28 novembre 2012

"Foto" di Steve McCurry



di Gianni Quilici

La bellezza di colori assoluti
nella loro incredibile varietà e luminosità
colti nell'attimo in cui la forza
che si imprigiona dal braccio del barcaiolo
scivola via sull’acqua
nel senso fluido del viaggio
con l’orizzonte d’una verzura rigogliosa
che pare apparentemente chiudere
ciò che invece si può
soltanto immaginare
realisticamente e favolosamente aperto





di Davide Pugnana

Vidi questo scatto di Steve Mc Curry diversi anni fa, in una mostra a Lucca; ma non ricordo in quale sede. Ricordo bene però l'impressione abnorme che mi fece il riunirsi, al limite del visionario e dell'irreale, di quella fantasmagoria di colori che parevano bloccati in un'esistenza più che fluida plastica: i mulinelli sinuosi, le increspature dei getti, le rugosità minute dei gorielli, ogni più piccola particella in movimento animata dal tonfo del remo sembrava intagliata in un muscolo di roccia; le pieghe stesse della giubba del barcaiolo partecipavano di un chiaroscuro vicino alle ocre immobili delle venature geologiche. In alto, il punctum prospettico, innescato dalle tessere gialle della poppa, finiva in quel magnifico copricapo di un bel lapislazzuli, di un tonalismo così perfettamente cilindrico da ricordare quelli dipinti da Piero della Francesca e da Giovanni Bellini.

 Avvicinandomi ancora, notai che in quel tappeto si potevano contare almeno venti tipi di blu di altissima nobiltà - qui il cobalto e l'oltremare, là una campitura di azzurrite sporcata di verde e fusa a striature violacee che, nel digradare nella fuga ad imbuto verso lo scenario di fondo, si approfondivano in bellissime tinte di guado e indaco, di verdi sordi, il cui dominio uniforme subiva gli intervalli di scagliette luminose e trovava il giusto respiro.
 L'effetto spettacolare di questa timbrica fredda era esaltato dalla fiammata dei fiori; una lingua di fuoco anch'essa fissata nel cristallo, che il barcaiolo trasportava senza quasi avvertirne la presenza.

Quando scesi in strada, la sensazione latente - quel lavorìo sottopelle dell'oltre-focus subliminale dell'icona - era quella di un sentimento misto che un po' mi parlava di fiaba fantastica e un po' del silenzioso, imperturbabile viaggio dei corpi senza vita sull'acqua.

Caro Gianni,
                      per un pelo domenica non sono volato a Genova per vedere l'antologica di McCurry; ma spero di potervi andare presto. Sul sito, ho visto che in mostra ci sono sia il barcaiolo, sia la mendicante (anche la 'seconda', quella proustianamente ritrovata del secondo, feroce scatto, quando il tempo le ha lavorato il volto e trasformato la tensione e la grazia degli occhi in un altro paesaggio); e ci sono numerosi 'generi' fotografici, tutti quelli che un obiettivo può fissare e un coraggioso ed eroico Ulisse del nostro tempo, animato da una sottile vena da antropologo, può scovare; tutti quei 'generi' non retorici, non letterari, non cartolineschi che davvero danno spessore a qualsiasi portfolio artistico, quale che sia il linguaggio scelto. In McCurry passa tutta quella materia umana costretta a girare dentro uno zodiaco di temi eterni; e dentro questo quadro di archetipi - che, se andiamo a vedere, appartiene ad ogni epoca - rinnova, riscopre, incendia. E' la qualità dello sguardo che rende grande il "vangelo fotografico" di McCurry.

Diciamolo pure, Gianni, c'è vera fotografia - fotografia d'autore - quando quel lembo di realtà (uomini e cose) isolato e solidificato genera una nuova figura dell'immaginario, per cui gli stessi statuti dello sguardo subiscono un profondo rinnovamento. Questa educazione al vedere con l'occhio dell'astrazione (ab-straere, appunto "cavare fuori" il non-visto) la tiriamo in ballo con i rossi e i verdi sciolti sulle sale da biliardo di Van Gogh; con le vedute tonali di Corot e con i cieli puliti di Segantini; con gli scintillanti giovani di Renoir e con la corsa del cavaliere azzurro di Kandiskij o con il pensiero dipinto di Balthus e De Chirico: di fronte a quelle tele ripetiamo che nessuna mela, nessuna lampada, nessun corpo umano, nessun cavallo in corsa, nessuna tenda rarefatta di luce e nessuna piazza immobile nell'ora vuota di un disteso mezzogiorno, potrà più essere la stessa. L'icona diventa " "vangelo" educativo dell'occhio: forse per la prima volta, il nostro campo visivo subisce una battuta di arresto del flusso abitudinario, si scheggia, si fa obliquo e rifocalizza l'alfabeto dei dettagli consueti, o il patrimonio tutto di realtà.

 Questa condizione ontologica mi pare possa valere anche per la fotografia che definiamo "d'autore". Quante volte ci sorprendiamo a guardare la riva di fiume pensando al dejeuner sur l'herbe di Cartier Bresson, o la giostra di una piazza sotto la pioggia assimilandola al carosello di Monsieur Barré di Doisneau? Quante volte un nudo di donna ha preso la forma della modella di Diego Rivera nell'obiettivo di Fritz Henle, o dei viaggiatori abbandonati al sonno avevano la stessa sostanza delle pose spettrali di Walker Evans? E quanto massonico politichese (sì, anche quello della nostra Italia) ha preso l'aria delle tavole rotonde e dei saloni di Erich Salomon? Ci sono scatti singoli o, come nel caso di McCurry, interi portfoli che rinominano la realtà dal grado zero per farsi molle generatrici di 'nuovi' scenari visivi - 'classici' , fin dal loro primo apparire. Scatti che rompono la crosta spessa del già-visto e rifondano l'aura delle cose rappresentate.

Ecco, tra i tanti scatti meravigliosi della mostra genovese presenti sul sito, due mi hanno profondamente colpito in questa direzione conoscitiva di ri-velazione dell'iride ( sebbene scorrendo la 'gallery' anche molti ritratti di donne nere si siano sovrapposti, nella mia memoria figurativa, agli splendidi bronzi di Giuseppe Bergomi esposti a Pietrasanta, soprattutto la foto di ragazza a mezzo busto con orecchini e collana bianca e gialla). I due pezzi che mi hanno attraversato per potenza iconica e profondità di visione sono il monaco adolescente che si abbandona, con braccia simili a rampicanti, nell'intarsio ligneo di una porta affacciata su un altro mondo proibito e visionario; e il gruppo di 'bagnanti' che con minimo sforzo popolano quest'angolino sacro di universo, e, intrise d'acqua ridono, parlano, si accarezzano, si piegano a cercare il velo, o si aggiustano la veste gialla su spalle che si aprono con la dolcezze del cammeo. In questo trionfo del momento assoluto, ogni età, ogni status sociale, ogni fede, si intensifica di energia naturale da primo giorno della creazione, quando trattiene qualcosa del brillio della cima della vita, in perfetta coincidenza con tutto l'universo. Che McCurry indugi nella penombra sognante di una giovinezza destinata al monastero o si fermi presso una riva scintillante di corpi femminili senza peso, è sempre la cifra di uno sguardo che fa la fotografia 'd'autore' e crea "vangeli" visivi: classici, perché già protesi oltre la loro epoca.
                                                                                                                                          Davide

20 novembre 2012

"L'olivo" di Luciano Luciani



Olivolì, olivolà…


L’oliva cantata
Tutta la geografia dell’olivo, dalla Puglia all’Umbria, dall’Abruzzo alla Toscana, dalle Marche alla Liguria è disseminata di semplici melodie  e versi ingenui che ricordano la fatica antica della raccolta delle olive, aiutano a far passare il tempo di lavoro e contribuiscono a ingannare la pene dell’ultima impegnativa opera campestre prima dell’inverno: nenie, tarantelle, rispetti, canti a due voci trattano, anche con qualche ironia, lo sforzo e le difficoltà della raccattatura.
Qui siamo a Molfetta:

Uè cummà Uelin
Com s’accoggghien l’aliv?
S’accogghien ad un ad un…

Ma più spesso il canto argomentava del sentimento amoroso. Così, la caduta dell’oliva dalla pianta veniva letta e metaforicamente rielaborata come il segno di una passione tanto inesausta quanto dolorosamente contraddetta. Tra i testi più belli quello intitolato Cade l’uliva, un accorato rispetto toscano, (variante regionale dello strambotto, antica forma popolare di poesia amorosa), riscoperto e cantato nei primi anni sessanta dalla voce straordinaria di una mai dimenticata Caterina Bueno:

Cade l’uliva e non cade la foglia
le tue bellezze non cadono mai,
sei come il mare che cresce a onde,
cresce per vento e per acqua mai.
E tu sei come l’erbo tenerino,
quanto più cresci più’dveti bellino;
e tu sei come l’erbo tenerello,
quanto più cresci più doventi bello.

Almeno altrettanto intenso e ricco di poesia Addio, addio amore, un canto abruzzese dell’area di Ortona, in cui, anche in questo caso, i frutti e le foglie che giunti a maturazione si staccano dall’olivo sono paragonati a un sentimento d’amore che, come tutte le cose di questo mondo, è destinato a finire:

Nebbi’a la valle e nebbi’ ala muntagne
ne la camapagne nen ce sta nesciune

Addije, addije amore
casch’ e se coje
la live e cascha l’albere li foje

Cascha la live e casche la ginestre,
cascha la live e li frunne ginestre

Addije, addije amore
casch’e e se coje
la live e casch’a l’albere li foje


L’oliva, un cibo da strada
Si facevano vedere agli angoli delle strade, ai margini dei mercati, in occasione di modeste fiere di quartiere o di festività patronali o anche agli ingressi dello stadio Olimpico, quando urgeva qualche evento sportivo pallonaro che richiamasse gente. La loro apparizione coincideva con i primi temporali, quelli che spezzavano definitivamente la calura estiva e preannunciavano già l’autunno. Li chiamavamo “olivari”, conosciuti anche nella variante “olivaroli”, oppure “olivedorci” dal grido con cui segnalavano la loro presenza ai potenziali clienti. Erano i venditori ambulanti di olive fresche, conciate, immergendole in una soluzione al due per mille di soda caustica, e mantenute in acqua appena appena salata: un mestiere antico nella capitale, documentato sin dal XVII secolo.
Un lavoro stagionale, il loro, che durava dalla fine d’agosto (d’altra parte la saggezza popolare ha sempre affermato che “Per l’Assunta” - 15 agosto – “l’oliva è unta”), sino all’autunno inoltrato quando l’oliva, ormai matura si scuriva sull’albero e si faceva sempre più adatta per la mola del frantoio.
Per pochi spiccioli, l’”olivaro”, organizzatosi con un banchettino precario, recipiente in coccio e mestolo bucherellato, te ne riempiva un cartoccio a forma di cono di robusta carta gialla, quella da pane, che, se pure s’intrideva di salamoia, era in grado di resistere sino all’ultima oliva.
Un piacere aggiunto a quel sapore dolce/salato consisteva nello sputare il nocciolo e colpirlo col piede al volo, urlando: “Tiro. Goal!” trasformando così, immantinente, per lo straordinario potere delle fantasia ragazzina, ognuno di noi negli amatissimi centravanti della Roma, della Lazio, della Nazionale…
Un gioco rumoroso e blandamente atletico che al gusto dell’oliva ne aggiungeva altri, indimenticabili. Quelli dell’infanzia che si faceva adolescenza, dell’amicizia virile, di una spensieratezza semplice. E per dirla col poeta:  Pochi momenti come questi belli…

Olive malandrine
Nel gergo malandrino della piccola criminalità milanese del secolo scorso, quella bonaria, capace ancora di un suo codice d’onore, non feroce come l’attuale, “farsi un’oliva” significava rubare una macchina per scrivere, quindi, per antonomasia, un’Olivetti. Oggi, quell’azienda all’avanguardia del progresso tecnologico quale si configurava cinquant’anni fa, un gioiello della nostra industria leggera del dopoguerra non c’è più. Fatta oggetto di speculazioni finanziarie, depotenziata, smantellata, ridimensionata sopravvive melanconicamente in qualche piega del mondo volatile della cosiddetta telefonia mobile e non ho idea di come gli attuali ladruncoli lombardi possano designare fra loro l’atto poco bello di sottrarre ai legittimi proprietari un computer portatile.

Le olive, al plurale, per la loro forma ovoidale, non potevano non trasformarsi nella facile metafora sessuale dei testicoli: per cui “cambiare l’acqua delle olive” è un modo appena appena meno garbato del più diffuso e ipocrita “andare a lavarsi le mani” e senz’altro meno diretto di “fare un po’ d’acqua”. Tutte interdizioni di decenza sempre meno diffuse, ci pare, nel nostro parlare quotidiano. E, sempre per rimanere nell’area delle parti basse, oliva è la vulva e olivetta il (la ?) clitoride, dettaglio anatomico divenuto strategico nel dibattito femminista degli anni settanta e poi, però, in gran parte dimenticato.

Olive televisive
Se dico “Società Anonima Commercio Lavorazione Alimentari”? Nessuna reazione, nessuno la (ri)conosce. Se utilizzo il suo acronimo SACLA, magari a qualcuno viene in mente qualcosa. Se metto l’accento sulla seconda A, trasformando SACLA in SACLÀ, allora sì che si affollano i ricordi… Legati naturalmente a Carosello, una delle più felici invenzioni della televisione italiana, che, all’inizio del miracolo economico, lasciava intravvedere i segni di un modesto benessere e si lasciava alle spalle il ricordo di annose povertà e, soprattutto, la memoria recente degli anni duri del dopoguerra. Gli adulti maturi di oggi, allora bambini, ricordano ancora le buffe storielle televisive che a partire dal 1957 nell’arco di un paio di minuti attraverso moderne, sorridenti favolette ti sottolineavano la qualità, bontà, economicità di un prodotto
Così, una parola di due sillabe, tronca e insensata, alla fine degli anni sessanta riuscì ad avvicinare la famiglia italiana a nuovi consumi: prodotti alimentari vegetali, conservati sottolio o sottaceto in grandi confezioni di vetro trasparente, disponibili non più solo stagionalmente, ma per tempi anche assai più lunghi. Una novità per i tempi perché la SACLÀ è stata la prima azienda conserviera a comunicare e promuovere la propria immagine presso i consumatori. Un’operazione che avvenne, al solito, attraverso le immagini di un vero e proprio film in miniatura e un jingle (motivetto musicale) che definire accattivante è dire poco: Vi ricordate le anche le parole? Follemente indimenticabili: Olivolì, Olivolà, Olivolì, Olive SACLÀ !  E destinate nel giro di pochi giorni a diventare in famiglia, a scuola, sui luoghi di lavoro dei veri e propri ‘tormentoni’, fischiettati, ripetuti all’eccesso, riadattati. È la pubblicità, bellezza!
Per me, in quegli anni poco più che adolescente, le SACLÀ in particolare ma in genere tutte le olive da allora assumeranno le fattezze di una bella e brava cantante, attrice e show girl che in quegli anni ha interpretato alcuni degli ilari raccontini televisivi di Carosello (la parola spot ancora non era ancora arrivata!) che magnificavano i vantaggi di un’alimentazione a base di olive: si chiamava Minnie Minoprio, era di origini italo-inglesi e così sexy che una sua esibizione televisiva provocò addirittura un’interrogazione parlamentare.
Un’altra Italia, un’altra televisione, non saprei davvero dire se migliori o peggiori delle attuali!

(Pagine da Luciano Luciani, Un’oliva tira l’altra, collana I mangiari, mpf, Lucca 2012)




"Conversazione con Adonay Navarro" di Davide Pugnana




Recensione-intervista
Conversazione con Adonay Navarro
“Dipingere è avere fantasia e operazione di mano,
di trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombra
di naturali) e forma con la mano, dando a dimostrar
quello, che non è, sia.”
(Cennino Cennini, Trattato della pittura)

Se ci proviamo in una salgariana spedizione da internauti e selezioniamo “Honduras” tra le voci    enciclopediche di Saper.it scopriamo l’arcobaleno cartografico di un mondo meraviglioso. Ma rispetto al flusso immaginifico della penna dei romanzieri, oggi è la piattaforma virtuale a ridisegnare spazi e tempi, usi e costumi, confini e cultura di un’intera etnia, disponendola nei lemmi di una mappatura ad icone; la quale, oltre a metterci nella più agevole disposizione di spirito per la navigazione fantastica, ci offre una nitida istantanea dell’Honduras: questo stato dell’America Centrale, affacciato sul Mar delle Antille e punteggiato da pelaghi di 5000 metri che scoraggiarono lo stesso Colombo. E su questa scia leggendaria, veniamo a conoscenza dell’etimologia del nome, forgiato sull’ispanismo hondura che significa “profondità”. Un serpeggiante clima tropicale avvolge Tegucigalpa, la capitale amorosamente ribattezzata dagli abitanti col nomignolo Tegus; lo spagnolo domina come lingua, ma declinato e arricchito localmente da inventivescreziature lessicali, come vogliono le leggi universali delle variazioni della lingua nel tempo, nello spazio e nella società; la fede religiosa si biforca tra cattolicesimo e protestantesimo; l’unità monetaria porta il fascinoso nome di lempira. “Assai ricco è il manto vegetale”, punteggiato di cedri, mogani, sapodille, ceibe e intervallato da boschi di querce e conifere, e mangrovie sparse sugli orli delle coste. Nelle linee di questo arabesco si muovono tapiri, giaguari, coccodrilli, caimani, iguane, tartarughe, avvoltoi e altre specie rare.
 Questo “vasto altopiano” ha i suoi confini geografici, a Nord, verso il Mar delle Antille e, a Sud, tra Nicaragua e oceano Pacifico, contornato infine a Ovest da El Salvador e Guatemala. Non manca la pagina dolorosa connaturata alla storia del “secolo breve”, perché anche l’Honduras ha conosciuto il ventre molle de “i problemi lasciati in eredità dai regimi dittatoriali, violazione dei diritti umani, criminalità, povertà, analfabetismo”. A riequilibrare la bilancia verso le conquiste di civiltà e progresso troviamo il lemma “Cultura” articolato in quattro aree. Complessivamente, la spina dorsale della cultura honduregna è di matrice spagnola, ma su de essa si è depositata, per accrescersi, l’influenza europea, il cui alfabeto, tra barocco e moresco, ha lasciato tracce incise nelle “espressioni architettoniche, artistiche, religiose di forte peculiarità”. A questo corredo occidentale risponde con solennità atavica “il sito maya di Copàn, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1980, posto quasi al confine con il Guatemala e le cui rovine archeologiche (la ‘scalinata dei geroglifici’, i templi dell’acropoli, le sculture)”, prima che monumenti, incarnano documenti della civiltà che lì visse a partire dal II secolo. Ma il vero e proprio tessuto connettivo dell’arte honduregna contemporanea sono gli artisti, alcuni dei quali hanno raggiunto un respiro internazionale, mentre un vivaio di giovani - come mi raccontava, nel corso dell’intervista, Adonay Navarro - si formano orientandosi in vari indirizzi, dal figurativo all’astratto, con un deciso sperimentalismo dei materiali e dei supporti. L’ultima sezione “Cultura: arte” riserva la chiusa enciclopedica ad un aureo
quadrilatero della pittura e della scultura honduregna: Pinto Rodezno (1965); Dario A. Rivera Trejo (1958), MAFFELA (Maria Ofelia Garcia Casanova) e Yovany Adonay Navarro (1974).

Ho conosciuto Adonay Navarro circa un mese fa. Il primo contatto percettivo con alcune sue opere mi ha richiamato prepotentemente alla memoria il concetto espresso da Cennino Cennini nel suo Trattato della pittura, posto ad epigrafe dell’intervista. Non so per quali meandri, quella meditazione sulla centralità dell’intelletto pittorico che sorregge la mano dell’artista e lo spinge a “trovare cose non vedute” si è affacciata in me senza reale giuntura con quel linguaggio formale che mi stava davanti, figlio di un altro secolo e di un altro vocabolario pittorico. E in verità, nemmeno ad intervista ultimata riuscii a dare un senso all’accostamento, che continuava a sembrarmi imbastito sulle fondamenta di un castello di sabbia. Non vi scorgevo un orizzonte di senso che andasse al di là della pretestuosa suggestione intellettualistica. La risposta arrivò impreveduta. L’avrei trovata, qualche tempo dopo, leggendo alcune pagine di Raffaello Borghini, autore di un meraviglioso trattato (Il riposo,1584), sulle cui tracce mi aveva messo un saggio di Vittorio Sgarbi (La stanza dipinta, riedito 2012). In un capitolo, il critico trasceglieva un’espressione di Borghini per definire il midollo concettuale dell’opera di Valerio Adami, pittore del Novecento. Secondo Borghini, l’arte è “un abito intellettivo” che fa “con certa e vera ragione di quelle cose che non sono necessarie, il principio delle quali non è nelle cose che si fanno, ma in colui che le fa.” Se quindi la radice prima dell’abito intellettivo è nell’interiorità dell’autore che astrae, che sviscera interpreta trascende il dato di realtà in una visione stilistica nuova, perché questa condizione mi appariva così calzante uardando le opere di Adonay Navarro? Nonostante l’irrequieto e policentrico sperimentalismo del suo percorso di scavo espressivo, una tonalità di fondo lavorava ad unire le opere della ‘prima maniera’ con i più recenti approdi: il disegno. Quel disegno che Adonay Navarro immerge nelle profondità del pensiero e nell’esplorazione degli oggetti con l’ostinata, straziante vitalità degli esercizi quotidiani. Nei suoi dipinti e nella modellazione delle  sue sculture, la linea grafica non traccia la figura; non funge cioè da elemento strutturante; ma ne scopre l’intima essenza.
Adonay Navarro concepisce il disegno come una vera e propria forma conoscitiva, la quale, nell’arco del processo creativo, finisce per dettare il primo tempo dell’interpretazione. Come “abito intellettivo” il disegno perde la sua connotazione preparatoria per assumere un nobile statuto di autonomia intellettuale. Forte di questa sua centralità, esso diventa elemento unificatore dello stile. In questo sistema estetico, disegnare non significa più muoversi sul terreno delle intenzioni estetiche, del collaudo, dell’approssimazione all’idea; poiché è già tutto questo insieme. Il nodo pensiero/disegno porta l’arte di Adonay Navarro lontana da ogni semplificazione popolare, prossima al candore naif; e si apre invece ad una strofa pittorica e plastica dove volti, oggetti, luoghi, persone, brani di memoria e proiezione dei desideri, si fanno simbolo (o archetipo) trovato in forza di astrazione.
Il nucleo pulsante dell’intervista all’artista dovrebbe essere, malgrado la modernità giornalistica del “genere”, quello di sortire un effetto maieutico: lasciare un ritratto in piedi dell’autore, tale da mettere a nudo le linee di intersezione tra mondo concettuale e mondo della forma artistica, fornendo così al lettore più sprovveduto un’idea intensa e convincente del suo percorso. Un’intervista-bussola, per dir così, tanto più necessaria in mezzo all’affollata piazza dell’arte contemporanea, col suo arcobaleno di chiavi espressive.
Un’intervista che sia “un abito intellettivo”, capace di tradurre al meglio l’uniforme della critica d’arte, in tempi in cui risulta sempre più difficile andare tra i talenti a lume di naso; come è sempre più difficile assottigliare i coni d’ombra disegnando esaurienti planimetrie delle correnti e delle personalità del panorama artistico contemporaneo.

Adonay Navarro tu sei molto giovane; ma hai già alle spalle una carriera straordinaria: esposizioni,mostre, simposi, biennali, riconoscimenti e il recente Premio Unico de Subasta 2012. Il tuo iter espositivo ha un respiro cosmopolita che va dall’America all’Europa, fino a cornici prestigiose, anche per l’esperienza diretta su una materia come il marmo, conosciuto lavorando nei simposi di Carrara. Da dove parte questo percorso? Qual è stato il tuo esordio?
Ho sempre avuto un’attitudine alle forme plastiche, fin da piccolo. Questo mi ha portato ad iscrivermi, negli anni Novanta, alla scuola di Belle Arti in Honduras, l’Escuela Nacional de Bellas Artes, una formazione dalla quale uscii laureato nel 1993.

Mi piacerebbe conoscere più da vicino la tua formazione artistica. Ad esempio, chi sono stati i tuoi maestri?
La mia formazione è relativa all’Honduras; lì sono le mie radici e lì c’era la possibilità di vedere il museo e di venire a contatto con opere notevoli. Se dovessi individuare un professore che mi ha ispirato, il primo nome sarebbe quello di Obed Valladores. Si era formato a Carrara e aveva istruito a sua volta la prima generazione di artisti honduregni, tra i quali Dario Rivera. Il laboratorio del mio maestro Valladores si chiamava “Buonarroti” in onore di Michelangelo.

Il Rinascimento italiano è presente nell’immaginario artistico honduregno?
Certo! Noi dell’Honduras guardiamo agli artisti del Rinascimento; gli artisti della mia generazione, ma anche i giovani allievi, studiano Michelangelo. Personalmente, però, mi sento più vicino a Bernini e a Canova.

 Sai che le mani di Apollo e Dafne sono opera di Giuliano Finelli, uno dei quattro carraresi al seguito delle nutrite maestranze del Bernini? Era dotato di uno straordinario talento e di una grande sapienza tecnica. Un virtuoso. Pare che Bernini non abbia più toccato quelle mani.
Per me Apollo e Dafne è il massimo risultato del Bernini, forse la sua opera più grande. Sì, le mani sono straordinarie. Di Antonio Canova amo Le tre grazie e in particolare Paolina Borghese.

E nel classicismo del nostro tempo?
Nel nostro tempo? Non è facile decidere. Diciamo che tra i ’classicisti’, tra gli artisti che creano un dialogo con la tradizione, mi colpisce soprattutto Mitoraj.

Mi piacerebbe sapere se, a partire dai tuoi esordi, pittura e scultura sono stati compresenti. Spesso nelle tue opere i due linguaggi - colore e modellazione plastica - si intrecciano per dar corpo ad un coerente dettato formale. È stato così fin dall’inizio?

Io sono nato come scultore e ho sempre lavorato la scultura; ma la formazione generale dell’Accademia ti porta a sperimentare anche la pittura. Diciamo che, per quanto riguarda la mia ricerca, dal 1995 la scultura tridimensionale si arricchisce della pittura. Ogni opera deve sortire creta o marmo o terracotta, a seconda del tema trattato; oppure servirsi degli apporti della pittura, sempre a seconda del soggetto.

Come se fosse il soggetto a decidere la materia.
Ti faccio un esempio. Per la mia opera, per i soggetti che scelgo, il bronzo non va bene. Non lo uso mai, perché non traduce ciò che voglio esprimere. Uso invece la pietra, la creta, il legno, a volte il cotone. Il simposio del 2001, a Carrara, mi ha dato la possibilità di conoscere e lavorare il marmo, che prima non conoscevo, se non per sentito dire.

Abbiamo toccato i punti di snodo della tua formazione; della tua biografia intellettuale, fatta di maestri e modelli ai quali hai guardato. Ma c’è ancora un lievito segreto che vorrei approfondire ed è il tuo rapporto con l’Honduras. Ad un artista si chiede sempre di che materia è fatto, del suo rapporto con il luogod’origine. Che cosa passa dell’Honduras nella tua opera?
All’Honduras è legata la mia famiglia e il senso di appartenenza profondo e totalizzante che fa di un luogo il ’tuo paese’. E l’Honduras è anche la terra che ha visto la mia prima ispirazione. Lì sono le radici della mia cultura artistica, piena dei suoi colori accesi. Ho lavorato questa materia umana e culturale per quindici anni e dopo questa lunga ricerca ho vissuto una situazione di riflessione sulla mia opera, ho rimeditato sullo stile.

E che cosa è successo durante questo passaggio?
Ho sentito di dover tornare al disegno, di farne qualcosa di più. Di renderlo uno strumento conoscitivo. Mio padre fece le scuole con il pennino e l’inchiostro e io ho deciso di tornare al pennino. La china che vedi nelle mie opere la faccio io, con le foglie di sakatinta, che mio padre mi ha insegnato a trattare.

Adonay, per molti artisti, il disegno rappresenta una fase iniziale; è l’intelaiatura dell’opera, il suo cartone preparatorio; o, più in generale, il disegno è il luogo dove liberamente si approccia all’idea, si prende confidenza con il soggetto attraverso una messa a fuoco aurorale che poi passerà nella messa in opera delsoggetto. Questa fase di studio viene cancellata nella corsa alla perfezione stilistica del finito. La stessastoria del disegno nell’arte occidentale mostra la presenza di fogli, diari, quaderni, taccuini che sembrano ricoprire una posizione ancillare rispetto all’opera in pittura. Perché hai deciso per il primato del disegno?
Sono tornato, e torno sempre, al disegno come ad una necessità personale; per rinnovare lo stile; perché il linguaggio che usavo non si adatta più alla realtà, al mio universo familiare. Ad un certo punto, sento che la ricerca subisce un arresto, finisce per incagliarsi in alcune secche. A me è successo nel periodo in cui lavoravo a Chicago. Mi sono dedicato al tratto, alla pulizia della linea. In molte interviste ho parlato del blocco dell’ispirazione. Un critico mi ha persino detto di non dirlo.

Una linea sintetica che Longhi avrebbe chiamato ’floreale’ per la sua serpentinata musicalità e che, nel recente ciclo per il Vaticano, mi pare sfiori quasi la frase calligrafica, soprattutto nel tratteggio dei volti enelle linee delle architetture a china su fondo giallo.
Il ciclo per la mostra in Vaticano si chiama Re-estructura: sono disegni realizzati a china e pennino. Dopo il blocco creativo sono nati degli esperimenti incentrati sul disegno. Dietro le figure ci sono i pletogrifici che io vidi nelle grotte dei miei luoghi e che ho iniziato a ricreare in alcune tele. Lì ho appreso, per la prima volta, un segno sintetico.

Questo alfabeto disegnativo è per te come una ‘lingua’ con la quale leggi il mondo. Mi viene in mente ciòche Nabokov chiamava “la biografia dello stile”, perché davvero seguire le evoluzioni del tuo disegno significa rivivere dall’interno la fasi del tuo processo creativo. Ti propongo questa riflessione propriosfogliando il catalogo delle tue opere e guardando le immagini presenti nel tuo blog[Adonaynavarro.wordpress.com]. Colpisce la varietà degli stili e dei linguaggi, come se il tuo ‘segno’ nonsi stabilizzasse mai su di un baricentro; ma trovasse il suo punto di forza nell’attraversamento irrequieto degli stili; stili in movimento, spesso così diversi da creare l’impressione di opere uscite dalle mani di artisti diversi.
Sì, il disegno rappresenta per me una vera e propria lingua, della quale ogni volta devo tornare ad impararne le strutture, la grammatica, aggiungere o togliere o correggere le frasi. La metafora calza bene. Sia in scultura che in pittura ho sempre impiegato più stili; e ogni registro formale era legato ad una situazione di vita oltre che ad un’esigenza espressiva.

Il dialogo con la materia è diverso per il pittore e lo scultore. Per il primo, il corpo a corpo con la materiasi fa più docile (c’è la linea, il colore, il disegno), a meno che non si dia il caso di ‘action painting‘ o altriapprocci spiccatamente gestuali; mentre per il secondo, la sfida con la modellazione gestuale, tattile, e con iproblemi messi in gioco dalla creazione tridimensionale, è una condizione permanente dalla quale dipendeil risultato finale dell’opera. Come vivi il passaggio da un linguaggio all’altro? Da un supporto materiale ad un altro?
Questo passaggio è stato presente, nella mia creazione, fino dagli anni della formazione, poi negli esordi e dura tutt’ora. È una condizione che vivo da sempre; ma che non ha mai costituito uno strappo. C’è semmai continuità. Il passaggio, in realtà, è un dialogo di linguaggi e di materiali propri della pittura e della scultura.
Nell’arte delle origini erano fusi, solo più tardi si è teso a separale; per cui spesso chi è pittore è pittore e chi è scultore è scultore. La mia sperimentazione, invece, è sempre aperta a livello di materiali, alla loro possibile commistione. Molti supporti possono stare assieme. In Hicos de mais, un’opera del 2004, ad esempio ho utilizzato legno, cotone, resina, carbonato di calcio. Ma, come ti ho detto, ogni opera, ogni soggetto, può essere realizzato solo in quel materiale, o in quella specifica combinazione di materiali, e non altri.

Noi abbiamo dietro alle spalle un secolo che è stato definito “breve”; ma questa brevità è tutta percorsa daun vertiginoso sperimentalismo in ogni campo artistico, tanto che spesso si sente ripetere che “è statoespresso tutto”. Il Novecento è stato il secolo delle avanguardie storiche; degli antitetici percorsi diPicasso e Dalì; delle correnti informali; dell’arte concettuale; dei riusi materici dell’Arte Povera; del corpo dell’artista sottoposto è performance di ogni tipo. Quanto ha influito la sperimentazione novecentesca sulla  tua opera?
Sulla mia opera ha influito molto la lezione di Marcel Duchamp, il suo riuso ironico e provocatorio degli oggetti della modernità nella chiave del ready-made. Duchamp ha influenzato molto le correnti artistiche honduregne. Ma non amo il facilismo del Novecento. Molti giovano artisti, in Honduras, saltano l’apprendimento artistico per dedicarsi all’astratto. C’è molto del ready-made, ma anche un omaggio al classicismo, in un’opera come Interno/Esterno.
Interno/Esterno è forse l’opera più rappresentativa in questa direzione, quella che mi ha permesso di miscelare la passione per la classicità con l’avanguardia. L’ho realizzata nel 2005 e si trova in una collezione privata in Honduras. Nella parte inferiore, ho mantenuto un registro linguistico classico che riecheggia i modelli delle Veneri, con il panneggio ad effetto bagnato, velificato sulla pelle e con il gioco di pieghe sinuose; dai fianchi in su, tutto si capovolge, si passa ad un altro linguaggio che è quello della musica e dell‘oggetto moderno. Ho scelto così di modellare il busto a forma di chitarra. Ma non è una chitarra della fantasia; è una chitarra reale, che lo spettatore può suonare, può pizzicare. C’e in questa scelta la volontà di rompere la distanza sacrale che divide il pubblico dall’opera; e l’uso della chitarra reale mi dava la possibilità di interagire con lo spettatore, di creare un’unione con chi guarda.

Adonay, tra le tue ultime opere ci sono i Gerberizados, che, come scrive il critico Ramòn Caballero, “contengono campioni di terra, pietra, residui vegetali estratti dalla zona mineraria dove ancora si lavora con il metodo a cielo aperto”; frammenti honduregni racchiusi in piccoli vasetti di vetro viaggiano nel mondo, diventando “metafora preziosa di una nazione”. Caballero la definisce “un’arte reale-surreale”.Una nuova direzione di scavo e di ricerca?
Sì è una nuova ricerca che si affianca a quella del ciclo dei Re-estructura, che invece si mantiene dentro l’esercizio del disegno. Oltre alla scelta dei frammenti, nel vasetto c’è anche la presenza di un codice a barre, ossia di un elemento tecnologico reale. C’è dentro l’informazione dell’Honduras. Sono una serie di cinquanta pezzi. Ma nei Gerberizados c’è anche un intento di tipo civile, la denuncia di un tema forte come quella della miniera e dell’esportazione, presente anche in un’altra serie recente, i Fossilis modernus, fossili custoditi in astucci di legno che fungono da cornice, e attorno ai quali ho disegnato, sempre a china, motivi floreali, piante, alberi.

Adonay ho un’ultima domanda. Pensi che l’arte possa ancora generare del “nuovo”? Che possa ancora raccontare il nostro tempo con icone potenti? Pensi che un artista, insomma, possa ancora essere testimonedel suo tempo storico, mettendosi davanti a uomini e donne, civiltà potere e miti, come la storia dell‘arte ci ha insegnato?
L’arte sempre ha rappresentato la Storia. Ciò che conosciamo del passato è veicolato spesso dall’arte, che è una forma di pensiero. In questo senso, ho trovato molto significativa l’ultima mostra che ho visto a Firenze, Arte torna Arte. Mi sono piaciuti gli artisti moderni che si misurano con il classico. Ad esempio Lorenzo Bartolini e Picasso: mi ha impressionato il loro modo di stare assieme. Anche gli artisti del nostro tempo dovrebbero lavorare, ricercare, sperimentare secondo il loro vocabolario, ma cercando di mantenere una linea di continuità con la tradizione. È un messaggio che invio anche ai movimenti artistici dell’Honduras, invitando i giovani a guardare all’arte del Novecento e, allo stesso tempo, a crescere stando dentro un continuo rapporto di scambio con i maestri della tradizione classica.

"Vanagloria" di Hans Tuzzi



di Mirta Vignatti

Mi sono avvicinata a questo autore e a questo libro che ritengo così importante per un fatto che potrebbe far sorridere: ho un caro amico, pittore molto noto a Trieste, che si chiama Adriano Bon, esattamente come il buon Hans Tuzzi, che questo alias ha scelto (in omaggio a Musil) forse per scindere la sua presenza nel mondo delle lettere dalla sua figura di docente universitario. Tanto per dire come a volte gli incontri con i libri (almeno nel mio caso) possano anche seguire percorsi insospettabili e alquanto bizzarri.
 
Dicevo che ho trovato “Vanagloria” un libro importante. Un libro necessario, aggiungerei, che fa riflettere e ripensare in termini critici la deriva sociale cui stiamo assistendo da ormai troppi decenni e che avvilisce coscienze ed esistenze. Senza tema di smentita, si potrebbe definire il romanzo un moderno “Satyricon” che denuncia la torbida decadenza di questi anni, lo smottamento di terreni che ci illudevamo fossero solidi o stabili, e che invece ci fanno precipitare e ci trascinano via, in un tourbillon di fastose oscenità, di gaie trasgressioni, di corruzione, di arrivismo, di volgarità, di totale assenza di valori reali. Insomma, “ballando ballando” (e anche bevendo, come non ricordare la “Milano da bere”?), in questo Titanic dal naufragio annunciato Tuzzi ci fa percepire il tanfo di marcio, il lezzo di sentina che proviene dalle stive e gli inquietanti giri a vuoto di un motore ormai imballato. E se i padroni del vapore sono (nei 4 anni di stesura del libro, ora già ex) un premier che l'autore chiama Papunà e una sindachessa che “non sa parlare”, c'è ben poco da sperare: andando di questo passo, la metafora del relitto della Costa Concordia, che espone ciò che resta dei suoi muscoli d'acciaio all'isola del Giglio, sarà ben poca cosa al confronto.
 
Più che i Fruttero e Lucentini de “La donna della domenica” (citati da Tuzzi) -come recita la fascetta a firma Corrado Augias-, a me questo libro -che non esito a definire grandioso- ha fatto venire in mente per certi versi “Fratelli d'Italia” di Alberto Arbasino, di cui Tuzzi avrà sicuramente tesaurizzato tutte e tre le edizioni, da buon collezionista e bibliofilo quale è. Come in Arbasino, leggendo “Vanagloria” ritroviamo lo stesso sottofondo di ininterrotto cicaleccio dei tanti personaggi, quel ricorso al “parlato” riportato in presa diretta, i botta e risposta fatti di ammiccamenti, giudizi icastici, quel “castigat ridendo mores”- lieve, peraltro, in Arbasino, tendente invece al tragico in Tuzzi. E ad Arbasino -per estensione- aggiungerei il dimenticato Luciano Bianciardi de “La vita agra”, se non altro per gli stessi sentimenti di corrivo livore nei confronti di certo “calvinismo” meneghino -di cui non resta qui che la parodia triste- unito al culto dell'apparire, già al suo apice negli anni '60 e ora al di là di ogni etica ed estetica. (Oltre agli abiti dei personaggi altolocati, rigorosamente firmati, le automobili qui sono sempre e soltanto mega-bestioni Suv, BMW e Mercedes alto di gamma, contrapposte a meschine Punto “color padella”). Leggendo “Vanagloria” ritroviamo le coordinate di quel paesaggio sociale, politico, morale ancor più desolatamente corrotto e inquietante cinquant'anni dopo la dura metafora bianciardiana, e Milano viene re-identificata come città-emblema di tanta decadenza: Tuzzi (è la sua città e la conosce bene) ce la tratteggia suscitandoci sentimenti di amara e impotente rabbia. La cosiddetta “capitale morale”, derisa fin dal nome -Paneropoli-, è vista storicamente dall'autore come la sede dove, non a caso, si sono verificati nel tempo gli sciagurati colpi di coda della borghesia italiana (fascismo, craxismo, berlusconismo), e di questa borghesia “Vanagloria”, in senso figurato, scrive ora l'epitaffio sulla tomba. La visione d'insieme è decadente e pessimistica, e non vengono offerti segnali di una possibile rinascita o di un'inversione di rotta. Tuzzi presenta infatti uno spaccato della Milano a cavallo del nuovo millennio, descritta attraverso microstorie che hanno come protagonisti docenti universitari, antiquari, dirigenti bancari, avvocati, medici, editori, costruendovi intorno un romanzo polifonico, corale e ricco di intrecci; Tuzzi stesso vi si mette in gioco (lui, così esperto in alias) mimetizzandosi in alcune caratteristiche di più di un personaggio, e cerca di rendere al meglio questo allegorico affresco sociale arricchendolo anche con la sua scrittura aforistica e con l'ironia unita al paradosso. E se a volte alcuni passaggi del romanzo possono far sorridere il lettore, se le battute pronunciate da qualche personaggio colgono il segno, il clima descritto resta comunque tragico e non c'è traccia di speranza: soltanto una livida episodica disperazione riesce a dare un qualche spessore a certi personaggi nati inesorabilmente “piccoli piccoli” e nutriti solo di squallide meschinità, se l'unica grandezza alcuni finiscono per acquisirla soltanto con la morte. Come detto, il mondo che ci viene mostrato è in piena decadenza: morale, etica, politica e valoriale e ci viene descritto con un mimetismo che probabilmente sarebbe piaciuto a Pasolini, al Pasolini stigmatizzatore delle derive della borghesia italiana già in essere prima degli anni '70, intendo, quando quelle stesse derive stimolarono in Bianciardi le sue chimere anarchiche.
 
I personaggi descritti sono circondati da un alone di tanta vacuità che viene in mente quella battuta di Gassman in “La cena” (1998) di Ettore Scola: “Siete talmente vuoti che se mi affaccio su di voi mi vengono le vertigini”. Così come anche ad altri film di Scola viene da pensare, per esempio “La terrazza” (1980), a proposito degli intellettuali cinquantenni in crisi, anche se molti critici hanno visto dietro “Vanagloria” e la sua struttura -più che Scola- certa cinematografia di Altman (ma è un accostamento che non mi sentirei di condividere in pieno).
 
Quanto al linguaggio, collocare il Tuzzi di “Vanagloria” -come qualcuno ha fatto- tra i post-gaddiani (e peraltro il Gadda di “Eros e Priapo” è citato dall'autore, come anche Pizzuto) è forse eccessivo e non rende al nostro un buon servizio. Tuzzi giustamente si impegna in una presa diretta di una koiné meneghina, differenziata tra i contenuti colti e i toni snob di ambienti accademici e di professionisti della finanza e dell'editoria e lo slang basico delle mille parole (un “neo-baluba”, senza offesa per i dignitosi idiomi sub-sahariani) dei giovani e dei subalterni. Nell'ambito delle sue riflessioni usa poi un linguaggio espressivo, fortemente ancorato alla cultura classica e ricco di citazioni (forse eccede un po' troppo in esibizionismo culturale) però aperto anche a invenzioni linguistiche e giocando spesso col calambour e con la polisemia. Ma gli impasti linguistici dell'ingegner Gadda erano altro, differenziati con cura per geografie e per ceto, e credo che qui non sia il caso di scomodarlo con paragoni di azzardata sostenibilità.
 
Tuzzi vuole trasmetterci tutta la sua indignazione verso il meschino piccolo mondo post-moderno che ritrae, tutta l'ottusità e lo squallore morale dei suoi personaggi, e non si perita (giustamente credo, perché funzionale alla caratterizzazione di quel mondo) di riportarne battute e doppi sensi, avvilenti barzellette, semplificazioni e luoghi comuni. (“Tutti gli scrittori ebrei americani sono scrittori del cacchio. Come Moravia del resto. Roth non è, in questo senso, che la più dichiarata delle loro derive.”
 
“Nella stagione degli amori, mentre i maschi combattono fra loro facendo rimbombare tutto il Gran Paradiso dell'urto delle lunate corna, cosa gridano le femmine degli stambecchi? (…) Viva il cozzo!”)
Riporto queste due gemme, estrapolate da un florilegio pressoché sterminato di siffatte amenità, per far capire il registro della comunicazione volutamente becera che caratterizza i personaggi altolocati di Tuzzi, e tra coloro che se la ridono ammiccando c'è anche un emerito preside di Facoltà. Eppure, vuole farci pensare l'autore, non è così che ormai si parla (fuori onda e non solo) nel mondo della politica, del giornalismo, della comunicazione, della cultura? Non è questo l'encefalogramma piatto della nostra società, “ingaglioffita” e omologata al basso? E ancora, a proposito dei linguaggi, mi viene da citare il passo dei due giovani trentenni che aspettando dal barman i loro “Manhattan” (non si è “nerd” a caso) si scambiano battute del tipo: “Dammi la tua view su questa faccenda di Israele e Gaza”; non viene in mente Nanni Moretti in “Palombella rossa” (1989) quando prende a schiaffi la povera giornalista che usava termini come “Kitsch”, “cheap” e “fuori di testa”, urlandole in piena isteria “Ma come parla? Le parole sono importanti! Come parla?”?
 
La corruzione del linguaggio interessa Tuzzi perché la identifica come segnale di una ben più articolata corruzione, e non manca di sottolinearla a più riprese. Nel bailamme di chiacchiericcio, pettegolezzi, intrighi tra sesso e potere, agli occhi del moralista Tuzzi tutti i suoi personaggi perseguono desideri e illusioni senza onore né bellezza né futuro. Quasi tutti appartengono alle classi medio-borghesi della società, sono professionisti di prestigio, ma hanno perso quello che un tempo si intendeva per “classe”, imbarbariti nel linguaggio, nei comportamenti, nelle aspirazioni. Il vortice che finirà per inghiottirli è inesorabile: come detto, solo la morte regala a qualcuno di loro una certa dignità. E l'autore, con l'ultimo personaggio che muore in solitudine, ci regala pagine di alta poesia, inducendoci umana pietas dopo tanta rabbia e indignazione. Toccanti, molto ben descritti e di grande forza allegorica sono i suoi ultimi momenti, quando nello stupore che precede quella inaspettata morte, Massimo Rost-il poeta- ripesca da qualche meandro della memoria i versi e le note pateticamente melò di “Granada” cantata da Claudio Villa. E con quei versi che echeggiano nella sua mente l'autore lo fa morire. Non si uccidono così anche i cavalli?

Hans Tuzzi, “Vanagloria”, Bollati Boringhieri 2012.

18 novembre 2012

"Piccola mappa per la fantascienza tricolore" di Luciano Luciani




 

Dopo aver assunto dosi massicce di sf nel corso della prima metà dell’esistenza, ora mi limito alle razioni di sopravvivenza, tra l’altro sempre più contaminate da controverse ibridazioni. Oggi non sopporto più le saghe stellari e neppure le invasioni aliene, mentre il cyberpunk e il fantasy continuano a provocarmi fastidiose irritazioni, non solo metaforiche, dell’epidermide. Mi piacciono sempre, invece, le speculazioni tra storia e fantascienza, il “che cosa sarebbe successo se…, “le ucronie, insomma, e, per una pulsione che non mi è ancora del tutto chiara, i disastri e le catastrofi planetarie, tipo Una ruga sulla Terra o La morte dell’erba di John Christopher. Recentemente ho ri-riletto, e con piacere, Addio Babilionia, di Pat Frank, un buon vecchio libro, targato 1959 appartenente al filone apocalittico-nucleare. Vorrà dire qualcosa?

E gli Autori italiani? Per la verità, me ne vengono in mente pochini e i loro libri sono disposti lungo una linea che prescinde sia dall’originalità tematica, sia dalla qualità stilistica. Sentimentale piuttosto, per le emozioni che seppero suscitare nel cuore e, perché no?, nella pancia del Giovane Lettore di allora.
Ne fornisco una modesta, sommaria, personalissima, e quindi arbitraria, mappa: chissà, magari, qualcuno potrebbe ritrovarvi le tracce anche della propria biografia intellettuale.

Samy Fayad, Ulix il solitario, “Urania”, n. 208, 1959.
Letto alle soglie dell’adolescenza, mi impressionò per l’acuta sensibilità dell’Autore nel rielaborare il mito dell’eroe omerico, proiettandolo in un futuro non indistinto, ma ancora tangibile. Navigatore stellare alieno, naufrago sul nostro pianeta, accogliente sino a indurre pericolose forme di oblio, Ulix non rinuncia mai alla speranza di poter tornare un giorno a unirsi all’amata Karen, distante anni luce e, forse, persa per sempre. La sua tenacia lo premierà? A quel che ricordo, sì.
Narrazione di una diversità e dell’isolamento che ne deriva, condotta secondo toni elegiaci più che tragici, Ulix il solitario è opera di uno scrittore, Samy Fayad, di origini libanesi, nato a Parigi nel 1925 e fattosi napoletano alla fine degli anni trenta. Autore di radiodrammi e testi teatrali di qualche notorietà, portati al successo da Nino Taranto, Fayad intercetta con disinvoltura la scrittura fantascientifica in questa e in un’altra occasione, La collina di Hawotack, “Urania”, n. 261, 1961, di cui conservo vaga, eppure non sgradevole, memoria.

Ennio Flaiano, Un marziano a Roma, 1954
Letto, per fortuna, da adulto. Così, è stato possibile gustare fino in fondo gli umori corrosive dello scrittore abruzzese, la sua vena satirica, il suo acuto senso del grottesco. Racconto lungo, nato probabilmente come reazione scettica all’eccitazione diffusa per i primi avvistamenti di “oggetti non identificati” presenta questo incipit secco, essenziale:
12 ottobre. Oggi un marziano è sceso con la sua aeronave a Villa Borghese, nel prato del galoppatoio. Cercherò di mantenere, scrivendo queste note, la calma che ho interamente perduta all’annunzio dell’incredibile evento, di reprimere l’ansia che subito mi ha spinto nelle strade, per mescolarmi alla folla. Tutta la popolazione della periferia si è riversata al centro della città e ostacola ogni traffico. Debbo dire che la gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza che poteva sembrare assurda ieri e che di ora in ora si va invece facendo più viva. La speranza ‘che tutto cambierà’ “. Ma la novità dura poco… Preso nei ritmi blandi, molli della Capitale cattolica e democristiana, Kunt il marziano, per niente minaccioso, anzi gentile e amabile perde velocemente di credibilità e d’interesse e finisce anche per suscitare qualche sospetto: “Ma che è venuto a fare?”, comincia a chiedersi qualcuno… E, nel giro di poche settimane, da ospite d’eccezione si trasforma in un forestiero mal sopportato che non vede l’ora di tornarsene, melanconicamente, sul suo rosso pianeta: “Si parla … di una sua prossima partenza, sempre se riuscirà a riavere l’aeronave, che gli albergatori hanno fatto, si dice, pignorare”.
Testo di un’ironia tagliente come un rasoio affilato, degno della migliore tradizione pamphlettistica europea, Un marziano a Roma, utilizza l’allora recente e sempre più fortunata moda fantascientifica per intenzioni, nient’affatto bonarie, di critica sociale e di costume. È, poi, mia convinzione a Flaiano, eccezionale uomo di cinema, critico e sceneggiatore, non dovessero essere sconosciute le suggestioni di Ultimatum alla Terra, 1951, di Robert Wise, forse il primo film Usa anni cinquanta che ci proponga l’immagine di un extraterrestre mite e pacifico.

Gilda Musa – Inisero Cremaschi (a cura di), I labirinti del terzo pianeta Nuovi racconti italiani di fantascienza, 1964
Correva il lontano 1964 e la pubblicazione di questa antologia rappresentò, più che una novità editoriale, un vero e  proprio atto di coraggio intellettuale e un’affermazione di autonomia letteraria. Tra i propositi esplicitati dai curatori nella Presentazione la difesa, valorizzazione e promozione della science fiction indigena perché “ Rispetto alle sorelle ‘maggiori’ americana e sovietica, l’italiana ci appare meno evasiva, meno didascalica, meno consolatoria, meno retorica, meno frustrata. Capovolgendo al positivo: è spesso ironica, scaltra, orgogliosa, scettica di fronte all’angoscia ‘di un’epoca che ha paura dei progressi della tecnica’ e disincantata nei riguardi delle cosiddette Tenebre dell’Abisso; allusiva, satirica, demistificatoria, portatrice spesso di idee precise e di accuse non sterili; problematica”. La presenza, poi, tra gli Autori antologizzati di scrittori non ristretti alla sola narrativa “di genere”, ma di ampia qualità e larga notorietà (è il caso di Libero Bigiaretti e Mario Soldati) conferma l’attenzione con cui mezzo secolo fa si guardava alla sf intesa come la letteratura più adeguata per misurarsi con le reazioni dell’uomo agli strutturali cambiamenti indotti dalla scienza e dalla tecnologia. Un libro importante, dunque, I labirinti del terzo pianeta, anche se gli anni trascorsi ne hanno eroso, e non poco, le novità tematiche e i pregi stilistici. Regge ancora bene a una rilettura Terrestrizzazione di Gilda Musa, che, proiettandolo su altri tempi e pianeti, rielabora l’eterno tema dell’aggrovigliato intreccio tra ragione e passione, pulsioni e sentimenti.

Primo Levi, Vizio di forma, 1971
Venti brevi storie per intervenire sui temi allora emergenti nel dibattito sui destini della civiltà, sul rapporto tra scienza e cultura, tra morale e tecnologia. Le trasformazioni dell’ambiente e il suo degrado a causa della industrializzazione e dello sviluppo tecnologico; la creazione artificiale di esseri viventi; la manipolazione genetica; il potere pervasivo e totalizzante della pubblicità; l’alienazione dell’individuo e lo stringersi intorno a lui di un progressivo e impercettibile sistema di leggi assurde e vessatorie: questi gli spunti che Levi dipana senza epica e senza eroi: Figli del proprio tempo i suoi personaggi che si muovono sugli scenari consueti, grigi, di un quotidiano monotono e deprimente. Il futuro non promette niente di buono: nessuna nuova libertà, ma inedite servitù, mentre il progresso scientifico è destinato a generare solo mostri se non è accompagnato da quello sociale ed etico. Una lezione non nuova, ma nessuno finora l’aveva ‘tradotta’ nella nostra letteratura.

Roberto Vacca, La morte di Megalopoli, 1974
Allo stesso clima di sfiducia nelle “sorti magnifiche e progressive” dell’uomo appartiene questo breve, e brutale, romanzo nelle cui pagine l’Autore rielabora in chiave narrativa i contenuti del suo fortunato saggio Il medioevo prossimo venturo, 1971, oggi considerato una pietra miliare della futurologia apocalittica. Ambientato in un futuro individuato nei primi anni del secolo scorso, La morte di Megalopoli descrive il repentino decline and fall degli Usa, al culmine della loro potenza economica, politica e militare a causa del collasso di un’unica, delicatissima struttura logistico-informativa. Un “punto di rottura” che si rivelerà fatale perché determinerà un “effetto domino” inarrestabile capace di trascinare alla rovina le più importanti città del Paese più progredito del mondo e tutti i suoi abitanti: i livelli di civiltà regrediranno all’anarchia feudale e la società si troverà a essere dominata da feroci, spietati Signori della Guerra.
Un libro già carico di tutte le paure della fine incombente del millennio che, nel susseguirsi di crisi energetiche e disastri finanziari, guerre locali e tensioni sociali, si rivelava sempre più inabitabile.
Inquietante, a dir poco, a leggerlo allora; attuale, e quindi ancora più angosciante, ai nostri giorni.

Francesco Mei, La giungla del futuro, Guida al mondo di domani attraverso la fantascienza, 1978
Il libro più utile per tentare di  mettere ordine e, soprattutto, dare senso alla sempre più complessa materia fantascientifica e alle sue molteplici connessioni, corrispondenze e suggestioni? Per me è stato questo, ormai, credo, introvabile, La giungla del futuro . Tra i suoi meriti, inalterati a oltre trent’anni di distanza, quello di rinunciare programmaticamente a offrire un panorama esaustivo della letteratura di fantascienza, storia e Autori, peraltro già realizzato con piena soddisfazione degli appassionati e dei lettori da Brian W. Aldiss, Un miliardo di anni La storia della fantascienza dalle origini a oggi, 1974 e Jacques Sadoul, Storia della fantascienza, 1975. La giungla del futuro procede, invece, per temi, in genere ben individuati ed elaborati, in dieci capitoli densi di riferimenti letterari, filosofici, sociologici: I. La fantascienza tra apocalisse e rivoluzione; II. Il principe in “Utopia”; III. La metamorfosi biologica; IV. I Robot in mezzo a noi; V. La frontiera delle Galassie; VI. L’eclissi dei sentimenti; VII. Le ombre nella caverna; VIII. Lo specchio e il labirinto; IX. Dai mutanti all’invisibile; X. Tutti i nostri domani.
Libro di cui, sia detto senza alcuna intenzione irriverente, “come per il maiale non si butta via niente”, raccomanderei anche l’ancora oggi utile Appendice bibliografica (films, opere e saggi critici) e le Note bibliografiche per una definizione della science fiction.

Inisero Cremaschi ( a cura di) Universo e dintorni, 29 racconti italiani di fantascienza, 1978
Quindici anni dopo I labirinti del terzo pianeta, una nuova antologia puntualizza lo stato d’opera della fantascienza italiana. Ed è un bilancio positivo.
Ai pionieri italiani del genere si aggiunge ora una nutrita schiera di giovani Autori ormai scesi dall’astronave e, invece, orientati verso una narrativa capace di indagare, più e meglio, tanto i motivi profondi della condizione umana,quanto le ragioni sociali del disadattamento, dell’infelicità, dell’alienazione. Sì, Universo e dintorni annuncia diverse buone nuove: l’ampliarsi del numero degli scrittori e, presumibilmente, dei lettori; la progressiva caduta d’interesse per i marchingegni figli di una fantasia tecnologica sempre più fine a se stessa; un’apprezzabile tensione umanistica dei contenuti della sf italiana i cui Autori cominciano a porsi seriamente non solo il problema del “cosa”, ma anche del “come”. Una narrativa, dunque, finalmente adulta e in grado di posizionarsi tra fatiche e ritardi “nei territori della letteratura generale”: Lo confermano anche alcuni racconti rimasti, da allora, impigliati nella rete a maglie irregolari della memoria: Davanti al Palazzo di Vetro di Vittorio Catani, La volpe stupita di Vittorio Curtoni, Cronaca dal neolitico di Giuseppe Pederiali.

Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore, 1994
Spietato, orgoglioso, ma intimamente assillato da mille dubbi, totalmente impegnato al servizio della Chiesa dell’autunno medioevale, Nicolas Eymerich, inquisitore domenicano, e il suo creatore, lo scrittore bolognese Valerio Evangelisti, fanno la loro apparizione sugli scenari della sf italiana ed europea alla metà degli anni novanta, destinati l’uno e l’altro a segnarne, in profondità e sino ai nostri giorni, contenuti e modi espressivi. Fortunato personaggio seriale (siamo, più o meno, al decimo romanzo), Eymerich è una figura storicamente definita che il suo Autore ha trasformato in un arcigno “indagatore dell’incubo”. Colto, intelligente, affidabile, e soprattutto completamente privo di scrupoli, vede richiesti i suoi servizi ogni qualvolta nell’Europa del XIV secolo si manifestino fenomeni misteriosi e inquietanti che richiedono interventi radicali e spregiudicati. Al punto da concepire soluzioni che riportano al nostro presente o a un oscuro futuro: una liberissima contaminazione tra storia e fantasy, fantascienza e horror, a volte digeribile, talora indigesta, che gli appassionati dei generi e dei sottogeneri identificano come New Weird, ovvero un “bizzarro di tipo nuovo” - capofila niente meno che Stephen King, il Maestro – che non esclude interessi e sensibilità di natura sociale politica.
Da assumere, secondo il mio modestissimo parere, a piccole dosi.

Ugo Malaguti e Mario Tucci (a cura di ), A Lucca, mai!, 1996
Orgogliosa, ma fuori tempo massimo, rivendicazione di diritti, autonomia e consapevolezza della fantascienza nazionale quella emersa a Lucca tra l’8 e il 10 novembre 1996. L’occasione è offerta da uno degli incontri periodici tra autori, critici, editori, lettori appassionati di questo particolare tipo di letteratura. Promuovono la rivista “Futuro Europa”, diretta da Lino Aldani e Ugo Malaguti e la editrice bolognese Perseo Libri, due esperienze strettamente intrecciate tra loro e in quel momento egemoni sullo scenario della sf italiana. Ospitalità del Comune di Lucca, governato in quella fase dall’unica amministrazione di progresso della sua storia.
Una bella tre giorni: sale piene, gente in piedi, dibattito appassionato: quasi una riconsacrazione, proprio nella città della “maledetta” provocazione di Carlo Fruttero 35 anni prima, che tanto piombo aveva depositato sulle ali della giovane nostra letteratura che tentava di raccontare la storia del futuro. Così scrisse allora, a proposito della manifestazione lucchese, Renato Pestriniero. un autore tra i più noti della fantascienza tricolore: “… il disco è atterrato e qualcuno, con un piccolo passo, è sceso.
È stato un piccolo passo ma un balzo gigantesco per la fantascienza italiana.
Io ero uno di quelli che hanno avuto la ventura di assistere sia al piccolo passo che al grande balzo.
È accaduto alle ore 16:27’:42” del 9 novembre 1996 nella Piazza della Tranquillità di un luogo chiamato Lucca, in Italia, alla periferia dell’impero.
L’impresa è il risultato di tempo, sacrifici e tenacia, ma anche di consapevolezza e fiducia.
Mi sorge però il dubbio: il fatto non è stato trasmesso dalle TV satellitari e quindi può darsi che non si avvenuto affatto.
Comunque sia, ho l’impressione che, in futuro, il 9 novembre 1996 rappresenterà qualcosa, una sorta di nuova frontiera. Mah!”
A oltre 15 anni di distanza, possiamo dire che non è andata così: Lucca, 9 novembre 1996 è stata solo l’opportunità per un bilancio, un momento di consuntivo. Gli occhi di chi era presente in quei giorni hanno saputo guardare al passato piuttosto che all’avvenire. Un limite imperdonabile per chi ha la pretesa di raccontare il tempo che verrà.
Cosa resta di quelle giornate? Un libro: una bella antologia di 34 racconti e 36 scrittori che rappresentano il meglio di oltre quarant’anni di storia della fantascienza italiana. A due autori lucchesi, Maurizio Antonetti e Alessandro Fambrini, il compito delicato e altamente significativo di dimostrare che ispirazione e una scrittura piacevole possono davvero trovare casa dappertutto.

Tullio Avoledo, Mare di Bering, 2003
Mika, il protagonista, è un giovane che si ingegna a sopravvivere in un durissimo nord est italiano, fornendo tesi di laurea “precotte” a laureandi senza voglia di studiare, competenze e talenti. A scriverle non è nemmeno lui, ma le appalta a Rabo, un coltissimo reduce del movimento padovano del ’77. Precario esistenziale, ma intraprendente e iperattivo, Mika non riesce a trovare serenità neppure nella relazione con la sensuale Amanda, di cui è, forse a ragione, geloso fracico. I suoi veri guai, però, iniziano quando gli viene proposto di procurare, costi quello che costi, una laurea honoris causa alla giovane e bellissima amante di un maggiorente locale…
Storia di un eroe del nostro tempo, vivace e ben raccontata, Mare di Bering recupera non pochi valori narrativi aggiunti dalla ambientazione vagamente ucronica. Avoledo, infatti, con consumata disinvoltura, fa muovere i suoi personaggi su scenari che assomigliano al nostro, ma che, però, per qualche modesto e inavvertito particolare se ne distaccano: la moneta si chiama “nuovo euro”, circola in un’Unione Europea ridotta a sette Stati a guida ucraina, da cui Francia e Regno Unito si sono sfilate da tempo. In Italia le sedi istituzionali sono protette da filo spinato e cavalli di frisia mentre l’immagine incombente e accattivante del suo Lider Maximo incombe da manifesti che occhieggiano ossessivamente in tutte le piazze e agli angoli delle strade: la casa editrice del goveno pubblica in edizione tascabile l’Opera Omnia di Goebbels che si rivela un grande successo editoriale Nel resto del mondo, invece, il potere politico è nelle mani di donne tostissime: negli Usa Hillary Rodham è alla vigilia del suo terzo mandato presidenziale e costringe all’esilio i vignettisti satirici che le si oppongono; in Francia la presidente si chiama Deneuve... Un incontro al vertice, tutto al femminile, è previsto a Reykjavik. Il mondo si commuove per le sorti di un sottomarino nucleare ucraino sepolto nei ghiacci del Mare di Bering.
Asciutta ed essenziale la scrittura di Avoledo è una continua sorpresa: per la ricchezza delle citazioni letterarie, per la varietà dei richiami musicali, cinematografici, fumettari che definiscono i personaggi e danno loro spessore e personalità all’interno di un mondo cattivo e senza regole: se non è il nostro, certo poco ci manca.



Da Mai dire “A Lucca mai!” Uno sguardo sulla fantascienza italiana, Libratti nuova serie, Marco Del Bucchia editore, Massarosa (Lu), 2012