31 ottobre 2018

“Migrant Mother” foto di Dorothea Lange


di Gianni Quilici


Migrant  Mother di Dorothea Lange è una foto famosa, perché, più di ogni altra, simbolizza la grande depressione economico-sociale vissuta dagli Stati Uniti, a partire dal 1929, con il crollo di Wall Street.

Perché proprio questa tra le tante immagini?
Perché rappresenta la disperazione di milioni di disoccupati, di senzatetto, di affamati,   senza pietismi, lasciando, invece, spazio all’immaginazione.

E’ una di quelle foto, infatti, che vanno oltre ciò che esse mostrano, come se uscissero dalla cornice, portandoci con essa in uno spazio di tragedia quotidiana indefinita.

Vediamo, infatti, il volto della donna bello nella sua espressività, povera, ma non misera, afflitta ma dignitosa, con una serie di dettagli su cui si potrebbe sottilizzare: lo sguardo perso in un pensiero mesto,  fili di rughe appena percepibili sulla fronte, il braccio piegato con le dita della mano a sostenere, leggere, il volto.

Ma altrettanto decisivi per l’intensità della foto sono i suoi bambini-e.
Il profilo del bambino, lo intravediamo appena, mentre dorme sul grembo di lei, avvolto in poveri panni. Le due bambine si nascondono sul corpo della madre: l’una incartocciata sulle sue spalle; l’altra poggiata dietro le sue spalle . Ci mostrano soltanto i bei capelli folti, tagliati da lasciare il collo scoperto.

Si vergognano? Piangono? Si disperano?
E’ qui la grandezza poetica dello scatto: rendere visibile-invisibile la condizione in cui versavano milioni di persone in quegli anni. Per un verso mostrandola direttamente; per un altro lasciandola  all’immaginazione. Una foto che ci tocca  soprattutto ad un secondo sguardo, più meditato. Non un grido diretto; un grido sommesso che rimane.    

La donna nella foto è Florence Owens Thompson . Nel 1960, Lange raccontò la fotografia:
    Vidi e mi avvicinai alla madre affamata e disperata, come attratta da una calamita. Non ricordo come le ho spiegato la mia presenza o la mia macchina fotografica, ma ricordo che non mi ha fatto domande. Ho fatto cinque esposizioni, lavorando sempre più vicino dalla stessa direzione. Non ho chiesto il suo nome o la sua storia. Mi ha detto la sua età, che aveva trentadue anni. Disse che vivevano con verdure surgelate provenienti dai campi circostanti e uccelli uccisi dai bambini. Aveva appena venduto le gomme dalla sua auto per comprare del cibo. Lì si sedette in quella tenda snella con i suoi bambini rannicchiati intorno a lei e sembrava sapere che le mie foto potevano aiutarla, e così mi aiutò. C'era una sorta di eguaglianza a riguardo

Dorothea Lange. Migrant Mother. USA 1936


16 ottobre 2018

"L’affare Vivaldi" di Federico Maria Sardelli


di Maddalena Ferrari

E’ un romanzo, ma anche una documentata ricostruzione storica, che incuriosisce, avvince, conquista. Fa penetrare il lettore in una narrazione – rappresentazione, che spazia, alternando i diversi momenti, tra il ‘700, l’’800 e il  ‘900. Racconta le vicissitudini della folta collezione di spartiti, autografi di Vivaldi, ma anche di altri grandi musicisti del ‘700, originali e non.

Il titolo lascia presagire un giallo ed in effetti  ci sono elementi di mistero e di suspense; ma si può anche leggere come un’allusione ai proventi che alcuni individui avidi e furbi ebbero modo di ricavare da questo immenso patrimonio.

Il racconto fa agire quasi esclusivamente personaggi storici, che vivono immersi nella loro realtà, dove tutto, ambienti, oggetti, perfino le condizioni atmosferiche, si tocca con mano; i dialoghi, i movimenti, frutto di fantasia, si attagliano perfettamente all’iconografia e alle situazioni rappresentate.

Nei passaggi dei secoli o dei decenni c’è una costante: l’arroganza e la vacuità morale e intellettuale del potere politico e sociale, sottolineate con ironia e sarcasmo, negli aneddoti, incontri, conversazioni.

Spicca il cameo di Mussolini, vuoto, vanesio ed egocentrico; ed esilarante è la costruzione del personaggio Ezra Pound, entrante, arrogante e presuntuoso, con il suo italiano inglesizzato,  di un’antipatia sottilmente respingente.

A tutto questo si contrappongono la serietà, il rigore di pochi eletti, in particolare Luigi Torri, direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, e Alberto Gentili, musicologo dell’università della stessa città, ai quali si deve riconoscere il merito della riscoperta di Vivaldi, dopo più di un secolo di abbandono.

L’autore poi con amore, acribia, intelligenza comunicativa, ci dà ragguagli dettagliati, sempre interessanti, con ricchezza di citazioni, della vasta, articolata mole dell’eredità del grande musicista

Federico Maria Sardelli. L’affare Vivaldi. Sellerio.Euro 14,00

 

07 ottobre 2018

Un ciclista: Alberto Contador



di Gianni Quilici

Se c’è un ciclista che mi ha colpito, dopo Pantani, è stato Alberto Contador.
Dice in un’ intervista pubblicata su “la Lettura” (domenica 7 ottobre 2018):
“Ma io con la bicicletta ci ho giocato, perché la passione che ci ho messo è stata sempre quella del primo giorno, quando da bambino ho scoperto la salita: una sensazione unica, di forza, di potenza e di libertà che non mi ha mai veramente abbandonato.”

Queste sensazioni, credo che anche altri ciclisti le abbiano vissute. Contador, tuttavia, è andato  oltre, aggiungendo un elemento in più: uno stile unico,  immediatamente riconoscibile.
Lo stile di chi si alza, alto e sottile, dondolandosi sui pedali,  e dando alla potenza, di chi riesce a fare il vuoto dietro di sé, un senso di leggerezza.

Questo stile colpisce l’immaginario, perché contiene una bellezza, in cui si intrecciano forza  leggerezza e coraggio. La forza conquista perché si impone; la leggerezza intriga perché è bella a vedersi, il coraggio perché si è gettato in imprese che sembravano impossibili. In questo senso la sua “immagine”, come per pochi altri campioni, è  rimasta scolpita, andando oltre il realismo, è diventata mitica.