevano visto neppure in cartolina. Forse per questa sorta di choc giovanile ancora adesso mi è rimasta la fissa del cinema italiano.

Tomas Milian ha accompagnato la mia giovinezza pure negli anni che è passato al poliziottesco. Tutti film che mi sono visto in prima visione al cinema più grande della città, che è sopravvissuto alle televisioni commerciali e si chiama Metropolitan. Ero ancora più grande, studente di liceo e universitario, quando andavo a vedere Nico Giraldi e Venticello, sganasciandomi dalle risate seguendo trame improbabili e dialoghi al limite del turpiloquio. C’è stato un lungo periodo che me lo sono perso il buon Tomas Milian, tutti dicevano che se n’era andato negli States, che non ne voleva più sapere di quel personaggio da trucido. Forse aveva anche ragione, mica poteva fare il Monnezza e Nico Giraldi per tutta la vita. Adesso capita che Tomas Milian lo rivedo in televisione quando passano Havana, Arturo Sandoval o JFK, ma non è più lui, è un caratterista di lusso, pelato e ingrassato. Cosa ci posso fare se per me Tomas Milian resta sempre quello che indossava la parrucca da trucido del Monnezza? Ci ho persino scritto un libro (Il trucido e lo sbirro, Profondo Rosso), dedicato a mio figlio, che dieci anni fa s’è rivisto con me tutto il cinema di Tomas Milian. E poi con Cuba e con i cubani ho un legame importante…


Grazie Gomarasca, hai fatto davvero un ottimo lavoro, regalando uno stile impeccabile ai ricordi di Tomas Milian. Un vero gioiello. Imperdibile per gli appassionati.
Tomas Milian
Monnezza amore mio
con Manlio Gomarasca
Rizzoli – Pagine 296 - Euro 18,50
E-Book 10,99