31 maggio 2010

"GIUSEPPE BANDI, garibaldino e giornalista" di Luciano Luciani

Bisogna ammetterlo: noi italiani, specialmente le giovani generazioni, ignoriamo tutto o quasi del nostro Risorgimento nazionale. Acculturati ai miti di un immaginario collettivo estraneo, importato e imposto dall’esterno, conosciamo in maniera particolareggiata le vicende e gli “eroi” della conquista del West o della guerra di secessione americana, ma aldilà di uno studio scolastico - manualistico sappiamo assai poco di una fase decisiva nella formazione del nostro Paese.

Assistiamo giustamente commossi a trasposizioni cinematografiche che raccontano dello sterminio, nel secolo scorso, degli indiani d’America, ma continuiamo, però, ad avere scarsa conoscenza della repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia, un secolo e mezzo fa.

Ancora un altro esempio di questa colonizzazione culturale: l’assedio di Fort Alamo (1836) e la sua “epopea” – in fondo una delle tante manifestazioni dell’imperialismo americano nei confronti del debole vicino messicano – sono conosciuti più di altre epiche a noi più vicine e di segno certamente più democratico, come, sempre per rimanere nell’ambito degli assedi, le vicende della Repubblica romana e della Repubblica di Venezia del 1849.

Ci sarebbe, insomma, ancora quasi intatto e tutto da scoprire un patrimonio di fatti eroici e meno eroici, di personaggi, di esili, di fughe, di amori, di tradimenti cui attingere a piene mani per riequilibrare questa situazione, per recuperare, come già argomentava trent’anni or sono un intellettuale moderno e raffinato come Luciano Bianciardi (che ne sapeva sia di vicende risorgimentali, sia di Far West), la parte migliore, la più generosa e vivace del nostro passato prossimo.

Questa ricchezza tematica è costituita in gran parte dalla epopea garibaldina, narrata nell’abbondante memorialistica che per circa mezzo secolo compagni, commilitoni ed ammiratori di Garibaldi seppero instancabilmente alimentare: autori come Ippolito Nievo, Alberto Mario, Giuseppe Guerzoni, Anton Giulio Barrili, per ricordare i più noti, meriterebbero una maggiore attenzione dalla editoria alla scuola.

Questa premessa, un po’ polemica e un po’ sconfortata, serve per introdurre quel Giuseppe Bandi autore de I Mille, il testo più affascinante sull’impresa dell’Eroe dei due mondi che anche un critico severo come Benedetto Croce giudicava il frutto più riuscito nell’abbondante memorialistica ispirata alle imprese in camicia rossa.

Nato nel 1834 a Gavorrano in provincia di Grosseto, dopo aver studiato ad Arezzo e Lucca, si laureò in giurisprudenza all’Università di Siena. Mazziniano, segretario del comitato fiorentino della Giovine Italia, come tanti suoi coetanei romantici alternava la poesia all’iniziativa politica. Così nel 1857 esordiva alle lettere con una raccolta poetica dal titolo assai indicativo: Versi italiani. Fermato una prima volta in occasione dei moti repubblicani di Livorno, arrestato prima nel marzo e poi nel luglio 1858, fu condannato ad un anno di reclusione che scontò nel carcere di Forte Falcone a Portoferraio nell’isola d’Elba. Scarcerato subito dopo la pacifica rivoluzione di Firenze e la partenza del Granduca nell’aprile del 1859, il Bandi si arruolò volontario e partecipò alle operazioni di guerra in Lombardia. Sottotenente nella Divisione toscana dell’esercito dell’Italia centrale, venne scelto da Garibaldi come ufficiale per la sua ordinanza. L’anno seguente, di guarnigione ad Alessandria, venne chiamato da Garibaldi per partecipare alla preparazione della spedizione dei Mille. Accorso immediatamente a Genova, il Bandi seguì il Generale da Quarto a Capua. Ferito a Calatafimi, promosso capitano e poi maggiore, assegnato alla brigata Medici, tornò a combattere a Milazzo meritandosi le lodi di Garibaldi (“Bandi, siete un eroe!”) e al Volturno.

Per dirla con lo storico inglese Denis Mack Smith era “un rivoluzionario, un apostolo dell’azione, un repubblicano, tre atteggiamenti che venivano ugualmente biasimati dai benpensanti dell’epoca”. Ritornato nell’esercito regolare riuscì a conservare il suo grado di maggiore e al comando del suo battaglione si distinse in occasione della sfortunata battaglia di Custoza (1866) e fu decorato con la croce dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Cresciuti i motivi d’attrito con i suoi superiori, questo garibaldino per istinto e temperamento lasciò l’esercito nel 1870.

Si dedicò allora al giornalismo. Collaborò prima alla “Nazione” di Firenze, diresse poi la “Gazzetta livornese” di cui divenne proprietario nel 1876. Nel 1877 fondò “Il Telegrafo”. Penna amabile del giornalismo italiano, seppe sempre mantenere una sua autonomia di giudizio ed una sostanziale libertà di critica anche quando i suoi amaci e commilitoni salirono al potere. Nel 1889 fu preso di mira dagli anarchici di cui aveva condannato l’uso del terrorismo: all’inizio dell’anno una bomba fu fatta esplodere nella direzione dei suoi due giornali. Nel 1893 altro attentato contro di lui e l’anno seguente, a causa di alcuni articoli nei quali criticava con forza l’omicidio politico per mano anarchica del presidente della Repubblica francese Sadi Carnot, il 1° luglio venne ucciso a pugnalate.

Eppure il Bandi si era dimostrato tutt’altro che insensibile alla questione sociale e in occasione dei fasci siciliani aveva scritto che quelle agitazioni erano “il frutto di odi accumulati da generazioni di uomini ridotti allo stato di vita bestiale, contro generazioni di sfruttatori che per stolto egoismo, riducendo alla disperazione i loro sottoposti, stanno per trarre il Paese, se stessi ed altrui alla completa rovina”. Non rinnegare mai il proprio passato, denunciare le durissime condizioni di vita delle classi subalterne che iniziavano ad affacciarsi sulla scena della storia, rifiutare ogni simpatia a quanti pensavano di migliorare la società con il terrorismo e gli omicidi politici, costò caro al Bandi: la sua posizione coraggiosa e non conformista all’interno dell’asservita pubblicistica del tempo lo spiazzò. L’anziano garibaldino pagò con la vita il suo imperterrito esercizio della ragione.

20 maggio 2010

"Ieri" di Agota kristof

di Gianni Quilici


E' un romanzo, “Ieri” di Agota Kristof, su due ossessioni: l'amore per una donna, un amore fantasmatico, che diventa reale; e per la scrittura, lo scrivere come necessità e riscatto.

E' un romanzo su una condizione: la condizione di estrema solitudine e di abbrutimento. Dietro c'è un'infanzia difficile, un delitto (così pensa il protagonista), la fuga dal paese di origine, un paese poverissimo e disperato in un altro ricco e anonimo, dove gli stranieri poveri vivono ghettizzati, con un lavoro al massimo livello alienato: compiere lo stesso gesto tutta la vita.

E' un romanzo di rivolta anche, di una rivolta disperata, cioè impotente, in cui l'unica possibilità è la fuga nell'immaginario e l'autodistruzione.

E' dunque un romanzo necessario, ma anche originale. L'originalità è nello sguardo del protagonista disperato e determinato, teso fino allo spasimo, sul filo di un desiderio di morte, a tratti, folle.

E' nello stile secco e realistico, che diventa, in alcuni capitoli, in modo verosimile, quasi surreale per troppa disperazione.

L'inizio della storia: Tobias Horvath è un emigrato che vive in una cittadina dell’Europa centrale. Solitario e silenzioso, fa l’operaio in una fabbrica di orologi. Un’infanzia tormentata e l’ombra di un delitto commesso in passato lo hanno spinto a rifugiarsi in un paese straniero dove conduce una vita grigia e disperata, addolcita soltanto dall’attesa del grande amore: Line, la donna dei suoi sogni...

Da questo romanzo è stato tratto il film “Brucio nel vento” di Silvio Soldini.


Agota Kristof. Ieri. (Hier). Traduzione di Marco Lodoli. Einaudi.


"La doppia vita di Rimbaud" di Edmund White

di Gianni Quilici


L'inizio: “ Quando avevo sedici anni, nel 1956, scoprii Rimbaud. Ero convittore a Crabrook, un collegio maschile nei pressi di Detroit, e il coprifuoco era alle dieci. Ma io sgaiattolavo fuori dalla camerata e andavo nei bagni, dove una lucetta fioca pendeva dal soffito e rimanevo seduto sulla tazza finché non mi si addormentavano le gambe(...) Io stavo lì, a leggere e rileggere le poesie di Rimbaud”.

Edmund White, scrittore statunitense, così inizia raccontando la vita di Arthur Rimbaud.

E' un libro certamente personalizzato, White è un narratore non un erudito, non è però narcisista, ha il rigore, invece, dello studioso, avendo letto e indagato i testi e la vita di Rimbaud, i libri sul poeta e il contesto letterario in cui visse.

White, inoltre, è pure critico sottilissimo delle poesie del grande poeta.

Da apprezzare, infine, l'umiltà di un romanziere di successo, che si piega all'oggetto della sua analisi, quando sarebbe stata facile la tentazione di prevaricare con il proprio io come fece invece Henry Miller nel suo libro su Rimbaud “Il tempo degli assassini”.

C'è una “doppia vita” in Rimbaud come sottolinea lo stesso titolo del libro. “Poeta maledetto” fino a 21anni, poi mercante e avventuriero in Africa. Leggendo ho pensato che ci sia comunque un filo che lega i due periodi, separati, invece, nella presenza-assenza della poesia. Il filo è il bisogno di sperimentare con tutti i sensi: muoversi nello spazio freneticamente, vedere, sottoporsi a fatiche inaudite.

E' incredibile, infatti, l'elenco dei paesi e delle zone da Rimbaud attraversati, spesso a piedi (a volte ripetutamente), spesso senza soldi. Paradossalmente il periodo forse più affascinante è quello africano non solo perché è poco conosciuto, quindi misterioso (di alcuni anni non sappiamo quasi nulla), ma per la vita miserabile che visse in luoghi selvaggi e inospitali come si desume nelle sue (poche), ma lancinanti, lettere dall'Abissinia.

Si potrebbe pensare che Rimbaud abbia scritto due tipi di poesie: una con le parole, una, estremizzando la sua vita, con gli atti.


Edmund White. La doppia vita di Rimbaud. (tit. orig. Rimbaud. The Double Life of a Rebel. Traduzione di Giorgio Testa. minimun fax. 14 euro.

"Tess of the d'Urbervilles" di Thomas Hardy

di Enza Flore

Ogni epoca si è confrontata con la questione femminile e da sempre le persone più sensibili hanno dato il loro contributo per liberare la donna dalle ingiustizie del dominio maschile. Sul finire dell’Ottocento, lo scrittore inglese Thomas Hardy (1840 1928), nel suo romanzo Tess of the D’Urbervilles, tratta del problema della doppia morale in campo sessuale che vigeva nell’età vittoriana. Un uomo poteva avere relazioni sessuali extraconiugali prima e durante il matrimonio senza perdere la sua rispettabilità sociale, mentre per la donna era diverso: qualsiasi relazione sessuale fuori dal matrimonio , anche in caso di stupro, portava la società a considerarla una prostituta e ad emarginarla.

La storia è quella di Tess, una povera ragazza di campagna che all’età di quindici anni viene violentata da Alec, figlio di una famiglia aristocratica, presso cui aveva trovato lavoro. La ragazza torna al villaggio, fra lo sconcerto dei suoi genitori, quando scoprono che è in attesa di un figlio. Tess soffre per l’isolamento che la piccola comunità del villaggio le riserva, mentre nessuna censura morale viene riservata nei riguardi dell’aristocratico padrone, che continua a essere rispettato, come se niente fosse. Ma ancora di più soffre dopo la morte del suo amato bambino, che è costretta a seppellire fuori dal cimitero, in un terreno sconsacrato, in quanto figlio del peccato.
Tess non si ribella; accetta passivamente il suo destino ‘naturale’ e come un fiore non si lamenta quando viene calpestata. Continua a lavorare nei campi per aiutare la sua poverissima famiglia e mentre lavora come mungitrice presso un’azienda agricola gestita con criteri moderni, incontra un giovane borghese, Angel, in fuga dalla sua famiglia che lo vuole avviare alla carriera ecclesiastica, mentre lui è un anticonformista, un ‘femminista’(?), un ribelle che legge Karl Marx e ama il dubbio e la filosofia.
Angel è attratto dalla bellezza di Tess e le confessa il suo amore per lei. La ragazza è turbata, nonostante sia a sua volta attratta dalla sensibilità del giovane ha paura di svelargli il suo passato; ma Angel la convince a superare ogni paura perché per lui non ci sono barriere sociali, familiari o morali che possano contrastare il suo sentimento.
Il tempo passa e i due giovani decidono di sposarsi. Arrivata la sera del giorno delle nozze, Angel chiede a Tess di perdonarlo per aver intrattenuto per un certo periodo una relazione extraconiugale con una donna sposata. Tess lo perdona e, incoraggiata da questa confessione, racconta a suo marito la violenza subita da Alec e a sua volta chiede di essere perdonata. Ma riuscirà Angel a superare i pregiudizi sessuali legati alla figura femminile?

Il romanzo, che nel corso di oltre un secolo ha sempre mantenuto schiere affezionate di lettori, è scritto secondo lo stile simbolista di fine Ottocento. Dialoghi, descrizioni e narrazione sono elementi equamente distribuiti nel corso delle pagine ed egualmente importanti.

Dal romanzo è stato tratto un bellissimo film di Roman Polanski, Tess (1979), con l’attrice Nastassja Kinski come protagonista.

18 maggio 2010

"Che non s'affretti l'alba" poesia di Simona Fazzi

di Gianni Quilici















E' esalato il tempo
dei vergini giochi

Rimane un dolore ridicolo
come un abito fuori moda
e spauriti desideri sopravvivono
al tormento del giorno

Da questo solitario anfratto
osservo
ad uno ad uno
i cocci variopinti
del mio testardo esistere

Ho dovuto nutrire una nidiata di sogni!

Che non si affretti l'alba
a ricondurmi
al compromesso.

 " Leggiamo questa poesia di Simona Fazzi.
Funziona? Sì, basta leggerla per “sentirla”.C'è un passato: i “vergini giochi”, di cui vediamo la meraviglia negli occhi che scoprono per la prima volta il creare e il creato. E però questo tempo è “esalato” (si noti la sottile bellezza del suono) ed il dolore che ne rimane è ridicolo, fuori da questo tempo. 

Prima osservazione: non c'è nei versi nessuna nostalgia consolatoria.

C'è il flusso del presente: il “tormento del giorno” ( fatica e responsabilità, fallimenti e paure quotidiane), in cui sopravvivono “spauriti desideri”, desideri, cioè, così fragili, quasi spaventati di mostrarsi. Seconda osservazione: esiste tuttavia una dialettica, qualche desiderio, sia pure nascosto, incerto di se stesso.

C'è poi lei, il suo sguardo fermo e solitario, che osserva la sua esistenza trascorsa a distanza, da lontano. Per un attimo si può pensare al “passero solitario”, che contempla le rovine (“i cocci”), ma anche le bellezze o le illusioni (“variopinti”) di un'esistenza che non si rassegna (il “mio testardo esistere”).

E c'è infine il proposito, cioè la proiezione del presente sul futuro: non accettare compomessi, mantenere, nutrire, rinnovare quella “nidiata di sogni”, che fermentano nel fondo di noi ( “covano”).
Se ri-leggiamo la poesia, se la incameriamo, ogni verso acquista una sua andatura, una sua scansione ritmica, ogni strofa contiene un salto di significato, quindi un suo naturale stacco, un suo necessario montaggio.

Ci sono figure retoriche efficaci: la similitudine (“come un abito fuori moda”), l'ossimoro (“cocci variopinti”), metafore (“nidiata di sogni”, “solitario anfratto” “l'alba”).
Ed infine una serie di sentimenti o di condizioni esistenziali ed il controllo di essi (la nostalgia e la sua negazione, il dolore di vivere e i sogni, la determinazione e la ricerca di un'integrità morale con se stessi) lasciano trapelare una personalità complessa.

Ho chiesto a Simona Fazzi, che è nata e vissuta nei paesi della piana lucchese, di darci di lei qualche informazione, per così dire, “libera”. Ecco la sua risposta.
Il mio nome non mi parla; è una cosa strana il nome. Quando mi presento esce fuori come una qualsiasi altra frase di circostanza. 'Ciao sono Simona ho 39 anni; faccio la barista...Piacere'. Mi viene naturale concentrarmi sempre su qualcos'altro... Questo vale anche per i nomi degli altri; devo fare uno sforzo per impararli. Ascolto un numero di una targa, un codice fiscale... Essi transitano in me, oggetti sopra un nastro, come attraverso uno strano marchingegno... Vengono afferrati, rimpastati, ricomposti, colorati.. E poi escono vivi, profumati. Ad ogni incontro può avvenire un piccolo grande miracolo. Io ti dò un nome e tu fai altrettanto con me. Cosa c'è di più sconvol-gente di un incontro?”



da Arcipelago, rivista dell'Arci di Lucca

"Ti vogliamo bene, Bordelli !" di Luciano Luciani

Ti vogliamo bene, commissario Bordelli!Innanzitutto per la malinconia di cui è intriso il tuo personaggio di funzionario statale, ultracinquantenne con gli acciacchi fisici propri dell’età, e quelli morali: se non deluso certo ampiamente disincantato nei confronti delle Storia del tuo tempo e di ogni sorte magnifica e progressiva. Poi, per il tuo metodo di indagine: per niente canonico, non si trova in nessun manuale di criminologia: quel calarti, a poco a poco, nell’atmosfera del delitto; quell’immedesimarti nei pensieri e nei sentimenti della vittima e del colpevole, anche quando quest’ultimo non ha ancora un’identità fino ad appropriartene in virtù di quel un rapporto empatico che finisce sempre per stabilirsi nelle tue indagini tra preda e cacciatore, tra cacciatore e preda.
Amo, poi, la Firenze popolare delle tue storie. Quella dei primi anni ’60, ancora precedente all’alluvione e al Sessantotto e il racconto dei suoi interni piccolo borghesi, abitati da personaggi, non single, come si dice oggi, ma soli, davvero soli. Bordelli, un lupo solitario; Fabiani, un problematico psicoterapeuta; Rosa, ex prostituta che dopo la legge Merlin con un gruzzoletto si è comprata casa; il Botta, un artista dello scasso a cui nessuna serratura può resistere, ma ingenuo e sfortunato per cui entra ed esce di galera. E poi il dottor Diotivede: anziano anatomopatologo, che dall’analisi dei poveri resti delle vittime ricava indizi, informazioni e, quasi aruspice etrusco, conferme dolorose alla sua dolente visione del mondo. Bozzetti di vita urbana fiorentina degli inizi del boom economico che, sempre improntati a un tranquillo naturalismo, rimangono nella memoria più delle architetture delittuose propriamente dette.
In fondo, per te, assicurare il colpevole alla giustizia è questione abbastanza secondaria e tu, Bordelli, sembri rassegnarti al tuo ruolo di poliziotto solo perché proprio non ne può fare a meno. Diffidente e un po’ scettico nei confronti delle nuove tecnologie, nuovo sceriffo della città di Dante preferisci indagare le zone oscure, il cuore nero dell’animo umano. Perché hai compreso che la natura dell’uomo è sempre la stessa, sempre sfregiata di soliti vizi: ipocrisia, avidità, disamore, prevaricazione dei forti sui deboli. E i tempi in cui ti trovi a vivere, alla vigilia degli ‘anni formidabili’, quelli in cui la società italiana si sta trasformando da agricola in industriale e consumista, aggiungono a quelli di sempre solo nuovi, inediti mali: l’indifferenza, la mancanza di calore umano, l’assenza di qualsivoglia solidarietà, il cinismo… Nuove miserie morali che ti turbano nel profondo, ti indignano, offendono il tuo decoroso moralismo, la tua ossessione per la verità e la giustizia.
Investigatore abituato a usare soprattutto pazienza e gambe, pragmatico e per niente cerebrale, con tratti e toni tutti tuoi (italiani, toscani, fiorentini) ti modelli soprattutto sul grande Maigret di Simenon. E come l’indagatore parigino parti dalla convinzione che “in ogni malfattore, in ogni bandito c’è un uomo”. Basta allora saper aspettare e spiare “la fessura… il momento in cui l’uomo appare”. Nel frattempo bisogna marcare il colpevole quanto più possibile da vicino, imparare a conoscerne virtù e debolezze: insomma, coinvolgersi fino in fondo nella vicenda criminale, condividere il caso dall’interno; viverlo con pienezza di umanità, di ragione e sentimento, sia dal punto di vista delle vittime, sia da quello dei carnefici.
In te nessun maledettismo alla Sam Spade e alla Philip Marlowe: per stile di vita, convinzioni e comportamenti, sei un piccolo borghese, un modesto funzionario al servizio dell’ordine e della giustizia nella complicata società del tuo tempo, sia pure con qualche tratto originale che non ti aspetteresti in un poliziotto. Sì, perché, a suo tempo, hai combattuto dalla parte giusta, hai fatto la Resistenza; partigiano con le stellette, partigiano in divisa sei uno che ha retto, sia pure a fatica, alla restaurazione scelbiana;sei un antifascista a cui la sistemazione postbellica del nostro Paese va piuttosto stretta. Non ami i tuoi superiori e i magistrati a cui deve rendere conto perché li vede malati di burocrazia e di compromissioni coi potenti, mentre una profonda solidarietà ti unisce agli onesti lavoratori della legalità con cui, nella questura fiorentina, condividi gioie e dolori, successi e sconfitte, giorni e notti di indagini. Di media cultura, vai al cinema a vedere i fil di Sergio Leone, leggi i libri di Primo Levi, guardi tanta televisione davanti alla quale, sfinito, ti addormenti dopo Carosello.
Tuo modello femminile, un’icona cinematografica e televisiva dell’epoca, Virna Lisi: attento alle vicende politiche del suo tempo (il centro sinistra di Moro, Fanfani e Nenni) sei abbastanza curioso del nuovo che avanza, i giovani innanzitutto, che senti lontani, ma carichi di una passione di vita, di una rabbia, che intuisci carica di vitalità, di valori positivi se pure confusi, condivisibili se solo avessi trent’anni di meno.
All’interno della vecchia criminalità fiorentina ti muovi come un pesce nell’acqua: di lì, in nome di relazioni costruite nel tempo e fatte di rispetto, stima vengono le dritte giuste, le informazioni necessarie alle soluzioni dei casi più spinosi… Di te, protagonista burbero e democratico di ben quattro romanzi, ormai, sappiamo tutto: la tua biografia; il tuo sistema di relazioni; gli amori, confusamente gestiti e finiti sempre male; conosciamo addirittura la figura del tuo successore, il giovane Piras, che, risolve un caso applicando con un po’ di fortuna, il “metodo Bordelli” alle indagini per un delitto misterioso.
Un po’ Pratolini, un po’ Simenon, un po’ Scerbanenco sei a diventare una figura indimenticabile nel panorama della altrimenti esangue narrativa contemporanea.
Ma con la tetratologia che ti riguarda non arrivano a compimento solo gli scenari e i personaggi: anche il tuo mondo morale giunge a una sua definitiva completezza. “Un poliziotto prima di tutto deve essere giusto”: un’idea di giustizia che travalica la norma, i regolamenti e i codici.
Un concetto di giustizia alto e umanissimo il tuo che arriva con forza ai nostri giorni, parla all’attualità con il valore di un monito. Garantite la democrazia e la libertà, bisogna tutelare la giustizia e non è giustizia “fare le parti uguali tra diseguali”. Lo diceva un altro grande toscano e fiorentino che si chiamava Lorenzo Milani, don Lorenzo Milani che proprio nei tuoi anni agiva a Vicchio, nel Mugello a due passi da casa tua e sarebbe davvero straordinario se in un prossimo romanzo Marco Vichi, il tuo inventore, il tuo ‘babbo’, vi facesse incontrare.

Luciano Luciani

10 maggio 2010

"Durante" di Andrea De Carlo

di Gianni Quilici

Durante” come molti dei romanzi di Andrea De Carlo è travolgente: fluido, veloce, avvincente. C'è un io che parla, Pietro, che, pur essendo significativo, non è il protagonista principale, che ha appunto il nome inconsueto, e forse simbolico, di Durante. E' Durante il perno del romanzo, l'idea di un “dover essere” che Andrea De Carlo vuole trasmettere.

Durante, infatti, “incarna” l'esistenza nel modo più diretto e naturale, ma anche allo stesso tempo consapevole, progettato. Infatti egli ha diverse donne, riesce ad affascinarle e conquistarle facilmente, ha figli, vive senza fissa dimora, dorme per terra o nei fienili, passa da un lavoro all'altro, ha un rapporto diretto e sincero, e quindi anche sgradevole con gli altri, una conoscenza pratica della materia e degli animali, ed infine delle capacità sciamaniche, quasi miracolose, ed è infine anche capace di interpretare filosoficamente la sua esistenza secondo un vocabolario e dei concetti profondi...

Ora il romanzo ha diverse qualità: riesce a farti vedere, sentire e camminare sia lungo la materia e la natura (paesaggi, odori, lavori) che attraverso le psicologie (contrasti intrisi di sentimenti forti), su cui si potrebbe ragionare a lungo.

Però l'interrogativo di fondo mi pare che sia: Durante riesce ad essere il personaggio-simbolo che lo scrittore vuole trasmettere o è invece un'ideologizzazione di De Carlo?

La mia impressione è che De Carlo non riesca ad armonizzare l'esistenza con la coscienza di Durante. Lo fa troppo selvaggio nella prima parte del romanzo, in cui non sembra rendersi conto di ciò che gli altri pensano di lui, come se fosse, a loro, chiuso, mentre da quando Pietro (una sorta di co-protagonista) gli dà un passaggio in macchina verso Genova e oltre, Durante dimostra una sottigliezza interpretativa non solo su di sé, ma anche relazionale, che poco si sposa con il resto.

Andrea De Carlo. Durante. Bompiani. Euro 18,00

Studi al femminile sul corpo femminile

di Femminart

Ilaria Sabbatini
Studio sul corpo femminile


Innanzitutto trattasi di “studio” e non di ipotesi, o figurazione, o proiezione. Come se, ed è l’aspetto che più colpisce, Ilaria avesse preso in consegna ciò che resta delle spoglie, o del feto, e l’avesse censito, analizzato, catalogato.

Apparentemente è come se fossero foto segnaletiche di una scomparsa, o meglio del rinvenimento di un cadavere, e infatti il richiamo alla condizione di prigioniera, o alle lettere di condannati a morte durante la Resistenza, stabiliscono il nesso con la morte, intesa come perdita irrisolvibile.

E invece non è così. Lontana da tentazioni di riesumazione o di ri-partenza di una speranza di vita, Ilaria stigmatizza semplicemente il segno di un’era, oscena, ma nella quale resiste l’icona del dolore che, come si sa, è il viatico più accreditato per la felicità.

Sublime la corrosione del tempo, dell’ideale, ivi compresa la morte come riscatto, del silenzio come onore alla causa, del desiderio martoriato e resuscitato. Eccitante, quindi, per interposta fede, nel rispetto della forma vergine.

Come dire che il vessillo della femminilità, in questo caso, perché esiste anche uno studio al maschile, ma il discorso cambia nonostante le similitudini, si consacra nella sua negazione comunque portata, con onore e credito, sebbene l’infamia. Il corpo femminile è uno stilema di vita, un esprit de finesse, anche quando pare avvinta nel mercimonio della decadenza. Questo, ci pare, il risultato primo della Studio di Ilaria, ben oltre il Golem che non ci disturba, anzi, ci protegge dalle iatture della società del domani.

Femminart. Benvenute in un mondo a pArte

09 maggio 2010

"Il mondo secondo Fo" di Dario Fo

di Gianni Quilici

E' una lunga conversazione di Giuseppina Manin, giornalista del Corriere della sera, che si legge d'un fiato.

Una vita straordinaria, perché libera, controcorrente, dura, creativa, felice. Davanti a noi scorrono spezzoni di vita italiana, aneddoti, personaggi noti o sconosciuti.

Dietro l'anticonformismo di Dario Fo (e di Franca Rame presenza ineludibile della sua vita) si legge il gusto del paradosso, la sottigliezza interpretativa, la vasta cultura, la risata beffarda, una grande moralità.


Dario Fo. Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin. Ugo Guanda editore. Pag. 157. € 13.50.

"Quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese" di Luciano Luciani

Il secolo che ha tenuto dietro all’unificazione politica e amministrativa del nostro Paese ha conosciuto un fenomeno di proporzioni bibliche ancora oggi in gran parte trascurato, poco indagato, misconosciuto: l’esodo di almeno 25 milioni di connazionali.

A cacciarli lontano dai loro modesti beni, dalle povere case, dai luoghi di origine il rapporto ineguale tra il Nord e il Sud la contraddizione città-campagna, la spietatezza di leggi economiche tutte volte a garantire esclusivamente i privilegi e gli interessi di una borghesia tanto rapace quanto meschina, tanto gretta quanto priva della coscienza del bene collettivo.

Ad allontanarli dai borghi e dalle campagne – l’emigrazione nostrana è non solo ma soprattutto contadina – la volontà di sfuggire a un fiscalismo occhiuto; scongiurare la maledizione e l’avvilimento delle malattie (malaria, pellagra, tubercolosi…); la speranza di un lavoro decoroso e retribuito quel tanto che permetta una vita degna di essere vissuta: garantire il cibo a tutta la famiglia, una casa decente, l’accesso alla cultura almeno per i figli. Come suona il testo di una poesia di Pietro Gori, l’avvocato anarchico “cavaliere dell’ideale”, l’Italia, “genitrice amorosa” per alcuni, tratta da “bastardi” la maggioranza dei suoi figli e li costringe all’estero in una diaspora di proporzioni immense:

Ho creduto alla patria

E in estasi graziosa,

vagheggiata l’avevo

genitrice amorosa.


Ma un giorno vidi affollarsi,

silenziosa e grave,

un’orda di emigranti

a bordo di una nave.


Erano i tuoi figli, o Italia,

erano i tuoi bastardi

che partivan silenziosi e beffardi.


Allora il ver compresi,

o vecchio ideal: l’infransi

contemplai le tue vittime

ti maledissi e piansi.

Nel corso di alcuni decenni i protagonisti di questa dispersione planetaria arriveranno a toccare ogni punto del pianeta: dalla Terra del Fuoco all’Australia, dai deserti africani a quelli gelati del Canada e dell’Alaska, in una silenziosa epopea “che per vastità costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo” (E.Enriquez Agnoletti).

A tutt’oggi ci sembra che – se non in maniera parziale ed episodica, spesso distorta dal nazionalismo o viziata dal paternalismo – non siano apparse intelligenze e penne di storici e saggisti, romanzieri e poeti interessate o capaci di raccontare e interpretare le ragioni, le passioni, le durezze e le sofferenze, gli egoismi e gli eroismi di oltre cento anni di emigrazione italiana. Una vicenda enorme, formidabile che per dirla con uno storico illustre come Fernand Braudelha validamente contribuito, col rinnovare la sostanza, al decollo umano delle Americhe: quella portoghese, quella spagnola, quella anglosassone”.

Per terre assai lontane” partirono tre milioni e mezzo di veneti, due milioni di piemontesi e altrettanti dalle province della Campania; più di due milioni emigrarono dalla Sicilia, un milione e mezzo dalla Calabria e un milione sono gli abruzzesi costretti a cercare avventurosamente fortuna all’estero. Se veneti e friulani si disseminarono dalla Russia all’Egitto e si confusero col mosaico dei popoli dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano, liguri e piemontesi si orientarono preferibilmente verso la Francia, il Paese europeo, che, a cavallo tra XIX e XX secolo, accolse il maggior flusso di lavoratori italiani. Tra il 1876 e il 1909 ogni anno più di 30.000 emigranti – saliti a oltre 80.000 nel 1913 – passarono le Alpi alla ricerca di una faticosa sistemazione. E visto che nessuno raccontava o cantava questa loro umana avventura, lo faceva con accenti ora allegri, ora malinconici l’anonimo autore di E tutti va in Francia:

E tutti va in Francia, in Francia per lavorar…

Ma come devo fare se tutti vanno via

o che malinconia da sola resterò…la la la …

torneremo torneremo coi marenghi nel taschino

torneremo a San martino per venirvi a ritrovar

torneremo torneremo suonerà la banda in testa

sarà proprio una gran festa ed andremo a fare l’amor…

Ma l’emigrazione “mordeva” anche la civile e avanzata Lombardia, come appare dagli ultimi versi di Quaranta ghei d’inverno, una delle canzoni intonate nel corso delle agitazioni che scossero l’alto Milanese negli anni tra il 1885 e il 1889:

i pòer paisan intanta il là a spettà

la letera dell’America che la dev rivà”

(i poveri contadini intanto non hanno altro da sperare/che la lettera di chiamata che deve arrivare dall’America).


Ad una prima fase, che arrivò a lambire la fine del secolo scorso, in cui il fenomeno migratorio interessò prevalentemente le regioni settentrionali e in cui gli emigranti appaiono relativamente colti e qualificati dal punto di vista professionale, ne successe una seconda: dai primi anni del Novecento fino alla metà degli anni Venti si mossero masse enormi di italiani poveri, prevalentemente meridionali, analfabeti, dequalificati professionalmente. Nel progressivo processo di proletarizzazione delle nostre campagne, l’emigrazione rappresentò l’unica strada praticabile per sopravvivere.

Milioni di connazionali parteciparono a questa vicenda biblica, “esportati” all’estero secondo i disegni della classe dirigente liberale. L’emigrazione è una valvola di sfogo. È l’antidoto alla rivoluzione sociale, l’alternativa alla pressione delle masse contadine che avrebbe finito per imporre trasformazioni di sicuro non favorevoli ai secolari rapporti di proprietà nelle campagne. Sidney Sonnino, che non era certo un fior di democratico ma aveva il pregio di parlare chiaro così si esprimeva: “…tutta l’elevazione sociale sarebbe inutile e non riuscirebbe a contenere la ribellione delle masse se non vi fosse un esodo continuo dalle campagne: in Toscana verrebbe minacciata la mezzadria, nel sud persisterebbe il brigantaggio”.

Gli rispondono gli stornelli beffardi di un anonimo autore toscano, che, cuciti assieme, costituiscono Italia bella, mostrati gentile, un polemico canto di fine secolo sui mali dell’emigrazione:

Italia bella, mostrati gentile

e i figli tuoi non li abbandonare,

sennò ne vanno tutti ni’ Brasile

e ‘un si ricordon più di ritornare.


Ancor qua ci sarebbe da lavorà

senza stà in America a emigrà.

Il secolo presente qui ci lascia,

il millenovecento s’avvicina;

la fame ci han dipinto sulla faccia

e per guarilla ‘un c’è medicina.


Ogni po’ noi si sente dire: E vo

là dov’è la raccolta del caffè.

L’operaio non lavora

e la fame lo divora

e qui’ braccianti

un sa come si fare a andare avanti.

Spererem ni’ novecento,

finirà questo tormento,

ma questo è il guaio

il peggio tocca sempre all’operaio.


Nun ci riman più che preti e frati,

moniche di convento e cappuccini,

e certi commercianti disperati

di tasse non conoscono i confini.

Verrà un dì che anche loro dovran partì

là dov’è la raccolta del caffè.


Già nei versi di Italia bella, mostrati gentile si annuncia il secondo momento dell’emigrazione italiana, quello in cui l’esodo assunse proporzioni gigantesche e in cui “il primato migratorio passò ad alcune regioni meridionali. In testa risultò allora la Sicilia, con il 12,8% degli emigranti, seguita dal 10,9% della Campania e dal 6,9% della Calabria”. Assai più consistente e in genere orientato verso destinazioni transoceaniche – nel solo 1913 si contano ben 111.159 siciliani in partenza per gli Stati Uniti – il flusso di emigranti compreso tra il 1901 e il 1915 ha lasciato tracce durature nell’immaginario e nella memoria collettivi anche grazie ad alcuni canti popolari ben presto diventati famosi e rimasti tali negli anni:


E mamma mamma dammi cento lire

che in America voglio andar

E cento lire io te li dono

ma in America non andar

E la sorella che si pettinava

mamma mamma lasciala andar

Ed il fratello nella finestra

mamma mamma lasciala andar


E quando fu in mezzo al mare

il bastimento s’inaffondò

O pescatore che tu peschi l’onda

peschi pure la mia bionda

E se la pesco se non la pesco

la balena se la mangiò


Il testo appena riportato e Il tragico affondamento della nave Sirio, altrettanto celebre e che racconta in maniera dolente un naufragio dell’agosto 1906, con i loro contenuti tragici esprimono bene lo stato d’animo diffuso tra le donne e gli uomini che emigravano e che percepivano il destino precario che li aspettava nelle nuove terre, sentite come ignote e ostili:


E da Genova il Sirio partivano

Per l’America varcare, varcare i confin

E da bordo cantar si sentivano tutti allegri del suo, del suo destin.


Urtò il Sirio un orribile scoglio

Di tanta gente la mise…la misera fin:

padri e madri abbracciava i suoi figli

che si sparivan tra le onde, tra le onde del mar.


Più di centocinquanta annegati,

che trovarli nessu…nessuno potrà

e fra loro un vescovo c’era

dando a tutti la sua bene…la sua benedizion.

Nel dispiegarsi del fenomeno migratorio colpisce il silenzio degli intellettuali. Scrittori, poeti, romanzieri, uomini di teatro – che pure avevano saputo accompagnare la formazione dello Stato unitario, contribuendo a creare presso l’opinione pubblica le condizioni migliori per la realizzazione del processo risorgimentale- -abbacinati da altri miti (imperialismo, superomismo, volontà di potenza, esasperato culto del bello…) di fronte all’emigrazione, ai suoi mali e ai suoi di protagonisti tacquero.

Eppure, per oltre trent’anni, milioni di uomini, donne, bambini male in arnese furono visibili: affollarono le sale d’aspetto di terza classe di tutte le stazioni ferroviarie d’Italia, si ammassarono disordinatamente sulle banchine dei porti di Genova, Napoli, Livorno… Fisicamente ancora presenti all’Italia, erano però già assenti per il senso comune del tempo che preferiva non vederli, ignorarli. Erano gli Iloti dell’economia negli anni di Crispi e di Giolitti, erano l’unica merce che il nostro Paese poteva permettersi di esportare.

Solo due letterati furono capaci di pietas - che riuscì a trasformarsi anche in sintesi artistica – nei confronti delle donne e degli uomini costretti a emigrare, delle famiglie che li attendevano: Giovanni Pascoli e Edmondo De Amicis.

Tolstoiano, neofrancescano, ideologicamente debole e ambiguo quanto si vuole, pure Giovanni Pascoli fu tra i pochissimi intellettuali del Novecento, che, a proposito del fenomeno dell’emigrazione seppe trovare accenti umanissimi, densi di sincera condivisione del destino di quanti erano cacciati dalle loro case e dalla loro terra in cerca di lavoro, giustizia sociale, libertà, migliori condizioni di vita.

Dai Primi poemetti, Pisa 1904 e dal suo testo più famoso Italy traiamo alcune strofe, ispirate al tema della diaspora dei lavoratori italiani nel mondo:


e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia

Ognuno si godeva i cari

ricordi, cari ma perché ricordi:


quando sbarcati dagli ignoti mari

scorrean le terre ignote con un grido

straniero in bocca, a guadagnar denari

per farsi un campo, per rifarsi un nido…


O rondinella nata in oltremare!

Quando vanno le rondini e qui resta

il nido solo, oh! che dolente andare!


Non c’è più cibo qui per loro, e mesta

la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno

dei venti e lo scosciar della tempesta…


Hanno un po’ più di fardello

che le rondini e meno hanno di fede.


Si move con un muglio alto il vascello.

Essi, in disparte, con lo sguardo vano,

mangiano qua e là pane e coltello.


Vanno serrando i denti e le mascelle,

serrando dentro il cuore una minaccia

ribelle, e un pianto forse più ribelle.


Offrono cheap la roba, cheap le braccia,

indifferenti al tacito diniego;

no, dietro mormorare odono: Dego!


Dego è un termine spregiativo che “deriva, mi pare”, scrive Pascoli nelle note ai Primi poemetti “da dagger = pugnale” affibbiato agli italiani negli ambienti dell’emigrazione, argomento su cui ha scritto non poco anche Edmondo De Amicis, “il socialista più amato dai conservatori”. E non solo in alcuni episodi del celeberrimo Cuore (1886), ma anche in Sull’oceano, un raro esempio di nostrana letteratura di viaggio.

Abbastanza convenzionali, ma comunque sinceramente commossi e partecipi questi suoi versi, pubblicati su “La terra” periodico socialista lunigianese fondato nel 1898 da Alceste De Ambris e Luigi Campolonghi.


Gli emigranti

Con gli occhi spenti, con le guance cave

Pallidi, in atto addolorato e grave

Sorreggendo le donne affrante e smorte

Ascendono la nave

Come s’ascende il palco della morte.


E ognun sul petto trepido si serra

Tutto quel che possiede sulla terra:

Altri un misero involto, altri un patito

bimbo che gli si afferra

al collo, dalle immense acque atterrito.


Salgono in lunga fila, umili e muti,

E sopra i volti appar, bruni e sparuti

Umido ancor di desolato affanno

Degli estremi saluti

Dati ai monti che più non rivedranno…


E li hanno nel cuor in quei solenni istanti

I bei clivi di allegre acque sonanti,

E le chiesette candide, e i pacati

Laghi cinti di piane,

E i villaggi tranquilli ove son nati!


E ognun forse, sprigionando un grido,

Se lo potesse tornerebbe al lido;

Tornerebbe a morir sopra i nativi

Monti, nel triste nido,

Dove piangono i suoi vecchi malvivi…


Il 10 marzo del 1884 Edmondo De Amicis (1846-1908), giornalista e scrittore già ampiamente affermato, si imbarca sul Nord America (ribattezzato Galileo nelle pagine del suo romanzo/reportage pubblicato nel 1889), destinazione Montevideo. Il letterato ritrae con immediatezza e vivacità i veri protagonisti di queste pagine: non i passeggeri di prima classe, ma gli emigranti che abitavano il ponte di terza. Proprio nel contrasto tra la povertà e la miseria dei secondi e il lusso ostentato dei primi sta la vis polemica ancora attuale di questo romanzo che piacque a Giacosa e a Fogazzaro, a Croce e a Turati: il Galileo che attraversa l’Atlantico diventa davvero lo specchio dell’Italia di fine secolo:

Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe, dei quali più di quattrocento tra donne e bambini: non compresi nel numero gli uomini dell’equipaggio, che toccavano quasi i duecento. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre proveniva dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna Molti Valsusini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia e dall’alta Valtellina: dei cantadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre mesi, navigando quaranta giorni. Molti della Val di Sesia, molti pure di que’ bei paesi che fanno corona ai nostri laghi, così belli che pare che non possa venire in mente a nessuno d’abbandonarli: tessitori, di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari di d’Albenga, di Savona e di Chiavari diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. Fra questi c’erano parecchie di quelle robuste portatrici d’ardesie di Cogorno, che possono giocar di forza coi maschi più vigorosi. Di Toscani un piccolo numero: qualche lavoratore d’alabastro di Volterra, fabbricatori di figurine di Lucca, agricoltori dei dintorni di Firenzuola, qualcuno dei quali, come accade spesso, avrebbe forse un giorno smesso la zappa per fare il suonatore ambulante. C’erano dei suonatori d’arpa e di violino della Basilicata e dell’Abruzzo, e quei famosi calderai, che vanno a far sonar la loro incudine in tutte le parti del mondo. Delle province meridionali i più erano pecorai e caprai del litorale dell’Adriatico, particolarmente della terra di Barletta, e molti cafoni di quel di Catanzaro e di Cosenza. Poi dei merciaiuoli girovaghi napoletani; degli speculatori che, per cansare il dazio d’importazione, portavano in America della paglia greggia che avrebbero lavorato lì; calzolai e sarti della Garfagnana, sterratori del Biellese, campagnuoli dell’isola di Ustica. In somma, fame e coraggio di tutte la province e di tutte le professioni, ed anche molti affamati senza professione, di quelli aspiranti ad impieghi indeterminati, che vanno alla caccia della fortuna con gli occhi bendati e con le mani ciondoloni, e son la parte più malsana e men fortunata dell’emigrazione. Della donne il numero maggiore aveva con sé la famiglia; ma molte pure erano sole, o non accompagnate che da un’amica; e fra queste, parecchie liguri, che andavano a cercar servizio come cuoche o cameriere; altre che andavano a cercar marito, allettate dalla minor concorrenza con cui avrebbero avuto a lottare nel nuovo mondo; e alcune che emigravano con uno scopo più largo e più facile. A tutti questi Italiani erano mescolati degli Svizzeri, qualche Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina, un piccolo numero l’Uruguay, pochissimi le repubbliche della costa del Pacifico. Qualcuno, anche, non sapeva bene dove sarebbe andato: nel continente americano,senz’altro: arrivato là, avrebbe visto. C’era un frate che andava alla Terra del Fuoco.

Nei versi dei cantastorie e nei canti popolari dell’epoca si ritrovano speranze ingenue, desiderio di riscatto sociale attraverso il lavoro indefesso, aspettative di un miglioramento della propria condizione, il più delle volte destinate ad andare deluse:


Contadini e operai che vanno in America a lavorare (1893)

O cari fratelli or state a sentire

Che molti braccianti l’Italia abbandona

Lasciando la terra e l’aria sì bona

Per andare in America a lavorar.


Andiamo avanti

Fratelli italiani

Andiamo in America

A lavorar


Ben là si guadagna al giorno sei lire

Vestiti leggeri ma ben casermati

Soggetti ai padroni come i soldati

Sebben si fatica c’è libertà


Andiamo avanti…


Il viaggio ci costa ma tutto è pagato

Chi attende da Italia i lavoranti

Paga già prima con buoni contanti

Se vuole nostre braccia per guadagnar


Andiamo avanti…


L’America è grande ben più dell’Italia

Le terre son boschi, arene, vallate

Per quanti ci vanno son già preparati

Le squadre in Colonia per lavorar


Andiamo avanti…


Fatica, lavora e mai non ti stanca

Che ricco, istruito ben presto sarai

Così dall’America ripari ai tuoi guai

E torni coll’oro i fondi a camprar


Andiamo avanti…


Io lascio la casa e lascio l’amante

Viaggio per terra ed anche per mare

Se dall’America posso tornare

Lo giuro non voglio mai più lavorar


Andiamo avanti

Fratelli italiani

Andiamo in America

A lavorar


Trenta giorni di nave a vapore

Un testo di origine piemontese diffuso a partire dalla zona di Cuneo in tutta l’Italia settentrionale e che rimanda alla prima emigrazione, quella a metà degli anni settanta dell’Ottocento. Nei suoi versi si colgono ancora alcune note di ottimismo e orgoglio professionale destinate a venire meno nei decenni successivi:


Trenta giorni di nave a vapore

Fino in America noi siamo arrivati

Fino in America noi siamo arrivati

Abbiamo trovato né paglia né fieno

Abbiam dormito sul piano e terreno

Come le bestie abbiamo riposà

Come le bestie abbiamo riposà


America allegra e bella

Tutti la chiamano l’America sorella…

Tutti la chiamano l’America sorella

Tialallallà – lalalallalà – lalalallalà


Ci andremo coi carri dei zingari

Ci andremo coi carri dei zingari

Ci andremo coi carri dei zingari

In America voglio andar


America allegra e bella

Tutti la chiamano l’America sorella

Tutti la chiamano l’America sorella

Tialallallà – lalalallalà – lalalallalà


E la Merica l’è lunga e l’è larga

L’è circondata da monti e da piani

E con l’industria dei nostri italiani

Abbiam formato paesi e sità

E con l’industria dei nostri italiani

Abbiam formato paesi e sità…















"Cristoval Colòn" di Sauro Donati

di Luciano Luciani

Questo libro racconta di un viaggio, un viaggio famoso, decisivo nella storia del mondo. Anzi, il viaggio per eccellenza: raggiungere le Indie navigando verso Occidente, il progetto di Cristoval Colòn, Cristoforo Colombo. Ma cosa si nascondeva dietro quell’impresa destinata a mutare gli orizzonti e i destini dell’umanità? Senz’altro la passione scientifica e l’ansia di nuove conoscenze, ma anche formidabili interessi strategici e la sete di nuove, smisurate ricchezze. Forse, però, quel piano teneva celato un disegno ancora più vasto, concepito nel corso di vicende secolari di ferro e di fuoco, elaborato nel buio di conventicole di perseguitati, perfezionato in una delle Corti più luminose dell’Italia rinascimentale, la Firenze del Magnifico Lorenzo.

Di Cristoval Colòn, ovvero Cristoforo Colombo, si conosce quasi tutto: era figlio di Domenico e Susanna Fontanarossa, fin da giovane si dedicò alla marina mercantile e sposò Felipa Moniz Perestrello, da cui ebbe un figlio, Diego. Tra il 1482 e il 1484, al servizio del re del Portogallo, compì diversi viaggi sulla costa della Guinea. Intanto prendeva forma il suo piano di un viaggio che lo portasse alle Indie navigando verso Occidente, lungo una rotta che, secondo lui, doveva essere la più breve e conveniente per i traffici, basata sul presupposto che la Terra fosse rotonda, ma anche su un’errata valutazione dell’estensione del continente asiatico verso Est e quindi della distanza effettiva tra Europa e India. Quando il suo piano fu rifiutato dal re Giovanni II del Portogallo, Colombo si trasferì in Spagna (1486) cercando di ottenere il consenso dei sovrani Isabella e Ferdinando. Dopo una lunga attesa, il progetto fu preso in considerazione grazie ai buoni uffici del duca di Medinaceli e di J. Perez, ma soprattutto dei tesorieri della Santa Hermendad Pinelli e de Santangel che fornirono alla Corona la metà del denaro necessario all’impresa.

Poi le cose andarono come sappiamo…Questo ci dice la Storia, quella con la S maiuscola, quella dei manuali: ma fu davvero proprio così? Qual è il retroterra vero dell’impresa che doveva cambiare il volto della storia mondiale? Sauro Donati, che esordì come narratore proprio sulle pagine di “Naturalmente” una decina di anni fa, elabora una possibile storia segreta di quella vicenda destinata a modificare profondamente e per sempre gli assetti geopolitici consolidati alla fine del XV secolo.

Tutta concentrata nel decennio 1477-1487, alcuni personaggi giocarono una partita decisiva per il futuro dell’Europa e del Mondo: personaggi storici come Lorenzo il Magnifico e Paolo Del Pozzo Toscanelli, il cardinale genovese Giovanni Battista Cybo di origine ebraica, futuro papa Innocenzo VIII (1484-1492), il re del Portogallo Giovanni II e i re di Spagna Ferdinando e Isabella… E, poi, un ‘figlio’ dell’invenzione narrativa dell’Autore: don Diego dell’Ordine del Tempio, il capo dei Templari, impegnati ora a favorire, ora a ostacolare per i motivi più diversi – economici, ideali, geopolitici, religiosi - l’impresa di Cristoval Colòn…

Dunque, la storia com’è stata; ma illuminata da una luce nuova, particolare e capace di portare in superficie trame e relazioni occulte, nascoste, impreviste. La fantasia dell’Autore riesce ad arrivare là dove i documenti storici non giungono, non ci sono o non ci parlano più. Corposi e verosimili tutti i personaggi: in primis Cristoval e Diego, ma anche tutti gli altri resi nella loro concretezza di uomini colti nel quotidiano, ma animati da pensieri lunghi, speranze, progetti e da un’intensissima voglia di futuro.

Ultimo, ma davvero non il meno importante dei meriti del libro di Sauro, il linguaggio: piano, cordiale, fruibile… Un linguaggio ‘democratico’, ovvero rispettoso del lettore, alieno da quelle manifestazioni di cerebralità autoreferenziale che viziano tanta scrittura di oggi. Donati scrive per i lettori, per raccontare una storia complessa sì, ma per farsi comprendere da tutti. E in tutti cerca di instillare il germe della curiosità, il senso del dubbio, il rovello dell’intelligenza, non proponendo mai (si legga il finale, davvero commovente e straordinario) soluzioni scontate, banali, convenzionali.


Sauro Donati, Cristoval Colòn, Campanotto editore, Udine. 2007, pp. 150, E. 15,00

"13 crudeltà" di Luc Lang

di Liliana Di Ponte

Diciamolo subito, per chiunque si appresti a leggere questo libro: qui non c’è consolazione né happy end né riscatto né speranza, il male trionferà sul bene, i nostri non arriveranno all’ultima riga e salvare l’eroe anzi, se possibile, gli daranno il colpo di grazia.

Già il titolo “13 crudeltà”, di Luc Lang, dovrebbe metterci sull’avviso: 16 racconti con uno mancante, il tredicesimo appunto, che tutti li racchiude e li genera, come figli dello stesso genitore, diversi tra loro ma accomunati da uguale imprinting.

Storie dure, ma lontanissime dalle fiction televisive e dalla rassicurante inverosimiglianza delle loro efferatezze. Niente serial killer, psicopatici bipolari, stupratori accaniti, pedofili (laici o clericali che siano), truffatori spietati: nient’altro che la semplice, banale, familiare quotidianità che tutti ci contiene e avvolge, come un utero che dà la vita e, all’occorrenza, la sfibra, la dissecca, la stritola fin quasi a toglierla.

Nessuno viene risparmiato: bambini innocenti, anziani fragili, donne e uomini all’apparenza vincenti, deboli predestinati al sacrificio, perdenti senza speranza. Sono madri, padri o figli di qualcuno e nello spazio di poche pagine si consuma, inesorabile, tutta la tragicità ambivalente delle relazioni.

C’è Antoinette dai capelli di neve, parcheggiata nella propria casa in attesa della fine, bagaglio fra i bagagli (Alto-basso-fragile).

O la coppia di anziani, incolpevoli responsabili di una mortale catena d’incidenti, procurata ad arte da altri (Flusso).

E lo sguardo dei figli che si posa dolorosamente sulla mente svanita del padre (Il giorno del Signore) o su quella delirante della madre (Domenica) o sulla convinta e pervicace volontà uxoricida materna (Escalation).

Ci sono le regole spietate – esplicite o inconfessabili – del mercato del lavoro, con la selezione all’ultimo sangue fra candidati a un posto di alta responsabilità (Aria condizionata); il cinico epilogo di un incidente in un cantiere (Schivata); e un ricatto sessuale, scopo assunzione, che fino alla fine ci fa illudere su un lieto fine che non arriverà (Vita privata).

E ancora amori finiti o mai cominciati, piccole sopraffazioni dall’aria innocente e cattiverie gratuite, o semplicemente la cieca legge del caso che fa e disfa destini.

È proprio questa normalità, pericolosamente familiare, che inquieta.

Ma noi non siamo così – cerchiamo di rassicurarci – noi ne siamo fuori, i cattivi sono gli altri.

Eppure – ci mulina in testa un pensiero molesto – potremmo essere noi, il figlio di quel padre smemorato da accompagnare nella casa di riposo; noi, il vicino intollerante verso lo straniero; noi, l’automobilista incivile e il manager in carriera.

Perché mai il bene dovrebbe trionfare sul male, se ne siamo così impastati da non riuscire più a distinguere l’uno dall’altro?

Luc Lang ci fornisce uno specchio in apparenza deformante in cui rifletterci, un manuale sul nostro tempo, in cui le istruzioni per l’uso servono solo a contemplare il lavoro già compiuto. E lo fa con una scrittura prosciugata, incisiva e priva di qualsivoglia tentazione di giudizio, mettendosi sempre dalla parte, contemporaneamente, della vittima e del carnefice, perché non c’è da fare altro, la vita è questa e per sapere chi siamo noi, basta specchiarci.


Luc Lang, 13 crudeltà, Pescara, Quarup, 2010, pp. 103, € 12,90.